Annali (Tacito)/I

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LIBRO PRIMO

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Publio Cornelio Tacito - Annali (II secolo)
Traduzione dal latino di Bernardo Davanzati (1822)
LIBRO PRIMO
II
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LIBRO PRIMO

SOMMARIO

I. Stato di Roma dalla sua fondazione alla morte di Augusto. — V. Tiberio indugia a prender l’impero, facendo lo svogliato. — Roma in servaggio. — XVI. Grave ammutinamento di tre pannoniche legioni, sedato a stento da Druso, figlio di Tiberio, là mandato. — XXXI. Simil gioco nella Germania disottana, non senza sangue e strage chetato. — L. Germanico Cesare dà contro al nemico; per sua mano Marsi, Tubanti, Brutteri, Usipeti, messi a sacco o in pezzi. — LIII. Giulia, figlia di [p. 2 modifica]Augusto, muore a Reggio. — LIV. Sacerdoti istituiti in onor d’Augusto, e feste augustali. — LV. Germanico varca di nuovo il Reno contro i Catti: a ferro e foco lor campagne, case, persone. — Scioglie Segeste dall’assedio d’Arminio; quindi gridato imperadore. — LIX. Guerra a’ Corusci: raccolti gli avanzi di Varo e de’ soldati, si fa loro l’esequie. — LXIII. Periglio de’ Romani al ritorno sotto Cecina: pur rotto e fugato per felice sortita il nemico. — LXXII. Rinnovata la legge del crimenlese, e a rigore osservata. — LXXVI. Sbocca il Tevere. — LXXVII. Licenza del teatro; indi espressi decreti de’ Padri a frenar gli strioni. — LXXIX. Trattasi in fine di torcere altrove l’acque del Tevere: ricorsi contro, e ambasciate delle città d’Italia.


Anno di Roma dcclxvii. Di Cristo 14.

Consoli. Sesto Pompeo e Sesto Apuleio.

An. di Roma dcclxviii. Di Cristo 15.

Cons. Ner. Claud. Druso Cesare e C. Norbano Flacco.


I. Roma1 da principio ebbe i re2: da Lucio Bruto la libertà e ’l consolato. Le dettature erano a [p. 3 modifica]tempo3. La podestà de’dieci4 non resse oltre due anni; nè molto l’autorità di consoli ne’ tribuni dei soldati. Non Cinna, non Silla signoreggiò lungamente. La potenza di Pompeo e di Crasso tosto in Cesare, e l’armi di Lepido e d’Antonio caddero in Augusto; il quale trovato ognuno stracco per le discordie civili, con titolo di principale5 si prese il tutto. Hanno dell’antico popol romano chiari scrittori memorato il bene e il male: nè a narrare i tempi di Augusto mancarono ingegni onorati, mentre l’ [p. 4 modifica]adulazione crescendo non gli guastò6. Le cose di Tiberio, di Caio, di Claudio e di Nerone, furono compilate false, viventi essi, per paura, e di poi per li freschi rancori. Onde io intendo riferire alcuni ultimi fatti d’Augusto; il principato di Tiberio, e altro, senza tenere ira, nè parte, come lontano dalle cagioni7.

II. Posate, morti Bruto e Cassio, tutte l’armi pubbliche; disfatto Pompeo in Sicilia; nè rimaso a parte Giulia, spogliato Lepido e ucciso Antonio, altro capo che Cesare; egli chiamandosi non più triumviro, ma consolo e del tribunato contento, per la plebe difendere, guadagnatosi co’donativi i soldati, col pane il popolo, e ognun col dolce riposo, incominciò pian piano a salire, e gli uffici far del senato, de’magistrati e delle leggi, niuno contrastante; essendo i più feroci morti nelle battaglie, o come ribelli, e gli altri nobili quanto più pronti al servire, più arricchiti e onorati: e per lo nuovo stato cresciuti, meglio amavano il presente sicuro che il passato pericoloso. Nè tale stato dispiaceva a’vassalli, sospettanti dell’imperio del senato e del popolo, per le gare de’potenti, l’avarizia de’magistrati e lo spossato aiuto delle leggi, stravolte da forza, da pratiche, da moneta.

III. Augusto per suoi rinforzi nello stato alzò [p. 5 modifica]Claudio Marcello, nipote di sorella, giovanetto, al pontificato e alla curule edilità; e Marco Agrippa, ignobile, buon soldato, compagno nella vittoria, a due consolati alla fila: e morto Marcello il si fe’genero. A Tiberio Nerone e Claudio Druso, figliastri, aggiunse titoli d’imperadori8, quando ancora erano in casa sua Caio e Lucio, nati d’Agrippa, da lui fatti de’Cesari, e in vista di recusare, ardentemente desiati dirsi principi della gioventù9, e destinarsi consoli così fanciulli in pretesta. Morto Agrippa, Lucio Cesare andando agli eserciti di Spagna, e Caio tornando ferito d’Armenia, furono da morte acerba, o trama di Livia lor matrigna rapiti: e prima era morto Druso; così de’ figliastri restò solamente Nerone. Ogni cosa a lui si rivolgeva: egli fu fatto figliuolo, compagno dell’ imperio e del tribunato, e mostrato agli eserciti tutti, non come già per artificj della madre, ma con sollecitarne alla libera il vecchio Augusto, di lei sì perduto10, che nell’isola della Pianosa cacciò Agrippa Postumo, nipote unico, [p. 6 modifica]idiota sì, forzuto e furibondo 11, ma innocente. Fece Germanico, nato di Druso, generale delle otto legioni in sul Reno, e adottarlo da Tiberio, che pure aveva un figliuolo già grande; ma si volle senza dubbio rincalzare da più lati. In quel tempo non ci restava guerra che coi Germani, più per iscancellare la vergogna del perduto esercito sotto Quintilio Varo, che per imperio allargare, o altro degno pro. La città era quieta; riteneva dei magistrati i nomi; i giovani erano nati dopo la vittoria d’Azio12 : i più dei [p. 7 modifica]vecchi per le guerre civili: e chi v’era più che avesse veduto repubblica?

IV. Rivoltato adunque ogni cosa, non vi si rivedeva costume buono antico: ognuno abbassato [p. 8 modifica]aspettava che il principe comandasse, senza darsi pensiero, mentre Augusto di buona età, sè e la casa e la pace sostenne. Venutane la vecchiaia grande, le infermità fastidiose, la morte alle spalle, e le nuove speranze, discorrevano indarno alcuni, quanto bella cosa era la libertà: molti temevano di guerra; altri la bramavano: moltissimi sparlavano de’sopravvegnenti padroni: Agrippa essere un bestione; dall’onta accanito, non di sperienza da tanto pondo: Tiberio Nerone maturo d’anni, sperto in guerra, ma ingenerato di quella superbia claudiesca, scoppiare, benché rattenuti molti segnali di sua crudeltà: aver bevuto il latte di casa regnatrice, quasi con esso in bocca esserglisi consolati e trionfi gittati a masse: non aver pure in quegli anni, ch’egli stette al [p. 9 modifica]confino di Rodi13 (alla quiete dicev’egli), altro mai che ire, infinte, e soppiatte libidini mulinato: esservi quella madre insopportabile più che donna: doversi servire a una femmina e due fanciulli, che ora questo stato premano, e un dì lo si sbranino.

V. In sì fatti ragionari Augusto aggravò: bucinossi 14 per malvagità 15 della moglie, per voce uscita, che Augusto di que’ mesi s’era traghettato nella Pianosa a vedere Agrippa, conferitolo a certi, e da Fabio Massimo solo accompagnato. Tenerezze vistesi grandi da ogni banda, e segni d’amore, perciò aspettarsi tosto il giovane a casa l’avolo. Massimo lo rivelò alla moglie; ella a Livia 16; Cesare il riseppe: Massimo tosto morì forse di sua mano, poiché nel mortorio udita fu Marzia, sè sciagurata incolpare della morte del suo marito. Che che si fusse, Tiberio entrato appena nella Schiavonia, fu richiamato per lettere dalla madre in diligenza e trovò Augusto in Nola: se vivo o morto non si seppe; perchè Livia tenne strette guardie al palazzo e a’ passi, e talora uscivan voci di miglioramento; tanto che provveduto il bisogno, un medesimo grido andò d’Augusto morto e di Nerone in possesso. [p. 10 modifica]

VI. La prima opera17 del nuovo principato fu l'uccidere Agrippa Postumo, cui sprovveduto e senza arme, il centurione, pur coraggioso, appena finì. Tiberio in senato non ne fiatò. Fingeva che il padre al tribuno, sua guardia, comandato avesse che subito l’ammazzasse. È vero che Augusto nel farlo a’ Padri confinare, disse de’ modi del giovine sconce cose; ma di far morire alcuno de’ suoi non gli patì mai l'animo, nè da credere è che lo nipote uccidesse per lo figliastro assicurare, ma che Tiberio per paura, e Livia per odio di matrigna, la morte di sì sospetto e noioso giovane18 affrettassero. Al centurione, venuto a dirgli, secondo il costume, aver fatto quanto comandò, rispose: „Ciò non fec’io; renderaine pur ragione al senato.„ Inteso ciò Crispo Sallustio, che sapeva i segreti, e ne aveva mandato al tribuno il biglietto19, temendo d’esamina pericolosa non meno20 a dir vero che falso, avvertì Livia, non si [p. 11 modifica]bandissero i segreti di casa, i consigli degli amici, i servigi de’ soldati; non tagliasse Tiberio i nerbi al principato, rimettendo a’ Padri ogni cosa: in ragion di stato, il conto non tornar mai, se non si fa con un solo.

VII. In Roma a rovina correvano al servire consoli, padri, cavalieri, i più illustri con più calca e falsati visaggi, da non parere nè troppo lieti per la morte dell’uno, nè troppo tristi per l’entrata dell’altro principe; lagrime con allegrezza, lamenti con adulazioni mescolavano. Sesto Pompeo e 21 Sesto Apuleo consoli, furono primi a giurare a Tiberio Cesare fedeltà, di poi Seio Strabone capitano della guardia, e Gaio Turranio, abbondanziere: seguitarono il senato, la milizia, e ’l popolo, facendo Tiberio d’ogni cosa capo a’ consoli, quasi la repubblica stesse in piedi, ed egli in forse di dominare; il perchè con breve e modestissimo bando, ove s’intitolò solamente tribuno fatto da Augusto, pregò i Padri che lo venissero a consigliare dell’onoranze del padre, il cui [p. 12 modifica]corpo voleva accompagnare22; nè altra pubblica cura. Morto Augusto, diede come imperadore il nome 23 alle guardie, teneva scolte, armi, e corte formata: soldati in piazza, in senato l'accompagnavano: scrisse agli eserciti come nuovo principe, nè mai andò a rìlento se non favellando in senato, per gelosia principalmente che Germanico con tante legioni, aiuti oltre numero, favor di popolo maraviglioso, non volesse anzi l’imperio, che la speranza24. Quelle lustre faceva25 per aver fama d’essere stato all’imperio dalla repubblica eletto e pregato, e non traforatovi per lusinghe di moglie e per barbogia adozione. Facevale ancora (che poi si conobbe) per penetrare i cuori de’ grandi, i cui motti e visi26 al peggio tirava e serbava.

VIII. Il primo dì del senato non volle si trattasse [p. 13 modifica]che d’onorare Augusto. Le vergini di Vesta presentarono il testamento: faceva eredi Tiberio e Livia: Livia di casa Giulia, di titolo Augusta dichiarava. L’aspettativa seconda veniva a’ nipoti e bisnipoti: la terza ai primi della città, odiati da lui la maggior parte; ma volle questa burbanza e boria ne’ posteri. I lasci furono da privato, eccetto che al popolo e alla plebe donò un milione 27 e ottanzette mila [p. 14 modifica]fiorini d’oro; a’ soldati di guardia venticinque per testa, a’ legionari romani sett’ e mezzo. Vennesi agli onori. Proposero i più notabili, Asinio Gallo, che l’esequie passassero per la porta trionfale; L. Aninzio che i titoli delle leggi fatte, e i nomi delle genti vinte da lui andassero innanzi. Val. Messala aggiugneva, che ogn’anno si rinnovasse il giuramento a Tiberio, il quale a lui volto si disse: „ Che dicesti? Holti fatto dire io?„ Rispose: „ Di mio capo l’ho [p. 15 modifica]detto, e nelle cose della repubblica non vorrò mai consiglio d’uomo, quando anco io credessi d’inimicarmiti; „ questa fine adulazione sol vi mancava. Gridando i senatori: „ Portiamolo sopra i nostri òmeri „, lo arrogante Cesare chinò il capo: e per bando il popolo ammonì, non queste esequie, come l’altre del divino Giulio scompigliassono, con lo stravolere che Augusto nel foro della ragione più che nel solito campo di Marte, a ciò deputato, s’ardesse. E vi tenne il dì dell’esequie soldati per guardia; ridendosene molto coloro, che avendo veduto o udito da’ Padri, che l’altro di dello spettacolo del morto Cesare Dettatore, per esser paruto a chi bellissimo e a chi pessimo, non riuscì ripigliare la libertà quando non era a pena inghiottita la servitù: „ Grande uopo„ (diceano) „ di soldati oggi ci ha, che lascino seppellire in pace un vecchio principe di lunga potenza, che lascia eredi con valenti artigli fitti nella repubblica!„.

IX. Quinci di esso Augusto molto si ragionò28; facendosi il volgo di cose vane le maraviglie: „In tal dì, che l’imperio prese, morì; in Nola, in casa, in camera dove Ottavio suo padre: tredici consolati ebbe egli solo, quanti Valerio Corvino e C. Mario intrambi: trentasette anni continui la podestà tribunesca; ventuna volta fu gridato imperatore; e più altri onori iterati o nuovi.„ Ma i prudenti chi in cielo, chi in terra mettevano la sua vita: „ Avere, (dicevano quelli) la pietà verso il padre, e’l bisogno della repubblica, dove le leggi non avien luogo, [p. 16 modifica]tiratolo pe’ capelli all’armi civili, le quali nè procacciar si possono, nè tener per buone vie. Per vendicarsi degli ucciditori del padre, molte cose passato ad Antonio, molte a Lepido; poiché questi marcì di pigrizia, e quegli di sue libidini pagò il fio; che altro rimedio alla discordante patria, che reggerla uno? non re, non dettatore, ma principale nella repubblica. L’imperio terminato con l’Oceano, o lontanissimi fiumi; legioni, vassalli, armate, e tutto bene concatenato; fatto ragione ai cittadini; cortesia a’ collegati; la città bella e magnifica; qualche cosetta per forza, per quiete del resto.„

X. Dicevasi voltando carta: „La paterna pietà, le miserie della repubblica erano le belle scuse; la cupidigia del dominare dessa fu che lo istigò giovinetto privato a sollevar con doni i soldati vecchj, fare un esercito; corrompere al consolo le legioni; infìntosi pompeiano, e strappato con decreto de’Padri, fasci e pretura: ammazzare Irzio e Pansa, fussesi a buona guerra, o pure Pansa d’avvelenata ferita, e Irzio da’ propri soldati d’ordine di quello, e i loro eserciti occupare; a ’ dispetto del senato farsi console; e l’armi contr’Antonio prese, contr’alla repubblica volgere, fare i cittadini ribelli, con tante spartigioni de’lor beni; incresciutone eziandio a chi gli ebbe. Le morti di Bruto o di Cassio vadano con Dio: erano nemici del padre; benché si deano per lo ben pubblico i privati odj lasciare; ma Pompeo sotto spezie di pace e Lepido d’amicizia ingannò egli pure: e Antonio per gli accordi di Taranto e di Brindisi e dalle ingannevoli nozze della sorella allettato, n’ebbe in dota la morte. Abbiamo poi avuto pace sì, ma sanguinosa; le sconfitte di Lollio e di Varo, i [p. 17 modifica]macelli fatti in Roma de’ Varroni, Egnazj e Giulj. Sindacavanlo ancora de’ fatti di casa: a Nerone menò via la moglie, e domandò per ischerno i pontefici, se ella col bambino in corpo n’andrebbe a marito con gli ordini; le morbidezze di Tedio e Vedio Pollione29. Finalmente quella Livia è una mala madre per la repubblica; peggior matrigna per casa Cesari. Volle esser celebrato ne’ tempj e nelle immagini dai flamini e da’ sacerdoti alla divina30. Or che ci resta a far agli Dii? Nè scelse mica Tiberio a successore per bene che gli volesse o per cura della repubblica; ma volse, scortolo d’animo arrogante e crudele, a petto a lui sembrare un oro31. E già gli aveva Augusto nel chiedergli a’ Padri la rafferma della [p. 18 modifica]balia di tribuno, sue fogge, vita e costumi, pur con rispetto, quasi scusandolo, rinfacciatoli.„

XI. Finita la cirimonia della sepoltura, gli s’ordinò tempio e divini uffici. Voltaronsi poi le preghiere a Tiberio: egli parlamentava della grandezza dell’imperio con la modestia sua: „Quella mente sola del divino Augusto essere stata capace di tanta mole avergli, con la parte de’ carichi impostagli, insegnato, quanto ardito e zaroso sia reggere il tutto; non dessero tutte ad uno le cure d’una città fondata di tanti uomini illustri; più compagni aiutantisi compierebbono gli affari pubblici più di leggiere.„ Scorgevasi in questo parlare di Tiberio più pompa che lealtà; le cui parole32, per natura e usanza doppie e cupe quando s’apriva, ora che a più potere si nascondeva, erano in cotante più dubbiezze e tenebre inviluppate. Ma i Padri per non parere d’intenderlo (che era la lor paura), si davano a piagnere, a lamentarsi, raccomandarsi con le braccia tese agl’Iddii, all’immagine d’Augusto, alle ginocchia di lui; quando egli fece venire e leggere uno specchietto di tutto lo stato pubblico; tanti soldati [p. 19 modifica]nostrali; tanti d’amici; tante armate, regni, vassalli, tributi, rendite, spese, donativi, tutto di mano di Augusto; aggiuntovi suo consiglio (per tema, o invidia) che maggior imperio non si cercasse.

XII. Or qui chinandosi insino in terra i Padri a scongiurar Tiberio, gli venne detto, che a tutta la repubblica non era sufficiente; ma una parte33, qual volessero, ne reggerebbe. „E qual parte, (disse Asinio Gallo)„ ne vorrestù?„ A tale non aspettata domanda stordì; poi rinvenutosi rispose: „Non convenire alla modestia sua scorre o rifiutare alcuna parte, del cui tutto vorrebbe più tosto scusarsi.„ Gallo vedutol tinto, replicò: „Aver detto qual parte, non per fargli dividere quello che non si può, ma confessare che la repubblica è un sol corpo, e la dee reggere un sol animo„. Entrò nelle laudi d’Augusto, e contò a Tiberio stesso le sue vittorie, e le sue valentie di tanti anni in toga. Nè per tanto il placò, chè l’odiava di già, come di concetti più che cittadineschi; per moglie avendo Vipsania, stata prima di Tiberio e figliuola d’Agrippa, e ritenendo l'alterigia di Pollione suo padre.

XIII. Dietro a costui L. Arunzio quasi altresì disse e offese Tiberio, benché seco non avesse ruggine prima; ma come ricco, scienziato e rinomato, ne sospettava, e per avere Augusto negli ultimi ragionamenti de’ successori discorso, che Manio Lepido sarebbe capace, ma non curante: Asinio Gallo avido, ma non da tanto: Lucio Arunzio il caso, e ardito [p. 20 modifica]vedendo il bello. De’ primi, tutti convengono; in luogo d’Arunzio pongono alcuni Gneo Pisone; e tutti, da Lepido in fuori, ne’ lacci di varie colpe, che loro tese Tiberio, incapparono. Punse ancora quel sospettoso animo il dire Quinto Aterio.„ Quanto vuoi tu, o Cesare, che la repubblica stia senza capo?„ e ’l dire Mamerco Scauro: „Il senato spera, poiché ai consoli non hai contraddetto come tribuno, che tu gli farai la grazia.„ Contro Aterio si versò immantinente: a Scauro più inviperato non rispose. Stracco, ch’ognuno sciamava, ciascun si doleva, calò, non a confessar d’accettare, ma a dire: „Orsù finiscasi tanto negare e tanto pregare34.„ Aterio andò per iscusarsi a palagio, e fu per esservi morto dalla guardia; perchè nell’abbracciar le ginocchia a Tiberio, che passeggiava, il fe’a caso, o in quelle mani incespicato, cadere: nè lo placò il pericolo di tanto uomo, sì fu da importuni preghi d’Augusta, ove ricorse, difeso.

XIV. Stucchevoli ancora erano i Padri nel piaggiare Augusta: chi genitrice, chi madre della patria la voleva appellare: molti, dopo il nome di Cesare, si scrivesse figliuolo di Giulia. Egli dicendo: Gli onori delle donne dovemi temperare, e lo farebbe dei suoi35; ma invidiando l’altezza di lei, come la sua [p. 21 modifica]aduggiasse, non le concedette pure un littore; e l'altare dell’adozione, e altre cose cotali, le tolse. Fece far Germanico viceconsolo; ambasciadori andaro a portargli il grado, e consolarlo della morte d’Augusto. A Druso, che già consolo eletto, e presente era, ciò non occorse. Dovendosi fare i pretori ne nominò dodeci; numero posto da Augusto. Il senato voleva pur ch’ei lo crescesse, ed ei giurò di nol passare.

XV. Gli squittinj si ridussero allora dal campo Marzo al Senato; perchè gli ufficj fino a quel dì s’erano dati per favori delle tribù, benché i migliori dal principe. Il popolo di tal preminenza levatagli non fece che un po’ di scalpore: al senato fu ella cara, per non avere a donare, e con indegnità dichinarsi. E Tiberio s’aonestò di proporne quattro e non più: ma vincessero senza pratiche. I tribuni della plebe chiederono di fare ogni anno a spese loro una festa da dirsi, dal nome d’Augusto, Augustale, e aggiungnersi al calendario. Fu conceduta a spese del pubblico: andassero per lo cerchio in veste trionfale, ma non in carro: quel giudice de’ cittadini e de’ forastieri, che risedesse, ne avesse l’annual cura.

XVI. In tale stato eran le cose della città, quando le legioni di Pannonia romoreggiarono; perciò solamente, che la mutazione del principe mostrava licenza d’ingarbugliare, e la guerra civile speranza di [p. 22 modifica]guadagnare. Tre legioni stavano insieme negli alloggiamenti della state sotto Giunio Bleso; il quale udita la fine d’Augusto, e’l principato di Tiberio, aveva tra per lo duolo e per la letizia, trasandato l'esercitarle. Quinci presero i soldati a svagarsi, quistionare, dar orecchi alle male lingue; finalmente cercare i piaceri e l’agio, e l’ubbidienza e la fatica fuggire. Eravi un Percennio, stato capo di commedianti poi soldatello linguacciuto; e per appiccar mischie; avvezzo già tra’ partigiani de’ recitanti, valeva tant’oro. Costui cominciò la notte o la sera a contaminare i deboli dubitanti, come sariano trattati i soldati ora che Augusto non ci era, ritiratisi i buoni; ragunata la schiuma, e preparati altri rei strumenti; quasi in parlamento gl’interrogava:

„XVII. Che tanto ubbidire, come schiavi, a quattro scalzi centurioni, e meno tribuni? Quando avremo noi cuore di rimediarci, se non affrontiamo il principe co’ preghi o con l’armi ora che egli è nuovo e balena? Dappochi siamo noi stati a tollerare trenta anni e quaranta di soldo; trovarci vecchi e smozzicati dalle ferite; non giovarci l’essere licenziati, da che siamo ritenuti all’insegne, e sotto altro vocabolo i medesimi stenti patiamo. E se alcuno avanza a tante fortune, ci strascinano in dileguo, e dannoci in nome di poderi, pantani e grillaie. Ell’è pur tribolata e scarsa questa nostr’arte: dieci assi il giorno ci vale anima e corpo; con questi abbiamo a comperar vitto; vestito, armi, tende, misericordia da’ centurioni, e un po’ di risquitto. Sempiterne si son le mazzate, le ferite, i verni crudi, le stati rangolose, la guerra atroce, la pace tapina: e’ bisogna sgravarci con patti chiari; che ogni dì ci venga un denaio [p. 23 modifica]intero36; servasi sedici anni: non si passi; non si resti all’insegne: il ben servito ci si snoccioli di contanti37 in sul bel del campo. I soldati di guardia che toccano duo danari, e dopo sedici anni se ne tornano, portan forse pericoli più di noi? Non si biasimano le guarnigioni della città; pure tra genti orribili stiamo noi, e veggiamo dalle tende il nemico in viso.„

XVIII. Fremevano i soldati, e s’accendevano rimproverando i lividi, i peli canuti, i panni logori, i corpi ignudi. E vennero in furia tale, che vollon fare delle tre legioni una; ma l’onore del nome, che ciascuno voleva dare alla sua, guastò. Mutato pensiero, piantano insieme le aquile con loro insegne, e rizzano di piote un tribunale38 alto, perchè me’ si vedesse. Sollecitandosi l’opera, Bleso vi corse, e riprendeva, riteneva e gridava: „imbrattatevi anzi del mio sangue: minor male fìa il Legato uccidere, che dall’imperador ribellarvi: o vivo vi terrò in fede, o scannato v’affretterò il pentimento.„

XIX. E pure le piote crescevano, e già erano a petto d’uomo, quando al fine, vinti da pertinacia lasciarono stare. Bleso con parole destre mostrò: „Non dovere essi con sedizioni e scandoli fare [p. 24 modifica]intendere a Cesare i loro desiderj: non avere gli antichi a’ loro imperadori, ned eglino ad Augusto, fatto domande sì nuove. Male avere scelto il tempo a calcare di pensieri il principe a prima giunta. Se pur tentavano nella pace cose nè pur sognate nelle vittorie civili, perchè volerle per forza contro all’usata ubbidienza, contr’alla legge della milizia? Facessono ambasciadori, e loro dessono le commessioni in sua presenza.„ Sia sia il figliuolo di Bleso gridarono, e chiegga la licenza dopo i sedici anni; avuta questa, commetterieno il rimanente. Il giovane andò; e quetarsi alquanto; ma insuperbiti, che il figliuolo del Legato, trottato a difenderli, chiariva bene essersi avuto per filo quello che con le buone non si sarebbe ottenuto.

XX. In questo tempo, le masnade innanzi al sollevamento mandate a Nauporto per acconciare strade, ponti e altro, udendo il tumulto del campo, danno di piglio all’insegne, saccheggiano que’ villaggi, e Nauporto stesso, ch’era come una buona terra. Volendo i centurioni rattenergli, te li pagano di risate, d’oltraggi, di bastone; adirosissimi contr’Aufidieno Rufo, maestro del campo, cui tiran fuora della carretta, carican di fardelli e innanzi cacciatolsi, gli domandano per istrazio; Chenti paressero a lui quei paesi bestiali e lunghi cammini? Conciossiachè Rufo, stato assai tempo fantaccino, poscia centurione, indi maestro del campo, rinovava la dura milizia antica; da’ lavorii e fatiche non rifinava39, e per averle durate egli, più crudo era. [p. 25 modifica]

XXI. Per lo costoro ritorno, la sedizion rifiorisce e sbaragliati saccheggiano que’ contorni. Bleso ubbidito per ancora da’ capitani e da’ migliori soldati, a terrore degli altri, alcuni più di preda carichi, ne frusta, e incarcera. Fannosi strascinare, abbracciano le ginocchia de’ circostanti, chiamanli per nome, gridano: „Io sono il tale, della centuria, coorte, legione cotale; sarà fatto così a voi„: dicono ogni brobbio al Legato, invocano il cielo, gl’Iddii, ogni cosa fanno per muovere odio, misericordia, ira e paura. Accorron tutti; spezzano le prigioni, scatenano, e tra loro mescolano i truffatori, i sentenziati a morte.

XXII. Il che raccese la rabbia, e fece scoprire molti capi. Un certo Vibuleno, soldato di dozzina, dinanzi al tribunal di Bleso, salito sopra le spalle d’alcuni, fece gente correre, e disse: „Ben’aggiate voi, che venduto avete la vita a questi cattivelli innocenti; ma chi la rende al fratel mio? il fratel mio chi lo rende a me? che’l vi mandava l’esercito di Germania per li comuni comodi, e costui l’ha fatto scannare dalli scherani suoi, che per far morire [p. 26 modifica]i soldati, tiene e arma. Rispondi Bleso, dove hai tu il corpo gittato? i nemici stessi non niegano sepoltura. Lascialmi baciare, bagnar dì lagrime, sfogare il duolo; e poi anche me squarta; purché costoro noi seppelliscano, ammazzati, non per misfare ma per procurare l’utile delle legioni.„

XXIII. Aiutava le parole col piagnere, col darsi delle mani nel viso e nel petto. Allargatisi que’che’l reggevano, cadde, e voltandosi tra i piedi alla gente, messe tanto spavento e odio, che i soldati si difilarono chi a legare li scherani e l'altra famiglia di Bleso, chi alla cerca del corpo. E se tosto non si chiariva, nè corpo morto trovansi, nè i servi collati confessare l'uccisione, nè colui aver mai avuto fratello, poco stavano a uccidere il Legato. Cacciaron via bene i tribuni e ’l maestro del campo, a’ quali nella fuga tolsero le bagaglie: e vi mori Lucilio centurione detto per facezia soldatesca il Quallaltra, perchè l’Otta in su’l dosso al soldato l'una vite40 gridava: Qua l'altra, e poi: Qua l’altra. Gli altri furono trafugati, ritenuto solo Clemente Giidio, perchè portava bene l’imbasciate de’ soldati per lo pronto ingegno. Erano ancora per azzuffarsi la legione ottava chiedente Sirpico centurione per ammazzarlo, e la quindicesima lui salvante; se la nona non vi si frammetteva coi preghi, e, non giovando, con le minacce.

XXIV. Mossero questi avvisi Tiberio, benché coperto, e i maggior dispiaceri dissimulante, a [p. 27 modifica]mandarvi Druso suo figliuolo, co’ primi della città, con due coorti rinforzate, fiore della guardia, senz’altra commessione che di fare secondo volesse il bisogno. Aggiunsevi gran parte de’ cavalli di guardia, col nerbo di Germani41, che allora la persona guardavano dello imperadore. Elio Seiano capitano della guardia, gran favorito di Tiberio, e Strabone suo padre, dati furono al giovane per tener lui ammaestrato, e gli altri in timore e speranza. A Druso, già vicino, andaro incontro quasi a far riverenza le legioni, non gaie al solito, nè con le insegne folgoranti; ma lorde e con visi, benché acconci a mestizia, più veramente cagneschi.

XXV. Quando e’ fu entro allo steccato, metton guardie alle porte, armati alle poste; gli altri in gran numero accerchiano il tribunale. Stava ritto Druso, e con la mano chiedeva silenzio. Essi quando giravan l’occhio alla loro moltitudine levavano mugghio efferato: quando a Cesare, allibbivano; un bisbigliare non inteso, stridere atroce, chetarsi a un tratto (movimenti contrarj d’animo) li mostravano tremorosi o tremendi. Allentato il tumulto, lesse la lettera del padre, che diceva: „Essergli più di tutte a Cuore quelle fortissime legioni, con cui sostenuto avea tante guerre; posato che avesse l’animo dal dolore, tratterebbe co’ Padri le loro domande: intanto mandava il figliuolo a consolarle di quanto allora si potesse; il rimanente serbava al senato, non si potendo torgli la sua ragione delle grazie e dei gastighi„. [p. 28 modifica]

XXVI. La turba rispose, che Clemente centurione sporrebbe l’animo loro. Egli disse della licenza dopo i sedici anni, del ben servito, dell’un denaio il dì, del non rimanere all’insegne. Dicendo Druso, che a queste cose ci voleva l’ordine del senato e del padre; fu dalle grida interrotto: „A che venirci senza poterci crescer paghe, scemar fatiche, far ben veruno? Flagellare sì, e uccidere ci puote ognuno. Già soleva Tiberio, con allegare Augusto, far ire in fumo i desideri delle legioni; or ci vien Druso con la medesima ragia. Haccis’egli sempre a mandar pupilli? Che è ciò, che l’imperadore appunto i comodi dei soldati rimetta al senato? Quando li mandano a giustizia o a combattere, perchè non sen’aspett’egli il compito altresì dal senato? Hannocisi a dare i premj passati per le filiere de’ consigli, e i gastighi alla cieca?„

XXVII. Partonsi dal seggio; ad ogni soldato di guardia, o amico di Cesare, ch’ei s’avvengano, vanno con le pugna in sul viso per cagionar quistioni, origine di venire all’arme; niquitosissimi contra Gneo Lentulo, creduto più degli altri, per l’età e gloria dell’armi, governar Druso, e tanto disordine di milizia abborrire. Vistol fuori con Cesare e avviato, per fuggire il pericolo, agli alloggiamenti del verno, l'accerchiano, e dimandano, „Ove si va? all’imperadore, o a’Padri, a guastare anche quivi i comodi delle legioni?„ Vannogli addosso coi sassi; e già era sanguinoso e spacciato, se gente di Druso noi soccorreva.

XXVIII. Minacciava quella notte di molto male, cui la sorte addolcì. La luna, facendosi il cielo quasi [p. 29 modifica]più chiaro di lei, pareva venir meno42. I soldati, che la ragione non ne sapevano, la presero per lor augurio, credendo mancare il pianeta per le loro travaglie, e dover ben riuscire se la Iddea ralluminasse. Dato adunque nelle trombe, cembali e corni, secondo che ella più chiara o più scura, essi lieti o tristi faciensi. Tornò il nugolato, e la coperse, e que’ pensarono (come fa la paura correre alla religione), per essersi riposta nelle tenebre, dover essi travagliar sempre; dolenti d’avere gl’Iddi sdegnati per lor misfare. Parve a Cesare da valersi di tal rimorso, e fare della sorte saviezza. Manda gente alle tende, Clemente, e altri buoni e grati a tramettersi [p. 30 modifica]tra le scolte, tra le poste, tra le guardie delle porte a impaurire e innanimire. „Quanto terremo noi il figliuolo dell’imperadore assediato? che fine avranno le contese? giureremo noi ubbidienza a Percennio e Vibuleno? daranno questi le paghe a’ soldati, i terreni a’licenziati? reggeranno, in vece di Neroni e Brusi, l’imperio del popol romano? Chieggiamo piuttosto perdono, non insieme, ma quelli i primi, che colpammo i sezi. Le grazie chieste in comune vengono a piè zoppo: ciascun di per sè, non prima la inerita, ch’egli l’ha.„ Da cotali parole punti e insospettiti tra loro, sceverano i vecchi da’ novelli, legione da legione: torna la voglia dell'ubbidire; lascian le porte; riportano a’lor luoghi le male accozzate insegne.

XXIX. Druso la dimane chiamò a parlamento: e così senz’arte con generosità naturale, biasima i primi fatti, loda i presenti, niega potere in lui spauracchi; se saran savj, se chiederanno mercè, scriverà a suo padre che si plachi, e le sue legioni esaudisca. Ai lor preghi si mandaro a Tiberio quel medesimo Bleso, L. Apronio, romano cavaliere della coorte di Druso, e Giusto Catonio, centurione di primo ordine. Disputossi assai; volendo chi tenere addolciti i soldati fino al ritorno de’ messaggi, chi forti ripari usare. Il popolazzo, o asso o sei43: è tremendo al di sopra, ridicolo impaurito. Or che gli fruga la paura [p. 31 modifica]del cielo, crescala chi comanda con l’uccidere i capi. Druso, che pendea nel crudele, fece Vibuleno e Percennio a sé venire e ammazzare; e i corpi, i più dicono sotterrare nel padiglion suo, altri gittar fuora del palancato a mostra.

XXX. Ritrovati furo i più scandalosi, e parte dai Centurioni e soldati di guardia fuor del campo alla spicciolata tagliati a pezzi, e parte dalle proprie compagnie dati, per mostrar fede. Accrebbe l’angosce de’ soldati il verno primaticcio, con piogge continove, e tali rovinose, che nè uscir delle tende poteasi, nè ragunarsi: a fatica le insegne campare dalle solate del vento e dell’acqua; e durava quel timore dell’ira del cielo. „Non accaso, diceano, abbacinarsi le stelle, rovesciar le tempeste sovra loro empj. A tanti mali altro rimedio non essere, che uscir di quel campo maladetto, e tornar ciascuno ribenedetto alle stanze.„ Tornaronvi prima l’ottava legione, poi la quindicesima. La nona, (che gridava: „Aspettinsi le lettere di Tiberio„) lasciata in Nasso, fece della necessità virtù; e Druso senz’aspettare i mandati, essendo le cose posate, a Roma se ne tornò.

XXXI. Quasi ne’ medesimi giorni per le medesime cagioni le legioni di Germania s’abbottinarono, più violente per esser più e sperar che Germanico Cesare non patirebbe superiore, e datosi a loro si trarrebbe dietro ogni cosa. Erano a riva di Reno due eserciti; governati, l’uno detto di sopra, da G. Silio Legato, l’altro disotto, da A. Cecina, tutti sotto Germanico intento allora a catastar le Gallie. I soldati di Silio stavano sospesi a veder l’esito dell’altrui sollevamento; ne’ disottani entrò la rabbia e [p. 32 modifica]cominciò dalle legioni ventunesima44, e quinta, che seco trassero la prima e la ventesima a’ confini degli Ubj insieme alloggiate, e poco o niente affaticate. Or quando s’intese la fine d’Augusto, una marmaglia ragunaticcia45 poco fa in Roma da buon tempo, non da fatica, incominciò i men pratichi a sommuovere: „Tempo esser venuto da farsi dare i vecchi presta licenza, i giovani miglior paga, tutti meno angherie, e pan per focaccia rendere a questi cani centurioni.„ Non un solo Percennio, come in Pannonia; nè a soldati veggentisi più forti eserciti a ridosso, ma molti a viso aperto alzavan le voci. „Essere lo stato di Roma in man loro; crescere la repubblica per le vittorie loro, e gl’imperadori cognominarsi da loro„.

XXXII. Nè il Legato vi riparava, perchè la follia di tanti lo sbigottiva46. Con le spade ignude, come pazzi, s’avventano a’ centurioni, che sempre furon bersaglio, e primo sfogo degli odj soldateschi, e per [p. 33 modifica]terra te gli sbatacchiano; sessanta addosso a uno, che tanti centurioni vanno per legione, e quelli storpiati, sbranati o morti, scaglian fuori del palancato, o in Reno. Settimio, fuggito al tribunale, fra i piè di Cecina sì chiesto fu, che bisognò darlo alla morte. Cassio Cherea, famoso poi per l’uccisione di C. Cesare, allora giovanetto e fiero, si fece tra le punte degli armati la via col ferro. Nè tribuno, nè il maestro del campo, vi ebbero più potere; le guardie, le scolte e se altro ordine v’era, si spartivan da loro. Segno di grande, e non placabile movimento, agli alti intenditori de’ militari animi, fu il vederli non isbrancati, nè stigati da pochi47, ma uniti accendersi, uniti chetarsi, sì eguali e fermi, che pareano aver capo.

XXXIII. In questo mezzo, Germanico, che pigliava l’estimo delle Gallie, com’è detto, ebbe la nuova della morte d’Augusto; la cui nipote Agrippina aveva per moglie, e di lei più figliuoli: di Druso, fratel di Tiberio, nato era e nipote d’Augusta, nondimeno travagliatissimo, perchè questi, avola e zio, in segreto per cagioni inique, perciò più crudelmente l’odiavano: queste erano, che il popolo romano adorava la memoria di Druso, credendosi, che se avesse regnato egli, avrebbe renduta la libertà48. Quinci era la medesima grazia e speranza di Germanico: [p. 34 modifica]bonario giovane, affabile; rovescio di quel burbero viso, e scuro parlar di Tiberio. Eranci poi l’izze donnesche. Livia si sarebbe rosa Agrippina; questa era sensitiva; ma la castità e l’amore al marito la medicavano della troppo alta testa.

XXXIV. Ma Germanico, quanto più alla somma speranza vicino, tanto più a Tiberio infervorato, gli fece da’ vicini Sequani è dai Belgi giurare omaggio: e udito che le legioni tumultuavano, vi corse battendo. Ferglisi incontro fuor del campo quasi ripentite con gli occhi bassi. Quando ei fu dentro alle trincee, usci un suono di lamenti scordato; chi la mano presogli, quasi per baciare, si metteva quelle dita in bocca, per fargli tastare le gengie senza denti; altri gli mostrava le schiene gobbe per vecchiaia. Standoli intorno rinfusi, comandò che ciascuno rientrasse nella sua compagnia con loro insegne innanzi, per meglio esser udito, e le coorti discernere. Penarono a ubbidire. Egli venerato prima Augusto, venne alle vittorie e trionfi di Tiberio; celebrò con stupore le geste di lui in Germania con quelle legioni; alzò al cielo il consentir dell’Italia, la fedeltà delle Gallie, il non essersi altrove sentito un disparere, un zitto.

XXXV. Con silenzio, o poco mormorio, udirono insin qui. Venuto alla sedizione: „Dov’è la modestia de’ buon soldati? dov’è l’onore dell’antica milizia? che’ avete voi fatto dei tribuni? che de’ centurioni?„ Si spogliano ignudi, rimproverano le [p. 35 modifica]margini delle ferite, i lividi delle bastonate: diceva un tuono di varie voci: „Male aggiano le compere dei risquitti, le paghe scarse, il lavorare arrangolato, a trincee, fossi, fieni, legnami, materie, bastioni e che altro vuole bisogno o esercizio.„ Atrocissime grida uscivano dai vecchi, i quali allegando trent’anni di servito, e più, chiedevano riposo per mercè: e di non morire in quelle fatiche, ma finire con un poco da vivere sì duro soldo. Ebbevi chi domandi il lascio d’Augusto a Germanico, agurandogli e offerendogli, s’ei lo volesse, l'imperio. A questo, come tentato di fellonia, si scagliò dal tribunale; e andandosi via, gli voltaron le punte con minacciarlo, se ei non tornava; ma egli sciamando: „Prima morire, che romper fede„; sguainato lo stocco, l’alzò: e ficcavatosi nel petto, se non gli era tenuto il braccio. I diretani uditori adunati, e alcuni soli passati innanzi, e accostatiglisi ( non si può, quasi credere ) diceano: „Ficca, ficca49!„ e un soldato, detto [p. 36 modifica]Clausidio, gli porse il coltel suo, dicendo: „Questo è più aguzzo„. Atto barbaro e di pessimo esempio paruto insino a quelli stessi arrabbiati, che diero agli amici di Cesare agio a dargli di piglio, e portarlo nel padiglione.

XXXVI. Quivi si fece consiglio; intendendosi che mandavano messaggi all’esercito di sopra per tirarlo dalla loro: volevano spianar la terra degli Ubj; e arricchiti romper nelle Gallie a predare, abbandonata la riva, che era il peggio; perchè il nemico, di tal disordine nostro avvisato, l’occuperebbe; andandosi con forze forestiere a rattenerli, eccoti una gran guerra civile. Pericoloso il rigore; brutta la pazienza, tutto o nulla concedere, ripentaglio della repubblica. Bilanciato il tutto, si fecero lettere in nome del principe: Che chi avesse servito vent’anni, se n’andasse: chi sedici, benemerito fusse, ma rimanesse alle ’nsegne solamente a difesa; il lascio si pagasse a doppio50. [p. 37 modifica]

XXXVII. Conobbe il soldato che ciò era pasto per trattenere, e chiedeane spedizione. I tribuni spacciavano le licenze, il contante si prolungava al ritorno loro nelle guarnigioni. Non fu vero che della quinta nè della ventunesima si volesse alcuno muovere; sì fu quivi la moneta contata, raggranellata da Cesare delle spese per suo vivere e degli amici. Cecina ridusse negli Ubj la legion prima e la ventesima; con brutto vedere tra l’insegne e tra l’Aquile sagre portarsi i cofani di quella moneta rapita all’imperadore; Germanico andò all’esercito di sopra, e fece giurare le legioni seconda, tredicesima e sedicesima incontanente; la quattordicesima nicchiò; fu offerto, benchè non chiesto, il denaio e la licenza.

XXXVIII. I soldati d’insegna delle due legioni scredenti, stanziati, ne’ Cauci, cominciarono a levare il capo: gli attutò alquanto il subitane supplizio che Mennio, maestro del campo, a due soldati diede, con più buono esempio che autorità, onde la furia riscaldò; fuggissi: fu trovato: e fallitoli il nascondere, si salvò con l’ardire 51, e disse: Che tal violenza non si faceva al maestro del campo, ma a Germanico lo generale, a Tiberio lo imperadore. E spaventandosi i resistenti, arrappò l’insegna e trasse verso la riva gridando: „Chi uscirà d’ordinanza, [p. 38 modifica]abbiasi per fuggitivo;„ così li ridusse alle stanze turbati e quatti.

XXXIX. Gli ambasciadori del senato52 a Germanico lo trovarono già tornato all’altare degli Ubj; ove le due legioni, prima e ventesima, e i vecchi nuovamente messi alle insegne, snervarono. Il peccato e la paura lor fece pensare, i Padri avergli mandati a frastornare quanto s’era tirato per la sommossa: e come è vago il popolo di coglier cagioni, benché false, trovano a dire: che Munazio Fianco, seduto consolo capo dell’ambasceria, esso fu che ne fe’ fare il partito: e la notte in sul primo sonno cominciano a chiedere il gonfalone53, che stava in casa Germanico; e corsi alla porta, l’abbattono, e lui del letto tratto, minacciandogli morte, lo si fan dare; e scorrendo per le vie, s’intoppano negli ambasciadori, che udito il frangente di Germanico, a lui traevano, e svillaneggianli: metton mano a ucciderli e Planco spezialmente, cui fuggir non lasciò la sua dignità: ma ritirossi in franchigia all’insegne e all’Aquila della legion prima; le quali abbracciando54, si difendeva con la religione: e se Calpurnio [p. 39 modifica]alfier dell’Aquila, non sosteneva una estrema carica, avrebbe, (cosa rara tra i nimici) l’ambasciador romano, nel campo romano, col sangue suo imbrattato i divini altari. Al dì chiaro, quando il generale, i soldati e i fatti si scorgeano. Germanico entrò nel campo, e fatto Planco a sé venire e seder allato nel tribunale maladisse quella l’abbia fatale che rimontava: non perirà de’ soldati, ma degl’Iddii, disse; perché venuti erano gli ambasciadori, l’ambasceria violata, il grave caso indegno di Planco, l’onta fattasi: quella legione con facondia compianse. E lasciatigli attoniti più che quietati, ne rimandò gli ambasciatori con iscorto di cavalli stranieri.

XL. In tanto periglio ognuno biasimava Germanico, che non tornasse all’esercito disopra ubbidiente, e aiuto contro a’ ribelli: „Essersi pur troppo errato con tante licenze, paghe e fregagioni; se di sè non cura, perchè tenere il picco! figliuolo, e la moglie gravida tra quelle furie, d’ogni ragióne violatrici?„ Renda all’avolo e alla repubblica questi almeno. Egli dopo molto pensare, con molte lagrime abbracciando quel figlio e’l ventre di lei recusante, e ricordante che nata era d’Augusto, e ne’ pericoli non tralignava, la svolse finalmente a partire. Fuggivasi miserabile donnesco stuolo: la moglie del generale col figliuolino in collo; piangendole intorno le donne de’ cari amici lei seguitanti, e non meno le rimagnenti. [p. 40 modifica]XLI. Non di possente Cesare, nè nel proprio esercito, ma di sforzata città era ivi faccia: stridore e pianto, che gli occhi e gli orecchi attrasse ancora de’ soldati. Escono dei padiglioni; che piagnisteo! che sì dolente spettacolo! Donne illustri senza guardia di centurioni o soldati, senza corte, senz’arredo da imperatrici, marciano a’ Treviri, agli strani. La vergogna, la pietà, la rimembranza dell’essere stato Agrippa padre, Augusto avolo, Druso suocero: sì bella prole, tanta onestà: e quel figliuoletto nel loro esercito, nato, e tra loro allevato, e con vocabolo soldatesco, detto Caligola, cioè Calzarino, portando egli, per aggraduirsi i soldati menomi, i loro calzari55; ma sopra tutto l’invidia verso i Treveri, gli rimorse. La pregano, rattengono; torni, ristea; corrono a lei, tornano a Germanico, il quale da loro circondato, di fresco dolore e d’ira pieno, così cominciò:

XLII. „La moglie e’l figliuolo non mi sono più del padre e della repubblica a cuore. Lui la sua maestà, l’imperio romano, gli altri eserciti, difenderanno. Loro vi darei volentieri, se l’ammazzargli vi fusse gloria. Ma io li canso del vostro furore, acciocché se altro male a far vi resta, lo lavi il mio sangue solo: nè l’uccidere il nipote d’Augusto e la nuora di Tiberio, vi facci più rei. E che ardito o corrotto a questi giorni non avete voi? Come vi chiamerò io56? Soldati? che avete di steccato e d’ [p. 41 modifica]armi attorniato il figliuolo del vostro imperadore? Cittadini? ch’avete calpesta l’autorità del senato, e rotto quel che s’osserva a’ nemici, la santa ambasceria e la ragione delle genti? Il divino Giulio rintuzzò la sedizion del suo esercito col dir solo: Ah Quiriti57! a coloro che non gli davano il giuramento. Il divino Augusto col piglio e con lo sguardo atterrì ad Azio le legioni. Noi non siamo ancor quelli, ma nati di quelli; e se il soldato spagnuolo o soriano, ci schifasse, sarebbe strano e indegno; ma può egli essere, che la legion prima creata da Tiberio, e tu, ventesima, meco stata in tante battaglie, tanto guiderdonata, rendiate questo bel merito al vostro capitano? Ho io a dar questa nuova a mio padre, che da tutte altre bande l’ha buone, che i suoi nuovi, che i suoi vecchi soldati, non di licenze, non di moneta son sazj? Che qui non si fa che uccider centurioni, cacciar via tribuni, racchiuder ambasciadori? Son tinti di sangue gli alloggiamenti, i fiumi; e io tra’ nimici ho la vita per Dio?

XLIII. „Deh perchè ’l primo dì che io arringai, mi storceste voi di mano quel ferro che io mi ficcava nel petto, o imprudenti amici? Meglio, e più caramente, fece colui che mi porse il suo. Io [p. 42 modifica]moriva senza sapere del mio esercito tanti misfatti. Voi avreste eletto un altro capitano a vendicare, se non la mia, la morte di Varo e delle tre legioni; che a Dio non piaccia, che i Belgi, quantunque offerentisi, abbiano vanto e splendore d’aver soccorso il nome romano, e fatto i popoli di Germania sottostare! La mente tua, o divino Augusto, accolta in cielo: l’immagine tua e la memoria di te, o padre Druso, insieme con questi soldati, ne’ quali già entra vergogna e gloria, lavino questa macchia, e facciano le civili ire sfogare in ispegnere i nimici! Voi, cui ora veggio altre facce, altri cuori, se volete, rendere al senato gli ambasciadori, all’imperadore l’ubbidienza, a me la moglie e ’l figliuolo, non toccate gl’infetti, separatevi dagli scandalosi. Questo vi terrà fermi nel pentimento, legati nella fede„.

XLIV. Con le mani alzate confessando troppo veri i suoi rimproveri, supplicavano che punisse i malvagi; perdonasse agli erranti; conducesseli contro ’l nemico; richiamasse la moglie; rendesse alle legioni il loro allievo; nè si desse per ostaggio a Galli. Rispose: „Che Agrippina si scusasse per lo vicino parto e per lo verno: tornerebbe il figliuolo„; il resto rimise in loro. Tutti rimutati scorrono, e i più scandalosi legano e tirano a Cetronio, della legion prima luogotenente, il quale gli giudicò e punì in tal guisa. Stavano le legioni con le spade ignude a udire: il tribuno mostrava il cattivo in un rialto: se que’ gridavano: Egli è reo, era pinto giù e smembrato58: e ’l soldato ne godeva, quasi con l’uccidere altrui [p. 43 modifica]sè prosciogliesse; e Cesare gli lasciava fare; perchè non essendosene imbrattato, la rabbia rimaneva tra’ cani. Seguitarono i soldati vecchi l’esempio; e poco appresso furon mandati in Rezia sott’ombra di difendere la provincia da’ soprastanti Svevi: ma in fatto per isbarbarli da quegli alloggiamenti, dove ancora stavano intorati per l’aspro gastigo e per la rea coscienza. Germanico rassegnò i centurioni in questa maniera: Venivagli dinanzi il chiamato, e diceva suo nome, grado, patria, anni di milizia, prove fatte, doni avuti. Se i tribuni d’accordo co’ soldati lo dicevano prode e buono, era raffermato; se avaro e crudo, cassato.

XLV. Quietate così le cose, ci restava non meno da fare, con le due feroci legioni, quinta e ventunesima, svernanti alle Vecchie, luogo indi lontano sessanta miglia; le prime a levare in capo; de’ maggiori eccessi commettitrici; bizzarre ancora, nè spaventate per la pena, nè ricredute per lo pentere delle compagne. Cesare adunque mette a ordine arme, legni aiuti, per iscendere per lo Reno a combatterle, non volendo ubbidire.

XLVI. Tutta Roma sentendo innanzi al posamento d’Illiria il movimento di Germania, andò sozzopra, levando i pezzi di Tiberio, che mentre con quella sua canzone del non accettare beffava i Padri fieboli e la plebe disarmata, gli eserciti intanto si ribellavano e credeva correggerli con duo scurisci teneri di duo’ fanciulli. In persona doveva ire, e affacciarsi con la maestà imperiale; avrebbon ceduto alla vista del principe sommamente sperto, rigido e rimunerante. Ben potè Augusto vecchio e stracco, tante volte ire in Germania: costui, fresco, pro’, si [p. 44 modifica]siede in senato a stiracchiare le parole de’ Padri! La città è tale imbrigliata, ch’ei può andare a dar pasto agli animi militari, per farli stare nella pace alle mosse.

XLVII. Contro a sì fatti parlari, Tiberio più s’ostinò di non volere, lasciando il capo dell’imperio, sè, e quello arrischiare. Molti contrarj lo combattevano: „L’esercito di Germania è più possente, quel di Pannonia più vicino: quelli è fatto forte dalle Gallie, questi a cavaliere all’Italia. A quale andrò, che l’altro disfavorito non s’accenda? Coi figliuoli, visiterò l’uno e l’altro salva la maestà, da lontano più reverenda59. I giovani rimettendo alcune cose al padre, saranno scusati; potrà egli, chi contrastasse a Germanico o a Druso, mitigare o abbattere; sprezzato l’imperadore ove ricorreremo?„ Nondimeno come fusse60 in sul partire, fece sua corte, provvide salmeria e legni armò, ma ora allegando il verno, [p. 45 modifica]ora i negozj, poco i saggi, più il volgo, a dilungo le province ingannò.

XLVIII. Germanico era con l'esercito in punto per gastigare i ribelli; nondimeno per dar loro ancora spazio di rinsavire col fresco esempio, scrisse a Cecina: che veniva poderoso; se non avranno gastigato i ribaldi, girerà la spada a tondo. Cecina inostrò la lettera segretamente agli alfieri e a’ più netti, pregandoli a liberar ognun dall’infamia, e sè stessi dalla morte, che nella pace si dà a chi la merita, ma nella guerra muoiono buoni e rei. Costoro trovando ben volti i più, indettato chiunque parve più atto; di volontà del legato ordinano contro a’ più audaci felloni un Vespro Siciliano61; e datosi il segno, saltano ne’ padiglioni, e taglianli a pezzi senza sapere, se non gl’indettati, perchè.

XLIX. In quante civili arme fur mai, non si vide tal cosa; uscire non a battaglia, non di nimica oste, ma da’medesimi letti, Ove avevano insieme il di mangiato62, la notte dormito, recarsi in parte, tirarsi colpi. Quivi strida, ferite, sangue manifesto, [p. 46 modifica]cagione occulta; giucava la sorte: e vi periron de’ buoni. Poichè visto chi si voleva, anco i pessimi presero l’armi. Nè legato, nè disse tribuno: Non più, ma lasciarli l’un l’altro gastigarsi, saziarsi. Gemanico entrò nel campo, e con molte lagrime appellando quella non medicina, ma sconfitta, fece ardere i corpi. In quelli ancora accaniti animi entrò smania d’andare addosso a’ nimici; vera purga, diceano, di lor pazzia: nè potersi l’anime de’ compagni morti placare, se non ricevendo negli empj petti gloriose ferite. Cesare secondando l’ardore, gittò un ponte, e passò dodicimila fanti nostrali, venzei coorti d’aiuti, otto bande di cavalli, state modestissime in quei romori.

L. Poco lontano erano i Germani tutti allegri, vedendoci prima nelle ferie d’Augusto, poi nelle discordie impaniati. Ma i Romani a gran passi attraversata la Selva Cesia, in sul termine da Tiberio cominciato accampano, e fortificano la fronte e le spalle di steccato, i fianchi di tagliate d’alberi. Indi passano la buia foresta e consultano, tra le due vie, quale da tener fusse, la corta e usata o l’impedita e dismessa, e perciò non guardata da’ nimici. Presero la lunga con affrettare il restante; perchè gli spiatori riferivano, quella notte i Germani essere in solenne festa, conviti e giuochi. Cecina fu mandato innanzi con gente leggiera a diboscare il cammino; seguitavano poco addietro le legioni favorite dal sereno della notte: arrivati a’ borghi de’ Marsi, accerchiano le poste: trovangli per le letta e lungo le mense spensierati, senza sentinelle, nè ordine di guerra, in una sciocca pace ancora avvinazzati poltrire.

LI. Cesare, perchè le avide legioni predassero più [p. 47 modifica]paese, le spartì in quattro punte; cinquanta miglia di ritorno misero a ferro e fuoco; non si guardò a sesso, età, sagro o profano: e quel Tanfana, loro famosissimo tempio, fu disolato, de’ nostri niun ferito, avendoli tagliati come pecore sonnacchiosi, disarmati e sfilati. A tanta strage si levaro i Brutteri, Tubanti e Usipeti; e presero i boschi, onde l’esercito poteva tornarsene. Del che avvisato il capitano, marciò in battaglia; parte della cavalleria, con la fanteria d’aiuto innanzi; seguitava la legion prima: a sinistra con le bagaglie in mezzo la ventunesima; a destra la quinta e la ventesima alle spalle; il resto dei forestieri alla coda. I nimici fermi gli lasciarono imboscare; poi bezzicata la fronte e i fianchi, corsero con tutto lo sforzo alla coda, e con serrate frotte rompevano i fanti leggieri; quando Cesare spronò ai Ventesimani, e gridò: „Ora è il tempo di scancellar la sedizione; su via, convertite la colpa in gloria.„ Avventansi affocati al nimico, e quello incontanente rotto e spinto nell’aperto, ammazzano; la vanguardia subitamente uscì del bosco e affurzossi. Il cammino fu poi quieto: e i soldati affidati nei fatti ultimi, con dimenticanza de’ primi, furono rimessi alle stanze.

LII. Tali avvisi diedero a Tiberio allegrezza e pensiero. Rallegravasi della sedizione spenta; ma l’essersi Germanico, sbraciando danari e licenze, procacciato il favor de’ soldati, e la cotanta sua gloria di arme, lo trafiggevano: pure in senato contò le cose seguite, e molto disse della virtù di lui con parlare stimato più bello che di cuore. Lodò Druso, e la fine del movimento d’Illiria con meno parole, ma più [p. 48 modifica]calde e vere: e quantunque fu largheggiato da Germanico, ancora in Pannonia mantenne.

LIII. Nel detto anno morì Giulia, confinata per sue disonestà da Augusto nell’isola Pandateria, poi a Reggio in su lo stretto del mare di Sicilia. Fu moglie di Tiberio, viventi Caio e Lucio Cesari, e lo sfatava come da meno; cagione la più intrinseca del ritirarsi a Rodi; com’ei fu imperadore, lei scacciata, svergognata, e morto Agrippa Postumo, disperatissima fece marcire di lungo stento; parendole nascondere63 nel lungo tenerla viva l’uccisione. Crudeltà usata per simil cagione a Sempronio Gracco di casa grande, ingegno destro, eloquenza dannosa, il quale con detta Giulia si giacea quando era moglie di Agrippa; e poichè di Tiberio fu, lo pertinace adultero l’aizzava a disubbidire, e imperversar col marito; e si tennero da lui dettate le lettere che ella scrisse ad Augusto suo padre, velenose contro a Tiberio. Sostenuto adunque da Cercina, isola del mar d’Affrica, quattordici anni, fu allora dagli ammazzatori trovato a una vedetta di mare, che fiere novelle aspettava. Ottenuto spazio di scrivere alla moglie Alliaria sue ultime volontà, porse la testa: non indegno nel costante morire del nome Sempronio, che nel vivere aveva macchiato. Scrive alcuno, che que’ soldati non venner da Roma, ma da L. Asprenate viceconsolo in Affrica per ordine di Tiberio, [p. 49 modifica]che vanamente credette addossargli la voce di cotal morte.

LIV. Nel medesimo anno cominciò la nuova religione de’ sacerdoti augustali ad esempio di Tito Tazio, che i Tazj ordinò per mantenere l’ufficiatura sabina. Tiberio, Druso, Claudio, Germanico, furo eletti; e vent’uno de’ primi della città tratti per sorta. Cominciò ancora la festa augustale a guastarsi per le gare degli strioni. Augusto l’aveva compiaciuta a Mecenate, spasimato di Batillo, nè anche tali feste fuggiva; parendogli umanità frammettersi nei diletti del volgo. Tiberio non la intendeva così; ma non ardiva quel popolo, tanti anni vezzeggiato, per ancora aspreggiare.

LV. Nel seguente consolato di Druso Cesare, e C. Norbano, fu stabilito a Germanico il trionfo, pendente la guerra, la quale ordinata con ogni sforzo per la vegnente state; ma egli anticipò e corse all’entrar di primavera nei Catti, sentendo i nimici in parte: seguitando chi Arminio, chi Segeste, ai noi sommamente l’un perfido, l’altro fedele. Arminio ci ribellava la Germania. Segeste più volte ce ne avvertì: e nell’ultimo convito, avanti la guerra rotta, consigliò Varo a farvi prigione lui e Arminio e gli altri capi, perchè levati quelli, la plebe nulla oserebbe e riconosceriensi poscia i complici dagli amici. Ma il fato e la forza d’Arminio ci tolse Varo. Segeste fu a quella guerra tirato dagli altri, ma non convenivano, per lor privati odj rinciprigniti. Arminio gli aveva rapito la figliuola fidanzata a un altro: odioso genero di nimico suocero: e que’ che tra’ benevoli son legami d’amore, erano mantici alle loro ire.

LVI. Diede adunque Germanico a Cecina quattro [p. 50 modifica]legioni, cinquemila fanti d’aiuto, e li Germani raccogliticci di qua dal Reno: altrettante legioni e doppj aiuti guidò egli: e piantato un castello sopra le moricce di un forte, che fece il padre nel monte Tauno; menò volando l’esercito spedito ne’ Catti per istrade asciutte e fiumane basse; perché quell’anno (miracol’in quel paese) non piovve; e perchè al ritorno s’aspettava il rovescio, lasciò L. Apronio a rassettare strade e ponti. Giunse a’ Catti sì repentino, che tutti i deboli per età o sesso, prese o uccise; la gioventù passò a nuoto l’Adranna e impediva i Romani farvi un ponte. Cacciati con manganelle e quadrella, in ’vano chiedevano accordo; parte rifuggì a Germanico; gli altri lasciati i borghi e villaggi, si dispersero per le selve. Cesare arse Mattio lor metropoli: saccheggiò la campagna e trasse al Reno, senza dargli il nimico alla coda, come ei fa quando fugge per astuzia e non per paura. Volevano i Cherusci aiutare i Catti; ma Cecina, qua e là sopraccorrendo, gli sbigottì; e i Marsi, che ardiro attaccarsi, vinse e rincacciò.

LVII. Da Segeste vennero tosto ambasciadori a chiedere aiuto contra i popoli suoi, che l’assediavano; pregiando più Arminio, che consigliava la guerra; conciossiachè que’ Barbari lo più ardito tengono più reale, e ne’ travagli migliore. Con essi ambasciadori venne Sigimondo figliuolo di Segeste a malincorpo; perchè l’anno delle rivoltate Germanie, fatto sacerdote all’altare degli Ubj stracciò le bende e fuggissi a’ ribelli. Ma dicendo il padre, che sperasse nella clemenza romana, ubbidì: fu accolto benignamente e mandato con guardia alla riva della Gallia. A Germanico mise conto voltare: abbattè gli assedianti, e [p. 51 modifica]Segeste cavò con molti parenti e seguaci, e nobili donne, tra l’altre la moglie d’Arminio, figliuola di Segeste, partigiana non sua, ma del marito; non piangeva, benché vinta, non chiedea mercè; ma con le mani strette, al petto affisava il suo gravido corpo. Eran portate spoglie della rotta di Varo già date in preda a molti di quei medesimi che allora veniano prigioni. Venne lo stesso Segeste di gran presenza, e dalla buona sua colleganza fatto sicuro, disse:

LVIII. „Non è questo il primo giorno che io mostro al popolo romano ferma fede. Da che il divo Augusto mi fece cittadino, non ho voluto nè amico, nè nimico, se non utile a voi; non per odio della patria (perchè i traditori dispiaciono ancora a cui servono), ma per conoscer ciò utile a voi e noi; ei amava la pace più che la guerra. Perciò Arminio, che a me rubò la figliuola, a voi ruppe la lega, accusai a Varo vostro capitano. Trattenuto dalla sua lentezza, e poco sperando dalle leggi, il pregai che legasse Arminio, i congiurati e me; sallosi quella notte: fussemi ella stata ultima! Il seguito dappoi posso piangere più che difendere: ho messo le catene ad Arminio, e l’ho patite dalla sua fazione. Ora che tu me ne dai prima il potere, ripiglio l’antica fede e voglia di quiete, non per mio pro, ma per iscarico di tradigione: e perchè io sarò buono a rappaciarvi con la gente germana, ove ella voglia anzi pentirsi, che sprofondare. Del giovenile errore di mio figliuolo ti chieggio perdono: la mia figliuola è qui per forza, io lo confesso; ma vedi quel che più vaglia, o l’essere incinta64 d’Arminio, o nata [p. 52 modifica]di me.„ Cesare benignamente promise perdonare ai suoi fìgliuoli e parenti, e lui rimettere nel suo stato antico. Ricondusse l’esercito, e per ordine di Tiberio fu gridato imperadore. La moglie d’Arminio partorì un figliuolo; il quale allevato in Ravenna, che strazio di fortuna fusse, dirò al suo tempo.

LIX. Le novelle di Segeste datosi, e accarezzato, diedono speranza o dolore a chi fuggiva o bramava la guerra. Arminio, violento per natura, or vedendosi la moglie tolta, e schiava la sua creatura prima che nata, correva per li Cherusci qua e là forsennato, arme contr’a Cesare, arme contr’a Segeste, chiedendo, nè temperava la lingua: „Valente padre, magno imperadore, possente esercito, che hanno fatto con tanta gente di una donnicciuola conquisto! Tre legioni, e tre Legati atterrai io, che non guerreggio con tradigioni nè con donne pregne, ma a viso aperto con cavalieri e armati. Ancor si veggono ne’ germani boschi le insegne romane, che io appesi a’ nostri Iddii. Steasi Segeste in quella sua vinta riva: rimette le bende al figliuolo: non sia Germano che gliel perdoni, di aver fatto vedere tra l’Albi e il Reno verghe, scuri e toga. L’altre nazioni, che [p. 53 modifica]non conoscono imperio romano, non hanno provato supplizi, non sanno ragionar di tributi. Or noi, che gli abbiamo scossi e rimandatone scornato quello indiato Augusto65, quello eletto Tiberio, non temiamo di un giovanastro novello, o di un esercito abbottinato. Se la patria, il sangue, i riti antichi, vi son più cari che i padroni e le nuove colonie, seguitate più tosto Arminio di gloria e di libertà, che Segeste di brutta servitù capitano.„

LX. Mossero tali spronate non pure i Cherusci, ma i vicini, e seco trassero Inguiomero zio paterno di Arminio, di antica autorità coi Romani. Onde Cesare più dubitando; per fuggire la carica di tutta la guerra, insieme mandò Cecina con quaranta coorti romane per li Brutteri al fiume Amisia, per tener disgiunti i nimici. Pedone capitano vi condusse i cavalli per la Frisia: egli con quattro legioni vi navigò per i laghi; così a quel fiume fecero massa fanti, cavalli e legni. I Cauci si offersero e furon ricevuti in aiuto. I Brutteri, che il paese proprio abbruciavano, furon rotti da Stertinio, mandatovi con gente leggiera da Germanico. Nel predare ed uccidere, trovò l’aquila della legion diciannovesima, che Varo perdè: l’esercito n’andò al fine de’ Brutteri, e quanto paese è tra l’Amisia e la Luppia guastò, non lungi del bosco di Teubergo, dove si diceva essere allo scoperto l’ossa di Varo e delle legioni.

LXI. Onde a Cesare venne desio di seppellirle: tutto l’esercito ivi compianse i parenti, gli amici, i [p. 54 modifica]casi della guerra, la sorte umana. Mandò Cecina a riconoscere il bosco a dentro, e far ponti e ghiaiate a’ pantani e a’ fanghi. Vanno per quei luoghi dolenti, di sozza vista e ricordanza. Riconoscevasi il primo alloggiamento di Varo dal circuito largo, e dalle disegnate Principia66 per tre legioni. In oltre nel guasto steccato e piccol fosso si argomentavano ricoverate le rotte reliquie. Biancheggiavano per la campagna l’ossa ammonticellate o sparse, secondo fuggiti si erano o arrestati: per terra erano pezzi d’arme, membra di cavalli, e a’ tronconi di alberi teste infilzate; e per le selve orrendi altari, ove furon sacrificati i tribuni e i centurioni dei primi ordini. Gli scampati dalla rotta, o di prigionia, contavano: „Qui caddero i Legati, qua furon l'aquile tolte, là Varo ebbe la prima ferita, colà si finì con la sua infelice destra; in quel seggio Arminio orò: quante croci, quali fosse per li prigioni, che scherni all'Aquile e alle insegne feo l'orgoglioso!„

LXII. E così, l'anno sesto della sconfitta, il romano esercito seppelliva l’ossa delle tre legioni, niuno riconoscente le cui: tutte come di parenti, come di congiunti (con tanta più ira e duolo) le ricoprirono. Cesare gittò la prima zolla per lo sepolcro, gratissima pietà a’ defunti, e ai vivi affratellanza nel duolo. Questo a Tiberio non piacque, o perchè egli ciò che faceva Germanico, tirasse al peggiore, o gli la paresse rimembranza de’ compagni riveduti in pezzi o avanzati alle fiere, aver l’esercito scorato del combattere, e spaventato de’ nemici. Nè aver [p. 55 modifica]dovuto l’imperadore con l’agurato, e sacri ordini antichissimi addosso, brancicar morti.

LXIII. Ritirandosi Arminio per istrane vie, Germanico gli tenne dietro: e quanto prima potè, spinse i cavalli a cacciarlo d’un piano, ove si era posto. Arminio fatto i suoi ristringere e accostare alle selve, voltò subito faccia: e dato il segno, l'agguato postovi saltò fuore. Ruppe questa nuova battaglia i cavalli; fanti si mandaro a soccorrerli, che traportati dai fuggenti crebbero lo spavento: ed erano pinti in un pantano ai vincitori usato, per li nostri doloroso, se Cesare non si presentava con le legioni. Ciò diede terrore al nemico e ardimento a’ nostri; e ritirossi ciascuno del pari. Poi ricondotto l’esercito all’Amisia, riportò per acqua, come vennero le legioni; e parte de’ cavalli lungo il lito dell’Oceano andò al Reno. Cecina, che coi suoi tornava per l'usata via, ebbe ordine di spacciare il cammino per Pontilunghi. Questo è un sentiero, che L. Domizio fabbricò sopra larghe paludi e memme, e fitte tenaci, o fiumicelli sfondanti, con dolci colline boscate intorno, le quali Arminio empiè di gente, corsa per tragetti innanzi a’ nostri, carichi d’arme e di bagaglie. Cecina per rifare i ponti rotti dal tempo, e discosto tenere il nemico, ivi pose il campo, parte a combattere e parte a lavorare.

LXIV. I Barbari per isforzar le guardie e passare a’ lavoranti, badaluccano, accerchiano, affrontano, con grido di lavoranti, e combattenti: è ogni cosa contro a’ Romani: fango profondo, terren tenero e sdrucciolante, corpi gravi di corazze, nè fra l’acque poteano i dardi lanciare; là dove i Cherusci avevan pratica di combatter ne’paludi, stature alte, aste [p. 56 modifica]lunghe da ferire da discosto. La notte alla fine ritrasse da infelice mischia le legioni, che già piegavano. I Germani per tal prosperità non curando stracchezza nè sonno, tutte l’acque de’ circondati colli voltarono a basso, le quali copersero il terreno; rovinò il lavorio fatto, e le fatiche raddoppiò a’ soldati. Quarant’anni alla guerra aveva Cecina tra ubbidito e comandato: e come avvezzo a fortune e bonacce, senza perdersi, pensando allo innanzi, non trovò meglio che rattenere il nimico ne’ boschi, tanto che i feriti e gli altri impacci avviati, sgombrassono quel piano tra i colli e le paludi, che non capea battaglia grossa. Toccò alla legion quinta il destro lato, alla diciannovesima il sinistro, alla prima e alla ventesima capo e coda.

LXV. La notte non si dormì per cagioni contrarie; i Barbari in festa e stravizzi, con allegri canti o urli atroci, rintronavano le valli e’ boschi; i Romani con fuochi piccini, voci interrotte giaceano sotto i ripari, o s’aggiravano intorno alle tende con gli occhi aperti, anzi che desti: e per un sogno orrido s’arricciarono al capitano i capelli. Parevagli vedere Quintilio Varo uscir su di quelle paludi grondante di sangue, e dire: „Vienne„; ma non aver voluto, e la man portali, risospinto. A giorno le legioni poste alle latora, per codardia o miscredenza, lasciato il luogo, corsero all’asciutto. Arminio non le investì, come poteva in quel punto, ma l’istette. Si vide il bagaglio nel fango e ne’ fossi impaniato, i soldati intorno rinfusi, niuno riconoscer insegna, ciascuno, come in casi simili, di sè sollecito, e all’ubbidire sordo: all’ora fece dar dentro, e gridò: „Ecco Varo e le legioni di nuovo vinte per lo medesimo [p. 57 modifica]fato„. Così detto, col fior de’ suoi, sdrucì ne’ nostri, ferendo massimamente i cavalli; i quali in quel terreno di sangue loro, e di loto molliccico, davano stramazzate, o sprangavan calci, scavalcavan l’uomo, sbaragliavano i circostanti, calpestavano i caduti. Intorno all’aquile fu il travaglio, le quali nè portare si poteano contro alle voltate punte, nè nel suolo acquidoso ficcare. Cecina nel sostener la battaglia, mortogli il cavallo sotto, cadde, ed era prigione se la legion prima nol soccorreva. La ingordigia de’ nemici, che lasciaron l’uccidere per lo predare, n’aiutò; perchè intanto le legioni tal brigarono, che la sera furono al largo e nel sodo. Nè qui finirono i guai: conveniva fare steccati, argini: cavare, tagliare: ed erano in gran parte perduti gli ordigni: non da medicare i feriti, non tende per li soldati. Compartivansi cibi fangosi o sanguinosi; lamentavansi di quella funesta notte; e che tante migliaia di persone avessero a vivere un sol dì.

LXVI. Un cavallo, rotta la cavezza, spaurito dalle grida, correndo si avvenne in certi, e sbaragliolli; tale spavento diedono, pensandosi essere i Germani entrati nel campo, che ognun corse alle porte e specialmente alla Decumana, opposta al nimico e più sicura a fuggire. Cecina trovato la paura vana, non potendo tenergli con l’autorità, nè co’ preghi, nè con mano, si distese rovescione in su la soglia, onde la pietà del non passar sopra il corpo del Legato, chiuse la via: e prestamente i tribuni, e’ centurioni chiariron falso il timore.

LXVII. Allora ragunatigli nelle Principia, imposto silenzio, mostrò loro a che stremo erano: „L’armi sole potergli salvare, adoperate con senno; ciò [p. 58 modifica]era, starsi dentro alle trincee, e per dar animo al nimico d’accostarsi a spugnarle, e allora da tutte bande uscire. Quella sortita gli condurrebbe al Reno. Fuggendo, aspettassonsi più boschi, più pantani, più crudi nimici: vincendo, ornamento e gloria„. Le cose a casa care, alla guerra onorate ricordò loro; e le avverse tacette. Indi diede i cavalli, prima i suoi, poi que’ de’ Legati e tribuni, senza precedenze a’ più forti, i quali prima, e li pedoni poscia investissero il nemico tenuto in agonia non minore della speranza, cupidigia e dispareri de’ capi.

LXVIII. Arminio diceva: „Lasciategli uscire, e di nuovo in quelle memme accerchiateli„. Inguiomero più feroce, e grato a’ Barbari, prometteva, assaltando il campo, presa certa, più prigioni, preda netta. All’Alba scassano i fossi, riempiongli di fascine, inarpicano su lo steccato: difenditori vi trovan pochi, e quasi per paura attoniti. Quando furon ben accosto, i nostri, dato il segno, sonarono i corni e le trombe, e con grida e impeto, cinsero alle spalle ì Germani, rimproverando loro: „Qui non boschi, non marosi, non luoghi vantaggiosi, non Iddii parziali„. Al nemico, credutosi poca gente, e svaligiata inghiottire, il rumor delle trombe, il luccicar dell’armi, quanto meno aspettata cosa, gli uscì addosso maggiore: e que’ feroci nella bonaccia, abbiosciati nella tempesta, morieno. Arminio sano, Inguiomero dopo grave ferita usciron dello stormo, la gente andò a fìl di spada quanto ne volle l’ira e il giorno. Di notte finalmente le legioni si ritornarono afflitte dalla fame medesima, e più ferite; tuttavia la vittoria dava loro forza, vivanda, sanità, e ogni cosa. [p. 59 modifica]

LXIX. Novelle andaro che l’esercito era assediato, e venivano i Germani a’ danni delle Gallie: e se Agrippina non teneva che il ponte in sul Reno non si tagliasse, fu chi ebbe di cotanta cattività, per paura, ardimento. Ma quella magnanima, in quel dì fece ufficio di capitano, e donò a’ soldati stracciati e feriti vesta e medicamento. Conta C. Plinio scrittore delle Guerre di Germania, ch’ella stette alla bocca del ponte a lodare e ringraziar le legioni che tornavano. Or questo sì, che toccò Tiberio nel vivo: „Non si piglia ella tali pensieri alla semplice: non si travaglia dei soldati per far guerra agli strani: che accade più imperadori? poiché una donna rivede le compagnie, riconosce le insegne, dona a’ soldati. E forse poca l’ambizione del menare attorno il figliuolo del capitano in vile abito, e dirlo Cesare Caligola? Gli eserciti oggimai stanno più con Agrippina che co’ Legati, co’ capitani. Have una donna attuato un sollevamento che non è stato dattanto l’imperadore„. Seiano aggravava questi odj, e ne rinfocolava Tiberio, perchè al solito lungamente in lui avvampati, ne uscissero saette più rovinose67.

LXX. Germanico perchè l’armata quel basso mare più leggiera solcasse, e nel riflusso sedesse, sbarcò la seconda e la quattordicesima legione, accomandandole a P. Vitellio, che le riconducesse per terra. Il primo cammino fu asciutto, o con poco sprazzo di marea. L’Oceano poscia gonfiò per un rovaio forzato, e per l’equinozio, com’ei suole; e traportavane l’ [p. 60 modifica]ordinanze e l’aggirava. Il terreno andò sotto; mare, liti, campi tutt’era acqua: bassa o profonda, sodo o sfondato, non si poteva discernere. Ondate capolevano: gorghi inghiottiscono bestie e salme: attraversansi, urtano corpi affogati: mescolansi le compagnie; con l’acqua, ora a petto, ora a gola, perduto il fondo, sbaragliansi, anniegano. Non giova gridare, non confortarsi; perchè quando il fiotto batteva, dappoco o valente, nuovo o pratico, sorte o consiglio, tanto si era; facendo quella gran violenza d’ogni cosa un viluppo. Vitellio fatto forza, tirò l’esercito all’alto. Assiderarono tutta notte; senza panni da rasciugarsi, senza fuoco, ignudi, infranti, e peggio che in mezzo a’ nimici; ove si può pur morire con qualche gloria, ma quivi con esso niuna. Il giorno scoperse la terra e passarono al fiume Visurgo, ove era venuto Cesare con l’armata, e imbarcò quelle legioni per fama affogale, nè mai credute salve, sì veduto fu egli, e l’esercito ricondotto.

LXXI. Già Stertinio mandato a ricevere a discrezione Semigero, fratel di Segeste, aveva lui e il figliuolo condotto nella città degli Ubj e perdonato a Segimero agevolmente: al giovane più rattenuto, per avere, come si diceva, schernito il corpo di Varo. Gareggiavano a rifare i danni dell’esercito, le Gallie, le Spagne e l’Italia; offerendo arme, cavalli e oro, ciascuna il più destro. Germanico, lodata lor prontezza, prese arme e cavalli per la guerra: i soldati sovvenne de’ danari suoi; e per confortare con le piacevolezze la trista ricordazione della sconfitta, visitava i feriti, magnificava lor prodezze, guardava le plaghe, chi con la speranza, chi con la gloria, [p. 61 modifica]tutti con parole e fatti innamorava di sè e della guerra.

LXXII. Il senato quest’anno onorò di trionfali insegne Aulo Cecina, L. Apronio, e C. Silio, per le cose con Germanico fatte. Tiberio rifiutò il nome di Padre della Patria, più volte dal popolo soffregatoli: nè si lasciò, come il senato voleva, giurare l'approvazione de’ fatti; le cose de’ mortali predicando incerte, e quanto più su salisse, più in bilico la caduta. Non perciò era creduto di civile animo; avendo rimesso su la legge della danneggiata maestà, detta ben così dagli antichi; ma altre cose venivano in giudizio. Chi col tradire un esercito, sollevar la plebe, mal governar le cose pubbliche, avesse menomato la maestà del popolo romano, accusato era del fatto; le parole non si punivano. Augusto fu il primo che fece caso di stato e maestà, i cartelli; mosso dalla malignità di Cassio Severo, che con essi aveva infamato uomini e donne di conto. Tiberio poscia domandato da Pompeo Marco pretore, se dovesse accettare le cause di maestà, disse: „Osservinsi le leggi„; inasprito anch’egli da certe poesie senz’autore, che sventavano le sue crudeltà e arroganze e traversie con la madre.

LXXIII. Io dirò pure di che peccati fur poste quèrele a Falanio e Rubrio, cavalieri di mezza taglia, acciò si sappia da qua’principj, con quant’arte di Tiberio, un crudelissimo fuoco si appiccò, ammorzò, poi levò fiamma, che arse ognuno. Diceva l’accusatore, che Falanio aveva messo tra’ sacerdoti di Augusto (che n’era in ogni cosa come un collegio) un certo Cassio strione, disonesto del corpo, e vendè la statua di Augusto, insieme col giardin suo. [p. 62 modifica]Rubrio era incolpato di spergiuro per lo nome di Augusto. Quando Tiberio il seppe, scrisse a’ consoli: „Non essere stato dichiarato suo padre celeste, per rovinare i cittadini. Cassio essere un recitante come gli altri alla festa, che sua madre fa per memoria di Augusto; nè la religione danneggiarsi, se con le vendite delle case e giardini, vanno i simulacri di lui come quelli degli altri Iddìi. Quello spergiuro essere, come se l’avesse attaccato a Giove: Alle Ingiurie degl’Iddii, gl’Iddii pensare.„

LXXIV. Non passò guari, che a Granio Marcello, pretore in Bitinia, fu da Cepione Crispino questore suo dato querela di maestà, raggravata da Ispone romano, uomo che prese un mestiero, che poi venne in gran credito per le miserie de’ tempi e per le sfacciatezze degli uomini: costui, povero, sconosciuto, inquieto, col far lo spione segreto, trapelò nella grazia del crudel principe, tendendo trabocchetti a più chiari, ’e divenuto potente appresso uno, odioso a tutti, lo stendardo alzò a coloro, che seguitandolo, di poveri fatti ricchi, di abbietti tremendi, trovarono Io altrui, e al fine il loro precipizio. La querela voleva che Marcello avesse sparlato di Tiberio; e non vi era difesa, perchè il prod’uomo scelse le cose di lui più laide, le quali, perchè eran vere, si credevano anche dette. Ispone aggiugneva, aver Marcello la statua sua messa più alta di quella de’ Cesari, e ad un’altra di Augusto levato il capo, e messolvi di Tiberio. Di questo montò in tanta collera, che non potendo più stare taciturno, gridò, che voleva in questa causa dire anch’egli il suo parere aperto e giurarlo, perchè gli altri non avessero ardire di contraddirgli. Rimaneva pure [p. 63 modifica]alla boccheggiante libertade alcuno spirito; onde Gn. Pisone disse: „E quando il dirai, o Cesare: se il primo, io ti potrò seguitare; se il sezzo, io ti potrei, non volendo, dir contro„. Ravvedutosi della scappata, chinò le spalle ad assolvere il reo della querela, stando però a sindacato della pretura.

LXXV. Non gl’incresceva, oltre al senato, sedere ancora ne’ giudizj da un canto del tribunale, per non cavare il pretore della sedia sua. Questa presenza cagionò di buoni ordini contr’alle pratiche e favori de’ potenti; ma nel racconciare la giustizia, si guastava la libertà. Tra l’altre cose Aurelio Pio senatore, cui fu rovinata la casa per fare una via, e un acquidoccio, chiedendo a’Padri d’esser rifatto e contraddicendo i fiscali; Tiberio la li pagò, come vago di fare spese onorate: la quale virtù, e non altra, si mantenne. A Properzio Celere, stato de’ pretori, supplicante di lasciare il grado per povertà68, trovatolo meschino di patrimonio, donò venticinquemila fiorini d’oro69. Ad altri che tentarono il [p. 64 modifica]medesimo, riscrisse: „Provino la povertà al senato„; come quegli che per severità mantenere, eziandìo i benefìcj porgeva70 con acerbezza. E quei vollono anzi patire che mostrare al popolo loro vergogne.

LXXVI. Nel detto anno il Tevere per lo lungo piovere allagò il piano della città; e nel calare grande strage fe’ di case e persone. Asinio Gallo consigliò si vedesse quel ne dicesse la Sibilla. Tiberio non volle, per tenere gli uomini al buio71 delle cose divine, come dell’umane; ma furon deputati Aterio Capitone, e L. Arunzio a’ripàri del fiume. Dolendosi l’Acaia e la Macedonia delle troppe gravezze, piacque d’alleggerirle per allora del viceconsolo e metterle tra’ governi di Cesare. Druso celebrò lo spettacolo già promesso in nome suo e di Germanico, delli accoltellatori: e troppo di quel sangue, benché vile, godeva; onde il popolo ne impaurìo e il padre ne lo sgridò. Non volle egli celebrarlo, [p. 65 modifica]chi diceva per aver a noia le ragunate72, chi per fantasticheria, e per non far paragone con quel suo viso saturnino, a quel gioviale, che vi portava Augusto; altri (ma non lo posso credere) per fare il figliuolo dal popolo per crudele73 scorgere e odiare.

LXXVII. Le mischie de’ teatri, cominciate l’anno innanzi, vennero a peggio; e vi furon morti non pur de’ plebei, ma de’ soldati e un centurione, e ferito un tribuno di guardia, per voler tener il popolo, che non s’azzuffasse e sparlasse de’ magistrati. Di tale scandolo si trattò in senato: e i pareri erano, che i pretori potessero vergheggiare gli strioni. Aterio Agrippa, tribuno della plebe, disse che no. Asinio Gallo n’ebbe seco parole: e Tiberio taceva, per lasciare al senato in cotali debolezze apparenza di libertà. Valse il no; perchè già aveva il divino Augusto (le cui sentenze Tiberio non poteva toccare) esentati gli strioni dalla verga. Fu loro la mercede tassata, e al troppo corso che avevano preveduto; che in casa commedianti senatore non entrasse; codazzo o cerchio intorno a loro, uscenti in pubblico, romano cavaliere non facesse; nulla fuori di teatro si recitasse; gli spettatori fastidiosi il pretore potesse [p. 66 modifica]punire d’esigilo. Alli Spagnuoli chiedenti di poter fare un tempio ad Augusto nella colonia Tarraconese fu conceduto, e all’altre province dato esempio. Chiedendo il popolo, che l’un per cento delle vendite, posto al fine delle guerre civili, si levasse; Tiberio bandì che questo era l’assegnamento delle guerre, e che la reppublica non poteva reggere a dare i ben serviti74 innanzi a’ venti anni; però rivocava la mal consigliata licenza de’ sedici nella passata sollevazione.

LXXVIII. I deputati del Tevere proposero in senato, se per ovviare alle piene fusse da voltare altrove i fiumi e’ laghi, onde egli ingrossa. Udironsi l’ambascerie delle terre e colonie. Pregavano i Fiorentini, non si voltasse la Chiana dal suo letto in Arno, che sarebbe la lor rovina. Simil cose dicevano que’da Terni, che il più grasso terreno d’Italia andrebbe male se la Nera si spartisse, come si disegnava, in più rii, e quivi si lasciasse stagnare. Gridavano i Rietini; Non si turasse la bocca del lago Velino, che sgorga nella Nera, perchè traboccherebbe in que’ piani: „Avere la natura provveduto75 alle cose de’ mortali ottimamente, e a’ fiumi dato i loro convenevoli fonti, corsi, letti e foci. Doversi anco rispettar le religioni de’ confederati, che consagrato hanno a’ fiumi delle lor patrie lor boschi, altari e [p. 67 modifica]santità. Lo stesso Tevere non vorrebbe senza la corte de’ suoi tributari fiumi correre meno altiero.„ Fusse il pregar delle colonie, o l’opera malagevole o la religione, vinse il parer di Pisone, che niente si mutasse.

LXXIX. A Poppeo Sabino fu raffermato la Mesia, e aggiunto l’Acaia e la Macedonia; usando Tiberio non mutar ministri76; e molti in un esercito, in un reggimento, ne tenne a vita; chi dice, perchè chi gli era piaciuto una volta, volle sempre, per levarsi pensiero: altri per invidia77, acciò quel bene toccasse a pochi: ad alcuni quanto pareva d’ingegno sottile, tanto nel risolvere impacciato, non voleva troppo valenti, temendone: odiava i molti inetti, come vergogna pubblica. Da queste dubbiezze fu condotto infino a dar province a chi e’ non era per lasciar uscir di Roma. [p. 68 modifica]

LXXX. Il modo del fare i consoli, tenuto prima da questo principe, e poi seguitato, non saprei dire; tanto diverso si trova non pure negli scrittori, ma nelle sue orazioni. Averli ora descritti dal casato, vita e soldo, senza nomi, perchè s’intendesse di cui; ora senza descrivere, confortato i chieditori a non conquider co’ preghi lo squittino, ma promesso aiutargli. Molte volte detto, fuori de’ nominati da lui ai consoli, niuno aver chiesto: chi volesse cimentar suoi favori o meriti, facessesi innanzi. Paroloni a vóto per ingannare, e false mostre di gran libertà, per dovere in cotanto più crudel servitù riuscire.



fine del libro primo.


Note

  1. Questo ristretto de’ mutamenti dello stato di Roma par levato di peso da una diceria di Claudio imperadore, registrata dal Lipsio sopra l’undecimo libro di questi Annali. Bello è paragonarla con la composta da Tacito, per conoscere dalla differenza il nerbo e la grandezza di questo scrittore.
  2. La morbidezza della lingua volgare non pativa questa durezza latina. Roma i re ebbero; però rivoltai l’attivo nel passivo parlare, che dice il medesimo, alla guisa di que’ panni e drappi che sono il medesimo da ritto e da rovescio; nè veggo che sia frase impropria il dire che una città e nazione avesse re. Non habemus Regem, nisi Caesarem, tradusse san Girolamo il testo greco di san Giovanni.
  3. Non perpetue come le si presero Silla e Cesare, ma in casi urgenti. Era chiamato anticamente maestro del popolo, dice Seneca a Lucillo, per sei mesi il più; non fuori d’Italia. Vedi Dione nel libro 36 nella diceria di Catulo.
  4. Forse è meglio dir de’ decemviri, e i nomi così proprj, come de’ termini lasciare ne’ loro termini. Vedi Eliano nel principio delle Greche Ordinanze.
  5. Cioè d’imperadore, che si dava al generale, principal comandatore dell’esercito, quando per qualche fatto egregio o felicità i soldati gridavano Io Io; che oggi diciamo Viva Viva il nostro imperadore, cioè comandatore. Augusto, fattosi padrone di Roma, prese questo modesto titolo per fuggire invidia; e usava dire, che era padrone de’ servi, imperadore dei soldati, e principale di tutti: e cagionò che questi nomi addiettivi di grado, Imperator, Dux, Princeps, diventarono sostantivi, e di signoria e assoluta potenza. Tacito poco disotto dice che Augusto fu gridato imperadore ventuna volta; e nel terzo dice: Duces, re bene gesta, gaudio et impetu victoriae imperatores salutabant, erantque plures simul imperatores, nec super ceterorum aequalitatem concessit quibusdam et Augustus id vocabulum; at tunc Tiberius Blaeso postremum. Livio nel primo: Princeps utrinque pugnam ciebat, ab Sabinis Metius Curius, ab Romanis Hostius Hostilius. Vedi Dione nel 51 in fine.
  6. Leggendo detererentur: leggendo deterrerentur, non gli spaventò. Però Orazio, a cui fu commessa la storia d’Augusto, in quello scambio scrisse Ode per poterlo lodare.
  7. Perché Augusto e gli altri quattro erano morti molto prima.
  8. Nel proprio significato di degnità, non di dominio: imperadori d’esercito, non di Roma.
  9. In Roma dinanzi alla chiesa de’ Santi Apostoli è questo epitaffio:

    OSSA
    C. CAESARIS AVGVSTI F. PRINCIPIS
    IVVENTVTIS.

  10. Livia domandata con che arte ella avesse sì preso Augusto, rispose: „Con l’osservare una squisitissima onestà; fare ogni voler suoi lietissimamente; non voler sapere tutti suoi fatti; non vedere nè sconciare i suoi amorazzi„. Impara qualunque se’, moglie strebbiatrice, borbottona, salamistra e gelosa: questa postilla tocca a te.
  11. Livio nel principio del settimo dice del figliuol di Manlio il medesimo appunto: Nullius probri compertum et stolide ferocem. Aristotile nel secondo della Rettorica dice, che i figliuoli di padri coraggiosi tralignano in avventati; di quieti in freddi. Così nel campo stracco nasce di grano vena, o loglio, erbe non diversissime: e Dante:

    Rade volte discende per li rami
    L’ umana probitate; e questo vuole
    Quei che la dà, perchè da lui si chiami.

  12. Gli antichi nostri, meno di noi del corretto scrivere curiosi avrebbono scritto Actio alla latina; pochi de’ moderni, Attio, molti, Azzio. A me pare, che come la lingua latina in gaza, oxymel, e altro, non raddoppia le doppie; così la volgar nostra non possa nè l’una nè l’altra nostra zeta mai raddoppiare; perché essendo doppio per natura, composte o di TS come zazera, o DS come zizania, ciascuna ha il suono suo doppio, che verrebbe, raddoppiandola, rinquartato con quattro lettere consonanti insieme; che non le soffera la nostra dolce pronunzia. In dette due voci non ha maggior suono, nè più forzata la Z seconda, benché tra due vocali, che la prima, chi non vuole cattivar l’orecchio, e dargli ad intendere ch’ei pur senta quel che ei non sente. La cagione è, che la lingua tra i denti e’l palato s’acconcia, e fa organo all’uscente fiato nella stessa guisa al pronunziar la Z prima, che la seconda. Or se la pronunzia la Scrittura Segue, come ’l maestro fa il discente, il ballo il suono, il canto le note; bisognerà per legger correttamente zazzera o zizzania metter quadruplicato fiato, rompersi una vena del petto, e scoppiare, o leggerle scorrettamente. Lodovico Martelli nella sua Lettera al Card. Ridolfi, ove egli delle aggiunte lettere alla lingua italiana trassina male il Trissino, non consente che si raddoppii mai questa lettera, per le ragioni quivi addotte. Prisciano di simil cose biasima i Romani, che essendo doppio il loro I consonante, lo raddoppiavano quando era tra due vocali, Majius, Pompejius, ed eran forzati nel genitivo a scrivere Maiii, Pompeiii; e piaceva tale errore a Cesare, e altri, come spesso a chi si diletta, per sostener sottigliezza, contrastare a natura. Ma senza dubbio, come le parole debbono esser ritratti, e non scorbj, de’ concetti dall’animo; così le lettere delle parole. Ma se il ritratto non somiglia, che vale? I Franzesi parlano in un modo, scrivono in un altro: perchè quella lingua (dice il Perionio) ha origine dalla greca, conservatasi più nella loro scrittura che nella favella. Così ritenevano i nostri antichi molta scrittura latina, philosophia, actione, letitia, optimo, pecto, annuntio. Meglio, secondo la pronunzia, scriviamo noi filosofia, azione, letizia, ottimo, petto, annunzio, perchè questa lingua, se ben nata della latina, è oggi allevata e si regge e va senza il carruccio o appoggio di quelle lettere che, non si pronunziando più, sono imbarazzo da levar via; come le centine e l’armadura, quando la volta ha fatto presa. Finalmente la lingua volgare è latina scorretta; la correzion sua passata in uso s’è convertita in sua naturale essenza; contr’alla quale il semidotto, che troppo vuole ortografizzare, cacografìzza come mettendo l’H dove ella non si pronunzia, non si serve, e possiamo fare senz’ella; e come scrivendo a lo, de lo, fa mi, de la bella, de la casa, d’Avanzati per allo, dello, fammi, della bella, della casa, Davanzati e simili, dividendo quello che in un sol corpo ha composto l’uso, che è fabbricata natura. Nè anche è bene rompersi (come alcuni) i denti per proferire alla dotta la lingua greca; ma l’uso della patria seguitare. Potrebbonsi i due suoni delle nostre zete figurare con due lettere variate Z e z. Ma poichè il Trissino, e altri con ottime ragioni tentarono in vano di compiere il nostro manchevole abbici, che possiamo noi dire? se non che Contro dell’uso la ragione ha corte l’ali. Ma que’ valentuomini si possono consolare, poichè a Claudio imperadore non riuscì d’aiutare di tre lettere il romano: anzi furono sì scacciate, che non ci rimane notizia se non del Digamma Eolico in alcune tavole. Maraviglia è bene che quest’uso, questo padrone del favellare e scrivere, abbia accettato molte lettere da’ maestri di scrivere stranamente variate, per ghiribizzoso tratteggiare; e non le necessità da’ grandi e scienziati uomini ritrovate o aggiunte alla nostra scrittura manchevole. Io per me ci aggiungerei gli accenti alla greca, per aiuto della pronunzia a chi legge. Ma quis ausit feli alligare tintinnabulum, poichè que’valentuomini ne furon uccellati?
  13. Otto anni vi dimorò, e lo diceano il Confinato.
  14. Dissesi con boce piccina, come uomo fa della cosa che non si può dire senza pericolo.
  15. Livia avvelenò, e contrassegnò certi fichi in su l’arbore; onde ella e 'l marito per diletto insieme ne colsero e mangiaro; non sapendo egli de’ contrassegnati.
  16. Leggo come il Lipsio: gnarum id Caesari, non navum. Ma se al Codice Mirandolano, che dice Liviam id Caesari, si potesse prestar fede (il che il Lipsio nega) mi piacerebbe molto più, perchè Livia, come il seppe, ne fece rimore a Cesare, come dice Plutarco.
  17. Tratto da Sallustio, imitato molto da Tacito, Iugurtha imprimis Adherbalem excruciatum necat.
  18. Nel primo delle Storie dice questo autore, Suspectum semper invisumque dominantibus qui proximus destinaretur. E nel quarto, che Munazio ammazzò il figliuolo di Vitellio per ispegner semenza di guerre. Il nuovo Turco ammazza i fratelli a prima giunta.
  19. Usano i tiranni (dice nel terzo Erodiano), quando voglion far morire uno senza processo, darne commissione per polizza a un tribuno, che la possa mostrare: con questa Saturnino chiarì la congiura di Plauziano; e Pisone voleva mostrare in senato la commission datagli da Tiberio d’avvelenar Germanico, come si dice nel terzo. Oggi sì fatte commissioni non si metterebbono in carta.
  20. Il vero svergognava Tiberio; il falso ingannava il senato. A simil cattivo partito ( scrive Plinio Secondo a Voconio) mi trovai quando quel ribaldo di Mesio Modesto mi domandò: Che te ne pare del nostro Rustico Aruleno? il quale era confinato da Domiziano, perchè il dir vero era pericolo, il mentire scelleratezza; gl' Iddii m’aiutarono, e risposi: Io lo dirò al magistrato de’ Cento, se bisognerà. Replicò: Dimmi, ti dico, quello che tu ne senti. I testimonj, diss’io, s’esaminano contro a’ rei, non contro ai condannati. Canzone! diss’egli; Io vo’ sapere come tu credi che egli l’intenda col principe. E io risposi: Contro a un condannato non è lecito esaminare. Egli ammutolì; e, io ne fui benedetto, e uscii di quel laccio che Modesto mi tendea.
  21. (*) Anni di Roma edificata 767.
  22. Nel principio del terzo libro dice come Augusto accompagnò il corpo di Druso da Pavia a Roma; e Dione nel 57, che Tiberio fu dell’aver toccato quel cadavere, che vietato era a chi teneva pubblica maestà, assoluto e accompagnato.
  23. Sono i contrassegni o nomi, come Palma, Stella e altri; e suoni, come trombe, corni e simili che s’odono; o bandiere incamiciate, polverio, fuochi, lumiere e altre cose che si veggono.
  24. Tratto da Livio nel primo. Sollecitava perchè Germanico non gli furasse le mosse, e per addormentare lui o altri, tanto che s’assodasse. Dione 57.
  25. Per un’altra ragione volpina, dice Dione, lib. 57, cioè perchè Germanico, o altri che volesse occupar l’imperio, si trattenesse con qualche speranza, in tanto esso Tiberio vi si assodasse.
  26. Che men seguon voler nei più veraci: nè possiamo a certe stravaganze tenerci di non le motteggiare, come colui che dice: Gli altri prima accettano, e poi pigliano: costui ha preso l’imperio, e non l’accetta.
  27. Il testo ha ccccxxxv. Queste figure dicono Quadringenties triciesquinquies, che volevano con abbreviatura romana dire 435 volte centomila sesterzi; ciò erano un milione e ottantasette migliaia, e cinquecento fiorini d’oro de’ nostri gigliati antichi, il che così si dimostra. As, o vero Aes, fu la prima moneta romana, che pesava una libbra di rame; Libella era un’altra moneta equivalente, che pesava un decimo di libbra d’argento. Sestertius nummus, era un’altra, che pesava un quarto di dramma d’ariento, e valeva assi o libelle due e mezzo; e lo segnavano così H-S. Sestertium, erano mille sesterzi nummi; valeva fiorini 25, come si dirà. Denarius pesava una dramma d’ariento, cioè un ottavo d’oncia; valeva quattro H-S. nummi, o vuoi dieci assi o dieci libelle. Nummo d’oro pesava una dramma d’oro fine, come il nostro fiorino gigliato; valeva dieci denari quaranta H-S. 100. Assi: 100 libelle. Tenevano i conti a sesterzi nummi, e annoveravano insino a centomila. Poi dicevano due volte centomila, tre volte, 4, 10, 20, 100, 1000, 2000 e sino a centomila volte centomila; e tanti H-S nummi intendevano, la qual somma di H-S importa 250 milioni d’oro, che nel commerzio umano non posson forse capere. Se bene Suetonio vuole al cap. 16 che Vespasiano dicesse, che la repubblica ne voleva avere mille milioni; che forse è scorretto quel testo, e vuol dire, Quadragies, cioè cento milioni, e non Quadringenties; o lo disse Vespasiano per aggrandire con iperbole lo stato di Roma. Adunque le 435 volte furono H-S 43,500,000, che a quattro al denario, denari 10,875,000, che a dieci al fiorino, fiorini 1,087,500 come detto è. K li mille H-S per testa a’ soldati di guardia, fiorini 25, e li 300 a’ legionari, fiorini sette e mezzo. Ora essendo quel nummo d’oro il medesimo che il nostro fiorino, cioè una dramma, o vero un ottavo d’oncia d’oro obrizo, cioè fine e senza mondiglia, che vale il presente anno 1599 in Firenze lire dieci, quel denario romano ci viene a valere oggi una lira; quel sesterzio nummo, cinque soldi piccioli; quello asse o libella, due soldi. Due corollari aggiugnerò. L’uno che Firenze cominciò a battere il fiorino l’anno 1252 per una lira di moneta, sì buona era! L’anno 1530 valeva sette lire, si peggiorate erano! Oggi ne vale dieci. A questo avvenante la moneta si condurrà tosto a que’ capelli d’aguti che dovettero essere la moneta di ferro degli Spartani; con grand’errore dei principi che di tanto peggiorano l’entrate loro, e gli antichi livelli, lasci, censi e crediti de’ privati e disturbano il commerzio, non meno a non tener ferma la moneta, che è misura del valore delle cose contrattabili, che se mutassero stadera, staio, barile e braccio, che son misure della loro quantità. L’altro corollario è, che si come il Faro, da Tolommeo Filadelfo edificato sopra quattro basi di vetro con l’arte di Sostrato da Guido architetto, mosse, per la sua utilità e maraviglia, ogni città a fare nel porto suo anch’ella un Faro per la salute de’ naviganti: similmente il nostro fiorino per la sua bellezza e bontà fu ricevuto con tanto applauso, che ogni potentato volle battere e nominare fiorini. Oggi in zecchini, scudi, piastre e ducatoni se n’è ita la gloria di sì bel nome.
  28. Il dì del mortoro è l’estratto di tutta la vita del morto; poi non se ne parla più.
  29. Vedio Pollione era lancia d’Augusto, arricchito da lui oltre al convenevole, onde il popol si lamentava; e sì bestiale, che quando uno schiavo suo faceva qualche errore, lo gittava in un vivaio che teneva di murene e altri pesci, i quali così nutriva di carne umana. Augusto mangiando seco, e avendo uno schiavo rotto un bicchier di cristallo di gran prezzo, e raccomandandosegli, lo lasciò e fecesi portare, e ruppe quanti cristalli Pollione aveva. Morendo lasciò ad Augusto la villa di Posilippo tra Napoli e Pozzuolo con la maggior parte della sua gran ricchezza, con carico di fare alcuna opera notabile in sua memoria. Augusto io servì: spianogli le case e fecevi la Loggia di Livia.
  30. Co’ razzi dello splendore, e altri segnali appropiati agli Iddii, folgore, caduceo, clava, tirso e simili.
  31. Da lui Tiberio imparò, che si lasciò succedere Caio, figliuolo di Germanico, anzi che Tiberio di Druso, suo sangue, perchè le orribilità di lui le sue oscurassono; per uccider con la mano di lui, e non con la sua, lutti gli ottimi senatori, e spegnere ogni bontade; avendo usato dire: Morto io, arda il mondo.
  32. Gli antichi capitani portavano per insegna il Minotauro; mostrando dover tener i secreti nel profondo de’ loro animi impenetrabile, ’come il mezzo del labirinto; e Tiberio usava dire: „ Quando il principe non s’è lasciato intendere, esser a tempo a far molti beni e schifar molti mali:„ ma egli voleva fare il male, e non si scoprire: però noi comandava chiaro, ma l’accennava infruscato, e gastigava così chi l’aveva per grosso intendere disubbidito; come chi per sottil penetrare scoperto e offeso. Volendo col tener l’unghie dentro, e gli occhi chiusi, non esser conosciuto gallone. Onde conveniva a’ poveri senatori arare molto dritto.
  33. Altri dicono che Tiberio aveva già fatto del governo tre parti. Italia, eserciti, vassalli: e rispose: Se io ho fatto le parti, come posso pigliare?
  34. Altri dicono che egli accettò l’imperio sì veramente che i Padri si contentassero di tosto ripigliarlosi per dare alla sua vecchiezza riposo.
  35. Della non finta modestia, e delle buone opere di Tiberio, massimamente mentre visse Germanico, grandi cose si leggono; ricusò il tempio, il nome d’Augusto, di padre della pativa, ed il giuramento annuale. Non tenne stabili; non vita splendida; riveriva i magistrati. Voleva nelle sue cause giustizia; donava a’ nobili poveri. Molti edifìcj e tempj di privati, cominciati o rovinati, fornì e riparò, ritenendovi i nomi loro. Urbanità usata dal granduca Cosimo, che al palagio dei Pitti, comperato e reale fatto, non volle mutar nome, nè metter sua arme.
  36. Il denario per le guerre fu alzato da’ dieci assi a’ sedici. E pure i soldati toccavano i soliti dieci assi per un denario il giorno: ed erano cinque ottavi di denario all’effetto, cioè al comperarne le cose che a proporzion eran salite di pregio.
  37. Si fatte voci e maniere proverbiose, in bocca a persone basse alterate, molto convengono, e più esprimono: mettono innanzi agli occhi, e fanno la cosa presente.
  38. Rizzare un alto tribunale voleva dire, fare un altro imperadore, dov’egli parlasse all’esercito e rendesse ragione.
  39. Invictus operis ac laboris. Il testo, onde tutti gli altri derivano, di questi cinque libri, trovato nel 1516 in un convento in su ’l Visurgo, oggi Vesero, in Germania, e da papa Lione messo nella libreria de’ Medici, scritto da mano non troppo accurata, dice, intus operis. Onde il sig. Curzio Picchena, secretario, ottimo tacitista, trae una ingegnosa correzione, vetus operis ( notata poi dal Lipsio in curis secundis) locuzione propria di questo autore, come Vetus regnandi, scientiae, ceremoniarum, e altre, perchè molto più agevolmente quel copiatore avrà errato a scrivere intus per vetus; che per invictus. A me pare avere espresso in virtù l’uno e l'altro vocabolo; perchè vetus operis vuol dir pratico, anticato, usato „Ingegno usato alle quistion profonde„: e invictus, che mai non si vedea stracco.
  40. Con la scure e con le verghe si punivano i delitti gravi per mano del littore; i leggieri con una vite per mano onorata dal centurione. Però dice Plinio: La vite onora le pene, l. 114, cap. nel fine.
  41. Di questa nazione, fidatissima guardia delle persone dei principi, Augusto per la rotta di Varo insospettì: Tiberio la riprese.
  42. Nam luna ciarlare paene celo visa languescere. Così leggiamo col testo vulgato, senza mutare o alterar cosa nessuna. Quando il cielo per alcuna cagione si fa luminoso, ognun sa che le stelle perdono del loro splendore. Avviene qualche volta la notte, che l’esalazioni terrestri o simili materie, alzandosi sopra il cono dell’ombra della terra, sendo illuminate dal sole, fanno quasi un’alba notturna, e massime nelle parti settentrionali. Onde alcuni l’hanno dette aurore boreali, le quali imbiancando il cielo, fanno svanire alla luna il suo bel colore. Che ciò avvenga, l’attesta ancor Plinio nel secondo libro al cap. 33. Lumen de caelo noctu visum est C. Caeclio, et Gn. Papyrio Coss. et saepe alias ut dici species noctu luceret. La dimostrazione ed effetti di questo accidente è stata modernamente osservata e insegnata dal sig. Galileo Galilei, il quale referisce essersi tra l'altre abbattuto una notte in Venezia a vedere due ore dopo il tramontar del sole schiarirsi il cielo tutto, e in particolare oltre al Zenit, verso Greco e Tramontana, talmente che tutte le stelle erano sparite. E benché l’albore fosse grandissimo, nulladimeno le ombre delle fabbriche erano talmente dilavate, che poco si distinguevano. E questo derivava dall’immensità dello spazio onde veniva il lume.
  43. Proverbio che significa non aver mezzo. Ne tratta Eustazio, interprete d’Omero, e Platone nelle Leggi. Vedi Flos italicae linguae, 113. E che, noi lo rifiutiamo? Non piaccia alle Muse.
  44. Vndevicesimanis, dicono i testi male; perchè quel dei Medici, loro originale, dice 'Vn et vicesimanis: poco di sotto, Quintani Vn et vicesimanique, e appresso, Vn et vicesimae; e altrove, Vn et vicesimani. Il Lipsio legge, Vnaetvicesimanis, e dice, perchè legione diciannovesima in quel tempo non v’era.
  45. In Roma fatta in furia per la rotta di Varo.
  46. Senofonte nel secondo delle Storie dice, che cominciando il presidio di Scio lasciatovi da’ Lacedemoni forte a patire, molti di que’ soldati congiurarono di saccheggiar l’isola: e portavano per riconoscersi una canna. Eteonico, lor capitano, inteso il gran numero de’ congiurati, con prudentissimo avvedimento, con quindici soldati soli uscì fuori: e il primo che trovò con la canna, uccise: tutti la posarono senz’altro remore.
  47. I pochi sollevano, perchè vogliono in compagnia di molti peccare per pena fuggire; perchè dove molti peccano, niuno si gastiga.
  48. Druso scrisse a Tiberio suo fratello di sforzare Augusto a rendere la libertà; il buon Tiberio ad Augusto mostrò la lettera; il mio Druso n’andò al Criatore. Però è detto nel secondo libro, che il popolo, mentre che Germanico trionfava, di lui increscendogli, e male agurandogli, diceva: Ahimè che a Druso suo padre e Marcello suo zio la popolare aura fu infelice! brevi e sventurati sono questi universali amori.
  49. Se io uscirò di mia natura di non riprendere mai alcuno, siami qui perdonato. Quel Muzio, che venne di Capo d’Istria in Firenze a parlare e scrivere di questa patria villanamente, e insegnarci favellare con la sferza in mano di quelle sue pedantesche battaglie, farebbe ceffo a questa fiorentinaria ( che così le proprietà nostre appella con barbarismo goffo e suo ) censurerebbe così, Confortavalo che si ferisse. Sapevamcelo. Ma quel porre innanzi agli occhi è gran virtù di parlare: per la quale Dante, altro che lucerna del mondo, nel suo poema non pur grave, ma sacro, usò con ragione. E lascia dire chi quindi tra le tante bellezze eterne lo dice indegno. Chente sono e quali le bassezze d’Omero? il dire a Giunone Occhi di Bue, a Minerva, di Civetta, e niente. Il nostro Tacito, sì severo, si lasciò ire per dipigner l'imprudenza di Cotta Messalino, a quel Tiberiolus meus. Ad altri non è paruto indegnità della storia contare che Domiziano imperadore infilzava le mosche negli spilletti; che Commodo tracannava vino nel teatro, e ’l popolo gridava pro, pro: ed ei lo frecciava quasi Ercole gli Stinfalidi. E teneva un capo di struzzolo alzato nella sinistra, e la spada sanguinosa nella destra, e scotendo la testa feroce, voleva che ognuno spiritasse: onde alcuni, che non potean tener le risa, mangiaron foglie della loro grillanda dello alloro per vomitare e parer di ridere del vomito; che l’esercito di Severo in Arabia non poteva nella bocca riarsa spicciare altra parola, che acqua acqua! che Geta s’avventò al collo a Giulia, gridando, mamma, mamma! Se adunque i sì fatti, per forte rappresentare, scendono a bassezze sì fatte, ben posso io errar con loro, e qui dire, Ficca ficca! che risponde a quel ficcarsi il pugnale nel petto, detto poco di sopra.
  50. Altri narrano questo pagamento esser seguito così. sotterrandosi un morto, un soldato, nuovo pesce, accostatosi gli bisbigliò nell’orecchio. Domandato, che gli hai tu detto? rispose: Che dica ad Augusto, che di quel suo lascio non s’è veduto un quattrino! Tiberio lo fece ammazzare, con dirgli: Va e dilloli tu. E pagò quel lascio de’ fiorini sette e mezzo per testa, cioè sesterzi trecento, come sopra.
  51. Mancata la speranza, la paura piglia l’arme. Nulla è più forte che la disperazione. Una salus victis, etc.
  52. Il testo de’ Medici dice regressum (non regressi) con ottimo senso, cioè, gli ambasciadori abboccaron Germanico, a un luogo sagrato ad Augusto dalli Ubj. Colonia d’Agrippina. Che tornato era dal far giurare l'esercito disopra, come quindici versi innanzi è detto.
  53. Labarum. simile a una camicia, ricchissimo d’oro e gioie. Il generale lo presentava quando voleva, combattere. Andava innanzi alla sua persona, adoravanlo i soldati. Costantino lo mutò in una croce.
  54. L’aquile e l’altre insegne, erano gli Iddii che adorava l’esercito. Il loro luogo era tempio, e franchigia. Vedi la Postilla §. XVII del secondo libro. A Tivoli in un marmo, tra gli altri fatti di T. Plauzio Silvano si legge:
    ignotos ante aut infensos p.r. reges
    signa romana aloratvros
    in ripam qvam tvebatve perdvxit.
  55. Erano suola allacciate al piede ignudo. I nobili portavano calzari ornati sino a mezza gamba. Scipione in Sicilia e Germanico in Egitto, e Caio suo figliuoletto nell’esercito, per farsi da’ soldati privati amare, portarono le semplici suola allacciate.
  56. Pare levato di peso dalla Diceria di Scipione in T. Livio, lib. 8.
  57. Cures era la metropoli de’ Sabini, dalla quale per soddisfazion loro, quando vennero a Roma, e fecesi di due genti una, furono i Romani e i Sabini detti Quiriti. Non chiamò adunque Giulio Cesare que’ soldati, Romani, ma Quiriti. Severo similmente, quando cassava le legioni intere, dava loro di Quiriti, come dice Lampridio; quasi non meritassero nome di Romani, ma tenessero ancor del Sabino. Così dice Ser Brunetto Latini, che i nimici di Dante, discesi di Fiesole abantico, Teneano ancor del monte e del macigno.
  58. Usano ancor oggi i Tedeschi far passare tra le picche i loro soldati degni di morte.
  59. Frate Bartolommeo Cavalca negli Ammaestramenti dice a questo proposito con antica leggiadria: „Ciocch’è in alto posto, acciò sia in più riverenza, dee esser levato dalla comune usanza. Ciocché disusato è, quello nella moltitudine miserabile è. Lo puleggio appo quelli dell’India è più caro che il pepe. Ogni cosa spessa diventa vile, per molto uso. Sono dispregiate eziandio le cose ottime, quando non rade vengono. E le molto famigliali, perchè sono sempre preste, perdono la riverenza. Per questa ragione l’ottimo profeta non è accetto in sua patria. E piace più il vino dell’oste, benché falsato e caro, che il puro di casa.„
  60. Tiberio non volle mai discostarsi da Roma, e ogn’anno faceva le viste di voler visitare gli eserciti e le province. Mettevasi a ordine, movevasi, fermavasi, tornava in dietro ratto come fa il gallo, onde diceano galloppiè.
  61. Concedasi alla somiglianza del fatto d’anacronismo, come a’ pittori i santi di varj secoli insieme ragionare o la Vergine per adorare. Quel fatto è passato a noi in proverbio, e come proverbio è qui usato e non come storia. Mitridate fece a tutti i Romani un simil giuoco; ma non è a noi passato in proverbio. Oltre a ciò, ben posso io usare tale anacronismo, poiché anche T. Livio l’usò, facendo nel secondo libro lamentarsi uno tenuto per debito in certa dura sorte di prigione, chiamata ergastuli, usati al tempo di Livio, ma non di quel prigione. Vedi il Lipsio negli Eletti, lib. 2, cap. 15.
  62. Come i Romani nel letto mangiassero, e come stessero i loro triclini, vedi l’Agostini, messer Fulvio, il Lipsio e altri moderni.
  63. Così trattò ancora Asinio Gallo, mettendogli (sì come altri dicono) per forza tanto cibo, che non lo lasciasse morire. E pregato di trar d’affanno un altro, disse: Adagio! io non gli ho ancor perdonato: come colui che dava la vita per pena, e la morte per grazia.
  64. Incientes, da cico cies, dicevano i Latini antichi donne gravide quando hanno le doglie. I nostri dicevano incinte le gravide generalmente. Non rincinga, dice il maestro Alobrandino; perciocché femmina incinta quando allatta, uccide il fanciullo. Giovacchino Perionio fa dirivare questa voce dal greco ένηυος: è nobile, è generosa, è una di quelle che dalle molte nuove o straniere condotteci dal traffico e dalla corte, sono state sopraffatte, e quasi erbe ottime affogate tra le malvage, le quali si vorrebber sarchiare quando spuntano; e più tosto volendo la lingua arricchire, spolverare i libri antichi, e servirsi delle gioie nostre risposte; che ci farebbero onore.
  65. Transumanato. Parole formate da Dante. Qui convengono molto ad Arminio feroce, irato, gloriante sè, e deridente Augusto.
  66. Vedi la postilla del secondo libro § XVII per la dichiarazione di questa voce.
  67. Con questa metafora m’è parso aggiugnere, secondo Demetrio, bellezza e magnificenza a questo luogo. Vada per quelli che io avrò a questo scrittor nobilissimo peggiorati.
  68. Per non avvilire il grado senatorio, chi non poteva tenerlo con l’usata magnificenza, era modestia lasciarlo. Dice questo Autore nel dodicesimo. Laudati dehinc oratione principis qui ob angustias familiares ordine senatorio sponte cederent; motisque qui remanendo, impudentiam pauperlati adiicerent. Asinio Gallo dice, per che ragione sia necessaria a’ maggior gradi maggiore magnificenza e spesa.
  69. Tanti sono dieci volte centomila, cioè un milione di sesterzi. Tanti ne donò Augusto a Ortalo, nipote d’Ortensio l’Oratore, acciò potesse tor moglie, e rifare quella chiara famiglia; e altri ventimila il senato a quattro suoi figliuoli; e 124 mila fu proposto darne al figliuol di Pisone e cacciarlo via. Tanto conto si teneva de’ nobili. Con si fatta liberalità s’ aiutavano. Tanta era d’un cittadino romano la grandezza e la necessaria spesa.
  70. Il beneficio si vuol fare con faccia lieta, non villana, nè dispettosa. Perché ingiuria con cortesia non si mescola; ma la guasta e caccia della memoria, e rimanvi essa. Onde al benefìcio ingiurioso ha soddisfatto chi l’ha perdonato.
  71. Tiberio voleva spegnere ogni sapere, odiava gli scienziati o valenti, temendone. E s’ingannava, secondo Aristotile, che dice: i dotti e i savj congiurare contro a’ principi meno degli altri, perché veggono maggiormente i pericoli, e che la città si rovina: sono pochi, e pochi gli seguitano e aiutano; dove gl’ignoranti son molti, e sconsiderati, guardano a poche cose, hanno più impeto che consiglio. Ne’ pericoli il pensare appo loro è viltà: il dar entro, atto reale; come dei Parti si dice. Oggi usano gli Uscocchi quando vanno a combattere imbriscarsi pazzamente con l’acquavite, per andarvi, così riscaldati, con temerità e furore e non pensare a pericolo. L’ignoranza veramente è madre dell’ingiustizia; questa è tutto ’l male della città. Ma perchè nell’acqua chiara i pesci fuggono la rete, perchè la veggono, la torbida fa per chi li vuol pigliare e mangiare.
  72. Volendo Tiberio cibare una serpe ch’ei teneva per delizia, la trovò mangiata dalle formiche. Gl’indovini gli dissero che si guardasse dalla moltitudine: però la fuggiva.
  73. Da questo Druso chiamavano Drusiane le spade ben affilate e crudelmente taglienti.
  74. Quando uno moriva innanzi a’ venti anni di soldo, non aveva guadagnato con la reppublica il ben servito.
  75. Come le vene per li corpi degli animali e per le foglie delle piante, così per la terra i fiumi si spargono con volte a storte, secondo il bisogno, ben conosciuto dalla natura, vera capomaestra e ingegnera; né possono ritoccarsi senza violenza, errore, danno e gravezza de’ popoli, e bottega dei ministri.
  76. Facevalo (dice Gioseffo, nel 18 cap. dell’Antichità) per non cacciare dalle gamberacce de’ poveri cittadini le mosche già ripiene e satolle, per rimettervi le vote affamate. Tanta carità non poteva muovere Tiberio, che si serviva de’ ministri, come dicono gli scrittori, per sue spugne a cavar il sangue, col vender le grazie, la giustizia, e con le iniquità, da’ popoli, e poi gastigandoli, le premeva. Così arricchiva, e il popolo lo benediva. Conciossiachè egli avrebbe guasta la sua propria arte. Più sode ragioni ne adduce Cornelio qui.
  77. Della natura invidiosa di Tiberio si trovano grandi cose. Notevole è, che avendo in Roma la loggia grande piegato da una banda, un architetto la dirizzò. Tiberio ammirò l’arte e donolli largamente; ma per astio non volle che al libro de’ conti si scrivesse il nome, e cacciollo via fuori di Roma. Tornolli innanzi per racquistar la grazia con altra prova, e gittò in terra una tazza di vetro, ricolse i pezzi e quivi li rappiccò come prima mirabilmente; perciò Tiberio lo fece morire.