2057 l'ultimo negoziato/VI

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Una serata tra amici

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Per la seconda serata romana Strozzi ha deciso di ritardare la gioia dell’abituale incontro sentimentale per una partita a carte con gli amici. L’antica dimestichezza con la capitale gli ha consentito di stabilire legami di sincera sodalità con esponenti della politica, dell’amministrazione e dell’opinione: vanta, con orgoglio, di avere riposto la propria amicizia esclusivamente in uomini di successo, onesti e disinteressati. Con gli amici romani si è consolidata l’abitudine di cenare, in affabile semplicità, in un locale escluso agli intrusi, sul lago di Albano, tra i colli dove si è ritirata, da trent’anni, la popolazione bianca di Roma. Per non attraversare il cuore dell’Urbe, e non soggiacere al fastidio dei posti di frontiera delle etnie del centro, accompagnato dalle due guardie lascia la città e raggiunge la circonvallazione, che uno degli ultimi reparti dell’esercito nazionale riesce a proteggere, salvo occupazioni sporadiche, dalle rivalità tra nazionalità opposte.

La strada è libera, incrociando la teoria delle corriere che riconducono i romani dai campi, in un’ora la berlina porta Strozzi ed i due compagni tra le vigne dei colli. Nel parcheggio di Little Barbado lo aspetta, appena arrivato, Lorenzo Trassalati, direttore dell’ultimo quotidiano in lingua italiana di Roma, paladino di epiche battaglie ideali, impareggiabile nel reperimento degli allocchi cui far pagare i piaceri di una serata di poker. Trassalati gli presenta tre amici della sera: Philippe Lemaître, il collega francese che rappresenta a Roma il più importante giornale di Parigi, La Planète, Gigi Acuti, un alto funzionario del ministero dell’interno, e Arturo Parpaglioli, direttore generale dell’agenzia per lo sviluppo del Mezzogiorno, che sopravvive, a beneficio dei dipendenti, cinquant’anni dopo l’abbandono di ogni velleità di creare nel Meridione fabbriche e fabbrichette.

Dall’incontro con l’ambasciatore tedesco Strozzi ha continuato a riflettere sulla notizia della prossima secessione francese. Quando Trassalati gli presenta il collega come persona vicina ai vertici del potere parigino, la curiosità gli impone, varcando l’ingresso del ristorante, di misurare la portata dell’informazione. Senza riferire la fonte, menziona notizie sull’acuirsi dello scontro tra le autorità di Parigi e i rappresentanti della provincia. “Helas! Vous donc savez! -lo fissa l’altro- Ma una trattativa interrotta non decide l’avvenire della Francia! C’é stata una rottura -riconosce con amarezza-, nei colloqui tra il primo ministro, eletto dalla popolazione di Parigi, e il presidente della Chambre des départements, che pretende di rappresentare la totalità della nazione: quelle presomption absurde! Ma è la nostra storia: la France paysanne, bigote, réactionnaire, n’a jamais compris la grandeur spirituelle de Paris. Il y a toujours eu deux Frances: Parigi e la Francia degli idioti. La pazienza di Parigi ha sempre evitato la rottura, ma la presunzione contadina ha varcato ogni tollerabilità, e l’eventualità cento volte scongiurata non è più, forse, esorcizzabile.”

Un’auto imponente si arresta accanto a quella di Strozzi. Scortato da tre compagni armati, un uomo di piccola statura attraversa il piazzale e raggiunge il gruppo che conversa nell’atrio. E’, con la sua scorta, Italo Giglienti, il re italiano del cemento, proprietario dei cinque stabilimenti funzionanti nel paese dopo che l’ascesa dei prezzi del petrolio ha trasformato il cemento in bene accessibile solo ai nababbi decisi a rendere immortale la propria gloria costruendo un ponte, un ospedale o una moschea. Raggiunge gli amici palesemente alterato, saluta, senza garbo, per abbandonarsi alle invettive più crude verso Roma, le sue tribù e i suoi posti di frontiera. “In un paese civile chiunque dovrebbe sapere quanto dovrà pagare per andare da Monte Mario ad Albano. Cinque blocchi, due milioni e mezzo. Tutti i giorni vogliono di più, e tutti i giorni qualcuno decide di rappresentare una tribù nuova, trova un moschetto e blocca una strada, taglieggiando chi è ancora in giro per lavorare! Figli di cagna: non potrebbero mettersi d’accordo e chiedere un prezzo fisso? Giusto e uguale per tutti! Finiranno per costringere la gente civile a evitare questa lurida città di negri e indiani! Morissero tutti di colera e di fame, branco di accattoni!”

Strozzi dichiara di non poter formulare previsioni sugli effetti del colera, ma di ritenere l’estinzione per fame della popolazione di Roma evento prossimo, che lui ha rinviato di un mese, tuttavia, lasciandosi comprare da una pietra da caminetto conservata nel museo di Santa Maria degli angeli. Lo scambio incuriosisce Trassalati, che chiede ragguagli sull’oggetto del baratto. Strozzi descrive il marmo e il disegno, l’altro riconosce la Venere Ludovisi e si complimenta, ma un encomio ancora più caloroso esprime il francese, che si dichiara amatore di arte ellenica, e spiega a Strozzi che è divenuto proprietario del maggior capolavoro dei secoli precedenti lo splendore di Roma. “Vous avez très bien fait! -si complimenta -La città dei preti e delle monache non era degna di un’opera così sublime! Si je pouvais, je proposerais son achat à notre Louvre!” Strozzi si dice lusingato per i complimenti, e proclama che, fino che non avrà montato il pezzo sul caminetto, sarebbe lieto di barattare la Venere con due treni di cereali, tanto gli costerà la compiacenza che ha dovuto mostrare al muftì. Desolato, il francese riconosce che il Louvre non dispone di scorte di cereali per l’eventualità di baratti.

Proseguendo la conversazione il gruppo attraversa l’atrio della casa da gioco, supera le sale del ristorante, raggiunge il banco del bar, dove Strozzi invita tutti a prendere posto. “Un brindisi all’ultimo, e al più fortunato, dei collezionisti dell’arte antica! -Trassalati invita gli amici a celebrare l’acquisto- Il grano è l’arma più antica dei mecenati. Al nostro Mecenate, e alla sua Venere!” Strozzi si schermisce, metà confuso metà compiaciuto: di veneri non è ignaro, riconosce, ma non gli è mai capitato, ammicca, di contrattarne una di pietra. Il giornalista lo incalza: un grande mercante deve apprezzare non meno le veneri di pietra di quelle di materia più duttile, quindi più agevoli da distendere su un letto.

Dall’ingresso raggiunge il gruppo, intanto, un nuovo convenuto, vestito di bianco, un elegante Panama sul capo: è José Ignacio Corvalan Poncete, formalmente procuratore di una società mineraria peruviana, seppure gli amici sappiano che opera per più di un servizio di spionaggio. Presentandogli gli amici, Strozzi, che lo ha invitato, lo informa della professione di ciascuno, ma il sudamericano non pare apprezzare l’incontro dei due giornalisti, cui porge la mano con degnazione. “La stampa de Europa! -scandisce senza dissimulare il sarcasmo- Mirad la prensa de Europa negra y árabe, siempre pronta a enfangar la Hispanoamérica, y su limpieza católica y cultural! Ho letto articulos sobre los hechos de Chachapoyas: el ejército del Peru mata a cinco mil obreros desarmados! Obreros desarmados! C’é sommossa, c’é sollevazione instigada por el dinero japonés, y los periodistas de Europa lloran a los obreros matados por el ejército de un caudillo! Los periódicos de la Europa democratica, papel por limpiarse el culo, pero indignos de cualquier culo americano, sea indio sea metizo!”

“Se è questione di carta -insorge il francese- io non tollero che dall’America del sud, questa latrina di purezza, come pretendete, cattolica e culturale, qui n’engendre que de dictateurs idiots, on emmerde la presse européenne, si infanghi la stampa europea. La presse française est tout ce que survit de civilisation dans le monde, souvenez-le-vous, monsieur, e nettoyez votre cul avec les journaux publiés par les laquais du président de votre fouttue république!” Alla reazione il peruviano si fa grave, retrocede di due passi. “Usted provoca mi honor- scandisce le parole- teneis a probar la consistencia de vuestras ofensiónes!” Apre lentamente la giacca ed estrae la pistola dalla fondina che porta sotto l’ascella. “Tengo que desafiar toda esta prensa que ensucia la Hispanóamerica: usted y su compañero italiano, valletto di un marrano francese, come è sempre stato degli italiani. Decidete tra voi chi debba battersi per primo: il padrone o il lacché!”

Impugnando la pistola dalla lunga canna, il dorso arabescato in argento, il peruviano fissa grave gli avversari, di fronte all’arma il francese è impallidito, in preda ad un’ira che appare tanto violenta da soverchiare la paura, che pure non riesce a dissimulare. “Votre honneur! Quel honner pouvez-vous avoir?” Vorrebbe aggiungere nuove offese, ma le parole gli escono come un sibilo dalle labbra, visibilmente cianotiche nel volto diafano. Neppure l’ombra del timore sfiora, invece, Trassalati: “Un errore di lingua, signor Corvalan, il mio giornale non ha espresso alcun giudizio sullo scontro: abbiamo trascritto la notizia da un’agenzia americana. Siamo incorsi in un equivoco linguistico, ho sempre amato il Sudamerica! Dobbiamo rovinare la serata per un articolo del Planète? Il nostro amico Lemaître è corrispondente da Roma: si può imputargli un articolo dal Perù?” “Il a dit que vous êtes mon laquais! -mormora all’italiano Lemaître, sempre più diafano- Non tollero che il mio lacché si intrometta negli affari del mio onore! Tacete, dite solo idiozie!” Rispondendo come un automa all’impulso dell’ira chiede, con un soffio di voce, una pistola.

Sorridente e beffardo Ignacio Corvalan Poncete fissa il francese che, assorbito in sé, ha disteso la mano in attesa che qualcuno vi deponga un’arma. Ma nessuna mano si muove: Strozzi ha rivolto uno sguardo espressivo a Giglienti, che, altrettanto espressivamente ha suggellato l’intesa di disarmare il duello. Compresa la volontà dei padroni, senza ricevere ordini le guardie del corpo sono arretrate di qualche passo, portando mitra e pistole a distanza insuperabile dai contendenti. Col suo filo di voce, Lemaître si rivolge a Strozzi: “Vi prego, siete un amico, capite! Vi prego: ça va de mon honneur!” “Non ho mai portato armi, aborrisco il sangue, sono un piccolo mercante pacifico! -ride, disarmante, l’uomo d’affari- e prego mi amigo José di riporre il suo giocattolo, che in un incontro tra amici porta una nota di cattivo gusto!”

“No podeis comprender! Es cosa de honor!” il sudamericano lo diffida dall’interferire, ma la diffida non impressiona il magnate del grano, che si avvicina e pone una mano sulla spalla al duellante. Il peruviano trasale, sul viso il sorriso irridente si tramuta in una smorfia irosa. La mano sulla spalla a chi sta per affrontare l’estrema prova è offesa ancora più grave degli sproloqui del francese. “Una confidenza, José Ignacio, una cosa piccola ma molto importante!” Nella voce di Strozzi c’é l’autorevolezza di chi non accetta obiezioni, la mano sulla spalla esercita una forza irresistibile: il viso contratto dall’ira, il peruviano non riesce ad opporsi, l’altro lo conduce verso l’uscita. Conservando la distanza più rispettosa, le guardie del corpo seguono i due verso i lecci grondanti di pioggia.

Uscendo nella notte umida i due incontrano l’ultimo convenuto, che li saluta e raggiunge il gruppo. E’ un uomo la cui corporatura massiccia sorregge una testa rotondetta, gli occhi piccoli e mobilissimi separati da un naso schiacciato, sotto le labbra sottili un ampio mento rosato. E’ Achille Piacentini, il maggior mercante europeo di carne suina e di insaccati. A Trassalati, che muove ospitale ad accoglierlo, chiede quale ragione abbia alterato il volto dell’uomo sottobraccio a Strozzi. Il giornalista spiega della sfida.

“Un duello, e Vico l’ha evitato! Uno spettacolo impagabile, due che vogliono ammazzarsi, e lui lo impedisce: bella premura per gli amici! Un francese e uno spagnolo che si scannano! E chi ne trova altri due? Arrivo sempre tardi: avrei tutelato le ragioni dell’onore! Tutti hanno diritto di difendere la reputazione della propria patria fottuta senza che un mercante di becchime si intrometta nei loro affari. Dovevo arrivare prima, ma come fai, con tutti questi malesi e afgani che ti fermano e pretendono l’elemosina di mezzo milione! Tutti i selvaggi si sono trasformati in esattori di pedaggi!” “Per un mercante di granaglie c’é sempre una ragione superiore per salvare la vita a un gradasso spagnolo. -declama Trassalati, cui non sarebbe dispiaciuto vedere il sudamericano ammazzato- Gli avremmo fatto provare qualche emozione che gli è ancora sconosciuta! Ma qualche motivo segreto per proteggere una spia peruviana Vico ce lo avrà, e di un amico si debbono tollerare anche le debolezze!”

Il mercante e il peruviano rientrano a braccetto. José Ignacio Corvalan Poncete sorride radioso alle celie dell’amico. Strozzi ordina tre bottiglie di Champagne, prescrivendo anche marca e annata. Qualcuno obietta che quelle marche e quei millesimi ad Albano non possono esistere. Da quando la miseria e i precetti del profeta hanno conquistato le aree metropolitane d’Europa, lo Champagne si è trasformato in bevanda per pochi eletti, e nella regione che lo produceva molti vigneti si sono trasformati in pascoli per le capre. Tra le grandi marche solo due o tre hanno continuato la produzione con il rigore dei secoli passati. “Per i patacca di Imola e i loro amici, francesi e peruviani, gli osti di Albano vanno a rifornirsi direttamente in Francia. -giura Strozzi- Qualcuno vuole scommettere?” Giglienti raccoglie la sfida e dichiara di giocare tre milioni su marca e millesimi.

Quando il titolare della casa porta, personalmente, due bottiglie delle tre ordinate, il re del cemento proclama di avere perduto un milione, siccome manca una bottiglia, Strozzi ribatte di averne vinti due, siccome sono state portate due bottiglie su tre. Giglienti chiede che si costituisca un giurì che decida la questione, Trassalati, pronto ad assumere le incombenze di sensale, dichiara che l’arbitro più autorevole è il dottor Parpaglioli, autorità senza pari in ogni ramo del giure, che sceglierà, suggerisce, lui stesso i giudici a latere. Non potendosi esimere, per l’assenza di ogni obiezione, il direttore dell’ente per lo sviluppo del Mezzogiorno chiama al ruolo di giurati il direttore del ministero e l’industriale salumaio. I tre si ritirano, ritornano, dopo lunghi minuti, dichiarando che la perdita è di un milione e mezzo. Giglienti trae di tasca un rotolo di banconote, conta un milione e mezzo e lo getta sul banco. “Pezzo di merda te e stronzi i tuoi giudici! -sentenzia Strozzi afferrando rapido il plico- Sempre pronti a giurare su quello di cui non capiscono un accidente! E senza mai pagare per le pirlate che hanno giurato. Mi fate andare di traverso anche il Möet et Chandon!”

Levato il bicchiere, beve d’un fiato: non ha mai capito come vi siano devoti che sorseggiano lo Champagne come fosse Sangiovese della migliore delle sue botti. Osserva i convenuti intenti ai calici: Trassalati degusta estatico. Lo fissa rilevando che si può comprare il direttore di un grande giornale con una bottiglia di Champagne. Sa di avere dato a Trassalati più di una bottiglia di Champagne, ma sa anche che c’é, tra gli uomini, una gerarchia naturale che antepone i mercanti ai giornalisti, e una formale, che antepone i direttori di giornali ai mercanti: il più grande dei giornalisti può sottostare alla gerarchia naturale, e inchinarsi a un mercante, ma può pretendere che l’ossequio gli sia adeguatamente pagato. E gli uomini che si impongono sugli altri uomini debbono essere magnanimi con i propri servitori.

Il titolare della casa accompagna gli ospiti nella migliore delle salette per i clienti particolari. Il gruppo si divide tra due tavoli. Strozzi cerca invano tre giocatori che vogliano cimentarsi a concina: è il gioco di casa sua, il più appassionante tra quanti se ne praticano sui tavoli verdi di tutto il mondo, e non ha mai capito perché, invece, lo si usi solo nelle osterie romagnole. Come si verifica sistematicamente, tutti gli inviti sono vani, i convenuti, unanimi, pretendono una partita a poker. Reiterate inutilmente le preghiere si rassegna: “Io vi consigliavo per il vostro bene -minaccia-, vedrete che vi frego tutti, patacca e pirla!” Mantenendo la promessa comincia a vincere, sottraendo a tutti plichi di banconote.

Dopo due ore di gioco i camerieri servono uno spuntino: aragoste fresche, vassoi di ostriche, cabarets di tartine ai tartufi, al pâté, terrine di selvaggina, prosciutto di Parma. In un cratere d’argento, da una banchisa di ghiaccio emergono colli di bottiglie di Champagne, Bordelais bianco, vini del Rodano. Strozzi, che ha offerto il rinfresco, osserva divertito i compagni rifocillarsi con la furia di manzi dimenticati nella stalla, senza fieno, per una settimana. Misura l’avidità con cui vuotano piatti e calici e la trova proporzionale all’entità delle cifre che hanno perduto: si ripagano con la crapula delle banconote che gli hanno contato.

“Signori un minuto di attenzione! -con l’autorità metà di sensale metà di ruffiano Trassalati impone silenzio al convito-. Chiedo raccoglimento, signori, per ricordare che il mondo ha fame! Abbiamo lasciato Roma e i suoi sobborghi grondanti di umanità nera e bruna: come ha dichiarato il nostro anfitrione, quell’umanità è destinata a dissolversi, al passaggio della scopa della fame. Sono milioni di esseri umani: pochi mesi di carestia e non ne resterà nessuno, una croce, o una mezzaluna, sul tumulo di una fossa comune. E come si prepara a morire Roma, l’inedia arrota la falce a Parigi, ad Atene e a Rio de Janeiro. Gli antichi credevano che il filo della vita fosse nelle mani delle Parche, vecchie streghe tessitrici. Oggi quel filo è in pugno a chi dipana sul mappamondo le rotte del grano. Onorate gli uomini da cui dipende la vita e la morte delle nazioni: levate i calici a Vico Strozzi, che nega il grano a Roma, ma offre agli amici Champagne, ostriche e aragosta.”

Strozzi ascolta compunto: non è vanitoso, ma la piaggeria dell’amico lo lusinga. Riflette sui vantaggi del commercio granario: sono molteplici, ma la devozione, che sa sincera, del direttore del primo giornale romano non è il meno gratificante. “Tutti gli uomini nascono uguali -Trassalati prosegue il panegirico-, ma l’arbitrio della Sorte dona generosamente ad alcuni, nega crudamente ad altri. Il mercante di grano è il braccio della Sorte che governa, onnipotente, l’universo, dona e toglie, sfama e decreta la fame. Concede un mese di vita a Roma in cambio del più prezioso marmo dell’antichità, si profonde, con chi ne abbia guadagnato i favori, in pâté e caviale! Un brindisi a Vico Strozzi, un brindisi anche se vi sta sottraendo qualche pezzo di cartamoneta. La cartamoneta potrà restituirvela, al prossimo giro di carte, se sarete più accorti con donne e re, le sue ostriche e il suo Champagne, invece, sono il pegno di un’amicizia su cui potete contare per sempre!”

Liberando i tavoli dai vassoi, di cui la solerzia dei convitati ha appena scalfito l’opulenza, i camerieri servono caffé, whisky e Cognac. I giocatori si dispongono ancora su due tavoli, ma dopo pochi giri di carte si accalcano attorno a quello cui è seduto Strozzi, che dopo l’imbandigione la sorte ha abbandonato, e che restituisce, a grosse manciate, le banconote sottratte nella prima manche. Ad assottigliarne il plico, sempre più meschino, è, in vantaggio sui compagni, il giocatore che più pesantemente era stato colpito, prima del buffet, da una sorte avversa, l’industriale del salume, che ad ogni vittoria tutti i convitati incitano a non lasciare che il momento proprizio si volatilizzi. “Anche le brache gli devi levare! -proclama il re del cemento- Si crede l’amministratore delegato del pianeta perché ha pagato un treno di grano per una statua! E dà dello stronzo a tutti perché non giocano a concina come al suo paese. Insegnagli a giocare a tombola, che se riesce a imparare ci vince le castagne secche! Sbruffone di romagnolo!”

Livido in volto, il magnate del grano scruta nelle carte le combinazioni avverse degli astri, non ascolta e non replica alle provocazioni. Quando restituisce l’ultima banconota sottratta ai compagni si alza con un gesto solenne: “Domani mi aspettano a Montreal: per alzarsi presto i contadini vanno a letto presto. Con i bidonari di Roma ho perso anche troppo tempo! Buonanotte!” E’ una sommossa: “Ve’ dove è il patacca!” “Ha perso troppo, gli si è stretto il culo!” “E quell’altro ruffiano, che diceva che il re del grano è il padrone del mondo! Si piscia addosso perché ha perso una lira: ce le ha, le lire, o non ce le ha?”

Furente, il re del prosciutto si getta alla porta per sbarrare la strada a Strozzi che esce, il giornalista francese e il direttore dell’ente del Mezzogiorno si dipongono ai suoi fianchi. La porta è ostruita, Strozzi si dirige lentamente verso gli uomini che gli impediscono l’uscita, irridente e sicuro, sfiora gli antagonisti, che tengono le braccia diritte lungo i fianchi, a dimostrare un’immobilità che nessuno potrà infrangere. Ormai a contatto degli avversari, mormora un invito all’orecchio del francese: “Lei conosce certamente il Canada, mi farebbe piacere che potesse accompagnarmi. E’ per un affare di qualche rilievo, e ricambierei onorevolmente la collaborazione.” Gli pone la mano sulla spalla, con riguardo il francese apre il varco: nel silenzio generale si avviano, insieme, alle scale.