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Canto III

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Canto II Canto IV
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CANTO TERZO


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Dissi, e spero il lettor l’abbia presente,
     Che della ben munita isola in vetta
     V’è un gran palagio, ma mi uscì di mente
     Dire a che ufficio è l’alta mole addetta:
     Sappia dunque il lettor, che sul repente
     Giogo essa venne a doppio fine eretta,
     E che risponde al fin la sua figura
     Con doppia faccia e doppia architettura.

Delle due parti la men ricca e bella,
     Che su la costa boreal torreggia,
     D’un gran trofeo s’adorna e s’incappella,
     E dei Testadilegno ivi è la reggia;
     L’altro lato, che altero ergesi e della
     Sottoposta pianura il verde ombreggia,
     Del Sultan della Fede è ospizio eletto,
     E il Labirinto del Gran Prete è detto.

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Dell’edificio la doppiezza e il nodo,
     Dirò così, che le due reggie lega,
     Non parve strano a Esperio in alcun modo,
     Che assai conosce i ferri e la bottega:
     Volle avvertir però, stando in sul sodo,
     Che se nuova non è siffatta lega,
     E l’un potere ancor l’altro sorregge,
     Odiare i lupi è sempre utile al gregge.

Ben Edea gli osservò, che al tempo antico
     Il nostro, almeno in ciò, poco somiglia,
     E ch’ora al mondo non importa un fico
     Se l’un fa all’altro l’occhiolin di triglia;
     Che l’arte loro e il traffico impudico
     A nostra libertà rischj non figlia;
     E che il Pensier più facilmente avanza,
     Quando è regola sua la tolleranza.

Ma Esperio, che in ciò solo esser codino
     Indispensabil crede, e se ne vanta,
     Soggiunge, che avanzare è uman destino,
     Che spesso, è ver, la tolleranza è santa;
     Ma chi sen va tranquillo al suo cammino.
     Di tal virtù non n’ha d’aver poi tanta,
     Che al masnadier, ch’aprir gli vuol la pancia,
     Dica: Faccia, e gradisca un po’ di mancia.

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Giungono in questi detti ai monte in cima,
     Proprio di fronte alla dedalea mole,
     E il giovane di fuor l’ammira prima,
     Indi i recessi investigar ne vuole.
     A prima giunta ei tutta aurea la stima,
     Tanto essa splende e folgoreggia al sole,
     Ma poi s’accorge, quanto più si accosta,
     Che di strani elementi essa è composta.

Pur son così le parti sue fregiate,
     Che di pari bellezza e pregio uguale
     Non mai divina fantasia di vate
     Ne finse o ne descrisse arte immortale:
     Stupenda la diresti opra di fate,
     Ma l’età non consente un pensier tale;
     Ben si può dir, ch’ivi ogni pregio aduna
     L’arte, il poter, l’astuzia e la fortuna.

Due fughe immense di colonne e d’archi
     S’apron come ali a questo ed a quel lato,
     E d’effigie di papi e di monarchi
     Col brando in pugno è ciascun arco ornato;
     Quattro obelischi ornan la piazza, carchi
     D’armi e con sopra un cieco mostro alato;
     Due fontane nel mezzo un fiume strano
     Lanciano al ciel di caldo pianto umano.

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Sublime un tempio al porticato in centro
     Candido poggia e sempre ornato a festa:
     Marmoreo par, ma se ben guardi addentro,
     Tutta la mole sua d’ossa è contesta;
     Il mirabile altar, che ad esso è dentro,
     Genio e poter più che mortale attesta,
     Chè ad arte di mosaico è lavorato,
     E ogni pezzetto è un cuor pietrificato.

E d’umano cervel con arte pari
     Impietrato e tirato a pulimento,
     Non pur dintorno ai preziosi altari,
     Ma tutto della chiesa è il pavimento;
     Di cervelli muliebri e di volgari
     Fu fornito in gran parte il monumento;
     Di guerrieri e di re ve n’è qualcuno,
     Di papi e preti, a quanto io so, nessuno.

Una cortina vegetal perenne
     Si ravvolge e s’intesse all’ara intorno,
     E d’incensi soavi e di solenne
     Penombra invade il mistico soggiorno;
     Per la crepuscolare aura le penne,
     Quasi grù pellegrine in ciel piovorno,
     Muove uno stuol di perfidi animali,
     Ch’altro corpo non han che granfie ed ali.

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Tuona per le navate ampie frattanto
     Un rauco mostro dalle cento gole
     Di metallo, e tre volte ulula: Santo!
     E tre volte a tal suon si oscura il sole;
     Prorompe a un tratto minaccioso un canto
     D’incomprese, terribili parole,
     Onde il popol, non prima ode l’estrema,
     Con uno scoppio orrendo urla: Anatèma!

Anatèma al tuo capo, in fra le abiette
     Plebi in ginocchio, irato Esperio grida,
     A te, nume d’inganni e di vendette,
     A te, vicario suo, vecchio omicida!
     Ritempra, anima mia, le tue saette,
     Fulmina, o mio pensier, l’antica sfida,
     Se ancor, se ancor su questo gregge indegno
     L’Error trionfa, e l’Impostura ha regno!

Càlmati, Edea gli dice, e non ti spiaccia
     Trar da quest’aula maledetta il piede,
     E ruttar lascia a questa rea mandraccia
     Blasfemie vane e preci a cui non crede:
     Poi che in ver di quant’essa e dica e faccia
     Ispiratrice non è già la Fede,
     Ma provien tutto da un sentor confuso
     D’ipocrisia, di tornaconto e d’uso.

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Trarre Esperio si lascia all’aura aperta,
     Benchè il veder quelle ricurve schiene
     D’ignoranti e d’ipocriti una certa
     Smania gli avesse accesa entro le vene;
     Chi grufola nel fango ira non merta,
     Poi dice, e credo che dicesse bene:
     Senza questi animali umili e brutti,
     Resterebbe il buon Dio senza prosciutti.

Ghignando a un tal pensier, dietro all’amica
     In un vasto edifìcio entra a man destra:
     Qui, gli susurra Edea, la bestia antica
     Ai nostri danni i suoi devoti addestra;
     Quindi alla turba stupida e mendica
     Tira il pane del ciel con la balestra;
     In questo a un tempo e carcere e museo
     Abita e regna il Minotauro ebreo.

Ad un tal nome, Esperio, ch’è poeta,
     Subito al Pegaseo balza in arcione:
     Se costui, pensa, è pari a quel di Creta,
     Io qual Teseo verrò seco a tenzone;
     Ma la compagna sua, ch’è più discreta,
     Lo richiama ben tosto alla ragione;
     E temendo per lui qualche malanno,
     Gii addita due che quivi a guardia stanno.

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Mostri dir li dovrei, ma dal lucente
     Corazzone e dai baffi ispidi e neri
     M’accorgo ben, ch’essi hanno fitto in mente
     D’esser uomini affatto, anzi guerrieri:
     Io, che non son maligno e impertinente,
     Creder però li devo uomini veri,
     Se non che al ceffo, a’ panni, agli atti goffi
     Li posso gabellar per due gaglioffi.

Nati in libera terra, avidi a tale
     Son d’oro e sì buzzurri e sì cialtroni,
     Che la carnaccia loro andata a male
     Dànno a peso di legna e di carboni;
     Della freccia di Tell fanno un pugnale
     A servigio dei papi e dei Borboni,
     E pur che gonfia d’orzo abbian la pancia,
     Gravemente agli schiaffi offron la guancia.

Alle stupide ghigne, al sozzo gergo
     Dei due latranti cerberacci osceni
     Volge la coppia disdegnosa il tergo,
     E s’immerge in un ampio andirivieni.
     Come che giri il sontuoso albergo,
     D’ogni tesor diversamente pieni
     Son gli anditi, le sale, i palchi, il suolo;
     Sì che formano tutti un tesor solo.

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Ma più che pietre enormi effigiate
     E in Dei cangiate da scalpel divino,
     Più che vivi tessuti ed animate
     Tele in cui s’eternò l’angel d’Urbino,
     E immaginati bronzi e delicate
     Opere di cesello e di bulino,
     Men belli oggetti ma più rari e santi
     Son di questo Museo gl’incliti vanti.

Qui fra la lancia che trafisse Cristo
     E un damascato saracin cangiarro
     Ammirasi il baston del quinto Sisto
     E di Cortes la spada e di Pizzarro;
     Quando scese in Olanda al gran conquisto
     Il duca d’Alba avea là quel tabarro;
     Questa mannaja ancor di sangue immonda
     Mozzò di Corradin la nuca bionda.

Con le indulgenze di Leone e i brevi
     Di Bonifacio, ora sgualciti e rotti,
     Qui si spiegan le bolle acri agli Svevi,
     Là si aggrinzan d’Arrigo i calzerotti,
     Ch’ei lasciò quando scalzo in su le nevi
     Ebbe in Canossa a vigilar tre notti;
     E di Gregorio la babbuccia è questa
     Ond’ei calcò dell’aspide la testa.

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Quelli i ciottoli son che al contumace
     Svevo fecer da coltre a Benevento;
     Questo è lo stil che incise il volto audace
     A chi i sacri sfatò lupi di Trento;
     Splende il ferro con esso ond’ebbe pace
     Il buono Errico all’alta lega intento,
     Ma le tanaglie non vi son, che il fio
     Fecer tosto pagar dell’atto pio.
     
Col triregno del settimo Clemente
     E l’anel di Pio nono e lo zucchetto
     Mira del Borgia il filtro onnipossente
     E l’effigie del suo don Micheletto;
     Là dell’ispana e dell’austriaca gente
     Gl’intrecciati trofei fan bell’effetto;
     A qual santo non so profferte in voto
     Qui stan le bombe del Borbon devoto.

Di Giosuè la magica bacchetta,
     Onde trema finor l’astro sovrano,
     La vedi? è là: rimane ancora eretta,
     E par che ancora egli la tenga in mano;
     In memoria di scherno e di vendetta
     E a perpetuo terror del genio umano
     Qui si conserva in smerigliati vetri
     L’ernia in guazzetto del Titan d’Arcetri.

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Vedi quest' ammirabil girarrosto
     Dal gran manubrio a collo di Lojola?
     Il vicario di Dio, ghiotto d’arrosto,
     Qui fece abbrustolir Savonarola;
     Qui lentamente ad abbronzar fu posto
     Il pervicace apostolo di Nola;
     Qui Vanini, ad onor del dio secondo,
     Ballò meglio d’un tordo il giro tondo.

Ma il monumento che più qui s’ammira
     È un'immane piramide di teste,
     Onde ciascuna, se ben guardi, gira
     Gli occhi e lancia parole orride e meste:
     Una sembianza minacciosa e dira,
     Dritta, col brando in pugno, in rossa veste.
     Librasi lampeggiante in su la vetta,
     Ed è forse la Fede o la Vendetta.

Quattro figure orribilmente insigni
     Del monumento ai quattro angoli stanno:
     Quello che cupo siede e par che ghigni
     È Filippo secondo, il pio tiranno;
     L’altro dagli occhi istabili e volpigni
     È il quinto Pio, che si festeggia ogni anno;
     Il terzo che tentenna e par che cada
     È Carlo nono; il quarto è Torquemada.

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Una donnaccia smorfiosa e brutta
     Che delle braccia al sen fa barbacane,
     Grassa bracata ma grinzosa tutta
     Ciceroneggia alle famiglie estrane:
     Ad ogni frase che il suo gozzo erutta,
     Crepita un genio fra le sue sottane;
     Ond’ella il capo rivoltando indietro.
     Dice con unzion: Viva San Pietro!
     
Attorno ai polsi, che pajon senesi
     Burischj o ver zamponi andati a male,
     A mo’ d’armille porta certi arnesi,
     Onde il lavoro e la materia vale;
     Ella dice, scherzando, averli presi
     Per poco da un beccajo officiale,
     E che tutti di vertebre son fatti
     D’ereticacci scellerati e matti.

Odon la storia le dame straniere
     (Francesi) ora di questo or di quell’osso,
     E ne prendon così vivo piacere.
     Che se la fan divotamente addosso.
     Ma Esperio non ne vuol di più sapere,
     E d’ira insieme e di vergogna rosso:
     Io scoppio, dice, se di qui non esco;
     Edea, di grazia, usciamo un poco al fresco.

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Cinto il vasto edificio è d’ognintorno
     D’un giardino, anzi barco e bosco immenso,
     Che al primo entrar di miti arbusti è adorno,
     Ma poi d’atri e maligni alberi è denso;
     Piovon perpetua notte al reo soggiorno
     Immani euforbj dal veleno intenso,
     Perfide juche, ortiche arborescenti
     Dalle foglie irte di viperei denti.

Come colubri, cui tra loro aggruppi
     Frigida fame o caloroso amore,
     Serransi i rami in mille aspri viluppi,
     Onde piove un viscoso, orrido algore;
     Sprigionasi dai lor torpidi gruppi
     Qualche livida bacca e qualche fiore;
     Stillano i tronchi dal ferrigno seno
     Gomme che pajon latte e son veleno.

Rapaci augelli dal femmineo volto,
     Dal teso ventre e dall’assiduo strido.
     Qui dell’oro rapito al mondo stolto
     Fan mucchj e monti, e su vi fanno il nido;
     Da questa selva, ove non restan molto,
     Van della terra al più remoto lido,
     E con promessa, che i più tristi appaga,
     Assicurano il cielo a chi più paga.

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Sente Esperio sul petto un’oppressura,
     Che triste, inqueto e smanioso il rende,
     Ma si fa men la sua tristezza oscura,
     Allor ch’Edea così a parlar gli prende:
     Ognun di questi c’han d’alber figura,
     Uno spirito umano in sè comprende,
     Di quei però che veste ebber talare
     Ed or son venerati in su l’altare.

Questo macenellier, che con la lieta
     Ombra e il soave frondeggiar ti alletta,
     E al passaggier, che ignaro ivi s’acqueta,
     Sonni maligni e morte indi saetta,
     La funesta virtù da una secreta
     Mente riceve a tal ufficio addetta,
     Dalla mente di lui che con parola
     Melliflua attrae, del perfido Lojola.

In quella tenebrosa upas di Giava
     Di Gusmano la torva alma s’infonde:
     Goccian però di sanguinosa bava
     Gl’incisi rami e di velen le fronde;
     Quel tetro stricno dalla noce prava
     Di Pietro d’Arbués l’anima asconde;
     Sibila in quel curaro ispido e nero
     D’Abelardo il nemico, anzi del Vero.

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Ben osaron di questo orrido bosco
     Sfidar l’ombra maligna anime altere,
     A cui purgar dell’ingannevol tosco
     Ogni terra ed età parve dovere:
     Soli, animosi per quest'aer fosco,
     Paladini del libero Pensiere,
     Vibraron l’armi generose in queste
     Tanto al genere uman piante funeste.

Mira: pe’ tronchi radicati e fermi
     Spesse piaghe e profonde il ferro aperse;
     Caddero preda di fangosi vermi
     Non poche delle frutta aspre e diverse;
     Pendono molti rami ignudi e infermi
     Contro a cui già pugnâr le forze avverse;
     Ma chi tutto scerpare e troncar deve
     Questo bosco feral verrà tra breve.

Io lo giuro, verrà: là nel mio regno
     All’alta impresa ei già tempra la scure,
     Già l'acciar formidato è dritto al segno,
     Le umane profezie son già mature:
     Le profezie che il vigilante ingegno
     Sparge a conforto dell’età future,
     Le profezie che in noi Natura ha fitte
     E col sangue del core il Genio ha scritte.

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L’alta speranza, il desiderio ardente
     Facea d’Esperio balenar le ciglia,
     Quando intorno addensar vede repente
     L’ombra che ad invernal notte somiglia,
     Se non quanto il suo sen sinistramente
     Squarciasi, ed una luce atra e vermiglia
     Con frecce e serpi di ceruleo foco
     Cresce la muta orridità del loco.

Quivi in ira al Pensiero, al sole ignoto,
     Col volto su le spalle irte converso,
     Poggia il Dogma feroce entro un immoto
     Lago di sangue fino al ventre immerso;
     Senz’occhi, senza voce, senza moto
     Par che aspetti la fin dell’universo
     Per diffonder le sue tenebre intense,
     Unico re, su le ruine immense.

Sepolto or giace in tenebroso orrore,
     In fredda notte che non ha dimane,
     Ma già molto non è che uno splendore
     Tepido avvolse la sua mole immane:
     Perpetua a lui dintorno il bieco Errore
     Una fiamma nutria di carni umane,
     Mentre un ululo udia l’orbe atterrito:
     Il ministro son io dell’Infinito!

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Stagion passò; ma intorno a lui tuttora
     Pe’l fiero bosco e le dedalee strade
     Un armento spettral che tutto ignora
     Smarrito mugghia e in sagrificio cade;
     Serrata a' fianchi suoi vigila ancora
     La schiera rea che le coscenze invade.
     La setta rea dal satiriaco ruzzo,
     Che l'Ideale ha in tasca e Dio nel buzzo.

Date al mostro le spalle, un sentier erto
     Fra sterpi e sassi e già noto ad Edea
     Presero i Pellegrini, a cui d’aperto
     Aer brama e di luce il petto ardea;
     Giungono a un torrentel, che torbo e incerto
     Freme, non so per qual bizzarra idea,
     E poi da una sassosa, ispida vetta
     Lanciasi al pian, dove nessun l’aspetta.

Qui s’adagiano alquanto. Ecco, già il sole
     Scende nel mar che par l’agogni e tremi,
     E alle montagne, che baciar pur vuole,
     Fasci invia di giacinti e crisantemi;
     Lievi ciocche di rose e di viole
     Vagano dell’azzurro ai lembi estremi,
     Mentre un blando chiaror dall’altro lato
     Annunzia al ciel, che il plenilunio è nato.

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Non anco emerso era degli astri il coro,
     Quando intera la luna al ciel sorrise,
     Qual gigantesco medaglione d’oro
     Con due teste d’amanti al mezzo incise:
     Forse per veder meglio i baci loro
     L’astro di Giove accosto a lei si mise;
     Forse assorto in pensieri intimi e buoni
     Scorse allora quei baci il mio Zamboni.

Taceva Esperio; nel pensier profondo
     Gli turbinavan le vedute cose,
     Ma l’aspetto del ciel mite e giocondo
     Una calma soave in cor gli pose.
     Salia su pe’ silenzj ampj del mondo
     Come un fresco alitar d’erbe odorose,
     Ed in un latteo, vaporoso velo
     La luna confondea la terra e il cielo.

Come sei bella e maestosa e santa,
     Allor d’Esperio la compagna esclama,
     Tu cui madre infinita il saggio canta,
     Tu cui schiava e mortale il vulgo chiama!
     Chi pari a te, chi a te maggior si vanta?
     Chi l’esser tuo comprendere non brama?
     Qual cor sublime, qual’eccelsa mente
     La tua religione alta non sente?

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Tu regni, o eterna, o senza nome! Pende
     Dal tuo seno, d’amor fonte e di luce,
     Ultimo nato l’uomo, in cui risplende
     La tua bellezza e il tuo poter traluce:
     In un bacio d’amore ei ti comprende;
     A tutto amar nell’amor tuo s’induce;
     E in una voluttà sacra, infinita
     Infutura la sua nella tua vita.

Ciò che muore per noi, per te rivive
     E specchia in mille forme unica idea;
     Ciò che del sole a un tratto esce alle rive
     Lentamente nel tuo grembo si crea;
     Tutto palpita in te, tutto in te vive,
     Si tramuta, si strugge e si ricrea;
     Vivono in te, non pur l’alghe e i coralli,
     Ma le rocce, i ghiacciaj, l'acque, i cristalli.

Un corpo immenso è l’universo, e ognuno
     De’ membri suoi, delle sue fibre è un mondo;
     Ma ben che propria vita abbia ciascuno,
     E sia diversamente ognun fecondo,
     Dal Sol raggiante al sasso umile e bruno,
     Dal pensiero dell’uomo al verme immondo,
     Un’anima infinita il tutto informa,
     E lo spinge a migrar di forma in forma.

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E qual tutte le cose e dappertutto
     L’onnigeno, vitale etere cinge,
     Tale il chiuso potere agita il tutto,
     E da lui tutto il vital succo attinge;
     Nulla di quanto ei muove è mai distrutto,
     E invan la morte a breve esizio il pinge;
     Chè in poco umore e in fuggitive membra
     Mille vite ogni vita in sè rassembra.

O profonda, immutata, unica Legge
     C'hai di stami perenni il mondo ordito,
     Per te l’universale ordin si regge,
     Per te palpita il cuor dell’Infinito;
     Per te l’opre dell’Odio Amor corregge,
     Per te da un sol pensiero il mondo è unito,
     Per te legati da catena immensa
     L’inconscia larva ed il cervel che pensa!

Schiude il Tempo al tuo piè l’avide gole,
     Scorrono dell’oblio rapido i fiumi,
     Tu gloriosa incedi, e le carole
     Degli astri accendi e le fredde ombre allumi;
     Dileguan sotto al tuo sguardo di sole
     Specie, terre ed età, popoli e numi,
     Ma tu sempre a te pari, a te sol nota
     Muovi celere sì, che sembri immota.

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Muovi, ed ecco dal tuo misterioso
     Core un raggio procede e si distende,
     E su su, senza fin, senza riposo
     D'età in età, di sfera in sfera ascende:
     O divino Ideal, fior luminoso
     Che i secoli ravvivi e l’ombre orrende,
     O sublime parola indefinita.
     Per te vita ha il pensier, legge la vita!