Byron, il byronismo e i Romantici Calabresi

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Vito Antonio Sirago

1952 Saggi letteratura Byron, il byronismo e i Romantici Calabresi Intestazione 4 luglio 2013 75% Saggi

La fama del Byron in Italia e l'influsso esercitato dalle sue poesie sulla produzione dei nostri poeti e narratori sono stati oggetto di ricerca e di studi che già costituiscono una vasta letteratura (per tutti cfr. G. Muoni, La fama del Byron e il byronismo in Italia, Milano, 1903; e A. B. Mac Mahan, With Byron in Italy, Chicago, 1906, trad. it. Bari 1929). Nell'anno accademico 1945-46 una signorina di Catanzaro, Nicolina Mussari, discusse la sua tesi di Laurea presso l'Università di Napoli, relatore il prof. C. Foligno, sul "Byronismo nel Napoletano", presentando un lavoro molto più ampio del titolo, una buona metà spendendo al Byron e sua permanenza in Italia e verso la fine soffermandosi sul byronismo di vari poeti calabresi. Ora, non si tratta di suggerire altro lavoro di ricerca schematica, ma di indicare le cause della diffusione del byronismo e del suo tenace attecchire proprio nei Romantici Calabresi.

Si sa che il Byron fu in Italia dal 1818 al 1823, tra Venezia, Ravenna, Pisa e Genova, non solo come ospite osservatore, ma ammiratore entusiasta della nostra letteratura (tradusse il Pulci, imitò l'Alfieri) e perfino cospiratore carbonaro (cfr. G. Foà, Byron carbonaro, Firenze, 1935). Ammiratore dei classici italiani e ammirato dai letterati contemporanei italiani, trovò ben presto in Italia traduttori e imitatori che ne diffusero la fama, facendo conoscere le sue opere nel loro testo integrale. Egli morì a Missolungi (Grecia) il 19 aprile 1824 e in un ventennio divenne in Italia il poeta forse più letto, conosciuto meglio dello stesso Leopardi.

In Calabria nel 1844 Vincenzo Selvaggi Vercillo, in un articolo Manzoni considerato rispetto al secolo, e originalità della sua poesia pubblicato nel "Calabrese", Cosenza, a. II (1844), n. 7, p.54 sgg., indica il Byron come uno dei quattro pilastri del romanticismo: Goethe, Chateubriand, Byron, Manzoni; e del Byron cita e commenta il Manfredo, il Corsaro, il Caino e il Lara. Non è a conoscenza singolare, perché il Selvaggi Vercillo ne parla come di poeta noto ai suoi lettori, per brevi accenni, presupponendo che i lettori conoscano la trama delle opere citate. Le imitazioni byroniane da parte dei Romantici Calabresi cadono proprio in quell'epoca, con una fioritura di poemetti lirici o novelle poetiche, modellate su quelle famose del Byron. Di poemetti in versi d'un certo rilievo vi furono una decina: il Padre Gioacchino di Giuseppe Campagna, l'Incognito di Pietro Giannone di Acri, il Milosao di Girolamo de Rada, il Monistero di San Bucina di Vincenzo Padula, l'Anacoreta di Vincenzo Selvaggi, già composti e pubblicati prima del 1843 (cfr. la recensione dell'Anacoreta fatta da Domenico Mauro, "Il Cal.", a. I, 1843, n. 22, p. 174 sgg.). Nel 1844 seguì il Brigante di Biagio Miraglia da Strongoli, nel 1845 le Schiava Greca di Vincenzo Gallo Arcuri, il Valentino, secondo poemetto del Padula, e l'Errico di Domenico Mauro. Questi aggiungeva altri tre poemetti, Il Padre - Una notte - Staino e Sertorio, che però furono bruciati nel 1848 da un suo amico, cui egli esule li aveva affidati, per non compromettersi con la polizia. Dopo il '48 i poemetti byroniani passarono di moda.

Il Mauro e il Padula sono i migliori rappresentanti del movimento e rappresentano meglio degli altri i limiti di tale produzione. La critica successiva non fu larga d'entusiasmo, più aspra col Mauro (cfr. De Sanctis, La lett. ital. nel sec. XIX, Napoli, 1896, p. 75 sgg.), più blanda col Padula (ib. p.119), (cfr. E. Cione, Napoli Romantica, 1830-48, Milano, 1942, parte II, cap. VII). Fin dal primo apparire i critici scorsero nello Errico del Mauro l'imitazione del Corsaro del Byron (cfr. Paolo Greco, Errico, Novella Calabrese di Domenico Mauro, "Il Calab." a. IV 1846, pp. 130-2) e nel Valentino del Padula "l'ideale dell'ideale del Byron" (cfr. De Sanctis, op. cit. p. 116). Effettivamente la visione d'insieme, la sistemazione della materia e lo sviluppo fanno ricordare non tanto l'uno o l'altro poemetto quanto un determinato gruppo della produzione del Byron, quello cioè delle novelle poetiche, dal Giauro alla Parisina, al Manfredo (1813-17), in cui ritorna con insistenza il motivo della passione demoniaca che distrugge un precedente stato di felicità.

L'esotismo e la smania del viaggiare del Nobile Aroldo, che accosta il Byron a tanti romantici tedeschi, e l'umorismo con satira sociale del Don Giovanni mancano assolutamente nei poemetti calabresi. L'Errico presenta una fosca storia d'amore in cui si rovinano due famiglie: storia in cui entrano i motivi più violenti, il tradimento, la perfidia, l'aggressione, il delitto, il suicidio raccapricciante; il Valentino è ancor più violento, con le malefatte del protagonista che, sia pure senza sapere, entra perfino nel letto di sua madre; e così nell'Anacoreta del Selvaggi c'è la suocera vedova innamorata del genero e alla fine il protagonista resta solo, senza suocera, senza moglie e senza figlio, in una vita di penitenza in cui non ha raggiunto ancora il distacco dalle passioni. Dunque i poemetti calabresi riprendono il motivo byroniano della passione che travolge, con una forza demoniaca: Teresa non ha smesso di amare Arnoldo neppure dopo le furie del marito Errico, tanto che va ad uccidersi sul suo cadavere. Spesso sono passioni illecite, come l'orribile incesto di Valentino. Siamo nell'atmosfera di violenza della Parisina del Byron, la donna che s'innamora del figliastro e insieme vengono decapitati per ordine di Azzo (Nicolò) d'Este, marito e padre. I poemetti sono byroniani anche nella tessitura. Si aprono con scene dolci, tranquille, idilliache: la compostezza iniziale dell'Anacoreta, la felicità di Errico sposo e padre, la riposante cavalcata di Leonetto nel Valentino non preludono neppure alla violenza del seguito del racconto. C'è una studiata ricerca di contrasti: dalla natura agli stati d'animo, tutto avviene all'improvviso, avviene allo scoppio della passione. Siamo nella tessitura del Giauro, del Corsaro, della Parisina, che si aprono con quadri idillici, con abbandoni languidi, cui succederà per contrasto lo scoppio della passione.

Si badi che l'imitazione è seguita coscientemente. In un'epoca che ripone il proprio ideale artistico nel sentimento torbido, contro il razionalismo, si mira al Byron, le cui opere si riconosce "chiudono in tetra notte la mente, nulla fanno vedere di distinto, ma lasciano nel cuore una profonda solennità" (cfr. Selvaggi Vercillo, op. cit.). Perciò si imita il Byron non solo nei poemetti, ma anche in altri generi letterari, come nella novella e nel dramma. Francesco Maria Scaglione per la sua novella Edgarda ("Il Cal", a. I, 1843, n. 15, p. 117 sgg.) si serve di tutto l'armamentario byroniano: la scena tranquilla iniziale, il tradimento, la passione illecita, il delitto, la vendetta e l'estinzione finale del casato: insomma la passione che travolge ogni cosa fino alla completa distruzione. Domenico Mauro in una sua lirica, La fidanzata ("Il Cal.", a. II, 1844, n. 7, pp. 51-53) torna ai motivi cari al Byron, all'amore di una pastorella per suo fratello su uno sfondo idilliaco: anche la polimetria della lirica ci ricorda la ricchezza metrica delle Melodie Ebraiche e del Manfredo del Byron, si potrebbe risalire al canto di David nel Saul dell'Alfieri (atto III), ma il Byron stesso fu un ammiratore e imitatore dell'Alfieri. La passione distruttiva byroniana torna in un dramma storico di Leonardo Antonio Forleo, il Don Sebastiano (vedi recensione di Raffaele Dolce - Favilla, "Il Cal", a. IV, 1846, n. 19, pp. 154-5), che tratta d'una complicata storia del re di Portogallo don Sebastiano, che dopo la sconfitta si trova a Napoli, travestito sotto il nome di Caballero, e qui diviene amante di Gennarina, di cui però s'innamora anche il suo più caro generale, Mello, pur egli travestito, il quale, per riuscire a possedere Gennarina, accusa il rivale al Vicerè spagnuolo che lo condanna a morte. Con la condanna don Sebastiano è riconosciuto da Mello, che si dispera perché non può più salvarlo e riesce soltanto a procurargli il veleno da Gennarina: e questa, pur disperata, s'avvelena.

Insomma il Byron penetra dappertutto nella produzione calabrese dal 1840 al 1848, non lasciando immune nessun genere letterario. I suoi personaggi violenti, decisi, individualisti, ribelli alle norme sociali passano di sana pianta nei Romantici di Calabria. E questi sono coscienti del carattere ribelle del modello: "questo uomo (il Byron) - scrive V. Selvaggi Vercillo, op. cit. p.54 - assiso su le rovine lancia dagli occhi il fuoco della distruzione... Egli ricco, egli bello, egli vide sempre ottenebrata la via d'innanzi a' suoi passi". Qui è il punto d'incontro tra il poeta inglese e i Romantici Calabresi: la ribellione alla società. Il Byron può aver precedenti nella letteratura inglese, nei così detti romanzi neri, per l'esaltazione del macabro, può aver precedenti nei Masnadieri dello Schiller, ma creò quella forma di opposizione alla società perché nessuno come lui al suo tempo sentì il dissidio tra la vernice di moralità della classe dirigente e il marcio che la corrodeva. Egli sfidò quella classe e, poiché osò sfidarla da solo, dové esulare, senza tornar mai più in Inghilterra. I Romantici Calabresi, se non della sua tempra, erano degli scontenti anche loro. Giuseppe Campagna in una canzone scritta il 1846, La Guerra d'Africa, a proposito delle vittorie francesi in Algeria ("Il Cal", a. IV, 1846, n. 20), osava condannare la sua civiltà dicendo:

La barbarie in Europa di mollezza
Atteggiasi, ed un ricco vestimento
Cinge, ed infiora le ondeggianti chiome,
E tutta intorno di profumi olezza,
Ed ogni basso sensual talento
Adempie intanto che tripudia come
Lussureggiante putta. Il proprio nome
Cangiavi quindi, e civiltà c'appella.

Vincenzo Padula andava raccogliendo canti popolari che tramandano le sofferenze dei popolani angariati dai signori locali, con l'amaro confronto tra ricchi e poveri (pubblicati poi nel Bruzio nel 1864):

Nasci lu riccu e buonu parentatu,
U povariellu de n'affrittu lignu:
U riccu ad ugne tavola è 'mmitatu,
U povariellu nun ne fozi dignu:
U riccu, quannu ha debiti, è aspettatu,
U povariellu o carceratu, o pignu:
Mori lu riccu, e la cruci ha 'nnorata,
U povariellu ha na cruci de lignu.

Domenico Mauro partecipò attivamente ai moti del '48, poi sfuggì in Albania, di qui passo a Roma, poi nel Regno Sardo. Il 1860 fu uno dei Mille e morì a Firenze nel genn. 1879. A Cosenza nel 1843 nasceva il Calabrese, foglio letterario - scientifico, che nonostante il ciarpame accademico - umanistico provinciale presenta molte note vivaci, non disdegnando di raccogliere usi e costumi della povera gente di Calabria.

Sicché l'ambiente di questi scrittori romantici era ben singolare: formalmente inquadrati nella cultura ufficiale, privi d'un qualunque programma politico progressista, sentivano il disagio della propria civiltà e, non potendo sfogarlo nell'azione, si ribellavano nei poemetti, preferendo le passioni tumultuose, illecite, disgregatrici della società (di quella società, inneggiando ai ribelli, che si concretizzavano nei briganti). In Calabria non è mai mancata la tradizione brigantesca, come reazione alle angherie commesse dai ceti dirigenti: Briganti isolati e anche rivoluzioni collettive contro feudatari e prelati prepotenti, come si vede scorrere le pagine di Oreste Dito, La Storia Calabrese e la dimora degli Ebrei in Calabria dal sec. V alla seconda metà del sec. XVI, Rocca S. Casciano, 1916. I Romantici Calabresi non conoscono rivolte collettive, ma solo ribellioni di individui: la loro cultura e la loro situazione storica facevano vedere solo l'individuo. E così, per esprimere la loro ribellione, si sono rifatti al modello più noto in Italia, al Byron, che aveva compiuto da solo la più clamorosa ribellione contro la sua società. Hanno tralasciato gli altri aspetti del Byron perché non rispondenti alle loro esperienze. L'hanno imitato prima del '48, cioè solo nel periodo in cui si covava la ribellio: al momento dell'azione hanno lasciato la penna o, rinunziandovi, non hanno più ritrovato se stessi. Dopo l'azione il Byron non aveva più significato: e perciò l'imitazione finì, finì quel tipo di produzione che aveva tenuti raccolti in un vivace sodalizio gl'ingegni più pronti, i più capaci a sentire il disagio dell'epoca.