Alcuni discorsi sulla botanica/II/La botanica appo gli antichi/I Romani

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I Greci

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La botanica appo gli antichi - I Greci
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III.


I Romani.


I Romani, che volendo stare agli ultimi asserti della scienza sarebbero sorti dalla mescolanza dei Greci coi Galli, furono nei primi tempi, come ognuno sa, poco curanti di buoni studii, tuttochè fino dai primordj loro frequentassero cogli Etruschi, popoli di sì antica civiltà, e delle cose naturali indagatori diligentissimi. Ma quando il corso delle armi loro li trasse ad invadere trionfanti le terre della Magna Grecia dapprima, poi quelle della Grecia propriamente detta, fu come si aprissero loro gli occhi d’improvviso, sì li rapì lo splendore meraviglioso di quella coltura, che non aveva rivali, e vergognando della quasi selvatichezza, in che erano vissuti fino allora, tosto divisarono di appropriarsi il sapere dei vinti. Senonchè mentre le lettere, come più rispondenti alle attitudini loro, sì felicemente allignarono nel nuovo suolo da poter in breve rivaleggiare coi maestri, le scienze per contrario meno fortunate mai non giunsero a piantarvi salde radici. Il perchè non solo fu negato ai Romani di pareggiare in quelle ai Greci, ma neppure del prezioso retaggio, che questi lasciavan loro, seppero essi degnamente approfittare. Così per venire alle cose nostre della Storia Naturale si occuparono di [p. 69 modifica]quel tanto solamente, che avesse diretta attinenza coi bisogni, coi comodi, e coi piaceri della vita. Non è adunque meraviglia, se della agricoltura, e dell’arte dei giardini, che a queste cose prendono sì largamente, pigliassero tanta cura: il che tornò a vantaggio grande di questi studii nostri, se vero è, nulla potersi immaginare, che più strettamente della coltura dei campi e dei giardini si colleghi colla Botanica. La bellezza e magnificenza dei giardini romani è passata in proverbio, e niuno è, che ignori le delizie degli orti Sallustiani, di Tivoli, di Foscolo, di Formio, e cento altri famosi nelle antiche storie, e tutti sanno con che amore i Romani vi coltivassero fiori ed erbe odorifere d’ogni maniera, che poi applicavano ai più diversi usi della vita, e nelle più solenni pompe della religione. Fino dai tempi di Catone tanto era cresciuta presso di loro la passione pei fiori, che fu bisogno porle un freno con leggi severe. Fu allora divietato il portar corone di fiori salvo il caso, che il popolo, o per esso il magistrato avesse creduto di dover concedere quell’onore per alcuna opera egregia ai cittadini. Ma poco valsero le leggi, che, come al solito avviene, di leggeri si trovò modo di frodarle. Però non ci stupisce, che sì fatta passione sotto l’impero trasmodasse sì prodigiosamente da parerti quasi universale pazzia; nè strano ci riesce, che Nerone, come leggiamo nelle Storie, in mazzi, corone, ghirlande, ed altri sì fatti ornamenti di fiori. [p. 70 modifica]sciupasse più milioni di sesterzj. Niente più naturale pertanto, che mentre dapprima i Romani nei giardini miravano piuttosto all’utile, che al diletto, saliti poi a grande potenza, il diletto per contrario mandassero innanzi ad ogni altra considerazione; che la smania dei giardini si rendesse così generale, che non v’era famiglia patrizia di qualche nome a cui non paresse necessario l’avere il suo nei luoghi più ameni e più feraci. Appena si potrebbe colla immaginazione arrivare alla meraviglia di que’ giardini di quasi favolosa memoria, nei quali vedevi raccolto quanto di più vistoso, di più peregrino seppe mai desiderare il lusso, la vanità, il caprìccio dei padroni del mondo. Non paghi dei grandi orti alla campagna pensarono i Romani a formarsene un’imagine in miniatura alle finestre dei loro superbi palagi, e impazienti delle lentezze di natura trovarono modo di crearne improvviso nelle pubbliche feste di mirabilmente belli e graziosi. Nè si creda stessero contenti alle piante proprie già d’Italia in antico, che anzi cercatori infaticabili delle forestiere sforzavansi queste ancora di connaturare al paese nostro. Famoso è l’orto che a tale intento fondava in Roma il greco Castore studiandosi di provvedere a due cose ad un tempo, ai piaceri della vita, ed alla utilità della scienza; che tanto appunto ci porta a credere la testimonianza di Plinio, che rammenta quel fatto, e come foss’egli solito recarvisi ad ogni tanto per istudiarvi [p. 71 modifica]le piante. Che poi della agricoltura si occupassero i Romani con molto amore lo provano il pregio grandissimo in che era tenuta dall’universale, le lodi che a quella tributavano a gara poeti e prosatori e più ancora il fatto, che i loro più cospicui cittadini recavansi ad onore di coltivare colle mani loro i proprj campi. «Epperò, scrive Catone nel Proemio de Re rustica, quando i Maggiori nostri lodar volevano un galantuomo, lo chiamavano buon agricoltore, e buon colono; e con sì fatti nomi credevano essi di onorare ampiamente colui che lodar volevano.» Qual meraviglia pertanto, se, espugnata Cartagine, ordinava tosto il Senato Romano si traducesse in latino il trattato, che sulla coltivazione dei campi lasciò scritto Magone; trattato, che è l’unico monumento pervenuto fino a noi del sapere di quella potente rivale di Roma? L’opera, che Catone il Censore scrisse intorno alle cose di villa, 130 anni av. Cristo, e da me or ora menzionata, mentre sta come prova del primo ringentilirsi della lingua del Lazio, fa bella testimonianza della sapienza agricola dei nostri gloriosi antenati. Di agricoltura trattarono altresì i due Saserna, Padre e Figlio, e Gneo Tremelio Scrofa citati da Varrene, da Columella, da Plinio. Nè molto di poi si occupò del medesimo soggetto quel Varrone, che versatissimo nelle greche lettere, le quali aveva apprese in Atene, vi seppe recare i frutti della esperienza e di una erudizione divenuta famosa. Anche [p. 72 modifica]Lucio Apulejo, che viveva ai tempi di Augusto, ragionò delle proprietà delle piante, delle quali, se dicono il vero le antiche memorie, fu pure studiosissimo il medico di quel medesimo imperatore, quel celebre Musa, cui toccò l’onore, che l’immortale Linneo intitolasse dal nome di Lui un genere di piante, che va fra le più belle e le più utili, che si conoscano.

E delle piante fu caldo e sapiente osservatore anche Virgilio, massimamente in quel sovrano lavoro, da cui ebbero eterna gloria e campi, e greggie, e pastori. Nelle Georgiche infatti, oltre i sani precetti, che ei ci porge sugli orti, sulle opere rustiche, la messe, la vigna, la cura degli alberi, e degli innesti, trovi di non poche piante descrizioni sì vere e aggraziate, che le più belle sarebbe vano desiderare. Valgano ad esempio quelle bellissime dell’amello, del limone, del visco. Più spesso ancora Virgilio al modo dei poeti si compiace di segnalare le sue piante con un solo epiteto, ma questo è così appropriato, così significativo, e ci porge tale una immagine parlante dell’oggetto, che a chichessia riesce agevole il riconoscerlo. E chi non ravvisa a prima giunta i vaghissimi fiori onde si compone il grazioso mazzetto, che Najade presenta ad Alessi!


                    Tibi candida Naïs
Pallentes violas, et stimma papavera carpens
Narcissum, et florem jungit bene olentis
                                        Anethi,
Tum casia, atque aliis intexens suavibus herbis
Mollia luteola pingit vaccinia caltha.


[p. 73 modifica]Che se rimane tuttavia qualche dubbio tra i botanici, che illustrarono la flora di Virgilio, il Martyn, lo Sprengel, il Fée, il Poiret, il Tenore, il Bertoloni, il Mayer sulla retta interpretazione di poche piante dal poeta menzionate, quanto al maggior numero di esse non corre divario tra loro. Eccone l’elenco quasi che completo. Tra gli alberi troviamo nominati dal poeta i seguenti, che io metto qui appunto cogli epiteti, onde gli piacque designarli; il platano ombroso, l’ardua palma, il faggio dalla larga chioma, il tiglio pingue, il castagno eccelso, il cipresso ferale, il cedro dall’utile legno, il pino degli orti, l’abete che stanzia su per gli alti monti, il bianco ligustro, il vaccinio dai frutti nereggianti, il mirto amico delle tepide aure del mare, il salcio pieghevole, il duro nocciolo, il bosso docile al torno, il lento viburno, il prugno spinoso, il tardo ulivo, il tasso nocente, il paliuro pungente, l’orrido rusco, la vite lenta, l’edera arrampicante, l’ebano nero, i pomi delle esperidi, e l’albero dell’Etiopia, che biancheggia per molle lana. Quanto alle erbe e ai fiori trovansi ricordati da Virgilio l’alga vile, l’ulva palustre, il mosco, la felce invisa all’aratro, il giunco, che cresce nel limo, la canna da padule, l’avena sterile, il loglio infelice, il vile fagiolo, il cardo spinoso, la ginestra umile, la timbra puzzolente, il cerinte ignobile, la cicuta fragile, il cicorio dal sugo amaro, il papavero sonnifero, l’oppio verdeggiante, il dittamo [p. 74 modifica]porporino, la pallida viola, la verbena pingue, il languido giacinto, l'ibisco gracile, il citiso fiorente, la rosa rubiconda, il serpillo olezzante, il rosmarino, l’aneto gradevole, l'elleboro, l’aconito, la scilla, la mirra, l’incenso.

Anche Strabone, che scrisse intorno a que’ tempi la sua Geografia, accennando ai prodotti naturali dei varj paesi soggetti al Romano impero, non pure ricorda buon numero di piante, ma di parecchie ancora nota con assai precisione entro quai limiti le possano vegetare felicemente. Il suo nome pertanto non vuol essere taciuto in una storia per quanto sommaria di nostra scienza. E valga il vero, se Teofrasto per comune consenso dei dotti è salutato fondatore della Geografia botanica, a Strabone s’appartiene il merito d’avere pel primo fatte conoscere le strette attinenze, che questa ha colla Geografia universale — Del pari non potrei passare al tutto in silenzio Aulo Cornelio Celso, vissuto pur esso durante il regno di Augusto e di Tiberio, autore di quella eruditissiina opera delle arti, dove trattò di filosofia, di rettorica, di tattica, di agricoltura, di medicina. Di essa non rimangono che alcuni capi spettanti all’arte salutare, nei quali, tra le tante altre isquisite e peregrine cose, è fatta altresì menzione di ben 230 piante, che è più di quante ne abbiano nominate Catone, Varrone Virgilio presi insieme. Se non che quel dotto medico non ne descrive alcuna per minuto, nè si occupa di argomenti che [p. 75 modifica]colla fisiologia e notomia vegetale abbiano speciale attinenza. Sulla agricoltura, e sui giardini scrisse poco di poi lo spagnuolo Lucio Moderato Columella un’opera lodatissima, nella quale abbiamo un prezioso tesoro di tutto il meglio che intorno le cose di villa seppero, ed insegnarono Cartaginesi, Greci, Romani. Ne Columella è da confondersi coi semplici compilatori. Padrone di estesi poderi, che coltivava con amore ed intelligenza, nel dettare precetti sopra il governo della campagna potè dar conto della esperienza sua propria, e con essa vieppiù avvalorarli. Laonde nel fatto della agricoltura Columella è la prima autorità tra i latini, e da lui, come da fonte principale, attinse la numerosa schiera degli scrittori di cose georgiche da Crescenzio sto per dire fino ai giorni nostri. Forti della autorità di Ernesto Mayer noi crediamo non dilungarci molto dal vero riferendo a quest’epoca, o poco di poi, i due libri de Plantis, che comunemente vanno stampati colle opere di Aristotile. Il sapiente professore di Königsberga, che li illustrò con un dotto commento, ne suppone autore Nicolò Damasceno, Filosofo peripatetico del primo, o secondo secolo dell’era nostra. Strane vicende toccarono a que’ libri. Dettati da prima in greco, dopo essere stati tradotti successivamente nel siriaco, nell’arabo, nel latino, in sul cadere del decimoterzo secolo vennero di bel nuovo voltati di latino in [p. 76 modifica]greco. Quest’ultima versione, la sola che noi possediamo, in grazia di que’ tanti volgarizzamenti, e della inettezza dei traduttori ribocca per ogni dove di errori gravissimi di cose, nonchè di voci e di locuzioni al tutto straniere al greco idioma. Il perchè lo Scaligero, che si accinse a sottoporre i detti libri a una critica revisione, non si accontenta di conchiudere, come fa di tutta ragione, non poter essere i medesimi lavoro del grande Filosofo, cui generalmente venivano attribuiti a suoi tempi, ma nega loro eziandio ogni qualunque valor scientifico. In sì fatta sentenza a un di presso s’accorda lo Sprengel, il quale nella sua Historia rei herbariae parlando di essi esce in queste dure parole. «Nullibi lucidi ordinis amor, nullibi subacta doctrina, nusquam demum gravitas sermonis, ac orationis dignitas apparet.» Ma o io m’inganno grandemente, o i giudizj di questi scrittori sono, se non ingiusti al tutto, certamente troppo severi. Imperocchè per poco che uno si addentri nello studio dell’opera di leggeri gli verrà fatto di scovrirvi di assai belle cose, di cavarne molti utili insegnamenti. La prima cosa egli è fuor di dubbio, che senza di essa noi ignoreremmo in gran parte le opinioni dei greci filosofi intorno la vita e l’organizzazione delle piante, essendo perdute quasi tutte le opere sulle quali fu fatta quella compilazione. E perchè poi non vorremo dar merito all’autore, chiunque si fosse, d’aver saputo tener viva la face della filosofia peripatetica in tempi tristissimi [p. 77 modifica]per le scienze, quando l’intolleranza burbanzosa degli stoici, e il fanatismo de’ nuovi credenti volevano sbandito dal campo delle filosofiche ricerche ogni libera discussione, ogni studio puramente razionale?

Intanto piacemi qui addurre due brani di quell’opera, perchè abbiate per voi medesimi a far giudizio e dell’importanza degli argomenti trattati, e del modo con cui sono svolti. Nell’uno di essi, tolto al proemio del libro primo, si discorre dell’anima delle piante; nell’altro, che sta a capo nono del secondo libro, si accenna in nube a quella ingegnosa dottrina sulle trasformazioni, o metamorfosi degli organi vegetali, che dovea a dì nostri trovare nel Göthe il suo eloquente espositore.

«Vita in animalibus et plantis inventa est, in animalibus manifesta apparens, in plantis vero occulta, non evidens. Anaxagoras autem et Abrucalis desiderio eas moveri dicunt; sentire quoque et tristari, delectarique asserunt. Quorum Anaxagoras animalia esse has, lectarique et tristari dixit, flexum foliorum argumentum assumens. Abrucalis autem sexum in his permixtum opinatus est. Plato si quidem desiderare tantum eas propter vehementem nutrimenti necessitatem ait. Quod si constet, gaudere quoque et tristari, sentireque eas, consequens erit. Id quoque constare desiderem, an somno reficiantur excitenturque vigiliis, spiritum quoque et sexum per mixtionem sexuum habeant vel contra (Libro 1. Cap. 1.)

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»Antiqui sapientes folia etiam omnia fructus esse asserebant; sed humor tantus erat, quod non maturabantur, nec coagulabantur propter apparitionem caloris desuper, et festinationem attractus solis. Humor ergo, in quem non operata est digestio, alteratus est folia; nec habent folia aliquam intentionem, nisi attractum humoris, et ut sint cooperimentum fructuum a vehementia solis; elideo oportuit, similiter ut folia essent fructus; sed humor ascendit super ea, et alterata sunt folia, ut diximus. (Libro 11. Cap. 9).»

Ma il più celebre dei botanici romani è Pedano Dioscoride di Anazarbe in Cilicia, medico delle armate sotto Nerone. Viaggiò egli l’Italia, la Grecia, l’Asia minore, e le Gallie per studiarvi le erbe medicinali e scrisse un’opera, in cui tratta delle virtù di tutte quelle piante, che erano conosciute a suoi tempi. Se grande importanza abbiamo data alle opere di Teofrasto per la storia della botanica generale speculativa, una non minore dobbiamo attribuirne rispetto alla botanica pratica e applicata agli scritti medici di Dioscoride. Perocchè valga il vero quel tanto di buono e salutare, che si conosceva circa l’uso delle piante dalle sì diverse genti, sulle quali stendeva Roma il suo scettro di que’ tempi, tutto si trova in essi compendiato e raccolto. Nè si vuol credere, che le siano notizie sparse come a caso e scompigliate: ogni cosa vi è collocata al suo posto giusta un metodo razionale fondato sulle speciali [p. 79 modifica]attinenze, che gli oggetti medesimi sembravangli avere tra loro; di che tanto più è da lodare, in quanto che erasi usato infino allora generalmente in così fatte rassegne di andar dietro all’ordine materialissimo dell’alfabeto, che esclude di sua natura ogni sintesi pensata. Epperò nei cinque libri di materia medica troviamo spartiti in gruppi differenti, e questi controsegnati da buoni caratteri gli alberi aromatici ed i gummiferi, le piante oleose, gli erbaggi, i cereali, le viti e va dicendo. Certamente chi volesse far giudizio di quel metodo dalle condizioni della scienza oggigiorno dovrebbe riputarlo e molto imperfetto, e poco naturale, ma quando s’abbia riguardo, come giustizia vuole, al tempo in che fu pubblicato, e allo scopo specialissimo a cui mirava l’autore, dovremo pure riconoscere e ammirare il tentativo non infelice di classificare sistematicamente le piante. Seicento o poco meno sono le stirpi vegetali registrate nella materia medica di Dioscoride, delle quali non poche oltre il nome latino, e il barbaro se conosciuto, recano pure l’indicazione della patria, delle qualità, degli usi, e vanno accompagnate da una breve descrizione. Bisogna però confessare, che a petto a quelle più antiche di Teofrasto le descrizioni di Dioscoride non reggono nè per precisione di linguaggio, nè pel valore dei caratteri, che si adducono a differenziare oggetto da oggetto. Appunto all’ambiguità, alla insufficienza o inesattezza loro si deve attribuire, se la metà circa delle stirpi [p. 80 modifica]annoverate da Dioscoride non fu per anco potuta chiarire al tutto, quantunque vi adoperassero intorno ogni diligenza acutissimi ingegni. Che se guardi allo stile, esso ti apparisce pieno di voci e di maniere improprie, disadorno, informe, in somma quale i tempi portavano in tanto abbassamento delle buone lettere presso i Greci e i Romani, quale ancora portava, come confessa egli stesso ingenuamente, la poca cura, ch’ei si prese di studiare la forma, e di limare il suo lavoro, occupatissimo che egli era nell’esercizio dell’arte propria. «Esortiamoli dunque, dice egli nel proemio, insieme con tutti quelli che questi nostri scritti leggeranno, che non consideriate quanto noi siamo eloquenti nel dire, ma la diligenza e l’esperienza messa nelle cose.» Ne questo ancora si vuol tacere, che non rade volte gli avvenne d’essere tratto in errore dalla conformità dei nomi sì barbari e sì latini, e congiungere per forma d’esempio in uno oggetti disparatissimi, e per converso descrivere ripetutamente l’oggetto medesimo sotto nomi diversi. Le quali mende e imperfezioni non tolgono tuttavia, che la materia medica di Dioscoride sia da risguardarsi, come il monumento più insigne di botanica applicata che ci abbia lasciata l’antichità! Tradotta, compendiata, e chiosata da molti e dottissimi uomini un Mattioli, un Cesalpino, l’Anguillara, il Colonna, il Maranta tra i nostri e, de’ forestieri un Cordo, un Dodoneo, i Bahuini, il Fuchsio, il Ruellio, e recentemente [p. 81 modifica]ancora illustrata dal Sibthorp, dallo Sprengel, dal Mayer fu essa per dodici e più secoli il codice medico-botanico di tutte le scuole d’Europa e tale è tuttavia in quelle dell’Oriente.

Di poco posteriore a Dioscoride è Cajo Plinio Secondo comasco, giusta l’opinione più accettata oggidì, nato l’anno 23 dell’era volgare, vissuto sotto l’impero di Vespasiano e di Tito, e morto vittima del suo amore alle scienze nella fresca età d’anni 56 in quella terribile eruzione del Vesuvio, che seppellì Ercolano e Pompeja. Uomo di facile e pronto ingegno, di assidui e pazienti studii, di varia, sterminata dottrina Plinio coltivò quasi ogni genere di scienze, ma de’ molti suoi scritti non pervenne a noi che la Storia Naturale, libro vario quanto la natura, vasta Enciclopedia dei progressi e degli errori dello spirito umano.

Chi guarda l’elenco delle opere dettate da Plinio su argomenti disparatissimi di storia, filosofia, arte militare, ecc. difficilmente potrebbe indursi a credere siano tutte uscite dalla penna di un sol uomo, quando non si sapesse, quell’uomo essere stato il più laborioso de’ suoi tempi, per non dire di tutta quanta l’antichità. In una lettera a Tacito Plinio juniore racconta dello Zio, che ovunque il medesimo si trovasse ai bagni, in viaggio, a mensa soleva leggere o farsi leggere, dettare o scrivere quasi senza interruzione, pochissime ore concedendo al sonno ed al riposo. Per la compilazione della [p. 82 modifica]sola sua storia naturale Plinio travagliò 20 anni, consultò ben 480 autori, fece lo spoglio di più che duemila opere; quasi non è scrittore greco o latino, vuoi fisico, vuoi medico, geoponico, vuoi anche magico, dal quale non abbia egli attinte notizie fedele a quel suo detto, non esservi libro tanto cattivo, d’onde non si possa apprendere taluna buona cosa. Udiamo quello, che egli stesso ne scrive a questo riguardo nel proemio. «Ho ridotte in 36 libri 20 mila cose degne di essere sapute (da formare più presto tesori che non libri), tratte fuori da intorno a duemila volumi, dei quali pochi son tocchi dagli studiosi per rispetto della materia non comune, e da cento autori esquisiti, con la giunta d’assaissime cose, le quali i primi non seppero, e l’ingegno ha trovate poi.» Delle 37 parti, onde si compone l’enciclopedia, sedici sono dedicate alla botanica, e di queste principalmente è mio debito qui favellarvi. Mi dilungherei oltre misura se volessi fare una enumerazione anche sommaria delle materie trattate in quei sedici libri. Toccherò solo di volo quello, che più importa nel caso nostro. Anzi tutto giovi avvertire, che Plinio per l’indole stessa del suo ingegno più propria al compilare, che alle filosofiche investigazioni, poco o punto si cura delle cose generali, che riguardano la vita e l’organizzazione delle piante. Però è tutto in cercare, in raccogliere, registrare quanto di vero, di probabile, di [p. 83 modifica]meraviglioso intorno gli usi, le qualità, i prodotti dei vegetabili conosciuti a suoi tempi, gli vien fatto di leggere negli scrittori antichi e contemporanei, o anche solo di udire dalla bocca del popolo. Dal libro duodecimo al decimosettimo della sua storia Plinio tratta degli Alberi, nel diciottesimo dei cereali, nel decimonono degli erbaggi, nel vigesimo primo delle piante pregevoli per la bellezza del fiore, come le dicevano i Romani coronarie, dal 22.° ai 27.° delle erbe medicinali. Affinchè però possiate farvi un concetto più preciso del modo, onde la materia è svolta dal nostro autore, non vi sia discaro, che io entri a questo riguardo in qualche particolare. Nel libro duodecimo, che è il primo consacrato alle piante, Plinio, dopo uno splendido elogio degli alberi, si fa a ragionare partitamente di quelli, i quali crescono in paesi forestieri, e innanzi ogni altro del Platano. Narra d’onde e quando quest’albero fosse recato a Roma, e molte cose prodigiose sa dire di esso. «Questo albero per lo mare jonio fu prima portato nell’isola di Diomede (ora isola dei Tremiti) per fare ombra alla sua sepoltura, di poi condotto in Sicilia, e di là donato all’Italia fra i primi alberi stranieri.» Passa quinci in rassegna ad uno ad uno gli alberi aromatici delle Indie, del paese Ariano, de’ Gedrosii, dell’Ircania, de’ Battriani, della Persia, dell’Arabia Felice, della Siria, e tesse particolarmente la Storia dell’ebano, del fico d’India, dell’albero Pala, del [p. 84 modifica]pepe, del garofano; ci ricorda un certo albero pestifero «con foglie d’alloro, il cui odore alletta i cavalli, di maniera che a prima giunta ebbe quasi a privare Alessandro di cavalleria»; menziona più sorta di gossipini, che hanno le foglie, le quali se non fossero minori, parrebbono di viti, e producono zucche grandi quanto una mela cotogna, le quali, quando sono mature, si aprono e mostrano palle di seta, onde fannosi vestimenta di grandissima valuta; ricorda altresì le Cine che servono al medesimo uso. Indi seguono le piante, che producono l’Incenso, la Mirra, il Mastice, il Ladano, il Cinnamomo, la Cassia, nonchè varie altre maniere di spezie e di sughi, come il Calamo, il Nardo, il Giunco odorato, l’Ammoniaco, che cogli alberi nulla hanno veramente a che fare. In quello stesso libro, nè ci sapresti scorgere per quale strana associazione di idee ciò avvenga, Plinio scende a parlare dello Sfagno, dei Maro, e d’altre cotali minori pianticelle. Ma per contrario dagli alberi, che forniscono aromi e cose odorifere, l’autore è condotto naturalmente a ragionare nel principio del seguente libro XIII degli unguenti. Dice come essi fossero oggetto di gran lusso, e quando la prima volta vennero in uso presso i Romani. Passa poi a discorrere della natura, delle specie, e dei segnali delle Palme, del modo di piantarle e di farle fruttificare. A queste vien dietro una lunga enumerazione di alberi e arbusti naturali alla Siria, alla Fenicia, all’Egitto, tra [p. 85 modifica]i quali nomina parecchi di quelli, che producono le gomme. Entra in estesi particolari sul Papiro, sul modo di fare la carta, quando cominciò ad usarsi, di quante specie ce n’abbia, come se ne provi la bontà, e chiude con alcune curiose notizie intorno i libri di Numa. Ragionando degli alberi del monte Atlante si occupa con ispeciale compiacenza del Cedro, nota il pregio grandissimo in che teneansi da Romani le tavole fatte colla materia di esso, a che alto prezzo si vendessero, e pare mova rimprovero a Cicerone, d’averne comperata una per 10 m. sesterzj. Dette poi alquante cose degli alberi della Grecia e dell’Asia minore, passa di sbalzo a favellare delle erbe, che crescono nei mari. Il libro XIV tratta della natura delle viti «il cui principato (sono sue parole) è tanto peculiare d’Italia, che con questo solo par ch’Ella abbia potuto vincere tutti gli alberi delle altre nazioni, solo eccettuatine gli odoriferi,» e come elle facciano frutto; poi delle uve, del modo di governare le vigne, di preparare il vino, e novera ben 50 specie di vini generosi conosciuti dai Romani, 64 di vini contrafatti, 42 di vini prodigiosi, poi dell’aceto, delle cantine, e prorompe in una eloquente invettiva contro lo smodato uso di una bevanda, che fa uscire di mente e genera furore, e ne spinge a delitti d’ogni maniera. Dall’ultimo capo di quel medesimo libro apprendiamo altresì, che presso alcuni popoli con acqua e biada si fanno bevande, che pajon vino. Nel [p. 86 modifica]libro XV Plinio continua ad illustrare gli alberi, che ci danno frutto, e massime l’ulivo. Dice fino a che tempo l’ulivo crescesse in Grecia soltanto, quando cominciasse a spargersi per l’Italia, la Spagna, l’Africa, distingue 15 specie d’ulive, insegna il modo di conservarle, e come s’abbia a far l’olio, e accenna 48 specie di olio fittizio. Ma per non dilungarmi all'infinito bastimi dire, che in Plinio sono menzionate 50 specie o varietà di mele, 12 di susine, 6 di pesche, 42 di pere, 18 di castagne, 29 di fichi, 15 di lauri, 15 di quercie, 10 di noci, 5 di nespole, 4 di sorbi, 11 di mirti, 20 di ellere. Che se oltre i frutti alcuni di cotali alberi ne sono cortesi di altri vantaggi, il nostro autore non li tace. E però ove parla dei pini non omette di dire della ragia, e del catrame: quando tratta delle querce accenna eziandio alla produzione della noce di galla, e a suoi usi. Una gran parte del libro XVI ridonda di utili notizie intorno alle qualità e agli usi del legname, e da esso veniamo a conoscere quali alberi non intarlino, quali non si fendano, quali durino più a lungo, quali convengano ai lavori di architetto, quali a quelli di falegname, quali si seghino in asse, quali siano atti a far fuoco. Nè sempre si accontenta Plinio alla osservazione delle cose speciali, a volte ti sa framezzare considerazioni di un’ordine più sublime. E per addurne alcun esempio tratto da questi libri medesimi, vedete di grazia come ci la discorra della concezione degli alberi, [p. 87 modifica]della germinazione e del parto loro, dell’ordine con che fioriscono, e in che tempo; vedete come non dimentica di segnalare gli alberi, che fruttano ogni anno, e quelli che ogni tre; non gli alberi ai quali nasce il frutto prima delle foglie; nè lo differenze degli alberi stessi quanto a corpo, ai rami, alla scorza, alla radice; più ancora vi dirà quali cose non ci nascano, quali sì in questo o quel luogo (L. XVI, C. 58); come possano ammalare anche le piante (L. XVII, C. 37); quanto le condizioni di suolo e di clima valgano a far mutare natura agli alberi (L. XVI, C. 58). Nella costanza colla quale alcuni di essi sogliono mettere i fiori in certe epoche dell’anno, trova precorrendo Linneo un’indizio sicuro per differenziare le stagioni. Dei sessi nelle piante ragiona distesamente al capo 7 del L. XIII, e in modo che il più esplicito non si potrebbe. Eccovi le sue parole: «Gli autori più diligenti scrivono, che tutte le cose generate dalla terra, comprese le erbe e gli alberi, hanno il maschio e la femmina, e ciò basti aver detto in questo luogo per tutti, ma in nessun altro albero è più manifesto che nelle Palme. E dicono inoltre, che le femmine, tuttochè facciano bosco da sè, senza maschio non possono generare. E aggiungono il maschio essere ruvido e aspro, e aver ritte le chiome, e pur col ventilare, e con la stessa presenza, e con la polvere impregnarle. E come abbi tagliato quest’albero maschio vogliono ancora, [p. 88 modifica]che le femmine non facciano più frutto. E tanto può in loro il sentimento di Venere, che hanno trovato gli uomini come una forma di coito spargendo sulle femmine il fiore e la lana del maschio, e talora anche la polvere sola.» Ma basti oramai di così fatti particolari. Vediamo piuttosto quali siano i meriti di Plinio considerato come naturalista. Grande dissenso è tra i dotti a questo riguardo. A lui toccò quella sorte medesima, che incontra di solito agli uomini straordinarii, di dover essere cioè quando esaltati oltre il merito, quando contro ogni ragione gittati nel fango. I critici fanno rimprovero al Naturalista di Como di mancar d’ordine e di metodo nella trattazione delle materie, di troppa fretta nel compilare, di cieca credulità nell’accogliere assurde favole già riprovate da suoi predecessori, di avere per vaghezza dello strano e del meraviglioso cavate le notizie da libri spregevoli postergando i migliori, di non saper sceverare il vero dal falso, quello che era da scartare, perchè inutile o incerto, da ciò, che solo meritava di essere tramandato alla posterità, di errare assai spesso nella interpretazione dei Greci, di non aver saputo discernere il mito dalla realtà, di ripetersi e contradirsi. Anche lo accusano di mal talento per avere tolte assai cose da Dioscoride senza pur nominarlo. Ma come da questa taccia può purgarsi ammettendo col Mayer, che Dioscoride e Plinio abbiano attinto alle stesse fonti, d’onde la [p. 89 modifica]concordanza quasi letterale tra loro in più di un luogo, del pari ne sembra, che una gran parte degli errori, di che Plinio si appunta, vogliono essere messi a carico degli scrittori, che lo precorsero. E sebbene non si possa negare, che il naturalista romano quanto a vedute generali e potenza di sintesi non raggiunga a gran pezza Aristotile e Teofrasto, è pur forza confessare, semprechè volga l’acume della mente al complesso delle forze, che operano sul creato, all’ordine, che modera l’universo, gli sgorga dall’animo poderosa, profonda e veramente inspirata la parola. Che se la sua storia ebbe sì grande influenza per tutta l’età di mezzo, e anche oggidì trova sì caldi ammiratori, non v’ha di che meravigliare, dove si consideri, che molte delle descrizioni di Plinio sono un modello di precisione e di eleganza, che il suo stile, quantunque ineguale e tal fiata acre e corruccioso, è però sempre vario, robusto, ornato, immaginoso e fin sublime, e che tale e tanta è la copia delle notizie, dei fatti, delle osservazioni depositate nella sua opera, che senza di essa gran parte del sapere antico ci sarebbe affatto ignoto. E dappoichè quasi tutte le opere, che Plinio spogliò, andarono miseramente perdute, quando egli non ce ne avesse conservata a così dire la sostanza, quanto minor tesoro possederemmo noi e di lingua latina, e di cognizioni naturali!

Non sappiamo chiudere questa epoca della storia antica della botanica senza toccare per ultimo [p. 90 modifica]di un lavoro fatto veramente con altro scopo, ma pure di molto pregio tanto per la zoologia, quanto per la nostra scienza, voglio dire il trattato culinare, che passa sotto il nome di Apicio. E noto come codesto troppo famoso ghiottone, scialaquati in favolosi desinari da 20 milioni di franchi, non gli rimanendo altro più che due milioni, nel timore, che egli avesse a morire di stento, si finisse di veleno. A dir vero il libro, di cui parliamo, piuttosto che un’opera speciale bassi a dire una compilazione fatta, non si saprebbe precisare nè da chi, nè in qual tempo, da varj libri di cucina, o ciò che torna lo stesso, un zibaldone di note in uso dei cuochi. Tuttavia, qual’è, merita di fissare l’attenzione anche del naturalista, che da esso può ritrarne quali fossero gli animali e le piante, che negli ultimi tempi della republica, e sotto gli Imperatori servivano comechè sia ai Romani di cibo o di condimento. Laonde non è a fare meraviglia, se uomini anche dottissimi un Cuvier, il Dierbach, il Mayer vi si affaticarono molto d’attorno per trovare, a quanto si può, nella moderna scienza i nomi e le cose corrispondenti agli oggetti in esso menzionati.

Ed eccoci oramai al fine del non breve e facile nostro cammino. Imperocchè con Plinio e Dioscoride può dirsi spenta la luce, che rischiarò la prima epoca di nostra scienza, chiuso il libro delle glorie de’ botanici antichi. D’allora tutto in Roma [p. 91 modifica]declinò, anzi precipitò miseramente arte, letteratura, scienze. Poi nelle miserie dell’Impero, sotto il dominio di tiranni sospettosi e crudeli, inviliti gli animi, fiaccata ogni virtù, anche gli studj languirono, e quasi avresti detto, perdesse fino la natura ogni attrattiva, ed è per ventura, se trovi quà là tuttavia un medico, un agronomo, un poeta, che degnino d’uno sguardo passando le povere piante. Lo stesso «divinissimo» Galeno di Pergamo, oracolo dei Medici de’ suoi tempi (131-200), che pure in più luoghi delle sue opere fa obbligo al cultore dell’arte salutare di dover conoscere per bene le piante, e non poche ne vien nominando, nei tanti suoi scritti non si cura di descriverle, e sa aggiungerne una sola a quelle menzionate da Dioscoride.

Ben presto l’onda dei barbari d’ogni parte rovesciandosi sull’Europa travolge nella rovina fino agli ultimi avanzi della Romana sapienza. Quanti secoli dovranno scorrere innanzi che uscita la civiltà al fine da quel lento e pericoloso tramescolìo della dissoluzione si ricomponga con altri elementi!

Sostiamo intanto, o Giovani, e abbiamo presente a nostro conforto, che gli ultimi trofei anche della nostra scienza, come già di tutte le altre, li lasciammo in Italia, li lasciammo quì sul nostro suolo, nell’insigne Naturalista di Como. Passerà il torrente devastatore, dilegueranno le tenebre della barbarie, e allora vedremo sorgere ancor nell’Italia il sole della rediviva civiltà, e da questa culla dei genj, [p. 92 modifica]da questa cima d’ogni sapere. «Magna parens frugum, magna virum» rischiarare della nuova sua luce a mano a mano il mondo intero.