Avventure di Robinson Crusoe/9

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Piantagione di zucchero fatta nel Brasile

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Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Piantagione di zucchero fatta nel Brasile
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Piantagione di zucchero fatta nel Brasile.



N
on mi ricorderò mai abbastanza del generoso trattamento usatomi dal capitano. Oltre al non aver voluto ricevere alcun danaro pel mio viaggio al Brasile, mi diede venti ducati per la pelle del leopardo, e quaranta per quella del leone che si trovavano nella mia scialuppa, comandando indi che mi fossero puntualmente consegnate tutte le cose di mia pertinenza.

Quante di queste fui contento di vendere, le comprò da me; così accadde per la cassa di liquori, così per due moschetti e per una parte del pane di cera, perchè il rimanente di esso lo aveva convertito in candele; in una parola di tutto il mio carico ricavai dugento venti ducati, col qual capitale toccai la spiaggia del Brasile.

Non rimasi qui a lungo senza che il buon capitano m’avesse raccomandato ad un onest’uomo come lui, possessore di un ingenio; chè così chiamasi colà una piantagione e fabbrica di zucchero. Vissuto qualche tempo con questa persona, imparai il modo di piantare e di fabbricare lo zucchero; e veduto come i piantatori vivessero e facessero presto ad arricchire, mi determinai, purchè avessi una licenza, [p. 44 modifica]


di stabilirmi nel paese, e divenir piantatore ancor io. Nel tempo stesso m’adoperai a cercar qualche mezzo per farmi arrivare il danaro che m’avea lasciato addietro a Londra. Ottenuta dunque una specie di lettera di naturalità, acquistai quanto terreno incolto poteva comprare col danaro presente, formando i miei disegni per l’immaginata piantagione, disegni ne’ quali feci entrare anche il danaro ch’io mi prefiggea di ritirare da Londra.

Aveva per vicino un portoghese di Lisbona, nato per altro da genitori inglesi, di cognome Wells, che si trovava nelle mie medesime condizioni. Lo chiamo mio vicino, perchè la sua piantagione era contigua alla mia, e veramente vivemmo in buon accordo fra noi. Il mio capitale era poco siccome il suo, e per circa due anni abbiamo fatto la vita dei piantatori piuttosto per procacciarci il vitto, che per altro intento. Ciò non ostante le cose nostre cominciarono a prosperare, e i nostri due poderi a prendere buon aspetto, di modo che nel terzo anno piantammo un po’ di tabacco, e ciascuno di noi apparecchiò un ampio spazio di terreno ove piantarvi canne di zucchero per l’anno avvenire; ma tutt’e due mancavamo di chi ci [p. 45 modifica]aiutasse, e compresi allora più che mai quanto avessi avuto torto nel separarmi dal mio buon fanciullo Xury.

Ma già sfortunatamente l’aver torto non era un soggetto di stupore per me che non ne aveva mai fatta una per il diritto, nè vi era verso ch’io m’attenessi alla strada buona. Di fatto io mi era messo in una impresa del tutto contraria alla mia inclinazione, a quella vita di cui mi beava nella mia fantasia, e per la quale abbandonai la casa di mio padre, e mi gettai dietro le spalle tutti i suoi buoni suggerimenti; anzi io stava per entrare in quello stato medio, o sia in quel primo stato nella vita borghese, com’egli lo chiamava, e quale mi veniva consigliato da lui; in quello stato che, se mi fossi determinato ad abbracciarlo prima, avrei raggiunto, standomene a casa mia e senza straccarmi a girare il mondo come aveva fatto; onde io soleva dire a me stesso:

— «Io poteva avere queste cose medesime nell’Inghilterra fra i miei amici, senza andare a far cinquemila miglia di cammino, senza essermi trovato fra selvaggi ed estranei, in un deserto ed a tal distanza da non ricevere notizie da veruna parte del mondo che abbia la menoma relazione con me.»

In questo modo io soleva meditare col massimo rincrescimento su la mia condizione presente. Non aveva con chi conversare, se non a quando a quando col vicino di cui ho parlato; non poteva eseguire alcun lavoro se non con la fatica delle mie braccia, e mi pareva proprio di vivere come un uomo balestrato su qualche isola deserta, senz’altra compagnia che quella di sè medesimo. Ma oh! come ciò era giusto, e oh! come tutti gli uomini tentati ad augurarsi in vece della loro condizione presente altre condizioni peggiori, dovrebbero pensare che il Cielo può costringerli a tal cangiamento, e convincerli con l’esperienza quanto fossero più felici da prima! Oh! come era giusto, lo ripeto, che il condurre tal vita veramente solitaria, qual io me la dipingeva adesso in un’isola deserta, fosse retaggio di me, o al segno di metterla a confronto con quella ch’io viveva allora, vita che se non me l’avessi giocata, mi avrebbe secondo ogni probabilità fruttato e ricchezze ed ogni contentezza di cuore!

Può dirsi fino ad un certo segno che tutto era già avviato per la mia piantagione prima che il mio cortese amico, il capitano del vascello che mi raccolse sul mare, si fosse rimesso in viaggio; perchè la nave di lui, per raddobbarsi e disporsi ad una nuova traversata, [p. 46 modifica]rimase qui circa tre mesi; ed allora, avendogli io detto di aver lasciato addietro in Londra un piccolo capitale di mia ragione, mi diede questo amichevole e sincero consiglio:

— «Senhor Inglese (chè non mi chiamava mai se non così), se mi darete lettere ed una carta di procura in forma con un ordine a chi è depositario del vostro danaro in Londra, affinchè faccia arrivarlo alla persona ch’io indicherò, e convertito in quelle merci che saranno più convenevoli a questa piazza, ve ne porterò, piacendo a Dio, al mio ritorno in Lisbona il valsente; nondimeno, siccome le cose umane vanno soggette a mutazioni o disastri, vi direi di non ordinare una spedizione d’altro valore che d’un centinaio di sterlini, metà, come dite, del vostro capitale, e di stare a vedere come la sorte buttasse per la prima volta. Così, s’io torno sano e salvo, voi potrete ordinare con lo stesso mezzo la spedizione del rimanente; se le cose andassero male, vi resterebbe sempre l’altra metà, su cui fare i vostri conti.»

Trovai troppo salutare ed amichevole questo suggerimento per non arrendermi subito ad esso, e però apparecchiai le lettere per quella signora nelle cui mani io aveva lasciato il danaro, e la carta di procura che il capitano portoghese mi consigliò.

Nella lettera che scrissi alla vedova del capitano inglese, la ragguagliai pienamente di tutte le mie avventure, della mia schiavitù, della mia fuga, dell’incontro fatto in mare col capitano portoghese, dell’umano di lui procedere, della condizione in che mi trovava ora, e di tutte le altre particolarità necessarie alla spedizione di una parte del mio danaro. Poiché questo onesto capitano fu a Lisbona, trovò il mezzo di alcuni trafficanti inglesi che vi dimoravano, per far tenere non solamente il mio ordine, ma l’intero racconto delle mie avventure ad un negoziante di Londra, che presentò di fatto tutte le indicate carte a quella signora. Essa, oltre allo sborsare la somma richiestale, inviò del proprio un assai bel regalo al capitano portoghese in compenso dell’umanità e delle amorevolezze usatemi.

Il mercante di Londra, dopo avere convertite le cento lire sterline in merci di manifattura inglese, quali gliele aveva indicate il mio amico, le inviò direttamente a Lisbona, onde il capitano me le portò poi intatte al Brasile. Fra queste (e certo senza ch’io gliene avessi fatto cenno, che era troppo giovine per intendermi di tali affari) aveva avuto cura di far sì che si trovasse ogni sorta di stromenti, [p. 47 modifica]ferramenti ed ordigni necessari alla mia piantagione, e riconosciuti di grand’uso per me.

Poichè il carico fu arrivato, credei fatta la mia fortuna, e ne fui veramente attonito dalla gioia. Il mio buon maggiordomo, il capitano si era perfin giovato dei cinque sterlini trasmessigli in via di presente dalla vedova del capitano inglese, per provvedermi un famiglio obbligato a sei anni di servigio, e condurmelo senza volere accettare verun compenso da me, salvo un po’ di tabacco che lo costrinsi a ricevere come ricolto della mia piantagione.

Nè qui stava il tutto, perchè il mio danaro essendo convertito in manifatture inglesi, come panni, drappi, baiette ed altre merci singolarmente desiderate in que’ paesi, trovai modo di venderle con grande vantaggio; onde potei dire di avere quattro volte più del valore del mio primo capitale, ed ora mi vedeva infinitamente al di sopra del mio vicino nel buon avviamento della mia piantagione. Per prima cosa mi comprai uno schiavo negro, e mi procurai un altro famiglio europeo; intendo un altro oltre quello che il capitano mi condusse da Lisbona.

Ma la prosperità è spesse volte l’origine delle più gravi disgrazie [p. 48 modifica]per chi ne abusa; e ciò fa il caso mio. Nel prossimo anno ebbi straordinaria fortuna nella mia piantagione; raccolsi cinquanta grandi rotoli di tabacco sul mio podere, oltre a quelli ch’io aveva obbligati, per procurarmi le mie provvigioni annue di casa, ai miei vicini; e questi cinquanta rotoli, ciascuno di peso oltre ad un quintale, vennero da me acconciati e tenuti in serbo pel ritorno della flotta da Lisbona. In questo aumento di affari e di ricchezze, la mia testa cominciò ad empirsi di divisamenti oltre a quanti ne potessi abbracciare; e veramente sta in ciò, il più delle volte, la rovina dei più abili speculatori. Se mi fossi limitato a mantenermi nella posizione cui era giunto, ora vi sarebbe stato luogo per me a tutte quelle fortune che mi augurava tanto mio padre, e pel conseguimento delle quali mi avea sì caldamente raccomandato un genere di vita ritirato e tranquillo; a quelle fortune che egli mi avea con tanta evidenza descritte siccome retaggio di uno stato medio fra l’infimo e l’eccelso. Ma altri casi mi aspettavano, ed io fui nuovamente lo sgraziato artefice delle mie proprie sciagure; anzi, ad aumento di colpa in me, e ad ingrandire le meste considerazioni che mi sarebbe toccato di fare su me medesimo nell’avvenire, tutti questi miei errori derivarono da evidente ostinazione in me di secondare la mia mania di vagare pel mondo, e di far ciò in aperta contraddizione con quanto il mio dovere mi avea suggerito e con le più patenti vie di avvantaggiarmi con una condotta di vivere semplice e piacevole, quali la natura e la provvidenza congiuntamente mi aprivano.

Come una volta il non contentarmi della mia sorte mi fece fuggire dai miei genitori, così non seppi credermi ora abbastanza felice, se non mi commetteva a nuovi rischi, se non abbandonava la bella speranza di divenire uom ricco e fortunato nella mia nuova piantagione, unicamente per correr dietro ad un audace immoderato desiderio d’innalzarmi oltre quanto la natura delle cose lo permetteva; così io mi precipitai nuovamente nel più profondo abisso di miseria entro cui uomo sia caduto giammai, o forse il solo che possa immaginarsi al mondo, ove non manchi la vita o la forza di sentirne l’angoscia.