Canti (Sole)/Il Cantico dei Cantici recato in versi

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Il Cantico dei Cantici recato in versi
Sulla tomba di Alessandro Poerio A Maria immacolata
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IL

CANTICO DE’ CANTICI

RECATO IN VERSI


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I


Il Cantico de’ Cantici, messi anche da parte i suoi profondi misteri, è l’apoteosi purissima dell’amore. Nessuna lingua possiede un canto nuziale così passionato e gentile. Ond’è che potrebbero appena noverarsi le tante versioni che se ne son fatte in quasi tutte le favelle de’ popoli inciviliti, a cominciare dalla parafrasi caldea, attribuita a certo Giuseppe il Cieco, il quale vivea prima dell’estrema ruina di Gerusalemme e del Tempio. Negli ultimi due secoli della nostra letteratura codesti volgarizzamenti si sono frequentemente succeduti in Italia. Uomini di non ordinario valore vollero saggiare in questo aringo le forze del loro ingegno; e un illustre Prelato fece della Cantica un Dramma, e lo pubblicò in Roma intorno al 1737.

Questo perenne ossequio della umanità incivilita verso la più splendida manifestazione della poesia ebraica avrebbe dovuto dissuadermi dal mio lavoro, come da cosa per lo manco superflua, se un pio intendimento non mi avesse incuorato ad aggredirlo e commetterlo poscia alla luce delle stampe. Nella congiuntura [p. 260 modifica]delle feste religiose, colle quali il mondo cattolico va tuttavia concelebrando il Gran Domma dello Immacolato Concepimento di Nostra Donna, si volle per me assolvere un voto di singolare riconoscenza verso la Santissima, che mi sovvenia di abbondevoli consolazioni nel più travagliato periodo della mia vita; nè altro consiglio mi venne, all’uopo, trovato migliore, che quello di offerirle converso nella più dolce delle lingue viventi quel Cantico di soavità ineffabile, il quale da tanti secoli la vaticinava «tutta bella e Immacolata.» E ricorderò sempre con un palpito di devota tenerezza le volte dell’antica Cattedrale di Tursi messe leggiadramente a festa, gli altari ridondanti di luce e di incensi, i canti d’una eletta schiera di valorosi, e la voce dell’eloquente Prelato, che con parole gravi e commoventissime preludeva a quella religiosa solennità, nella quale dovea toccarmi la ventura di liberare il più caro dei miei voti.

Senonchè le cagioni del mio lavoro non poteano farmi cauto quanto al suo merito letterario; nè parmi che esse sole potessero bastare al pubblico colto e imparziale, a cui oso presentarlo, se non avrò almeno dichiarata francamente la strada che ho creduto dover tenere nell’opera mia, e le considerazioni estetiche per le quali non mi pareva di dovere interamente disperare della indulgenza de’ buoni.


II


La singolarissima ragione poetica del Cantico dei Cantici, le speciali condizioni della sua lingua originale, [p. 261 modifica]ecco i due segni, a’ quali ho constantemente mirato nella esecuzione di questo mio volgarizzamento. — La Cantica, umanamente considerandola, è poesia di un re: è concezione di un poeta, che fu monarca potente e magnifico, padrone della più splendida Corte dell’Oriente, sapientissimo fra gli uomini e figlio del più gran Lirico del Mondo. Tranne pochi Talmudisti, i quali delirando vollero riferirla ad Ezechia, ovvero ad Esdra, tutt’i Rabbini convengono, e nessuno potrebbe ormai revocarlo in dubbio, che la Cantica appartenga a Salomone, figlio di David.

Sterminate ricchezze erano raccolte negli Erarii di Gerusalemme. David avea messo in serbo la somma di 1248 milioni di lire per la costruzione del Tempio, e l’annua entrata di Salomone sembra che montasse a quarantasei milioni, senza computarvi i pedaggi, le gabelle, e i donativi de’ re arabi e de’ governatori d’Oriente. Era inoltre tradizionale l’ispirazione poetica nella Reggia di Sion. Fra quelle sale, riscintillanti d’oro e di gemme, ricorrea tuttavia lo spirito di David: migliaja di cantori ne ripeteano nel Tempio gli inni profondi ed ispirati, e le lagrime del coronato veggente rigavano ancora il timpano di quell’Arpa sublime, che avea scongiurata l’ira di Saul, melodiate le glorie di Dio, rallegrati i trionfi d’Israele, pianta la morte di Gionata e consolati gli ultimi dolori del canuto Salmista prima che scendesse a dormire co’ suoi padri.

Fra quelle corde quasi ancora frementi sotto il tocco della mano paterna, trovò Salomone quegli echi melodiosi e indefiniti, onde armonizzò gli amori della [p. 262 modifica]sua mistica Sullamita. L’Arpa di David fu come la culla del Cantico de’ Cantici. Non è poetica conghiettura la nostra. Leggasi il salmo quadragesimo quarto; e nell’Epitalamico, quivi rapidamente abbozzato da David, si rinverranno i germi dell’altro Epitalamico magnificamente tratteggiato dal figlio nella Cantica. La stess’allegoria, gli stessi protagonisti, la stess’aria, lo stesso movimento. Riportiamone alcuni brani:

« Specioso in bellezza sopra i figliuoli degli uomini: la grazia è diffusa sulle tue labbra!

« Cingi ai tuoi fianchi la spada, o potentissimo!...

« Colla tua speciosità e bellezza, tendi l’arco, avanzati felicemente, e regna!

« Spirano mirra e lagrime e cassia le tue vestimenta, tratte dalle case d’avorio;

« Onde ti rallegrano le figlie de’ regi, rendendoti onore!

« Alla tua destra si sta la regina in manto d’oro, con ogni varietà d’ornamenti!..

« Ascolta, o figlia, e considera, e porgi le tue orecchie, e scordati del tuo popolo e della casa di tuo padre.

« E il Re amerà la tua bellezza; poiché egli è il Signore Dio tuo, e a lui renderanno adorazioni.

« E le figlie di Tiro porteranno de’ doni, e porgeranno le suppliche a te i ricchi del popolo.

« Tutta la gloria della figlia del Re è interiore: ella è vestita d’un abito a frange d’oro con varii colori.

« Saranno presentate al Re dopo lei altre vergini: le compagne di lei saranno condotte a Te!

« Saranno condotte con allegrezza e con festa, e saranno menate al tempio del Re 1» [p. 263 modifica]David colla straordinaria rattezza della sua Lirica ispirata, e dirò quasi guerriera, accenna e passa: Salomone delinea, feconda e incarna soavissimamente: in uno il concetto è più concentrato e dinamico; nell’altro più diffuso e luminoso: sicché chi volesse considerarli dal lato umano ed artistico, troverebbe in uno il fare di Dante e di Michelangelo, nell’altro quello del Petrarca e di Raffaello: differenza derivata in gran parte dal progressivo mutamento della civiltà nella Corte di Gerusalemme. Ai tempi delle guerre, delle turbolenze e delle conquiste erano sopravvenuti i tempi della pace e della pubblica prosperità. La sapienza era provvidenzialmente succeduta alla spada, la magnificenza e il lusso della Corte alla sdegnosa austerità della tenda guerriera. D’altra parte il popolo ebreo non avea, quanto a carattere nazionale, niente smesso dalle sue tendenze agricole e pastorali. Le sterminate ricchezze e le profuse morbidezze della Corte non aveano punto alterato la sua natura. Il lusso della città non avea potuto nulla sulla ingenuità primitiva, la quale durava tuttavia nelle campagne 2.


III


Il Cantico de’ Cantici, nato in una reggia cotanto splendida, e destinato a vagare sulle labbra d’un popolo [p. 264 modifica]così tenace degli antichi suoi costumi, non potea non ritrarre mirabilmente delle qualità della sua origine e della sua missione. Ed ora lo Sposo è un giovine mandriano, che meriggia placidamente all’ombra, ed ora è il Re, che in vista d’Israele si asside sul trono de’ suoi padri; ora è il povero pastore che sceso dai monti attende serenamente a cibarsi di frutta, ed ora è il potente monarca che siede a sontuoso banchetto ne’ suoi reali appartamenti. E così della Sposa: ora tu vedi in essa l’inquieta ed anelante pastorella, che va cercando pe’ campi l’oggetto della sua tenerezza, ed ora l’eletta d’un monarca alla quale s’inchinano tutte le regine e le figlie d’Israele; ora la semplice e bruna guardiana delle vigne, ed ora la sposa illustre e felice, coperta d’oro e di porpora, e circonfusa di profumi elettissimi; ora la povera figlia del popolo, vagante di notte per le vie di Gerusalemme, e impunemente oltraggiata percossa e ferita dalle guardie notturne, che osano financo strapparle il manto, ed ora la figliuola d’un re, che procede con guerriera maestà, calzata di coturni e scintillante di gemme.

Nè questo stupendo antagonismo d’immagini risguarda i soli protagonisti della Cantica: esso va in cento guise, e sempre più vagamente riproducendosi e traformandosi negli accessorii. Qua uno schietto giaciglio di fiori, là una maravigliosa lettiera di cedro con colonne di argento, capezzale di oro, cielo di porpora dipinto a musaico, e con sessanta guerrieri a spade sguainate che l’assicurano dagli spaventi notturni: quindi, i capelli della sposa una volta somigliano alle [p. 265 modifica]caprette erranti per le giogaje del Galaad, ed una volta alla porpora reale listata riccamente di nastri: e poi, notti serenate in campagna, e notti vegliate nella città; il veloce cavriuolo de’ campi e le cavalle anelanti innanzi al cocchio di Faraone; il cedro del Libano e il giglio delle convalli; le tortore e le colombe amorosamente tubanti dalle cime degli alberi e da’ fendimentj delle rupi, e i pardi, e i leoni ruggenti dalla sommità dell’Amàna e del Senir; i balsami artifiziali, e i balsami rapiti agli alberi dal vento; e, infine, tutto questo gran quadro allogato nel più incantevole e svariato paese del mondo: ruscelli, palme, fiori, giardini, vigneti, frutteti, piscine limpidissime, luce infinita; e lontano lontano le vette del Libano e del Carmelo, gli accampamenti militari, le tende dell’Arabo e i padiglioni reali; e più in fondo ancora le torri e le cupole di Gerusalemme. Se è vero (come vuolsi da taluno) che Salomone componesse questo Epitalamio nella celebrazione delle sue nozze colla figlia di Faraone, non potea con più felice temperanza di magnificenze principesche e di allusioni agricole e camperecce lusingare ad un tempo l’alterezza natia dell’Egizia Principessa e le patriarcali tendenze del popolo Ebreo, che festeggiava le nozze del suo monarca pacificatore!


IV


Or questo miracoloso sodalizio della Reggia e dell’ovile, della città e de’ campi, della natura e dell’arte, il quale costituisce l’indole artisticamente eccezionale [p. 266 modifica]del Cantico dei Cantici, io mi sono andato ingegnando di rendere con ogni possibile fedeltà nel mio volgarizzamento. Avrei potuto facilmente risolvere tutto il componimento in una piana ed uniforme graduazione di tinte, sol che avessi voluto qua attenuare la luce che sbatte vivissima su talune immagini, e là lumeggiarne altre con tocchi più acuti e frizzanti, come si è pur fatto da parecchi; ma avrei allora disonestamente svisata la fisonomia dell’originale. Una traduzione non è che un ritratto, nè più, nè meno. Quando l’artista ha condotte sulla tela, e poniamo pure fedelissimamente, le più minute accidentalità della figura che vuolsi ritratta, egli non avrà fatto che un bel nulla, se nella copia non avrà trasfuso il sentimento, la vita, il carattere, che campeggia sul volto dell’originale.

Nè mi son lasciato soverchiamente imporne da un oltrespinto risguardo alla indole diversa della nostra favella. Non è, certo, l’originale, che dee servire (e soventi volte a costo della tortura!) all’esigenze dell’idioma, nel quale si desidera voltato: e se le condizioni della lingua d’Italia non mi avessero consentita questa necessaria deferenza all’indole estetica della Cantica di Salomone, non ci sarebbe stata altra strada a battere, tranne quella di non batterne alcuna, e rimanersi a dirittura dal lavoro. Il leale e longanime volgarizzatore dee contemperare in guisa i colori della propria favella, che punto non iscadendo dal candore nativo, riflettano schiettamente la luce di quella lingua, nella quale l’originale fu scritto. Così il coscienzioso [p. 267 modifica]artista, anzi che forzare la figura umana ad assumere il rigore e la gelida bianchezza del marmo, sa pure cavare da questo, senza magagnarne la organizzazione primitiva, la flessibile e morbida vitalità che palpita nel modello. Mi son quindi guardato, quanto almanco per me si potea, di aggiunger niente del mio all’originale del Cantico, e d’interporre fra una immagine e l’altra quelle così dette mezze-tinte, reputate dalla più parte de’ suoi traduttori necessarie a rammorbidirne, secondo essi dicono, la soverchia crudezza di contorno intercedente tra figura e figura. Sol dove mi è paruto che certe parole, o certe idee, non hanno fino a noi conservata la stessa efficacia che aveano presso gli Ebrei, io, lasciandole ad ogni modo dove e come stanno, mi son permesso di rinsanguinarle con qualche aggiuntivo, per conferir loro nella traduzione la stessa freschezza, la stessa prominenza che aveano nell’originale. Del resto io ho religiosamente rispettate quella generose e leggiadre sprezzature, que’ repentini e sfolgoranti trapassi così, come li ho trovati nel testo; e sovrattutto non ho perdonato a fatica ed a pazienza per incarnare nel mio volgarizzamento quell’aria indefinita e spirituale, che governa da cima a fondo la Cantica, e che in massima parte proviene dalle speciali condizioni della sua lingua originale.


V


La lingua ebraica è fra le lingue semitiche, o meglio, trilettere, la più breve, la più semplice, la più arguta: [p. 268 modifica]essa possiede uno spiritualismo tutto proprio, riferibile più verisimilmente alla intima organizzazione de’ suoi verbi. I quali non hanno, a dir vero, che due tempi indeterminati, e quasi oscillanti fra il presente, il passato e l’avvenire: qualità che, come osserva un grande istoriografo vivente, conferisce miracolosamente al carattere di una poesia ispirata, nella quale il presente accenna sempre all’avvenire, ed entrambi si confondono nella eternità. Avviene pertanto che se l’Ebraico non è (come pur vuolsi) sì ricco e perfetto come il Sanscrito, nessuna altra lingua è più ridondante d’immagini e di tropi, nè più florida di vitalità poetica. Quei due tempi si avvicendano soventi volte in guisa ne’ verbi ebraici, che, nel breve giro d’un versetto, una stessa cosa è l’eco che va cupamente morendo nella notte del passato, e il primo grido della speranza, che penetra negli abissi dell’avvenire; e la ricordanza e la profezia si stringono insieme nell’angusto perimetro d’una frase.

Or tanto nella Volgata, quanto nella Traduzione de’ Settanta, si è avuto scrupoloso risguardo a codeste singolarità di atteggiamento della lingua ebraica, e, per quanto più spesso si è potuto, le si è consentito: e quest’avvertenza appunto ha fatto della Volgata quasi un miracolo di volgarizzamento. Parole e frasi rimangono ivi sempre di conio puramente latino, e nondimanco come ritraggon dappresso quell’aria orientale e fatidica, che aleggia su i libri santi! lo non ho saputo persuadermi perchè nell’italiana non potesse accadere altrettanto; ed ove nel testo mi sono [p. 269 modifica]abbattuto in certi inaspettati e subiti passaggi dalla seconda alla terza persona e da questa a quella, dal presente al passato, e dal passato al futuro, io li ho gelosamente conservati sull’esempio della versione latina: ove ho trovato delle immagini nuotanti, a mo’ di dire, in una luce vaporosa e indefinita, che suol tanto contribuire alla misteriosa potenza della poesia, io non ho avuto l’animo di spoetizzarle con malaccorte circoscrizioni di tempi e di modi.

E convien sul proposito notare come io mi sia pressochè sempre attenuto alla Volgata; ma quantunque volte ho creduto che pel vantaggio artistico del mio lavoro io potessi, senza offesa al senso mistico del Componimento, preferire la diretta lezione del Testo Ebraico, io, confortato altronde d’autorevolissimi esempii, l’ho francamente preferita, e il lettore se ne avvedrà di leggieri3.

D’altra parte nelle movenze e nella progressione del Cantico de’ Cantici v’ha certa musica d’idee e di affetti più che di parole, la quale può anzi sentirsi che [p. 270 modifica]diffinirsi. In alcuni luoghi tutto il languore, tutto il vezzo, tutto l’abbandono d’un affetto confidente e dirò quasi infantile; in altri l’impeto, la veemenza dell’amore in tutta la energia della gioventù. Or questa musica arcana io ho creduto ritrarre colla qualità del verso e del ritmo per me adottato.


VI


E dacché, pure ora mi venia fatta menzione del senso mistico, non tacerò come si sarebbe voluto che io lo avessi fatto sottosopra trasparire nel mio volgarizzamento, recandomisi all’uopo degli esempii. Senonchè gli uffizii del traduttore sono essenzialmente diversi da quelli dell’espositore: confonderli è vituperarli entrambi, segnatamente in proposito della Cantica. I misteri in essa adombrati sono infiniti, e ben si avvisò chi paragonava questo picciol libriccino a quel tale granello di senapa mentovato dal Vangelo. Davvero che non so come in una versione poetica si possa illustrare, anche leggerissimamente, un libro, il quale quanto più è breve tanto più riusciva difficile a S. Girolamo, che, come ognun sa, era sì largamente fornito di lettere orientali. Io non dovea che letteralmente tradurre; io non dovea che rendere la forma estrinseca della Cantica; ed a questo, quanto seppi, attesi, tranne che in qualche luogo ho dovuto arrendermi all’autorità di persone onorande e piissime.

Che se poi avesse a parere a taluno che una traduzione letterale del Cantico de’ Cantici potesse riuscir pregiudizievole, io ricorderò certe parole di S. Agostino, [p. 271 modifica]relative all’Evangelo di S. Giovanni: «E perchè dunque si legge, se non se ne ha da parlare?» Nessuno altronde dubitò mai, nè fra gli Ebrei, nè tra i Cristiani, che questo libro fosse ispirato, che fosse un libro canonico e rivestito di autorità divina, al pari di qualunque altro della Scrittura. Ond’è che la Chiesa Cristiana non ha mai riconosciute le caute restrizioni della Sinagoga relativamente a questo libro, il quale fu sempre letto nelle solenni adunanze del popolo fedele, anche in tempi in cui le lingue principali, in che le scritture furon tradotte, eran lingue del popolo. E, infine, l’amore (ed un amore divinamente ispirato!), ove venga rivelato nella sua primitiva semplicità, impone sempre ammirazione ed ossequio, come il più disinteressato, come il più nobile fra gli affetti, co’ quali Iddio volle esaltare il cuore dell’uomo. Questa giovinetta ebrea dalla tinta bruna e soave, questa fantastica figlia dell’Asia dalla fisonomia passionata e risentita, questa generosa fanciulla d’Israele, che aspira agli amplessi d’un re, che con tutto il trasporto, con tutte le amabili follie della innocenza rivela il suo cuore all’amante scettrato, il quale alla sua volta la rimerita di gioje e di carezze infinite al cospetto del cielo e de’ suoi popoli, questa Sullamita insomma comanderà sempre la più profonda riverenza nella ingenuità de’ suoi vezzi, nel candore delle sue tenerezze legittime e veramente ispirate.

Nè so quanto bene abbian provveduto al buon costume coloro che, strappatole, come le sentinelle di Gerusalemme, il manto orientale, la copersero delle [p. 272 modifica]fulgide inezie de’ nostri saloni; ed ora la menarono a canticchiare ariette oblique e prevaricanti fra le mortelle dell’Arcadia, ed ora le posero in bocca i premeditati lamenti delle nostre Romantiche, le quali non si sa finalmente che si vogliano dalle loro lune e dalle loro farfalle! Quando è la Sapienza, che fa parlare l’Amore, l’Amore terrà sempre il linguaggio della Cantica; ed anzi che snervare, conforterà gli animi bennati e gentili: quando, al contrario, è l’Amore che vuol farla da sapiente, l’Amore riuscirà sempre o un gelido e insulso dissertatore, o un maligno perturbatore delle anime incaute ed innocenti.


VII


Ed ecco dichiarata la strada che ho creduto dover tenere nel presente lavoro. Non ci era, per verità, mestieri di tante parole per significare un proponimento, che potrebbe, anzi dovrebbe, apparire dall’opera stessa; nè v’ha cosa più importuna e, diciamola pure, più comica d’un autore, che voglia spandersi in teorie proprio nel punto che si è per venire al fatto. Ma io ho tutta la paura che l’opera mia abbia poco o nulla risposto al mio intendimento. Era dunque indispensabile che io mi premunissi contro una possibilità, che non parmi la più improbabile del mondo. Se il pubblico avesse a trovare riprovevole questo Volgarizzamento, sappia quali erano le mie intenzioni; sappia almeno che l’autore non vi ha dato dentro a caso.

Senise, luglio, 1855.

Note

  1. Sal. 44. Traduz. del Martini.
  2. Nelle note apposte ad un Poema, che vedrà fra non guari la luce sotto il titolo di Monti Biblici, e precise in quelle che risguardano il 3. Canto (il Libano), avremo a rifarci largamente su queste considerazioni generali intorno al vecchio Oriente, e al popolo Ebreo, le quali vanno ora così rapidamente cennate.
  3. Per esempio: la Volgata (Cap. II, v. 4) legge: «ordinavit in me charitatem;» e il testo Ebraico ha: «e la bandiera di lui sopra di me è l’Amore!» che all’evidenza è più poetico. La Volgata (Cap. IV, v. 2) legge: «absque eo quod intrinsecus latet;» e nel Testo Ebraico alcuni leggono; «infra le tue chiome;» altri: «entro il tuo velo;» e nelle pupille da colomba, trasparenti amorosamente dal velo, o dal velame delle chiome sparse e ricadenti con fantastica profusione su per le tempie della giovinetta ebrea, parmi maggior luce di poesia, più verità, e più fedele pittura di costumi ad un tempo. La Volgata (Cap. IV, v. 9) legge: «Vulnerasti cor meum!» e nell’Ebraico è detto con più forza: «Tu mi hai rapito il cuore!» E così via via: la sostanza è sempre la stessa: non variano che le forme e le tinte.