Busto Arsizio - Notizie storico statistiche/Parte II/II

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Cap. II

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Parte II - I Parte II - III
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II.


Industria e Commercio — Istruzione — Biblioteca —
Usi e costumi — Dialetto.


Le cure di questi terrieri sono rivolte più all’industria e al trafico, che all’agricoltura.

L’industria era nel borgo molto estesa e varia, ma sopratutto quella che risguardava il ferro filato, il cuojo e la bambagia. Il lavoro del ferro in tenui fili vi era fiorente fin dal secolo XIV. Quest’arte, secondo narra il Bossi nel suo poema su le particolarità dell’Insubria, era stata portata dai Bustesi a Lecco, Bergamo, Brescia ed in altri luoghi di Lombardia. Con essa gareggiava pure quella de’ cojaj, cioè conciatori di pelli. L’arte del filare e tessere il cotone fu introdutta in Busto nel 1560, e come afferma il Crespi Castoldo nell’Insubria, da Gio. Battista Pozzi detto il Guelfo, Cristoforo Ferrano Piantone e Pietro Francesco Landriani.

In appresso vi prese in guisa il sopravento su le altre che le fece grado grado scomparire, ed oggidì non vi ha più alcuno nel borgo che riduca il ferro in fili, o lavori a conciar pelli.

Ma la guerra che fu quasi continua e il poco conto in cui erano tenute le arti sotto il dominio spagnolo affievolirono la prosperità commerciale del nostro borgo il quale cominciò a risorgere dopo la metà del secolo [p. 164 modifica]scorso. E una prova che Busto versasse in cattive condizioni l'abbiamo da una grida del 20 di febrajo del 1729 nella quale si proibisce agli artieri maschi e femine del borgo e delle terre adjacenti di trasferirsi in altri dominj con i loro arnesi atti a lavorare il cotone, obligando il podestà e i consoli del luogo a denunziare i contraventori. Malgrado però di tutti questi provvedimenti un tale stato di cose continuò per molti anni, come risulta anche da una memoria diretta all'Intendente generale di Milano, in cui è detto che dalla Pasqua del 1781 a quella del 1782 emigrarono dal borgo molti operaj e mercanti per trasportarsi nel vicino dominio Sardo, allettati da alcune operazioni daziarie colà eseguite, ed alle quali non poteva far fronte la tariffa del cotone e delle sue manifatture presso di noi più elevata.

Da principio il cotone filavasi a mano nel domicilio delle famiglie del contado, che ne ritraevano con che vestirsi e comperare i generi di prima necessità. In appresso sorsero ti stabilimenti della filatura della bambagia a machina, i quali se dà una parte contribuirono a ribassare sensibilmente i prezzi assegnati agli operaj che lo lavoravano nelle loro case; dall'altra servirono a moltiplicare le trasformazioni del cotone e ad estendere il commercio bustese non solo in Italia, ma pur altrove. Il che produsse anche un notabile aumento nella popolazione. L'antica fama de'frustagni di Busto viepiù si consolidò dopò che la ditta Andrea Ponti di Gallarate vi stabilì manifatture sostenute da grossi capitali. Soltanto in Busto e nei dintorni contavansi di recente sino 40 fabricatori di tessuti bambagini, che davano pane e lavoro a circa undici mila persone e un prodotto di sei milioni di lire. La ditta Turati Francesco che trae direttamente il cotone fin dall'America, e può [p. 165 modifica] dirsi la più importante di Lombardia in tale industria, vanta in Busto uno stabilimento nel quale si fabricano cotoni d'ogni genere, e dove oltre 1400 telaj communi battenti sono in moto altri 30 telaj mecanici detti alla Jacquard. In Castellanza sorge un altro stabilimento di tintura e di candeggio al liscivo in sussidio della detta fabrica di Busto. Vi sono poi opificj di filatura in Besozzo, Brescia, Castiglione e Malnate che lavorano per quella Ditta la quale tien deposito de'proprj filati in Verona, Brescia, Mantova e Pavia. Il personale addetto all'opificio di Busto ascendeva a 3500 individui e a 1500 per le diverse altre fabriche. Perciò il Governo di Lombardia le conferì nel 1838 il titolo di fabrica privilegiata, e nel 1839 l'Istituto di Scienze, Lettere ed Arti la decorò della medaglia d'oro a cui il 10 d'aprile del 1843 aggiungevasene altra simile per parte della Società d'Incoraggiamento. Anzi questa, per i mezzi che la ditta attuava ne'propri opifici a preservare la salute degli operaj, le impartì una medaglia d'argento. Anche la ditta Candiani fu pregiata con medaglia d'oro e d'argento e distinta co'l titolo di privilegiata.

Dal complesso di tutti questi telaj fabricavansi ogni anno circa 130,000 pezze di braccia 110 cadauna per adequato, in frustagni, tele, dobletti, fasce, coperte e diverse altre stoffe consumando per tale produzione chil. 1,200,000 di filo di cotone che costituiscono circa ⅖ del prodotto di tutte le filature della Lombardia, come risulta dai calcoli riferiti dal dottor Ercole Ferrario nel già citato suo lavoro. I tessuti poi avevano spaccio massime nelle provincie Lombardo-Venete, nel Tirolo, a Trieste e ne'ducati oltre Po. Circa poi alla fabricazione dei tessuti di cotone in Busto nel 1861 veggasi il quì unito Prospetto [p. 166 modifica]

Ma questa industria del cotone, che andava sempre più di giorno in giorno prosperando, ricevette per la recente guerra tra gli Stati del Sud e del Nord dell’Unione Americana una grave scossa che gettò nella miseria molte famiglie di Busto e de’ dintorni. Sgraziatamente la crisi commerciale cominciata già da alcuni anni pesò anche su varj oggetti di domestico uso e s’aggiunse ai publici aggravi, e ai falliti raccolti del vino e de’ bozzoli. Ciò deve spingere proprietarj e contadini ad estendere i generi di cultivazione e a tentar ogni via, perchè Governo e commercianti concorrano a ravvivarvi l’industria bambagina. Certo l’onorevole Ercole Lualdi precede in ciò coll’esempio. In un suo giardino di circa sette pertiche annesso all’Istituto Garibaldi seminò nel 1863 il cotone che, sebene poco adatto al nostro clima, tuttavia per il caldo straordinario di quest’estate diede risultati abbastanza sodisfacenti, portando ciascuna pianticella per adequato più di quaranta bacche1.

La classe più civile è amica del lusso onesto, al quale l’agiatezza generale invita, obediente alle leggi, avversa alle liti, ed amante degli usi cittadineschi. I cibi preferiti sono le carni di manzo, di vitello, di majale, e di vacca, della quale ultima si valgono per preparare uno speciale manicaretto che dicono i bruscitt2. È del pari rinomato il pan giallo di Busto, composto di [p. 167 modifica] farina di grano turco e di segale. Il vino e l’aquavite sono bevande assai usate, in ispecie questa seconda presso la gente bassa.

Non senza interesse sono le carte d’archivio riguardanti le vicende dell’istruzione. Il prete Giovanni Crespi di Paronino con suo testamento del 30 di luglio del 1505 rogato da Gio. Gerolamo Gandiani notajo publico di Milano, ordinò che i deputati dell’Ospedale della Pietà di Milano dessero ogni anno 80 lire imperiali ad un maestro di Grammatica ed altre lire 46 ad un ripetitore, con l’obligo ai medesimi di istruire nella grammatica 40 scolari poveri, i cui beni non oltrepassassero un soldo e mezzo imperiale d’estimo communale. Nel caso poi che non vi fossero scolari in numero sufficiente di un estimo sì basso, determinò che il detto numero si compisse coi più prossimi al medesimo testatore e dì uno de’ rettori di Busto, che appartenesse alla famiglia Crespi. Se però non ci avesse alcun rettore della famiglia Crespi gli sottentrasse il rettore più anziano della chiesa di S. Giovanni di Busto, fissando altresì che a tal rettore e a più vicini congiunti del testatore spettasse l’elezione del maestro e del ripetitore. Alla quale elezione i deputati del sudetto Ospitale dovevano acconsentire ed approvarla, purché li eletti fossero idonei ed appartenessero al casato de’ Crespi, e, dove in questo non si trovassero suggetti idonei, se ne scegliessero altri più abili. E perchè col detto testamento lasciò che i medesimi deputati sborsassero annualmente otto lire imperiali per celebrargli un anniversario con 12 sacerdoti, così dispose che v’intervenissero il maestro e il ripetitore con li scolari, aggiungendo anche la pena di 20 soldi per ciascuna volta in caso di loro mancanza. In appresso il sacerdote Gio. Ballista Bossi che aveva [p. 168 modifica]incominciato ad insegnar la grammatica latina in Busto nel 1753 teneva nella propria casa convittori giovinetti sì del borgo come de’ paesi circonvicini.

Quando da una lettera del 9 di dicembre del 1806 del Prefetto del Dipartimento d’Olona al Consigliere Consultore di Stato e Direttore Generale della publica istruzione, si viene in cognizione che il Proposto Giovanni Maggi ed il curato Antonio Cortellari di Busto Arsizio, come esecutori testamentarj del nominato sacerdote Bossi, avevano notificato a quella Municipalità che tra i legati di quell’ottimo sacerdote eravi ancor quello d’istituire una scuola per ventiquattro figliuoli poveri di Busto avendo gravato il suo erede di pagare il maestro dalle lire trecento fino alle quattrocento annue, come e quando stimeranno conveniente i suoi esecutori. Così ritrovasi nell’archivio della curia arcivescovile di Milano nel volume intitolato: Visitatio plebis Busti facta anno 1603 ab Emi. et Rev. domino Cardinali Federico Borromeo Archiep. in fol. 234 tergo, dove, tra l’altre cose, trattasi De ludi Magistris.

Parimente da lettera dell’8 d’aprile del 1774 di Gerolamo Banfi prevosto di Corbetta si raccoglie che due maestri laici tenevano allora, come dicesi, dozzina di ragazzi in Busto con qualche sembianza di collegio, e vi insegnavano a leggere, scrivere e la grammatica. Ammettevano però alle loro lezioni scolastiche, contro una pattuita mercede, altri fanciulli de’ più civili del borgo.

Analoghi a questo pio istituto eranvi in Busto duo soli legati. L’uno constava di 100 lire annue che pagavansi dalla scuola del SS. ai suddetti maestri perchè facessero scuola a dodici figli delle famiglie Tosi, anzi quando vi fosse alcuno di quello stipite, che amasse di occuparsi di tale istruzione, aveva diritto d’essere [p. 169 modifica] prescelto al magistero L’altro legato era pure di circa lire cento e pagavasi dal Luogo Pio della Carità di Milano, a patto che si ammaestrassero nel leggere e nello scrivere; altri dodici figli della famiglia Crespi. La popolazione del borgo oltrepassava fin d’allora le 6 mila anime, e già riconoscevasi in tal proposito il bisogno di un provedimento più vantaggioso.

A que’ tempi erano in vigore in Busto Arsizio anche tredici scuole non gratuite per le fanciulle. Erano aperte sì d’estate, come d’inverno, e ciascuna di esse scuole occupava una sola camera. Ogni maestra faceva scuola in casa propria, ed era ufficio di lei d’insegnar a leggere, scrivere, cucire e far calze, in breve ogni lavoro feminile. Le discepole pagavano al mese soldi dieci leggendo l’Interrogatorio e soldi quindici leggendo il Bellarmino e l’officio e imparando a scrivere e cucire. Ecco chi fossero allora le tredici maestre: Caterina Pariani, Maria Elisabetta Bossi, Antonia Bossi, Giuseppa Crespi, Elisabetta Tosi, Marianna Lombardini, Angela Azimonti, Maria Antonia Bonomi, Angela Biscella tutte nubili; Elena Ollolini maritata, e le vedove Lucia Fassi e Caterina Crespi.

Durante la Republica Cisalpina il cittadino abbate Giuseppe Maria Guidi di Busto Arsizio presentò ai Direttori di essa medesima un piano da lui ideato d’organizzazione democratica del borgo e delle terre adjacenti, proponendo in esso notabili riforme così intorno al clero, alle scuole e alla publica istruzione, come alla parte politica, economica e militare3.

Alberto Crespi lasciò un’ampia raccolta di libri per una publica biblioteca. Verso il 1500 un Bernardino [p. 170 modifica] Crespi paroco in luogo l’aperse all’uso commune. Francesco Crespi, altro de’ paroci a lui successi l’arricchì di una copiosa nuova suppellettile. Accresciuta dalla generosità dei Bustesi, comprendeva nei primordj del secolo XVII molti manoscritti, oltre un notabile corredo di volumi stampati, fra cui contavansi degli incunaboli. I copiosi avanzi di questa libreria che oggidì trovansi presso la chiesa, di S. Giovanni, meriterebbero d’esser posti in evidenza ed usufruiti.

Ecco in qual modo, concettizzava il Bossi, nel suo manoscritto su le particolarità dell’Insubria:

Vitis, ubi sita sum, lapidumque manebat acervus;
     Cerne quid ars possit, artificumque labor!
Albertus Crispus legando quicquid haberet
     Librorum, ut struer, tam bona causa fuit
At Bernardinus me erexit, Crispus et ipse:
     Ambo sacri, hic pastor pastor et ille fuit.
Me Crispus Franciscus item, qui pastor et ipse est,
     Librorum multa condecoravit ope.
Hi quia tres docti, populus quia largus et iste,
     Condita sum: Crispis debeor Bustigenis.

Molto famigliare e durevole fu presso i Bustesi l’uso delle fionde. Così pure nel secolo XV si abbandonavano talvolta al giuoco del pugillo, avanzo di tradizioni romane. Nel 1478 una grida del 20 di luglio, proibì il giuoco della pugna sì nella città, come nella campagna sotto pena di tre tratti di corda e dieci fiorini, e fu poi rinnovata cinque anni dopo con l’aggiunta “se serano i rei puti picholi che non habiano pagura, serano scorezati e stafilati molto bene”. Questo uso malaugurato, indizio forse di una natura battagliera, non può dirsi spento nei dintorni di Busto, ma alcuna traccia ne’ appariva in qualche ricorrenza di feste, allorchè giovani [p. 171 modifica] contadini, or non sono molti anni, si davano per baldoria a farvi non più alle pugne ma alle sassate.

I Bustesi amano i forestieri e li accolgono nelle case loro con gentilezza e liberalità, e chi ha trattato con essi non sa staccarsene che con dispiacere. Sono faceti, pazienti, nel discorso alcun poco procaci; ma a simigiianza degli Insubri, sì caldi amatori della religione4 che aborrano da qualsiasi bestemmia. Ben di rado provocano alcuno, ma non tolerano impunemente d’essere provocati5. E per citare un esempio, que’ di Busto e di Gallarate vennero alle armi tra di loro verso i confini dei due borghi per dissidj sorti in Arnate a motivo di una danza. Questo livore fomentato dal partito de’ Guelfi e Ghibellini ed anche dall’invidia de’ maggiorenti venne sopito per opera di Ambrogio Bossi pretore di Busto, il quale nel 1532 riuscì a stabilire fra quei paesi la pace. Ma per la frequente dimora delle soldatesche perdettero della loro originaria semplicità. In quanto alla foggia di vestire Busto soleva imitare gli stranieri “oggi così il cronista, adottava un costume spagnolo, domani era francese, un altro dì vallone, di poi polacco e tedesco, finalmente, lasciato per così dire la natura dell’uomo, voleva imitare la donna portando lunghe le chiome a guisa uomo selvatico e peloso”.

Questo disprezzo contro chi portava lunghe chiome non doveva essere proprio del cronista, ma sì commune [p. 172 modifica] a que’ tempi, ed anche a qualche secolo addietro, conciossiachè leggiamo in una grida del 25 d’aprile del 1500 l’ordine di farsi tonde e radere la barba.

Il dialetto di Busto ha un impronta particolare, che caratterizza, per così dire, l’indole degli abitanti i quali nella pronunzia tendono ad allungare in fine quasi tutte le parole. Abusano spesso delle sincopi, talvolta anche delle antitesi e delle elisioni. Ora però che si è accresciuto il numero delle famiglie civili, e le relazioni colla città si sono moltiplicate, pare che il dialetto vada a poco a poco perdendo della nativa rozzezza.

La differenza dei dialetti sembra che non provenga se non da una causa fisiologica, cioè da un difetto organico ereditato dalle prime colonie d’uomini, che abitarono i paesi, e da un’abituatezza di famiglia nel pronunziare le parole. Finchè vive un popolo, anche la sua lingua conserva i germi vitali, e con un graduato sviluppo di forze può estendere la sua potenza fin dove Vuole l’idea, attuandola o con appropriarsi elementi stranieri o co ’l naturalizzarli, o finalmente con far rivivere vocaboli proprj già smessi e perduti ne’ codici e libri di vecchia data. Il che avviene anche de’dialetti i quali acquistano vigoria su le bocche del vulgo.

A dare un saggio del dialetto bustese riferirò alcuni brani di una comedia intitolata Mommena bustese e dell’Intermezzo Palina6 e sig. Silvestro composti parte di bei versi italiani, e parte in dialetto da Biagio Bellotti che scrisse anche un intermezzo co’ l titolo Pasquale e Turlesca, ed altre cose di simil genere7.

Ecco una scena della parte IV della Mommena, dove figura un tal Finetto solo, che piange:

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Ah, sgienti, che disgrazia l'è mai chesta,
Morosà chi tent tempo con curé
Ch'ho l'avarevi sgià tœuj s'ess vu i danè,
E mò ch'ha trovo vœun cha ma jo impresta,
Cha poss falla cercà fena domèn
Pientam on por in di mèn,
L'oltreri fam bella ciera
E in jeri baronam da sta manera.
Ma coss'ho mai da fa,
Se men sto chilò a Busti ho da crepà,
Andà a Varzì, o Casall
Al vœur paré che sia in Criminall,
Sicché, a vigninn a vœuna
Poss'andè a Roma en men cercà fortœuna.
Sì sì vu'andà a informamm
Da chì che vignì a cà
In che manera l'ho da pratigà,
E dienzan che tra tuggì n'abbian vanzà
On chai strasc d'on bordon e d'on collà
Parchè'l sarav pù ben
Che vaga via vistì da pilligren,
Che a dilla, chi sta ben ar témpo da mò
Hin chì, chì fa da locco
E n'én mìa da vargogna a fa'r pitocco
Se par sortì n'hin bon
Da casciass con di Ioggi a far frizzon,
Chì m'avarav mai dì
Ch'ess da vegnì a sto stato,
Che, par no ventà matto
E morì da disgusti
Hess da bandonà Busti
On paesi inscì bon
Che cont i sò dané
Conscian gròss i rognon
Parfena i forasté.
Maladetta ambizion.
Cha s'hin cascià in dor cò
Tugg i donn e i tosann ar temp da mò,
S'donn per cascià pompa
Tren in malora i cà,
O chi fen di ol cossì chi stà pu ma,
E i tosan per catà on chai fa da pù,
Chi sian lori na sa ragordan pù.
Basta cha gha capita
Ona chai landanera inzipriava

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Cha l'è bella e giustava.
Na ghe pù fedeltà na ghe pù paòla,
Chi possan tocà or malan che lo stracola.

Così pure nella I. parte del citato Intermezzo, Palina dice:

Niol tosan da Busti hem ol da fà
Che lengi di libri di innamoà
Hem da baseugn da firà di mezzetti
E dasvordì tiretti,
Che a ra fen, se nost padri
Pocca dotta m'vœur dà,
Ghadagnam or nost vivi a lavoà
Ar contrario da chij chi tœu ra sciora,
Che oltra or spendagh addré
Chel poe chi porfan a tré vœult pussè
A vistij in poncion,
I vœuran spassi e recreazion
Tugg i comodità,
Se i stravi hin strecci, feghai pur slargà
Par podè sur pù bel
Voltà ben ur tir da quattro andà in bordel.

Li ultimi versi della comedia sono:

In fen don e tosan sgiuvan e viggi,
Marchenti e lavorenti,
O sie ricchi o in malora,
Ne fe on po di pù mondo che le ora
Va prego abbié giudizzi
E cerchè da stà tugg lantan di vizzi.

Non mi traterrò più oltre intorno al nostro dialetto, perchè sostanzialmente identico al milanese, dal quale va distinto per lieve differenza di sillabe e pronunzia8. Piuttosto ricorderò in generale che i vernacoli mentre difettano di voci esprimenti idee astratte, le più essendo [p. 175 modifica]introdutte dal cristianesimo e dalle scuole, abbondano invece di vocaboli attinenti all’agricoltura, all’aspetto fisico e alle altre specialità di ciascuna regione.


Note

  1. La cultivazione del cotone si è in Italia nello scorso 1863 notabilmente accresciuta e l’esperienza mostrò che le Provincie più adatte a tale cultura sono le Siciliane, le Pugliesi, quelle di Salerno e di Catanzaro; ma si ottennero pure buoni successi in Ascoli nel Piceno, nella Sardegna e nell’Isola d’Elba, adoperandosi, oltre le qualità indigene, varie specie di seme Americano, d’Egitto e delle Indie.
  2. Bruscitt “I Bustesi chiamano così un certo loro intingolo di carne vaccina minuzzata e condita con butiro, aglio, spezie, finocchio e vino„. Così il Cherubini nel Dizionario Milanese-Italiano a. v.
  3. L’originate conservasi presso li Archivj Governativi.
  4. Ogni anno alla sera del venerdì santo, soleva uscire dalla chiesa di S. Giovanni, una lunga processione, in cui con appositi simboli rappresentavasi la passione del Signore.
    Questa costumanza che continuò fino ai nostri giorni fu tolta per evitare li scandali e i disordini facili a nascere in quell’ora pe’l gran concorso di popolo delle terre circostanti.
  5. Così ce li dipinge il Crespi Castoldo nella sua cronaca di Busto del 1614
  6. Paolina.
  7. Vedi retro.
  8. Così, per esempio, le desinenze milanesi nasali in àn sono convertite dai Bustesi in èn, come ilèn, pèn, domèn etc.