Avventure di Robinson Crusoe/48

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Straordinario avvenimento

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Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Straordinario avvenimento
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Straordinario avvenimento.



M
entre la bella stagione cominciava a mostrarsi e con essa ad ingagliardirsi i divisamenti della mia andata, io ne faceva gli apparecchi ogni giorno; e per prima cosa andava mettendo in disparte una certa quantità di provvigioni che dovevano essere le vettovaglie del nostro viaggio. M’affaccendava una mattina ad una di tali cose, quando, chiamato a me Venerdì, gli dissi d’andare alla spiaggia per vedere se gli riuscisse trovare una testuggine o tartaruga, cibo che non ne mancava mai, una volta almeno per settimana, e del quale eravamo ghiottissimi, sia per le uova, sia per la carne stessa. Venerdì non istette lungo tempo, che tornò addietro tutto ansante, e, scalato il piccolo muro della mia fortezza, corse a me che i suoi piedi non toccavano terra.

— «Ah padrone! padrone! Gran disgrazia! gran disgrazia! egli sclamava.

— Che è stato, Venerdì?

— Ah! laggiù venuti uno, due, tre canotti, uno, due, tre canotti venuti là.»

A questo suo modo di dire io credei che i canotti fossero sei, ma in appresso mi persuasi che erano tre solamente.

— «E per questo, Venerdì? Non vi spaventate!»

Io cercava d’incoraggiarlo alla meglio; ma vedeva che il poveretto era atterrito fortissimamente, perchè null’altro eragli saltato in [p. 280 modifica]testa, se non che quella gente fosse venuta per cercar lui e farlo in quarti e mangiarlo. Il poveretto era sì fuori di sè dallo spavento, ch’io sapeva appena che cosa dire o fare per lui. Procurai di consolarlo come potei, dicendogli ch’io non era in minor pericolo di esso e che, se l’intenzione di coloro era tale, avrebbero mangiato me come lui.

— «Ma, continuai, qui bisogna risolversi a combatterli. Vi batterete, Venerdì?

— Me saper sparare. Ma esser venuti in grandi molti!

— Che fa questo? ripresi a dire. I nostri moschetti spaventeranno quelli che non potremo uccidere.»

Gli chiesi poscia se, come era risoluto io a difender lui, egli fosse pronto a difender me, e a far quanto gli comanderei.

«Me morire, quando voi comandarmi morire, padrone.»

Andato a cercare il mio rum, chè aveva fatto grande risparmio di questa provvigione, glie ne feci bere alquante sorsate, dopo di che gli dissi pigliare i due schioppi da caccia che portavamo sempre con noi, e che caricai di pallini grossi come quelli che si mettono nelle pistole. Presi in oltre con me quattro altri moschetti, caricando ciascuno con verghe di piombo e pallini, e due pistole che portavano ognuna due palle. Attaccatami, secondo il solito, alla cintura la mia spada senza fodero, diedi a Venerdì il suo segolo. Preparate in tal modo le cose mie, salii, munito del mio cannocchiale, il pendio della montagna per vedere di scoprir qualche cosa, e vidi subito tre canotti all’àncora, ventuno selvaggi e tre loro prigioneri su la spiaggia. I primi pareano tutti affaccendati negli apparecchi d’un solenne banchetto, di cui le carni di que’ tre sgraziati doveano fornire l’imbandigione: cosa che fa addirizzare i capelli al dirla, pur consuetissima fra que’ barbari. Notai parimente che erano sbarcati non nel luogo donde Venerdì prese la fuga, ma più vicino alla nota caletta, ove la spiaggia era più bassa e coperta da una selva che si stendea sino al mare. Tutto compreso dell’orrore che l’intraprendimento scellerato di costoro doveva destare in me, tornai a trovare Venerdì, a cui dissi la mia risoluzione di piombare addosso a coloro e ammazzarli quanti erano; poi gli chiesi se m’avrebbe aiutato. Mandata or via la paura, e rallegrati e rinfrancati alquanto i suoi spiriti dal rum bevuto, mi ripete con fermezza quanto mi avea detto poco prima:

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— «Me morire quando voi comandarmi morire, padrone.»

In quell’accesso di furore presi le armi che aveva caricate, e che ci spartimmo fra noi. Posi tre moschetti su le spalle a Venerdì, e gli diedi una pistola da mettersi alla cintura; l’altra pistola e gli altri tre schioppi me li tenni io, e così armati c’incamminammo. Postomi in tasca un piccolo fiaschetto di rum, feci portare a Venerdì una bisaccia piena di polvere e di pallini e verghe di piombo, imponendogli di starmi sempre vicino e di non moversi o sparare o fare alcuna cosa, s’io non gliela comandava, ed intanto di non dire una parola. Così presi una giravolta per evitare la caletta e guadagnare la selva per mettermi in posizione di avere a tiro costoro prima di esserne scoperto: cosa che col mio cannocchiale conobbi di facile riuscita.

Ma lungo il cammino, ridestatisi nella mia mente gli antichi pensieri, cominciò ad affievolirsi in me la presa risoluzione. Nè credeste già che mi sgomentassi del numero; essendo ignudi e disarmati quei miserabili, certamente il vantaggio contr’essi era dalla parte mia, e sarebbe stato quando anche mi fossi trovato solo. Tutt’altro era il motivo della mia perplessità. Qual diritto, qual cagione, e molto meno qual necessità mi spingeva ad imbrattare le mie mani nel sangue, ad assalire un popolo che nè mi avea offeso, nè avea manifestata veruna intenzione di offendermi? di un popolo che rispetto a me era innocente, e i cui barbari usi erano una sua disgrazia soltanto, un contrassegno dell’abbandono di Dio, che insieme all’altre nazioni di quella parte di globo gli ha lasciati in preda alla loro stupidezza, alla loro inumanità, ma che non ha chiamato me a giudicarne le azioni, e meno a farmi esecutore della sua giustizia? Ben questo Dio avrebbe saputo, quando lo avesse giudicato opportuno, castigar quelle genti siccome popolo, e per delitti nazionali esercitare una nazionale vendetta; ma questo non era mio uffizio. Poteva, egli è vero, essere scusabile Venerdì, chiarito nemico ed in istato di guerra con quel dato popolo, onde l’assalirlo era un atto legittimo dal canto suo; ma per parte mia io non avea veruna di queste scuse da addurre. Tutto queste considerazioni m’incalzarono con tal forza lungo la strada, che risolvei pormi soltanto in vicinanza di que’ selvaggi per osservare la barbara loro festa, poi comportarmi siccome Dio m’avrebbe inspirato, ma di non frammettermi come attore, semprechè non mi si offrisse tal conseguenza ch’io ravvisassi in essa una chiamata di Dio.

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Con questo proposito entrai nella selva con la massima cautela, serbando il più perfetto silenzio e seguendo sempre le pedate mie Venerdì. Camminai tanto che giunsi al lembo del bosco; onde mi separava soltanto dai selvaggi una punta di esso. Qui chiamai pian piano Venerdì, al quale, additato un grande albero che formava appunto l’estremità della selva, dissi che andasse fino colà, se niente poteva scoprire di ciò che coloro stessero facendo. Mi obbedì; nè tardò a tornare addietro per riferirmi di avere ben veduto il tutto: che quegli sgraziati stavano attorno al fuoco mangiando la carne d’uno dei loro prigionieri, e che un altro di questi stava legato su la sabbia in poca distanza da loro nell’espettazione di essere anch’egli macellato a sua volta, al che sentii infiammarsi tutta di sdegno l’anima mia. Aggiunse non essere questa vittima di sua nazione, ma uno degli uomi dalla barba spinti dalla burrasca nel suo paese dalla scialuppa europea. Quale orrore m’investì all’udir nominato un uomo europeo! Andato io stesso dietro all’albero per indagare col mio cannocchiale ciò che succedea, vidi veramente un uomo di carnagione bianca che giacea su la sponda del mare, legato i piedi e le mani con funi di canne palustri o alcun che di simile, un uomo veramente europeo come indicavano i suoi stessi panni.

Eravi un altro albero, e dietro ad esso un boschetto che più del primo era vicino di cinquanta braccia ai selvaggi. M’accorsi d’un piccolo viottolo selvoso per ove avrei potuto andare inosservato fin là ed essere distante un mezzo tiro di schioppo da que’ manigoldi. Frenata la mia rabbia, che certo era pervenuta al massimo grado, tenni quella via ombrosa finchè giunsi al secondo albero; quivi guadagnata una piccola eminenza, poteva discernere pienamente ogni cosa ad una distanza di ottanta braccia.

Non c’era un istante da perdere, perchè diciannove di quegli orribili malandrini seduti alla rinfusa e tutti stretti l’un presso l’altro, avevano allora mandati due dei loro, perchè macellassero il povero Cristiano, e lo riportassero probabilmente a quarti a quarti al loro fuoco. Già i due beccai s’erano chinati per disciogliere dalle pastoie i piedi di quello sfortunato. Mi volsi a Venerdì.

— «Adesso, Venerdì, fa quello che ti dirò.

— Star pronto, padrone!

— E fa esattamente quello che mi vedrai fare. Bada di non mancare in nulla!»

Drizzai la mira ai selvaggi e dissi a Venerdì d'imitarmi — « Sei pronto? — Sì, padrone! — Dunque fuoco su i selvaggi.»

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Ciò detto posi a terra lo schioppo da caccia e uno de’ miei archibusi; Venerdì fece lo stesso co’ propri: con l’altro archibuso drizzai la mira ai selvaggi e dissi a Venerdì d’imitarmi.

— «Sei pronto?

— Sì, padrone!

— Dunque fuoco su i selvaggi» e nel medesimo tempo sparai ancor io.

Venerdì avea presa la mira assai meglio di me, perchè nella parte verso cui sparò uccise due uomini e nè ferì tre altri; dalla mia banda ne uccisi sol uno e nè ferii due. Vi giuro che coloro si trovarono in una tremenda costernazione; e tutti quelli che non rimasero feriti, saltarono in piedi, nè sapevano da qual parte correre o per dove fuggire, perchè ignoravano donde la loro distruzione venisse. Venerdì non mi levava gli occhi d’addosso per vedere, com’io gli avea imposto, quel che faceva. In fatti, appena sparato la prima volta, misi a terra l’archibuso, e presi su lo schioppo da caccia; e Venerdì lo stesso; posi il dito al grilletto; egli pure.

— «Siete lesto, Venerdì?

— Sì, padrone.

— Sparate, in nome di Dio!»

Nel dir ciò feci fuoco nuovamente su quella sbalordita marmaglia, e fece fuoco Venerdì; e siccome questa volta le nostre armi erano sol cariche di pallini, vedemmo cadere sol due selvaggi, ma molti furono i feriti che correvano attorno mugghiando e urlando come matti, tutti imbrodolati di sangue, e molti di essi sì gravemente feriti, che non tardarono a cadere benchè non morti del tutto.

— «Adesso, Venerdì, diss’io mettendo giù l’armi scaricate e prendendo il moschetto carico tuttavia, adesso seguitemi:» il che egli fece con molto coraggio.

Allora, saltato fuori del bosco, mi mostrai; e Venerdì sempre dietro a me. Appena mi accorsi d’esser veduto, mi diedi a gridare con quanto fiato aveva e Venerdì anche lui; poi correndo forte quanto potei, nè poteva moltissimo con tante armi addosso, andai a dirittura in verso alla povera vittima giacente come dissi presso al lido tra il mare ed il luogo ove i suoi carnefici stavano seduti. I due macellai che stavano appunto in procinto di spedire quell’infelice quando feci fuoco la prima volta, lo lasciarono presi da un grande spavento; poi, corsi al mare, saltarono dentro un canotto, ove si rifuggirono [p. 284 modifica]tre altri de’ loro compagni. Voltomi a Venerdì, gli dissi di correre e far fuoco sopra costoro. Mi capì subito, e prese una corsa di circa quaranta braccia per averli più a tiro; sparò contr’essi, e credei gli avesse uccisi tutti, perchè li vidi cadere in mucchio entro alla barca; ma notai poco dopo che due di questi si rialzarono: due altri certo gli uccise, e ferì sì bene il terzo che rimase come morto in fondo al canotto.

Mentre il mio Venerdì facea fuoco su questo, io, tratto a mano il mio coltello da caccia, tagliava i legami che stringevano lo sfortunato paziente. Dopo averlo sciolto, lo alzai da terra e gli chiesi in lingua portoghese chi fosse. Christianus, mi rispose; ma era sì debole ed estenuato, che poteva appena parlare o reggersi su le sue gambe. Toltomi di tasca il mio fiaschetto di rum, gliene diedi alcun poco pregandolo a cenni che ne bevesse; e così fece e mangiò un pezzo di pane che parimente gli offersi. Gli chiesi allora di qual paese fosse: mi rispose che era spagnuolo; ed essendosi alquanto riavuto, mi diede tutti i possibili contrassegni della gratitudine che mi professava per la sua liberazione.

— «Senor, gli dissi accozzando insieme quelle poche parole spagnuole che seppi, avremo tempo di parlare; ma or bisogna pensare [p. 285 modifica]a combattere: se vi è rimasta ancora qualche forza, tenete questa pistola e questa spada e datevi attorno.»

Prese quell’armi ringraziandomi, e appena l’ebbe brandite, quasi avessero infuso in lui un vigore novello, corse in cerca de’ suoi assassini. Scagliatosi con furia sovr’essi, nè taglio a pezzi due in men che nol dico; perchè, per dar luogo alla verità tutta intera, que’ poveri sgraziati erano si orridamente atterriti dallo strepito delle nostre armi da fuoco, che cadeano per mero sbalordimento e paura; nè per cercare uno scampo avevano maggior virtù, che per resistere ai nostri moschetti. Tale si fu il caso di que’ cinque su cui Venerdì tirò entro al canotto; poichè se tre di quelli caddero pel colpo ricevuto, gli altri due caddero dalla paura.

Mi tenni in mano il mio moschetto senza spararlo, perchè bramava di averne prima presti altri caricati di nuovo, tanto più che la mia spada e la mia pistola le avea date allo Spagnuolo. Laonde, chiamato a me Venerdì, gli dissi di correre a piè dell’albero donde avea fatto fuoco la prima volta, e di portarmi l’archibuso e lo schioppo da caccia, che, senza tornarli a caricare, vi avea lasciati; il che egli fe’ con grande prestezza. Allora, datogli il mio moschetto, mi assisi per caricare le altre armi; e dissi sì al mio servo e sì allo Spagnuolo di venirle a cercare da me quando nè abbisognavano. Mentre io stava adoperandomi in ciò, nacque un accanito conflitto tra lo Spagnuolo ed un selvaggio che gli menava colpi con una enorme spada di legno: tal che lo avrebbe fatto in quarti se io non fossi stato in tempo a liberarlo. Lo Spagnuolo, uomo dotato di valore e coraggio oltre a quanto può immaginarsi, aveva, malgrado della sua debolezza, tenuto per un bel pezzo in rispetto l’Indiano, cui fece due grandi ferite sopra la testa; ma costui, mascalzone gagliardo ed intrepido, serratosegli alla vita, giunse ad atterrarlo, poichè veramente le forze lo abbandonavano: stava strappandogli di mano la spada. Lo Spagnuolo da uomo accorto gliela abbandonò, e fu ad un tempo lesto a trarsi dalla cintura la pistola, che, scaricala su l’Indiano, gli trapassò il petto, sì che lo avea steso morto su l’erba prima che io, corso in aiuto di chi dianzi era soggiacente, potessi arrivargli vicino.

Venerdì, che in questo momento non aveva altri miei ordini da eseguire, si diede ad inseguire i fuggiaschi senza altro che il suo segolo, col quale spacciò e que’ tre già menzionati che caddero feriti sin da [p. 286 modifica]principio e tutti quelli in cui s’abbattè. Intanto lo Spagnuolo essendo venuto a cercarmi per un moschetto, gli diedi uno de’ miei schioppi da caccia col quale, inseguiti due selvaggi, li ferì entrambi; ma poichè non era nè poteva nello stato suo essere agile al corso, questi si ripararono nella selva, ove Venerdì fu loro addosso e uccisene uno. L’altro nondimeno più svelto del mio servo riuscì a sottrarsegli, e, gettatosi nel mare, potè raggiugnere gagliardamente nuotando que’ suoi compagni che si erano salvati nel canotto. Questi tre, con un ferito che non sapemmo se fosse morto o no, furono i soli tra i ventuno che camparono dalle nostre mani. Ecco il computo:

3 uccisi al nostro primo fuoco fatto dall’albero,
2 al secondo fuoco,
2 da Venerdì nel canotto,
2 dei primi feriti, indi uccisi anch’essi da Venerdì,
1 da Venerdì nella selva,
3 dallo Spagnuolo,
4 trovati qua e là morti delle loro ferite o uccisi da Venerdì che gl’inseguì nella selva,
4 fuggiti nel canotto un de’ quali ferito se non morto.
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21 in tutto.