Canti (Sole)/Epistola a Giuseppe De Blasiis

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Epistola a Giuseppe De Blasiis
Al mio salice Il fiore
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EPISTOLA
a
GIUSEPPE DE BLASIIS




Di che doni ricambi i doni tuoi
     Oggi che a farmi assai più tristo il fato
     Mi ti porta più lunge? Entro al deserto,
     Che mi circonda, non ispunta un fiore,
     Ch’io t’offra, o giovinetto unico amico.5
     E, togli questa, che anzi tempo invecchia,
     Vagabonda persona, altro non reco
     Con me, richiesto a le catene e forse
     Ad angoscia più rea. La mia sciagura
     Di giorno in giorno mi rapia quant’altro10
     Cara al tempo seren feami la vita.
     Pur quest’inopia d’ogni dolce cosa,
     Questi ozi interminati, e questa nera
     Solitudin profonda, or non sarieno
     Gli affanni, ch’io lamenterei, se vivi15
     Fosser peranche nel mio sen gli affetti.
     — Oh, chi può dir come mi cresca il core
     Allor che, solo pei deserti errando,
     In ispazi infiniti altro non miro
     Che arene e cielo, e voce altra non odo20
     Tranne il ruggito del leon, che grave
     Come tuono lontan, profondamente

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     Rompe i silenzi de la notte, e tace? —
     Sì presso al Nilo un rinnegato apria
     Le mie gioie selvagge al pellegrino 25
     Cantor d’Atala.1 E tali erano i miei
     Fantastici trasporti allor che nuovo,
     E ad ogni umana compagnia rapito,
     Innanzi all’ira dei perversi il piede 30
     Spinsi fra l’ombre. Ma non son più tale,
     Qual io ti parvi un giorno, ed or che forse
     Dei lasciarmi, e per sempre, almen tu sappi
     Come mi lasci: ed è pur questo il solo,
     Che a te render poss’io, misero dono.35

Odi quella crinita arpa, che al molle
     Versatil tocco d’una man di neve
     Cangianti rivi d’armonia diffonde
     E par voce di un angiolo, che pianga
     Le sue gioie perdute, esul dal cielo?40
     Gruppi di vaghe salienti note
     Prorompon fuor de l’agitate corde,
     Quasi baci scoppianti a la carezza
     Della musica mano. Or fa che il pianto
     D’ognun, che ascolta, e che la pioggia irrori45
     Quelle corde vocali; e penderanno
     Vizze, lente, senz’echi, in sull’ottuso

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     Timpano, e indarno aspetteran le sale
     La consuèta melodia, che indarno
     Da quelle corde provocar vorresti,50
     Angiolo de’ miei giorni! Armonizzato,
     Come quest’arpa, era il mio spirto un tempo;
     Tale almanco il sentii. Se la parola,
     Ai miei segreti rapimenti infida,
     Fuggiami innanzi renitente, o fiacca55
     I concetti fallia del mio pensiero,
     Armonizzato era lo spirto, allora
     Che ne’ miei giovanili anni beati
     Come farfalla io circolai sul riso
     Dell’universo. O fremiti soavi60
     D’un tempo! O care fantasie, vaganti
     Traverso a l’esaltata anima mia!
     E allor che fitto e inopinato il buio
     Sopravvenne al sereno, e fuggitivo
     Questo errar cominciai di proda in proda65
     Per solinghe caverne ignote al sole,
     Erami caro popolar di larve
     La notte mia. Quella vicenda istessa
     Di perigli, di dubbi e di spaventi
     Cresceami in petto de la vita il senso,70
     E la speranza. Io percorrea coll’alma
     Il dì che Italia benedetto avria
     Del fuggiasco agli affanni, e amabilmente
     Ai notturni ritrovi avrian raccolto
     L’Itale donne il mio risorto canto,75
     Splendido di sciagure e di perdono.
     La poesia, celestial fanciulla,

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     Mi venia pensierosa innanzi al passo
     E a me del mondo, che perdei, compenso
     Fea d’un mondo ideal. Così le pene80
     Creai di schiava giovinetta e l’alto2
     Suo magnanimo amor, che forse un giorno
     In mille Itali cuori avria svegliati
     Palpiti generosi. Eran recenti
     Gli echi del mondo entro il mio petto ancora,85
     E sulla guancia mi fiorian le tinte
     D’una matura gioventù, gioita
     Tra l’ebbrezza del canto e dell’amore.

Tutto cangiossi in breve, ad uno ad uno
     Mancar quei sogni, e isterilito e grave90
     Giacque il mio spirto e il cor gelido e vuoto
     Dai palpiti ristette, e un infinito
     Tedio profondo e tenebroso avvolse
     Gli ultimi lampi del morente ingegno.
     Or le sventure de la patria affiso95
     Così, come le mie; senza sconforto,
     Senza fremiti d’ira e senza affanno;
     E immemore trascino il fianco infermo
     Per questo suolo memorando. Il primo
     Sospir de’ miei perduti anni, la sola100
     Donna, ch’io tanto amai, pari a lontana
     Eco da vespertine aure rapita,
     Mi si partia da l’alma a poco a poco.
     Che se pietosa vision ritorna

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     Fra i miei sogni per uso a consolarmi,105
     Nè un palpito nel cor più mi solleva,
     Nè lagrima dal ciglio altra mi spreme,
     Nè sul labbro m’evoca una dolente
     Fuggitiva armonia, chè inaridita
     È la vena del canto entro al cor mio,110
     Per sempre! Credi, o giovinetto: io stesso
     Con un sorriso sconsolato ammiro
     Questa grama elegia, cui sol potea
     Ispirarmi l’amor, che a te mi lega;
     Fraterno amore, un di quei pochi affetti115
     Sopravvanzati nella gran fortuna
     Al mio naufrago spirto. E se non fosse
     Che un tanto amor mel vieta, anzi che nati
     Questi pallidi versi andrian perduti
     Miseramente colle mie speranze.120

Riedo talor sovra me stesso e guardo
     La mia morte mental: ne piango e tento
     Ricondurmi la vita entro al pensiero.
     Le mie memorie violento evoco
     A schierarmisi innanzi, e mi combatto125
     Con fitte larve. Le montagne ascendo
     Quando la notte imbruna, e scapigliato
     Urlo ai campi tacenti, all’aure, all’onde.
     Mi volgo al ciel, che s’inazzurra e ride
     Tutto stelle e speranza; indi lo sguardo130
     Da l’alto avvallo a la campagna, e miro.
     Ondeggiar le foreste innanzi al vento.
     E il sen mi abbranco colla man convulsa,

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     Come a destarvi il core, e le tremanti
     Braccia, in sembianza d’ispirato, aprendo,135
     Mi provo al canto de’ begli anni. Invano
     Ogni fremito mio manca cogli echi
     Della mia voce; e dopo un qualche istante
     D’angoscioso agitarmi, ecco, ricado.
     Torno al solingo albergo, ove mi aspetta140
     La vigile lucerna, al cui modesto
     Povero giorno io seggo; indi mi stendo
     Sotto le coltri, che il fastidio aggrava,
     Ed alle travi concentrando il guardo
     L’ore consumo della notte, immerso145
     In idee senza luce e senza nome.
     Deh! fossi pieno di rimorsi! Almanco
     Viver per essi io crederei.

                                                  Talora
     (E da gran tempo mi lasciò pur questo
     Spaventevol pensiero) avrei talora,150
     Quasi a dispetto del mio cor, voluto
     Gittar quest’ossa sgominate in terra.
     Questa vita che val, sempre che manchi
     La virtù di sentirla? E non è forse
     Senno miglior volger lo sguardo in giro,155
     Scegliersi un letto d’odorate zolle,
     E dormirvi per sempre? Oh fortunati
     Color, che baldi e giovinetti ancora
     Per la patria mancâr nell’assordante
     Rumor della battaglia! allor gridai,160
     E la morte mi parve una divina

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     Cosa; e deliro mi affacciai sul mare
     Colle man fra i capelli, e retrocessi,
     Codardo no, ma risensato al lungo
     Profondo grido de la Fe’, che insorse165
     Severissima e mesta a rammentarmi
     Che non è mia la vita. E, se non era
     Questa invitta pietà, questa vegliante
     Religion, che con chi soffre è sempre,
     Indarno a l’acque or mi verria chiedendo170
     Una misera donna, empiendo il lido
     Di materno lamento.

                                      Eppur non sono
     Desolato così, che se ne scevri
     Questi ritorni d’infeconda luce,
     Che rischiara il mio nulla e si dilegua,175
     Pace alcuna io non abbia. Anzi ne ho tanta,
     Che saria troppa ad uom vivente, ov’io
     Vivo pur fossi. Le stagioni e l’ore,
     Come sul suol che premo, inavvertite
     Mi passano sul capo: e mi circonda180
     Altissima quiete. Allor che il giorno
     Dalla terra vien manco, esco per uso
     Sul vertice d’un colle a riposarmi
     D’un ampio fico al piè. Curvo sul bruno
     Chibocco oriental,3 sazio d’oblio,185
     Sieguo il fumo che lieve in fiocchi azzurri,
     E in sormontanti fantastiche spire,
     Dorate al raggio de l’occiduo sole,

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     Da le mie labbra erompe, e va perduto
     Nell’aer pien di luce e de’ lontani190
     Inni de la vendemmia, e guardo il mare
     Ionio, ch’io già cantai, scintillar tutto
     Al carissimo addio del sol che parte
     Splendidamente; e sempre fumo. È questa,
     Questa è la sola voluttà che provo195
     E di cui fastidito ancor non sono.
     Oh chi ti pose, giovinetto amico,
     Oh chi ti pose nel pensier quel caro
     Gentil consiglio d’inviarmi in dono 4
     Fulgida canna oriental, da cui200
     Perpetuo fumo aspirerò? che fia
     Unica gioia di mie veglie? 0 fosse
     Ch’essa da te mi venne, o fosse ancora
     Che d’incantata region mi parla,
     Sogno de’ miei prim’anni, io la raccolsi205
     Con tutta festa giovanil. Sorridi?
     Eppur tu sai che spesse volte un lieve
     Fremito d’ala, un’aura errante, un fiore,
     Una nube che passa, un fuggitivo
     Raggio lunar basta a svegliarmi in seno210
     Tal movimento di profondi affetti,
     Che da gran tempo vi dormian sepolti,
     E quai varrebbe a suscitarvi appena
     Qual vicenda più grave è nella vita.
     Bene arrivi, diss’io, fragile canna,

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     Ad alleggiar l’interminata noia
     Del solingo fuggiasco. Il tuo colore,
     Il tuo brano color, lucido e sparso
     D’interfuso rubino, a quello è pari
     D’innamorata Etiope fanciulla,220
     Quando, curvata repugnante al primo
     Tremante amplesso, che le infiamma il sangue,
     Del melagrano il fior come per velo
     Le traspar fra i rosati ebani e molli
     Della guancia e del seno: e tale apparve225
     D’Otaïti al cantor Neuka, la figlia 5
     Del tropico Oceàn, quando raccolse
     Entro gli specchi oceanini il biondo
     Straniero, oblito de’ paterni climi230
     Ove rugge il Pentland. E chi ti svelse
     Dalle greche convalli, onde nascevi?
     E per qual ordin di vicende or vieni
     Quasi a farti compagna al viver mio?
     E chi sa forse se tornar non dèi235
     Con me dei fiumi memorandi al margo,
     Ove un dì verdeggiavi?

                                        Oh Grecia! Oh, come
     Altra volta esultai nella speranza
     Di vagar su’ tuoi monti, e consolarmi
     Dei tuoi limpidi soli! Oh! come forte240
     Il cor batteami al desolato carme 6
     Del Britanno Cantor, che lamentava

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     Te, fortissima donna, estinta e bella!
     E, quante volte da le Bruzie rupi
     Con insania d’amante il guardo intesi245
     Lontan lontano oltre i cerulei campi
     Di questo mar, come a vederti! E quando
     Il sospir del levante il volto immoto
     Mi feria carezzando a me parea
     Spirar gli effluvii de le tue convalli.250
     Benché mai non vi vidi, o sorridenti
     Isole Jonie, per magia d’affetto
     Tra voi coll’alma errai. Quasi incantati
     Riposi, il cielo vi locò fra due
     Regioni d’incanti; e sì v’allieta255
     D’Omero a un tempo e d’Alighier l’eterno
     Numeroso idioma. Erami gioia
     Colla mente vagar fra i tuoi boschetti 7
     D’aranci e di mortelle, o Scheria, e quivi260
     Pascermi di memorie. E tu vedesti
     L’infinito dolor dei due più grandi 8
     Romani petti, allor che minacciosa
     Di Farsaglia la tromba indisse a Roma
     I ceppi, e al mondo. Nè di te mi prese265
     Men fervida vaghezza, Isola d’oro, 9
     Fior del Levante! S’io mertassi ancora
     La trista gioia d’esular dal mio

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     Fosco Appennino, e mendicar straniera
     Libera tomba, a te, bella Zacinto,270
     L’ossa darei. Questa speranza invano 10
     Sorrise a la fremente anima d’Ugo,
     Che da le nebbie di Britannia antica275
     Ai tuoi fiori anelava e ai tuoi vigneti11:
     Difensor delle tombe egli, una tomba
     Nel suol non ebbe, ove sortia la culla,
     Nè sulla terra del suo lungo amore.280
     E te, Zacinto, io non vedrò, nè mai
     M’avrò l’amplesso del sovran poeta12
     Che ancor le tue materne aure respira.

Perchè, s’anco il potessi estranei cieli285
     Vedrei? Qui forse, nel cor mio, non porto
     Perpetuo verno, o giovinetto? Cessa 13
     Dal lusingar, più che me stesso, il tuo
     Spirto gentil, Che a ravvivarmi invoca290
     Il sol di terra peregrina indarno.
     Più non si vive che una volta al riso
     De la gloria, degli estri e dell’amore;
     Ed io passai. Quando eran mie la vita,
     La gioventù, la speme, allor di meta295
     Fallii. D’inni fea d’uopo in generosa
     Bile temprati; e mi perdei frattanto

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     In amabili sì, ma fuggitivi
     Vani fantasmi, senza prò sfruttando
     La più cara età mia, che presto ahi sparve!300
     Poco fei per la patria, o nulla, appetto
     A quanto altro io potea, se questa ignuda
     Di speranze e lusinghe ora suprema
     Me non inganna. Indi varria demenza
     Vagar pel mondo, illagrimato esempio305
     D’onorandi dolor, ch’io non mertai;
     Ed accattar da peregrini soli
     Quella vita del cor, che vanamente,
     Quando l’ebbi, sprecai. Giovimi or solo,
     Torpido muto imputridir su questa310
     Terra, che amai d’intemerato, ardente,
     Ma inoperoso amore!

                                        E addio: tu baldo
     Ne’ campi de la vita entra, e t’indora
     Al soave mattin di giovinezza;
     E la possente prometèa scintilla,315
     Che t’arde in sen, ben altrimenti adopra.
     Poni una man sul cuore, e ov’ei ti accenni
     Corri in prò della patria; e varie e mille
     Ne avrai le vie. Non iscorarti; è forza
     Che una volta su noi rompa il sereno.320
     E a me tu il credi, che deserto in tutto
     Son di lusinghe; e omai straniero al mondo
     Sulle gramaglie del mio cor mancato
     Questo estremo intuonai funereo canto.

Note

  1. Nel 1806 un giovine disertore francese, vissuto lungo tempo nel deserto coi Beduini, raccontava in Egitto a Chateaubriand che quando si trovava solo fra le sabbie sopra un cammello sentiva tali trasporti di gioia, che lo mettevano fuori di sè.
  2. Si allude ad una novella inedita dell’A.
  3. Chibocco «Vocabolo turco» pipa.
  4. Giuseppe De Blasiis inviava all’A. una canna da pipa, di legno greco, di tinta naturalmente lucida, bruna, striata di rosso, di grana finissima.
  5. Neuka. L’eroina del noto poema del Byron, intitolato l’Isola.
  6. Vedi il Giaurro, poema del Byron.
  7. Scheria. Corpi, detta altrimenti Depanum, Macria, Corcira, Cassiopea, ecc.
  8. Catone e Cicerone s’incontrarono in Corfù dopo la giornata di Farsaglia.
  9. Questi nomi si danno a Zante o Zacinto.
  10. U. Foscolo, nativo di Zante, divisava di passarvi gli ultimi suoi giorni.
  11. Le uve di Zante gareggiano con quelle di Corinto.
  12. Solomo, celebre vivente poeta Zantiotto.
  13. Il De B. non cessa di consigliare amorevolmente l’A. perchè cangi cielo.