Andrea Doria/La Vita/7

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La Vita
Capitolo 7

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Con la restituzione di Milano a Francesco Sforza, la caduta di Firenze, la cessazione di quella Repubblica, e la nomina di Alessandro de’ Medici a primo duca, Carlo V aveva per il momento sistemato le cose italiane, e poté così recarsi in Germania, per sistemare le controversie generate dal progresso dei luterani cui egli finì per vietare, alla Dieta d’Augusta, il libero esercizio del culto, suscitando reazioni che ebbero l’appoggio segreto del re di Francia e anche del re d’Inghilterra le cui relazioni col Pontefice cominciavano ad esser tese per le note ragioni.

Andrea Doria restò vigile guardia degli interessi imperiali e cattolici in Italia, e condusse una lotta accanita contro i corsari turchi e barbareschi che infierivano nel Mediterraneo. Fra questi erano i fratelli Orro e Kair-Eddin Barbarossa, signori dell’Africa Settentrionale, figli di un pescatore di Mitilene a quanto dicono alcuni, rinnegati provenzali dicono altri, mentre il notissimo americanista e storico spagnolo Juan Ortega y Rubio afferma risultargli da documenti dell’epoca che trattavasi di rinnegati spagnoli originari della provincia di Madrid. Nel 1516 essi erano già in azione sollevando i Mori sottomessi agli Spagnoli, e conquistando Algeri nonché la città di Tremecen della quale Orro si proclamò Re. Venuto in seguito a morte Orro per mano degli spagnoli che insieme al re spodestato lo avevano scacciato dal regno usurpato, Kair-Eddin continuò l’azione corsara contro le coste del Mediterraneo, sempre nuove violenze e ruberie progettando. Venuti i suoi nuovi progetti a conoscenza dell’Ammiraglio, questi non perdette tempo, e corse in Barberia per incontrarlo.

Alla vista delle galee genovesi, i corsari si misero in fuga, e scesero a terra, abbandonando le navi, nove delle quali caddero prigioni, e molte altre furono bruciate, liberandosi così una gran quantità di schiavi cristiani. Ritornato a Genova il Doria ebbe ben presto altra occasione di sconfiggere i corsari che, aiutati dai Turchi, stavano portando aiuto d’uomini e munizioni al Barbarossa in Algeri: altre numerose navi bruciate, ricco bottino e liberazione di altri cristiani prigionieri.

Per queste vittoriose azioni, il Pontefice gli fece giungere l’espressione del suo compiacimento, e Carlo V gli conferì il Principato di Melfi (trasmissibile in linea di primogenitura) e lo decorò dell’ordine del Toson d’oro, che premiava quei «gentilshommes de nom et d’armes sans reproche» che avevano validamente difeso la fede cattolica.

Avendo l’Imperatore di Turchia Solimano progettato la conquista di Vienna, ed avendo iniziato i movimenti delle truppe necessarie, il Principe non perdette tempo, e corse a disturbare, per quanto a lui possibile, il turco per mare. L’ammiraglio turco, Im-er-Al Pascià, all’avvicinarsi della flotta del Doria, si ritirò a tutta velocità verso gli stretti, cosicché il Principe occupò facilmente Modone, Corone e Patrasso nella Morea, minacciando di occupare poi altre città ed altre terre. Questa sua azione, della quale il Sultano non riusciva forse a comprendere bene gli scopi, - unitamente alla conferma del forte esercito staccato per la difesa di Vienna - lo preoccupò tanto, che si decise a richiamare gli eserciti dall’impresa. Il Doria, visto l’esito insperato del suo intervento, fece ritorno a Genova, lasciando però un discreto presidio nelle città conquistate, mentre (21 settembre 1532) l’Imperatore entrava trionfalmente a Vienna, liberata da tanta minaccia, dopo di che venne in Italia per proseguire poi per la Spagna.

Ospitato con grande signorilità dal Doria nel suo palazzo, si trattenne alcuni giorni a Genova, e il 30 aprile 1533, con le galee dell’Ammiraglio giunse a Barcellona. Quivi pervenne al Principe notizia che la flotta turca - al cui comando Solimano aveva chiamato il Barbarossa nominandolo suo Capitano generale - muoveva alla riconquista di Corone. Tornato subito a Genova, mandò senz’altro una galea velocissima a portare agli assediati la notizia del prossimo soccorso, nonché danari e provvigioni. Cristoforo Pallavicino che la comandava compì la missione passando in mezzo all’armata assediante, e ripassandovi ancora per uscire dal mare sorvegliato, invano inseguito e cannoneggiato dai turchi.

Con sessanta navi, comprendendo quelle fatte preparare a Napoli e in Sicilia, il Principe mosse contro la flotta turca agli ordini del Barbarossa che, per l’apporto avuto da altri Signori delle terre costiere, ne contava ben ottanta. Avute tutte le notizie dal Pallavicino e dagli altri suoi informatori, egli comprese che nell’impari lotta doveva esser gettata sulla bilancia delle sorti la sua genialità di comandante, e la sua abilità manovriera. Giocando egli infatti col vento in favore, riuscì a gettare la flotta avversa contro la terra, dove si trovò sotto il doppio tiro delle artiglierie di terra e di mare, cosicché, scompaginata e scoraggiata, trovò salvezza soltanto nella fuga. Il vincitore si accontentò di danneggiarla inseguendola per un po’ e cannoneggiandola intensamente, ciò che ne aumentò lo scompiglio. La popolazione greca di Corone gli fece feste: ed egli, per incoraggiarla ad una eventuale necessità di resistenza, aumentò la guarnigione spagnola, rifornendola largamente di provvigioni e di munizioni.

Ritornato a Genova, il Principe ebbe la ventura di giovare a Clemente VII, riportandolo a Roma, di ritorno dal suo viaggio a Marsiglia, dove aveva celebrato le nozze di sua nipote Caterina de’ Medici col secondogenito di Francesco I, Enrico di Orléans, che fu poi successore del padre col nome di Enrico II. Durante il viaggio, venuto a conoscenza di nuove prepotenze del Barbarossa - che si era impadronito del regno di Tunisi, depredandone il re Mulay-Hassan - Andrea Doria decise di non trattenersi a Civitavecchia, ma di proseguire per la Sicilia, allo scopo di controllare la pericolosa attività del corsaro, resa più temibile dai mezzi navali di Turchia dei quali disponeva, e dall’appoggio di altri pirati fra i quali l’ebreo Simone di Aregie. Compiuta la missione prefissasi stava ritornando, quando ebbe notizia della morte di Clemente VII, e della nomina a suo successore di Alessandro Farnese, col nome di Paolo III.

Per fare doveroso atto d’omaggio al nuovo papa, egli si recò a Roma, dove ebbe da Paolo III calorose accoglienze. Dell’occasione approfittò per far presente al Pontefice i danni che i paesi cristiani avrebbero potuto avere dall’abusiva occupazione di Tunisi da parte del Barbarossa, e lo convinse a farsi banditore di una nuova Crociata per liberare Tunisi e il Mediterraneo, assicurando che l’Imperatore per primo sarebbe stato a fianco delle forze pontificie. Paolo III fu molto sensibile ai motivi che dettavano la nobile proposta, tanto che dichiarò di aderirvi, e proclamando il Principe difensore della fede, gli fece dono della spada che oggi si ammira in San Matteo, nonché di altri oggetti di valore.

L’Imperatore - che aveva avuto conferma di certe intenzioni del Barbarossa contro la Sicilia e Napoli - a sua volta aderì con entusiasmo alla proposta di assumere il comando della spedizione, e ordinò che tutto fosse preparato con larghezza di mezzi, e senza economia di uomini. Il Doria, cui spettò il più grande lavoro per radunare armi uomini e navi, raggiunse il suo scopo, cosicché pochi mesi dopo, e precisamente alla fine di maggio del 1535 una formidabile armata, la più grande che si fosse veduta in quei tempi, forte di oltre cinquecento vascelli, si trovò radunata nel golfo di Cagliari, per ricevere l’Imperatore, che proprio in quei giorni stava giungendo da Barcellona, per assumerne il comando. Oltre i marinai componevano la spedizione trentamila soldati per le azioni terrestri; eravi stata una gara per fornire contingenti e aiuti. Oltre ad Andrea Doria c’era don Alvaro de Bazàn con le galee spagnole, e poi le galee del Papa; Segovia, Siviglia e Toledo avevano mandato un forte contributo di danaro; la squadra portoghese era agli ordini dell’Infante di Portogallo don Luigi, fratello dell’Imperatrice. Finalmente, il 30 maggio, venne dato l’ordine di partenza, e dopo una rapida navigazione, cominciò lo sbarco presso le rovine di Cartagine.

Solo il 14 luglio, dopo aver superato una resistenza durissima, le truppe alleate poterono impadronirsi del forte della Goletta, che difendeva l’entrata del porto: ivi trovarono oltre 400 bocche da fuoco, molte delle quali, dalle imprese e dai fiori scolpiti sulle loro canne, risultarono di provenienza francese. Pochi giorni dopo, sfidando il sole cocente, e nonostante la mancanza di acqua, venne iniziata l’azione contro Tunisi dove quindicimila prigionieri cristiani, liberatisi prima dell’occupazione, volsero le armi contro i barbari, che, col Barbarossa in testa, fuggirono a Bona, per imbarcarsi poi verso il Levante.

L’imperatore entrava trionfalmente a Tunisi, dove rimetteva sul trono il Re spodestato Mulay-Hassan, che riebbe così il regno, dichiarandosi vassallo della Spagna, e lasciando a Carlo V Biserta, Bona e La Goletta. Questi, passato subito in Italia, vi ebbe in ogni città onori trionfali, che culminarono con le accoglienze di Napoli: onori ed accoglienze giustificati non solo dalla sua dignità imperiale, ma anche dal suo comportamento veramente eroico durante i combattimenti, nei quali più volte aveva corso rischio personale gravissimo. Con lui meritarono le accoglienze e gli onori i comandanti, le truppe e i marinai, ma soprattutto fu riconosciuta dall’Imperatore e da tutti, l’opera e l’azione del principe Andrea Doria, che aveva ideata, cementata e organizzata la fortunata spedizione.