Commedia (Buti)/Inferno/Canto II

Da Wikisource.
Inferno
Canto secondo

../Canto I ../Canto III IncludiIntestazione 18 settembre 2014 100% Poemi

Inferno - Canto I Inferno - Canto III
[p. 52 modifica]

C A N T O   II.





1Lo giorno se n’andava, e l’aer bruno
     Toglieva li animai che sono in terra,
     Da le fatiche loro; et io solo uno
4M’apparecchiava a sostener la guerra,
     Sì del cammino, e sì della pietate,
     Che ritrarrà la mente che non erra.
7O Muse, o alto ingegno, or m’aiutate:
     O mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
     Qui si parrà la tua nobilitate.
10Io cominciai: Poeta, che mi guidi,
     Guarda la mia virtù, s’ell’è possente,
     Prima ch’all’alto passo tu mi fidi.
13Tu dici che di Silvio lo parente,
     Corruttibile ancora, ad immortale
     Secolo andò, e fu sensibilmente.
16Però se l’avversario d’ogni male
     Cortese fu, pensando l’alto effetto,
     Ch’uscir dovea di lui, e il chi, e il quale,
19Non pare indegno ad uomo d’intelletto;
     Ch’ei fu dell’alma Roma e di suo impero,
     Nell’empireo Ciel per padre eletto:

[p. 53 modifica]

22La quale e il quale, a voler dir lo vero,
     Fu stabilito per lo loco santo,
     U’ siede il Successor del maggior Piero.
25Per questa andata, onde li dai tu vanto,
     Intese cose, che furon cagione
     Di sua vittoria, e del papale ammanto.
28Andovvi poi lo Vaso d’elezione,
     Per recarne conforto a quella fede,
     Che è principio alla via di salvazione.
31Ma io, perché venirvi, o chi ’l concede?
     Io non Enea, io non Paulo sono:
     Me degno a ciò nè io, nè altri il crede.1
34Perchè se del venire io m’abbandono,
     Temo che la venuta non sia folle:
     Se’ savio, intendi mei, ch’io non ragiono.
37E quale è quei, che disvuol ciò che volle,
     E per nuovo pensier cangia proposta,
     Sì che dal cominciar tutto si tolle;
40Tal mi fec’io in quella oscura costa:
     Che a ciò pensando, consumai la impresa,2
     Che fu nel cominciar cotanto tosta.
43Se io ò ben la tua parola intesa,
     Rispose del magnanimo quell’ombra,
     L’anima tua è da viltate offesa,
46La qual molte fiate l’uomo ingombra,
     Sì che d’onrata impresa lo rivolve,
     Come falso veder bestia, quand’ombra.
49Da questa tema a ciò che tu ti solve,
     Dirotti, perch’io venni, e quel che intesi,
     Nel primo punto, che di te mi dolve.3

[p. 54 modifica]

52Io era tra color, che son sospesi,
     E Donna mi chiamò beata e bella,
     Tal che di comandare io la richiesi.
55Lucevan gli occhi suoi più che la stella:
     E cominciommi a dir soave e piana,
     Con angelica voce, in sua favella:
58O anima cortese Mantovana,
     Di cui la fama ancor nel mondo dura,
     E durerà, quanto il mondo lontana;4
61L’amico mio, e non della ventura,
     Nella deserta piaggia è impedito
     Sì nel cammin, che volto è per paura;
64E temo, che non sia già sì smarrito,
     Ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
     Per quel ch’io ò di lui nel Cielo udito.
67Or muovi, e con la tua parola ornata,
     E con ciò, che è mestiere al suo campare,
     L’aiuta sì, ch’io ne sia consolata.
70Io son Beatrice, che ti faccio andare:
     Vegno di loco, ove tornar disio:5
     Amor mi mosse, che mi fa parlare.
73Quando sarò dinanzi al Signor mio,
     Di te mi loderò sovente a lui.
     Tacette allora, e poi cominciai io:
76O Donna di virtù sola, per cui
     L’umana specie eccede ogni contento
     Da quel ciel, ch’à minor li cerchi sui;6
79Tanto m’aggrada il tuo comandamento,
     Che l’ubbidir, se già fosse, m’è tardi:
     Più non t’è uopo aprirmi il tuo talento.

[p. 55 modifica]

82Ma dimmi la cagion, che non ti guardi
     Dello scender qua giù in questo centro,
     Dall’ampio loco, ove tornar tu ardi.
85Da che tu vuo’ saper cotanto a dentro,
     Dirotti brievemente, mi rispose,
     Per ch’io non temo di venir qua entro.
88Temer si dee di sole quelle cose,
     Ch’ànno potenza di far altrui male;
     Dell’altre no: chè non son paurose.
91Io son fatta da Dio, sua mercè, tale,
     Che la vostra miseria non mi tange,
     E fiamma d’esto incendio non m’assale.
94Donna è gentil nel Ciel, che si compiange
     Di questo impedimento, ov’io ti mando,
     Sì che duro giudicio lassù frange.
97Questa chiese Lucia in suo dimando,
     E disse: Or à bisogno il tuo fedele
     Di te, et io a te lo raccomando.
100Lucia, nimica di ciascun crudele,
     Si mosse, e venne al loco dov’io era,
     Che mi sedea con l’antica Rachele;
103Disse: Beatrice, loda di Dio vera,
     Che non soccorri quei, che t’amò tanto,
     Ch’uscì per te della volgare schiera?
106Non odi tu la pieta del suo pianto?
     Non vedi tu la morte, che il combatte
     Su la fiumana, ove il mar non à vanto?7
109Al mondo non fur mai persone ratte
     A far lor pro, o a fuggir lor danno,8
     Com’io, dopo cotai parole fatte,

[p. 56 modifica]

112Venni qua giù del mio beato scanno,
     Fidandomi del tuo parlare onesto,
     Ch’onora te, e quei ch’udito l’ànno.
115Poscia che m’ebbe ragionato questo,
     Li occhi lucenti, lagrimando, volse:
     Perchè mi fece del venir più presto:
118E venni a te così, com’ella volse:
     Dinanzi a quella fiera ti levai,
     Che del bel monte il corto andar ti tolse.
121Dunque che è? perchè, perchè, ristai?
     Perchè tanta viltà nel core allette?9
     Perchè ardire e franchezza non ài,
124Poscia che tai tre Donne benedette
     Curan di te nella corte del Cielo,
     E il mio parlar tanto ben t’impromette?
127Quali i fioretti, dal notturno gielo
     Chinati e chiusi, poi che il sol l’imbianca,
     Si drizzan tutti aperti in loro stelo;
130Tal mi fec’io di mia virtute stanca,
     E tanto buon ardir al cor mi corse,
     Ch’io cominciai, come persona franca:
133O pietosa colei, che mi soccorse,
     E tu cortese, ch’ubbidisti tosto
     Alle vere parole che ti porse!
136Tu m’ài con desiderio il cor disposto
     Sì al venir, con le parole tue,
     Ch’io son tornato nel primo proposto.

[p. 57 modifica]

139Or va, ch’un sol volere è d’amendue:
     Tu duca, tu signore, e tu maestro.
     Così li dissi; e poi che mosso fue,
142Entrai per lo cammino alto e silvestro.

  1. v. 33. C. M. Ne degno.
  2. v. 41. Per che pensando.
  3. v. 51. Dolve, voce primitiva, derivata dal latino doluit e dolvit. E.
  4. v. 60. moto.
  5. v. 71. C. M. dal loco.
  6. v. 78. Sui. Ne’ princìpi di nostra lingua siffatti pronomi possessivi foggiavansi alla maniera de’ Latini. E.
  7. v. 108. C. M. onde il mar.
  8. v. 110. C. M. nè a fuggir.
  9. v. 122. allette, alletti. In sul nascere del nostro idioma fu tentato di acconciare tutti i verbi ad una sola coniugazione, e finire le persone singolari in eguale maniera, preso a modello la seconda de’ Latini; quindi ame, crede, sente ec. E.




C O M M E N T O


Lo giorno se n’andava, e l’aer bruno. In questo secondo canto lo nostro autore pone la invocazione sua conveniente a questa opera, e lo combattimento ch’ebbe di seguire o no, poi ch’ebbe incominciato, e due cose fa principalmente: però che prima pone quello che è detto; nella seconda dichiara alcun dubbio, e pone la sua ultima deliberazione quivi: O donna di virtù sola, per cui ec. Questa prima che è della prima lezione, à cinque parti: imperò che prima l’autore descrive il tempo e pone la sua invocazione; nella seconda si mostra dubbioso di cominciare, quivi: Io cominciai ec.; nella terza pone una similitudine, quivi: E quale ec.; nella quarta pone la risposta di Virgilio confortativa, quivi: Se io ò ben la tua parola ec.; nella quinta recita la diceria che li fece che il mosse, quivi: O anima cortese ec. Divisa adunque la lezione è da vedere la sentenzia litterale.

Dice adunque così: Quando Virgilio si mosse et io lo cominciai a seguire, Lo giorno se n’andava, e l’aer bruno, perchè se facea sera, toglieva li animali che sono in terra dalle lor fatiche, et io solo m’apparecchiava a sostenere lo combattimento e sì del cammino, e sì della pietade che scriverà la mente che non erra. Et aggiugne la invocazione, dicendo: O Muse, o alto ingegno, or m’aiutate: O mente che scrivesti ciò ch’io vidi, Qui si parrà la tua nobilitate. E fatta la invocazione pone la dubitanza che li sopravvenne, dicendo: Io cominciai: Poeta, che mi guidi, Guarda la mia virtù, s’ella è possente, Prima ch’all’alto passo tu mi fidi. Tu, dici, che il padre di Silvio; cioè Enea, ancora uomo corruttibile andò al seculo immortale corporalmente; cioè all’inferno: però se l’avversario d’ogni male; cioè Idio fu cortese a lui pensando l’alto effetto che dovea uscire di lui, non pare cosa non degna ad uomo d’intelletto: però ch’elli fu eletto nel cielo empireo padre della santa Roma e del suo imperio, la qual Roma, volendo dire la verità, fu fermata nel quale imperio, a ciò che quivi fosse la sedia della santa Chiesa ove siede il successore del maggior Piero; cioè di Piero apostolo che [p. 58 modifica]fu primo Papa, e tutti li altri sono stati suoi successori. E per questa andata per la quale tu lo lodi, intese cose che furono cagione di sua vittoria e del papale ammanto; cioè che in Roma poi fosse la sedia del Papa. E non solo v’andò Enea; ma ancora v’andò poi lo Vasello della elezione; cioè san Paolo per recarne conforto a quella fede che è principio della via della salvazione; cioè alla fede cristiana, che è principio della salute umana; ma io Dante perchè venirvi; cioè a che fine e chi il contende1 a me? Io non sono Enea, io non sono Paulo, nè degno a ciò nè io il credo, nè altri; per la qual cosa se io mi delibero di venire, temo che la mia venuta non sia stolta. Tu se’ savio Virgilio, tu m’intendi meglio che io non parlo, et aggiugne la similitudine che tal fu elli, quale è colui che disvuole quel che à voluto, e per nuovi pensieri muta proponimento sì, che al tutto si cessa dal cominciare: e che pure in pensar questo consumò la impresa che fu sì sollecita a incominciare. Et allora rispose Virgilio: Se io ò bene intesa la tua parola, la tua anima è offesa da viltà che molte volte impaccia l’uomo e rivolgelo da impresa d’onore, come falso vedere bestia quando ombra; et a ciò che tu ti liberi da questa paura, dirotti perchè io venni a te, e quel ch’io intesi nel primo punto che mi dolse2 di te. Io Virgilio era tra coloro che sono sospesi dalle pene; cioè nel limbo, e donna mi chiamò beata e bella, sì ch’io la richiesi che mi comandasse. Li occhi suoi lucevano più che la stella, et ella incominciò a dire pianamente in suo parlare, con angelica voce: O anima cortese Mantovana, la fama di cui ancora dura nel mondo, e durerà lunga tanto quanto il mondo, l’amico mio e non amico da ventura; cioè Dante, è impedito sì nella diserta piaggia, nel cammino, ch’elli è volto a dietro per paura, e temo che non sia già sì smarrito, ch’io mi sia tardi levata al soccorso suo per quello ch’io ò udito di lui nel cielo; e però muoviti e con le tue ornate parole, e con ciò che è bisogno al suo campare l’aiuta3 sì, ch’io ne sia consolata. Io che ti fo andare, son Beatrice e vegno di paradiso ove desidero di tornare: amor m’à mosso che mi fa parlare, e quando sarò dinanzi al mio Signore, spesso mi loderò di te a lui. E detto questo tacette Beatrice, et io Virgilio parlai. E qui finisce la sentenzia litterale della prima lezione. Ora è da vedere lo testo con l’esposizioni allegoriche ovvero morali.
      C. II - v. 1-9. In questi tre ternari il nostro autore prima descrive il tempo, e poi pone la invocazione brevissima, dicendo che, quando Virgilio si mosse et elli lo seguiva, era il tramontare del [p. 59 modifica]sole, e però dice: Lo giorno se n’andava, quando io mi mossi, e l’aer bruno, come si fa la notte, Toglieva gli animai che sono in terra, Da le fatiche loro; perchè tutti li più animali dormono la notte e riposansi dalle fatiche del di’, et io solo uno; cioè Dante uno e solo; cioè non è accompagnato d’altro uomo, e per questo si dee intendere che Virgilio non era con Dante, se non quanto alla lettera, per seguitamento che Dante seguiva la sua poesia, et allegoricamente s’intende la ragione umana, come detto è di sopra, che non era altro che Dante. M’apparecchiava a sostener la guerra; cioè molestia e fatica, Sì del cammino, e per questo cammino s’intende la descrizione del luogo che veramente fu faticosa cosa: chè al vero si dee intendere che Dante non andasse all’inferno; ma nella mente sua lo figurò così, come poi lo scrisse. e sì della pietate; molestia e fatica che sostenne nella pietà che li movea la miseria de’ dannati: imperò che la pietà; cioè miseria che muove l’uomo a pietà, e pietà è compassione, che ritrarrà; cioè lo qual cammino e la qual pietà scriverà la mente che non erra. Benchè la mano sia strumento dello scrittore, la mente è quella che detta e ordina, e perchè ritraere è vocabolo fiorentino, che significa esemplare, doviamo sapere che la mente del poeta che finge e compone, ritrae et assempra dal suo semplice concetto; cioè da quel che à pensato, e mette poi fuori o con voce o con iscrittura. E notantemente dice che non erra: imperò che mente si chiama perchè si ricorda, e quando erra in ricordarsi non si può degnamente chiamar mente; ma smemoraggine, o vero dimenticagione. E sopra questa discrizione si dee notare allegoricamente che l’autore finge che l’andata sua ch’è nell’inferno, fosse di notte, e che una notte consumasse a vedere ogni cosa; cioè la notte sopra il sabato santo: chè tutto il di’ del venerdi’ consumò nel combattimento che ebbe con li vizi, e nella deliberazione che ebbe con la ragione significata per Virgilio, perchè considerare li vizi e le loro specie e pene a loro debite e convenienti è oscurità e tenebre a rispetto delle virtù, e sopra essi si turba la mente, come sopra le virtù si schiara, e in questo seguitoe Virgilio che finse che Enea discendesse all’inferno, e stesse una notte a vedere ciò che esso ne scrive. O Muse, ec. Qui pone l’autore la sua invocazione dicendo: O Muse, ec. Qui doviamo sapere, che le Muse secondo i poeti sono nove; cioè Clio che s’interpetra pensamento d’imparare, Euterpe che s’interpetra bene dilettante, Melpomene che s’interpetra facente pensamento di perseverare, Talia che s’interpetra capacità, Polinnia che s’interpetra facente molta memoria, Erato che s’interpetra trovante simile, Tersicore che s’interpetra dilettante la instruzione, Urania che s’interpetra celeste ingegno, Calliope che s’interpetra ottima voce. E queste nove cose si [p. 60 modifica]richieggiono da grado in grado nel poeta; prima ch’elli voglia imparare, che è significato per Clio; secondo ch’elli si diletti di quel che vuol, ch’è significato per Euterpe; terzo che perseveri in quel che si diletta, che è significato per Melpomene; quarto, che pigli quello in che persevera, che è significato per Talia; quinto, che si ricordi di quello che piglia, che è significato per Polinnia; sesto che trovi di suo simile a quel che si ricorda, che è significato per Erato; settimo è giudicare quello ch’elli à trovato, ch’è significato per Tersicore; ottavo ch’elli elegga quel che à giudicato, che è significato per Urania; nono che ben proferisca quel che à eletto, che è significato per Calliope. E perchè questi nove gradi fanno perfetto il poeta e contengonsi sotto la poesia, però lo nostro poeta ch’era salito per questi gradi all’altezza della poesia, invoca le Muse. Appresso dice: o alto ingegno. Ingegno secondo Papia è una virtù interiore d’animo, per la quale l’uomo da sè trova quello che dalli altri non à imparato; e perchè l’autore trovava cose nuove, che mai da altrui non avea imparate, però dice: o alto ingegno, or m’aiutate; cioè aiutate me Dante a componere questo poema. E per questa invocazione si dee intendere essere invocata la grazia di Dio, la quale ministra e dà li nove gradi significati per le muse e per l’ingegno. Aggiugne una esortazione dicendo: O mente, che scrivesti ciò ch’io vidi. Qui conforta l’autore la mente sua dicendo: O mente mia, che scrivesti ciò ch’io vidi, Qui si parrà la tua nobilitate; cioè in questo poema se vedrà quanto tu se’ nobile, quasi dicesse, sforzati. E doviamo sapere che mente è una parte dell’anima la più eccellente, per la quale l’uomo è detto sapere et avere intelligenzia. Una medesima anima à diverse operazioni, e secondo la diversità di quella à diversi nomi; in quanto vivifica il corpo, si chiama anima; in quanto vuole, si chiama animo; in quanto sa et intende, si chiama mente; in quanto giudica il diritto, si chiama ragione; in quanto si ricorda, si chiama memoria; in quanto spira, si chiama spirito; in quanto sente, si chiama sentimento; e però l’autore disse distintamente: O mente; cioè o scienzia et intelligenzia mia, che scrivesti; cioè trovasti et ordinasti ciò ch’io vidi; cioè fingo d’avere veduto con li occhi corporali: però che scrivere propiamente è delle mani, qui si pone per l’operazione della mente non proprie; ma allegoricamente si dee intendere avere veduti con li occhi mentali: qui; in questo poema, si parrà la tua nobilitate; cioè quanta è la tua scienzia et intelligenzia.

C. II - v. 10-36. In questi nove ternari lo nostro autore dimostra la dubitazione che li venne di potere seguire, poi ch’ebbe cominciato dicendo così, poi ch’ebbe fatta l’invocazione: Io cominciai; cioè io Dante dovendo incominciare impaurito della grande impresa [p. 61 modifica]che mi pare a fare, mossi uno dubbio a Virgilio, dicendo: Poeta che mi guidi; cioè Virgilio, Guarda la mia virtù s’ell’è possente; a tanta cosa a quanta tu mi vuogli inducere, Prima ch’all’alto passo tu mi fidi; cioè prima che tu mi fidi all’alto passo; cioè profondo secondo la lettera: imperò che profondo è lo passo di questa vita nell’inferno; ma allegoricamente si dee intendere che la sensualità di Dante dubitava di potere portare questa fatica, e però domanda consiglio alla ragione, che à di ciò a giudicare, significata per Virgilio, e dice: Prima che tu mi fidi all’alto passo; cioè cominciare la narrazione della materia che dovea trattare, guarda se la mia virtù è possente; cioè la mia sensualità: però che l’uomo si dee mettere a fatica che si possa portare: imperò che vergogna è incominciare e non recare a fine. Seguita: Tu dici. Induce la cagione onde elli sia impaurito, dimostrando sè non essere pari a coloro che si dicono essere iti all’inferno; cioè Enea troiano del quale fu detto di sopra, del quale Enea dice Virgilio nel sesto libro della sua Eneida, che guidato dalla Sibilla Cumana andò corporalmente nell’inferno, e passò nelli Campi Elìsi, ove finge che stessono li felici, e qui trovasse Anchise suo padre, ch’era morto, e predicesseli le cose che dovea portare, e come doveano di lui li Romani e l’imperadori nascere; e san Paolo del quale si trova nella Sacra Scrittura, che fu rapito infino al terzo cielo e vide quelle cose che non è licito all’uomo di parlare. E così si può intendere che quivi medesimo li fosse mostrata la giustizia di Dio, che nell’inferno si esercita in punire li peccatori, come l’eterna vita ove si premiano li buoni; et in questo modo si può onestamente dire che san Paolo andasse all’inferno; cioè che in quello ratto li furono mostrate le cose dell’inferno, e del purgatorio: o vogliamo dire che il nostro autore solamente induca Enea nell’esempro4 dell’andata all’inferno, e san Paolo in esempro dell’andata in paradiso, quasi dicesse: Tu dici che Enea andò al secolo immortale sensibilmente; cioè inferno, e purgatorio, e poi san Paolo anche andò ad immortale secolo sensibilmente; cioè in paradiso. Io non sono Enea, nè san Paolo ch’io mi debba fidare di potervi andare, com’ellino, e però dice: Tu Virgilio dici nel libro che facesti di Enea che si chiama Eneida che di Silvio lo parente; cioè Enea troiano padre di Silvio, Corruttibile ancora; cioè essendo ancora in carne la quale era corruttibile, acciò che s’intenda che vi andasse corporalmente come dice Virgilio, dice così: ad immortale Secolo andò; cioè andò all’inferno ove è secolo che non dee mai aver [p. 62 modifica]fine, e però dice immortale. Secolo dice Papia che è corso di vita e quivi; cioè nell’inferno, è corso di vita immortale; cioè che non si dee finire per morte, come si finisce la nostra vita del secolo ovvero del mondo. Questo non si può intendere del purgatorio, benchè Virgilio ponga nel sesto libro della sua Eneida, che Enea fosse guidato da Sibilla per l’inferno e purgatorio; imperò che il purgatorio verrà meno dopo il giudicio e non sarà più, sicchè non si può dire secolo immortale per quel modo che si dice inferno; potrebbesi ben dire immortale, largo modo per rispetto di quelli che vi sono purgati, che non deono mai più morire. e fu sensibilmente; cioè secondo il corpo ove sono li strumenti de’ sensi, a ciò che non s’intenda che v’andasse spiritualmente, dice così; et aggiugne concludendo che questo fu degna cosa, dicendo: Però; cioè et imperò, se l’avversario d’ogni male; cioè, Idio, il quale è avverso, e contrario a tutti i mali, et aiutatore di tutti i beni, Cortese fu; cioè a quello Enea di lasciarvelo andare, pensando l’alto effetto, Ch’uscir dovea di lui. Questo dice per Cesare primo imperadore, lo quale fu della stirpe di Giulio Ascanio figliuolo d’Enea, e però fu chiamato Giulio Cesare, lo quale fu bene alto effetto. e il chi, e il quale; cioè pensando ancora chi era, e qual era colui che dovea uscire di lui, Non pare indegno ad uomo d’intelletto; cioè ad uomo che intenda non pare cosa indegna che Dio fosse cortese ad Enea di lasciarlo discendere all’inferno e vedere le cose segrete, et avere relazione delle cose future, pensando chi era colui che dovea uscire di lui; le quali cose li predisse ancora Anchise, come finge Virgilio nel sesto, acciò che Enea fosse più animoso a sostenere ogni fatica, per inducere sì fatto effetto da sè. Ch’ei fu dell’alma Roma e di suo impero, Nell’empireo Ciel per padre eletto; cioè lo quale descensore fu eletto per padre dell’alma Roma; cioè dell’alta Roma, perciò almo significa alcuna volta eccelso, e di suo impero; cioè imperio, nell’empireo Cielo. Cielo empireo è sopra tutti li altri cieli, e qui abita Idio, e perchè ogni cosa è proveduta, et ordinata principalmente da Dio, però dice che fu eletto nello empireo Cielo. La quale e il quale, a voler dir lo vero ec. Questo testo ò io trovato altrimenti, cioè: La qual nel quale, et allora è più chiara la sentenzia: però che s’intende la qual Roma fu stabilita; cioè fermata nel quale imperio. per lo loco santo; cioè a ciò che quivi fosse lo capo della sedia, ovvero chiesa di Dio, e la sedia del papa, e però aggiugne: U’ siede il Successor; cioè ove dee sedere ogni papa che è successore del maggior Piero; cioè di Piero apostolo di Cristo il quale fu primo papa, et è maggiore di tutti li altri che poi abbiano avuto sì fatto nome. Ma stando il primo testo si dee intendere: La quale; Roma, e il quale imperio, a voler dir lo vero; cioè volendo manifestare la verità, fu stabilita, [p. 63 modifica]altr. stabilito, e fu stabilito s’intende per la figura che usano li grammatici che si chiama zeuma, per lo loco santo ec., come di sopra. E s’altre dicesse che per zeuma si dovrebbe dire fu stabilito, perchè l’accidente5 si dee rendere al più presso suggetto, debbasi rispondere che è vero secondo li grammatici moderni; ma secondo li antichi, si rendea ancora al primo, siccome dicendo: Piero, e Berta è bianco, e qui m’abbino escusato li volgari, se non intendono: chè io non mi posso far meglio da loro intendere. Et aggiugne perchè fosse utile l’andata d’Enea all’inferno dicendo: Per questa andata, onde; cioè della quale, li dai tu; cioè Virgilio, vanto; cioè della quale tu lo lodi, Intese; Enea dal suo padre Anchise, cose, che furon cagione Di sua vittoria; cioè della costituzione dell’imperio del quale elli fu cagione con le sue vittorie, e del papale ammanto; cioè del papato, lo quale fu costituito in Roma per l’imperadori secondo che piacque a Dio, a ciò che quella città ch’era capo del temporale, fosse ancora capo dello spirituale. Dicesi l’ammanto papale, l’ammanto di san Piero, del quale s’ammanta ogni papa quando si pone in cattedra primamente. Aggiugne poi di san Paolo, dicendo: Andovvi poi; cioè al secolo immortale; cioè al paradiso, et all’inferno, per quel modo che fu detto di sopra, o vogliamo pur dire ad immortale secolo; cioè paradiso, secondo che toccato fu questo punto di sopra, lo Vaso d’elezione; cioè san Paolo, del quale disse Dio: Vas electionis vocabitur; cioè sarà chiamato Vaso d’elezione; cioè vasello eletto: imperò ch’elli fu eletto da Dio. Trovasi in uno libro, che non è approvato, che san Paolo andasse all’inferno, e per questo ne fa qui menzione l’autor nostro; ma ch’elli fosse ratto insino al terzo cielo ne rende testimonio elli nelle sue Epistole, et in quello ratto forse l’autore intese che li fosse mostrato la giustizia di Dio punitiva, come la premiativa, et in questo modo intende che andasse allo inferno, com’è detto di sopra, e questo è megliore intendimento. Per recarne conforto a quella fede; cioè cristiana. Molto si conforta la fede quando s’approva che sia lo paradiso premiazione de’ buoni uomini, e l’inferno punitore de’ mali. Che è principio alla via di salvazione. Ben dice che la fede è principio: imperò che sanza la fede nessuno può piacere a Dio, e benchè sia principio non salva però l’uomo: però che la fede sanza l’opere è morta. Ma io, ec. Qui conchiude lo nostro autore che, benchè v’andasse Enea menato da Sibilla, san Paolo ratto per lo modo che detto è per grandi effetti6 che ne doveano seguire per le loro andate. Ma io; cioè Dante, perchè venirvi; allo inferno, o chi ’l concede? Si dee intendere a me: imperò che [p. 64 modifica]all'uno, et all’altro fu conceduto da Dio, come è mostrato di sopra. Io; cioè Dante, non Enea; cioè s’intende non sono Enea, io non Paulo sono: Me degno a ciò, come furono ellino, nè io; Dante, nè altri il crede; cioè ch’io ne sia degno. Perchè; cioè per la qual cosa, se del venir io m’abbandono; cioè se io mi metto a venire, Temo che la venuta non sia folle; cioè stolta che non abbia effetto, e quel fine a che io mi sono mosso. Se’ savio; tu Virgilio, intendi mei; cioè meglio, ch’io non ragiono; cioè che io Dante non parlo. E sopra tutto questo si può intendere che allegoricamente il nostro autore volle mostrare che niuno possa sapere le cose dell’altra vita sanza special grazia di Dio, come à mostrato d’Enea e di santo Paolo, e di sotto mosterrà di sè.

C. II - v. 37-42. In questi due ternari pone il nostro autore una similitudine, nella quale mostra7 si mutò di proposito per la detta ragione, dicendo: E quale è quei; cioè colui, che disvuol ciò che volle; cioè che non vuole poi quel, che à voluto prima, E per nuovo pensier, che li sopravviene, cangia; cioè muta, proposta; cioè proponimento, Sì che dal cominciar tutto si tolle; sì che in tutto si rimane dalla cosa incominciata, Tal mi fec’io; cioè Dante, in quella oscura costa, della quale fu detto di sopra. Ch’a ciò pensando8, cioè alla quale pensando, consumai la impresa; cioè arrecai a fine la liberazione della materia che dovea incominciare, deliberatomi di non andare più innanzi, Che; cioè la quale impresa, fu nel cominciar cotanto tosta; cioè fu sì sollicita nell’incominciare.

C. II - v. 43-57. In questi cinque ternari pone il nostro autore come Virgilio rispondendo alla sua diceria, dimostra in generale quello che à compreso del suo dire, e cominciali a narrare la cagione del suo avvenimento, che fia liberazione del suo dubbio, dicendo: Se io ò ben la tua parola intesa; cioè se io Virgilio ò bene inteso la parola di te Dante, Rispose del magnanimo quell’ombra; cioè quell’anima del magnanimo Virgilio, L’anima tua è da viltate offesa; cioè se’ fatto vile d’animo, La qual, viltà, molte fiate l’uomo ingombra; cioè impaccia, Sì che d’onrata impresa lo rivolve; cioè lo tira a dietro, Come falso veder bestia quand’ombra. Fa qui una similitudine dicendo, che come la bestia si rivolge e torna a dietro, quando adombra per falso vedere; cioè che li par vedere quel che non vede; così l’uomo spesse volte torna a dietro di quello che à preso di fare, avendo paura di quello che non dee avere, parendoli quello che non è. Da questa tema; cioè da questa paura, a ciò che tu ti solve; cioè liberi. Qui mostra Virgilio a Dante la ragione, perchè non dee aver paura di seguire la impresa: però che questo non [p. 65 modifica]è sanza la grazia speciale di Dio, come si mosterrà di sotto, siccome mediante la grazia di Dio fingesi che andò Enea all’inferno, e santo Paolo, de’ quali è detto di sopra. Dirotti; io Virgilio, perch’io venni; a te, e quel che intesi, Nel primo punto, che di te mi dolve. Io era; cioè io Virgilio, tra color, che son sospesi; cioè rimossi dalle pene. E non si dee intendere a tempo; ma sempre: imperò che Dante finge che Virgilio e li altri poeti, e litterati uomini che non furono cristiani, fossono nel limbo ove non è pena, se non che sono sanza contentamento: imperò che non veggono Idio; e benchè questo volgare sospeso s’intende a tempo comunemente, propriamente qui si dee intendere per sempre. E Donna mi chiamò beata e bella; cioè me Virgilio, Tal che di comandare io la richiesi; cioè tal ch’io Virgilio la richiesi che mi comandasse. Discrivela poi com’era fatta dicendo: Lucevan gli occhi suoi più che la stella. Questa donna avea li occhi suoi più rilucenti che qualunque stella: imperò che sanza ristrignersi ad alcuna, dice più che stella. Per questa, che Dante figura qui donna, e che di sotto la nomina Beatrice, allegoricamente si dee intendere la sacra Teologia, la quale accompagnante con la grazia cooperante e consumante beatifica l’uomo, ammaestrandolo a conoscere et amare Idio, lo quale qualunque uomo perfettamente conosce quanto è possibile all’umana specie, sì l’ama perfettamente, e amandolo perfettamente è beato in questa vita per grazia, e nell’altra per gloria, e però ben li9 si conviene questo nome Beatrice; e questa sacra Teologia si può pigliare alcuna volta pur semplicemente per la sacra Scrittura; et allora non li si converrebbe questo nome Beatrice: imperò che molti sono stati già grandi teologi che sono stati dannati e non beatificati. E Beatrice si dice, perchè beatifica e puossi pigliare per la santa Scrittura accompagnata con la grazia cooperante e consumante, et allora se li conviene questo nome Beatrice: però ch’allora sempre beatifica colui in cui ella è. Sì la piglia ora lo nostro autore, e perch’ella coopera in alquanti uomini principalmente con la parte della ragione pratica, et inferiore dell’uomo, insegnandolo e facendolo prima uscire del vizio e venire alla virtù, e poi salire di virtù in virtù; la qual cosa significa la vita sensitiva attiva: però finge l’autore ch’ella movesse Virgilio ora, lo quale, come già è detto, tiene ragione pratica et inferiore, e questi; cioè Virgilio guida Dante; cioè la sensualità per l’inferno, e per tutto lo purgatorio infino all’entrata del paradiso terrestro: però che la ragione pratica basta a questo. E perchè poi quando l’uomo è esercitato nella vita attiva ella coopera con la [p. 66 modifica]parte della ragione superiore che si chiama sinderesis, che è vocabolo greco che significa faccia10 del cuore ovvero ragione somma, facendo l’uomo intendere alle cose alte di Dio per contemplazione, che si chiama vita spirituale e contemplativa, però finge l’autore ch’ella lo guidasse dall’entrata del paradiso terrestre infino all’ultimo fine, per lo paradiso terrestro e celesto11 infino a Dio che è ultimo nostro fine sanza mezzo: però che a questo non basterebbe la ragione pratica e però conviene essere la contemplativa. E perchè di questi due gradi di vita, prima per la vita sensitiva et attiva, e poi per la spirituale e contemplativa, o almeno per l’uno di questi mena l’uomo la santa Teologia accompagnata con la grazia cooperante e consumante a beatitudine, ben se li conviene questo nome Beatrice, la quale convenientemente il nostro autore chiama donna, perch’ella è veramente donna dell’umana specie, e ben dice beata: però ch’ella à a beatificare, e, se non fosse beata, non potrebbe beatificare; imperò che niuno può dare quello che non à, e bella su può ancora dire, anzi bellissima: però che in lei è la vera bellezza. Li occhi che finge l’autore, che luceano più che la stella, sono la ragione e lo intelletto de’ santi uomini, i quali rilucono più che ogni stella e pianeta: imperò che in essi riluce la somma luce; cioè Idio infinito et eterno. E seguita: E cominciommi a dir soave e piana; essa Beatrice, s’intende, a me Virgilio. Veramente ogni soavità e pianezza è nella santa Teologia a muovere i nostri sentimenti, e la parte della ragione pratica et inferiore. Con angelica voce, in sua favella. Veramente la voce della santa Teologia è angelica, perch’ella dà vero conforto a chi l’ode, e da Dio è inspirata sanza mezzo per li angeli ne li uomini. In sua favella, dice, a denotare lo suo modo del parlare, lo quale è diverso dal nostro: imperò che il nostro è con errore e difetto; questo è sempre vero e perfetto12: e però che lo Spirito Santo parla in essa; et ancora quello è diversificato: imperò che ad alcuno minaccia, alcuno conforta, alcuno lusinga, ad alcuno parla in voce, et ad alcuno13 con ispirazione: imperò che Idio, mediante la sua grazia cooperante, ovvero consumante, tutti li suoi eletti conduce all’ultimo fine per quel modo che vede essere all’uomo più necessario, sicchè li dia salute.

C. II - v. 58-75. In questi sei ternari induce l’autore Virgilio manifestante il parlamento che li fece la donna che il mosse, poi [p. 67 modifica]che in parte l’à descritta, dicendo: O anima cortese Mantovana. Finge Dante che Virgilio li dicesse che la donna descritta parlasse a lui, chiamandolo anima cortese, e questo fu convenienzia: però che Virgilio, del quale qui si fa menzione, non era col corpo allora, sì che ben si potea dire anima; appresso ancora per quel che significa qui allegoricamente, che significa la ragione inferiore che è operazione dell’anima. Cortese dice, per ciò che di sopra à detto: Tal che di comandar io la richiesi. Mantovana dice: però che, come è mostrato di sopra, Virgilio fu da Mantova città di Lombardia. Di cui la fama ancor nel mondo dura. Questo dice: imperò che la fama di Virgilio dura ancora nel mondo et aggiugne: E durerà, quanto il mondo lontana; cioè durerà lontana; cioè lunga tanto, quanto durerà il mondo. Qui profeta che la fama di Virgilio durerà quanto il mondo à a durare, e questo si dee intendere appo li grammatici latini, e benchè questa profezia finga l’autore che fosse di Beatrice, ella fu sua, e puossi questa profezia intendere pur di Virgilio, secondo la lettera per congettura del tempo passato: imperò che vedendo che è tanto tempo ch’ella è durata appo li grammatici latini cum14pruova e lode di ciascuno, ben poteva congetturare che dovesse durare tanto, quanto si trovassono li grammatici latini, li quali, è da credere, che si troveranno infino alla fine del mondo, perchè l’uno trasfonde la grammatica nell’altro successivamente. L’amico mio, a me Beatrice; cioè Dante, e non della ventura. Li amici della santa Teologia non sono amici della ventura, la qual signoreggia li beni mondani: imperò che ànno in odio il mondo, nella diserta piaggia è impedito. Di questa piaggia fu detto di sopra cap. i, sì che basti al presente; ma sarebbe qui uno dubbio testuale; come dice ch’era impedito nella piaggia, che di sopra dice cap. primo: Mentre ch’io ruinava in basso loco, ove si mostra, che fosse in su l’erta del monte ancora? A che si può rispondere che, benchè trovasse Virgilio, no si rattenne che non ritornasse in sulla piaggia onde s’era partito. Sì nel cammin, che volto è per paura. Questo ancora è esposto di sopra. E temo, che non sia già sì smarrito; dalla buona via del monte delle virtù, come detto è di sopra. Et è nel testo la negazione d’avanzo, secondo l’uso del parlare volgare: però che veramente non temea del no; ma del sì. Ch’io mi sia tardi al soccorso levata; cioè io Beatrice al soccorso di Dante, Per quel ch’io ò di lui nel Cielo udito; dall’altre due donne, delle quali si dirà di sotto. E per questo il nostro autore volle dimostrare che l’altre due grazie significate per le due donne, delle quali si dirà nella seguente [p. 68 modifica]lezione, non bastano alla salute umana: imperò che alcuna volta l’uomo è prevenuto et illuminato, e niente di meno va a dannazione, infino che non viene la grazia cooperante e consumante, e però disse che avea paura che si fosse tardi levata. Or muovi, e con la tua parola ornata; cioè muovi te, Virgilio, e col tuo ornato parlare. Qui litteralmente intende dell’ornato parlare del poeta Virgilio, per lo quale, chi bene lo ragguarda, l’uomo è confortato alle virtù e spaventato da’ vizi; et allegoricamente si può intendere con le suasioni della ragione pratica significata per Virgilio. E con ciò, che è mestiere al suo campare, L’aiuta sì, ch’io ne sia consolata; cioè Beatrice, che voglio la salute sua e desiderala la santa Scrittura che vuole la salute di ciascuno. Io son Beatrice, che ti faccio andare. Qui manifesta lo nome suo lo quale è Beatrice, e di questo nome fu renduto ragione di sopra. Vegno di loco, ove tornar disio; cioè di vita eterna. La santa Teologia, che è una medesima cosa con la grazia cooperante e consumante, sempre di cielo discende nelli uomini, et ogni bene di lassù discende e lassù desidera di tornare: imperò che quello è il luogo suo, et ogni cosa desidera la sua costituzione come dice il filosofo. Amor mi mosse, che mi fa parlare. Solo amore e carità è quella che muove la sante Teologia, ovvero grazia cooperante e consumante: imperò che Idio si muove per amore ad infonderla. Quando sarò dinanzi al Signor mio; cioè a Dio, Di te mi loderò sovente a lui; cioè spesso di te mi loderò a Dio. Per questo significa lo nostro autore che quelli che sono nel limbo desiderino di piacere a Dio, de’ quali finse di sopra che fosse Virgilio; et allegoricamente intese della ragione, la quale sempre desidera di piacere, se non fosse occupata dall’ira. Tacette allora, e poi cominciai io. Qui pone l’autore la continuazione del processo dicendo: Allora tacette Beatrice, e poi parlai io Virgilio.
     Seguita l’altra lezione dicendo così: O donna di virtù ec. Posta di sopra la vocazione15 conveniente a questo Poema e il combattimento ch’ebbe di seguire o no, poi ch’ebbe incominciato, in questa seconda lezione muove alcuno dubbio e dichiaralo, et all’ultimo pone la sua ultima deliberazione; e però questa lezione si divide in cinque parti, perchè prima pone come Virgilio liberamente rispose alla domanda di Beatrice, e come li mosse uno dubbio. Nella seconda, Beatrice come rispose al dubbio, quivi: Da che tu vuo’ saper ec. Nella terza Beatrice continuando lo suo parlare mostra la cagione, perchè si mosse a far soccorrere Dante, quivi: Donna è gentil nel Ciel ec. Nella quarta mostra Virgilio come si mosse dopo il parlar di Beatrice, e riprende Dante, quivi: Poscia che m’ebbe [p. 69 modifica]ragionato questo ec. Nella quinta pone per una similitudine, come Dante rinvigorito si dispone a seguir Virgilio, quivi: Quali i fioretti.
     Divisa adunque la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale. Dice adunque così: Poichè Virgilio ebbe detto a Dante quello che Beatrice li avea parlato, dice ora com’elli rispose a lei in tal forma: O Donna di virtù sola, per cui l’umana specie avanza ogni contento; ciò che è dentro del ciel della luna, Tanto m’aggrada il tuo comandamento, che ogni indugio ad ubbidirti mi par troppo: non t’è mistieri a questo di dirmi più; ma solvi uno dubbio, dimmi la cagione che non ti guardi di scendere in questo centro del luogo ampio ove desideri di tornare. Et allora Beatrice rispose: Da che tu vuo’ sapere cotanto a dentro, Dirotti brievemente, perchè non ò paura di venir qua entro. Imperò che si dee temere solo di quelle cose, ch’ànno potenza di fare altrui male, e non dell’altre; et io sono fatta tale da Dio per la sua grazia, che la fiamma di questo incendio, nè vostra miseria mi può toccare; et appresso voglio che sappi ch’io sono stata mandata, perchè gli è una gentil donna nel cielo che si duole molto di questo impaccio al quale io ti mando. E questa sì parlò ad un’altra ch’à nome Lucia, e sì li disse: Lucia, ora lo tuo fedele à bisogno di te, et io lo raccomando a te. Allora Lucia, che è misericordiosa, si mosse e venne a me Beatrice che sedea con quella antica Rachele, che fu moglie di Iacob, e dissemi: Beatrice, loda vera di Dio, perchè non soccorri colui che t’amò tanto, che per tuo amore uscìe della schiera de’ volgari? Non odi tu la pietà del suo pianto? Non vedi la morte che il combatte in sul fiume tempestoso come il mare? Allora io mi mossi ratta più che persona che mai andasse a fare suo pro o a fuggir suo danno, e venni della mia beata sedia a te in questo fondo, fidandomi del tuo onesto parlare, che onora te e quelli che l’ànno udito. E detto quello che Beatrice avea detto a Virgilio, dice Virgilio a Dante, che poi che Beatrice li ebbe parlato, ella mosse li occhi lucenti lagrimando, perchè mi fe16 più presto del venire; e venni a te Dante com’ella volse e leva’ti dinanzi a quella fiera che ti tolse la corta via del bel monte che volevi salire. Dunque perchè ristai, Dante? Perchè ài tanta viltà nel cuore? Perchè non ài ardire e franchezza, poi che tre sì fatte donne curano di te nella corte del cielo, et ancora io ti prometto tanto bene? Allora pone Dante che fu tutto riconfortato, e dice: Come li fioretti la mattina stanno chiusi e chinati per lo gelo della notte, e levato lo sole si dirizzano et apronsi; così io ritornai di mia virtù stanca e tanto buono ardire mi giunse al cuore che io cominciai come persona franca: O pietosa colei, che mi soccorse, E tu cortese, [p. 70 modifica]ch’ubbidisti tosto Alle vere parole che ti porse! Tu ài sì disposto il mio cuore al venire con le tue parole, ch’io sono tornato nel primo proponimento: or va che la mia volontà è accordata con la tua; tu se’ mio duca, tu se’ mio signore, tu se’ mio maestro. E detto questo, dice che Virgilio si mosse, et allora entrò Dante per lo cammino profondo e salvatico; e qui finisce la sentenzia litterale. Ora è da vedere il testo con le moralità, e allegorie.

C. II - v. 76-84. In questi tre ternari il nostro autore fa due cose; prima dimostra come Virgilio rispose a Beatrice; nella seconda muove uno dubbio, quivi: Ma dimmi ec. Dice prima l’autore che Virgilio li disse che, poi che Beatrice ebbe parlato a lui, come detto è di sopra, elli rispose a lei in tal forma: O donna di virtù sola. Veramente la santa Teologia è donna di tutte le virtù: imperò che a lei sono sottoposte le quattro virtù cardinali; cioè Giustizia, Prudenzia, Fortezza e Temperanzia, con le loro specie e le tre teologiche; cioè Fede, Speranza e Carità, come si dimostra per l’autore nella seconda cantica nel canto 31. per cui; cioè per la qual donna, L’umana specie eccede; cioè avanza, ogni contento; cioè ogni cosa contenuta, Da quel Ciel ch’à minor li cerchi sui, che li altri cieli. Questo è il cielo della luna, il quale è l’ultimo in verso la terra e il più basso, e però li suoi cerchi sono minori che quelli delli altri cieli, che sono più alti. Veramente per la Teologia accompagnata, come detto fu di sopra, con la grazia cooperante e consumante, l’uomo avanza tutte le cose che sono dalla luna in giù: imperò ch’ella ci beatifica, e per la beatitudine l’uomo avanza tutte l’altre cose del mondo, e notantemente disse dalla luna in giù, perchè non s’intendesse degli angeli: però che per conoscere Idio, che è la beatitudine dell’uomo, l’uomo non avanza l’angelo: imperò che ancora l’angelo è beato per tale conoscimento; e perchè molti vogliono dire che i cieli sono girati per li angeli, però disse pure ogni contento dal cielo della luna. Di questa opinione fu l’autore quando disse: Voi, che intendendo il terzo ciel movete ec. Tanto m’aggrada il tuo comandamento; cioè tanto piace, Che l’ubbidir, se già fosse, m’è tardi; cioè se ora t’ubbidissi, mi parrebbe avere troppo tardato17. E per questo possiamo notare che allegoricamente l’autore vuole mostrare quanto la nostra ragione da sè è presta a ubbidire i comandamenti della santa Teologia. Più non t’è uopo aprirmi il tuo talento; cioè non t’è più mestieri che manifestarmi il tuo piacere, ch’io sono apparecchiato a ubbidire. Ma dimmi la cagion, che non ti guardi. Qui finge l’autore che Virgilio domandasse Beatrice, perchè non si guardava di discendere nel limbo, dicendo: dimmi la cagion, che; tu Beatrice non ti guardi Dello scender qua giù in questo centro. Centro è il [p. 71 modifica]punto nel mezzo del cerchio, e la terra si dice per rispetto del cielo del fermamento essere un punto; dunque ben si può dire del limbo che è nel centro della terra. Dall’ampio loco; cioè di paradiso, che è luogo amplissimo, ove tornar tu ardi; cioè ove tu desideri di tornare. Questa dubitazione che qui pone l’autore non è necessaria secondo la lettera, se non per salvare la fizione: imperò che noi sappiamo che quanto alla verità Beatrice non andò al limbo a Virgilio; ma vuole dimostrare l’autore che secondo la lettera la fizione sua è verisimile, secondo che dice essere quella di ciascuno poeta: imperò che parrebbe a molti che i beati non dovessono potere essere nello inferno: imperò che quivi è pena; nè nel limbo: però che v’è privazione di beatitudine. A che risponde, che li beati possono ire per l’inferno e per ogni luogo: imperò che non possono essere offesi da pena, nè privati da beatitudine: imperò che sono impassibili et in qualunque luogo sono, si rappresenta loro Idio che è l’obietto della beatitudine; ma l’autore mosse questo dubbio, secondo l’intelletto allegorico ovvero morale più tosto: imperò che l’uomo potrebbe dubitare, se Virgilio significa allegoricamente la ragione inferiore di Dante che era involuta nelli vizi e peccati, come sanza altro mezzo discese la santa Teologia accompagnata con la grazia cooperante, e consumante, come detto è di sopra, in lui: imperò che tale grazia non discende, se non vanno innanzi le altre delle quale si dirà di sotto; e però muove l’autore questo dubbio e soggiugne due soluzioni; la prima alla dubitazione, secondo la lettera; la seconda, secondo l’allegoria.

C. II - v. 85-93. In questi tre ternari l’autore pone la soluzione del primo dubbio, secondo la lettera la quale è in sentenzia quel che è detto di sopra; ma in parole dice così. Beatrice rispondendo al dubbio, secondo la prima intenzione: Da che; cioè poichè tu Virgilio, vuo’ saper cotanto a dentro. E ben finge l’autore che questa dubitazione movesse Virgilio che significa la ragione: imperò che la ragione è vaga d’imparare quello che per sè non vede. Dirotti brievemente, mi rispose; cioè a me Virgilio, Per ch’io; cioè Beatrice, non temo di venir qua entro; cioè in questo limbo. Temer si dee di sole quelle cose, Ch’ànno potenza di far altrui male, Dell’altre no: chè non son paurose; cioè da doverne avere paura. Questa è notabile e verissima sentenzia. Soggiugne a questa: Io son fatta da Dio, sua mercè, tale; cioè per sua grazia, sì fatta, Che la vostra miseria non mi tange; cioè non mi tocca, e questo si dee intendere di tutti li beati. E fiamma d’esto incendio non m’assale; cioè non m’assalta, e dimostra qui la fiamma dell’incendio dello inferno: chè nel limbo non è incendio; ma quando dice la vostra miseria, s’intende di quelli del limbo: imperò che in miseria sono in quanto sono privati [p. 72 modifica]di beatitudine. Seguita poi la risposta secondo il dubbio, secondo l’allegoria; e però si dee considerare che non sanza cagione l’autore soggiunse questo: imperò che al dubbio, secondo la prima intenzione era satisfatto assai sufficientemente.

C. II. v. 94-114. In questi sette ternari lo nostro autore pone la soluzione del secondo dubbio che si muove secondo l’allegoria; cioè se Dante era implicito nelli vizi, e peccati com’elli à detto di sopra di sè, come venne la Teologia accompagnata con la grazia cooperante e consumante sanza altro mezzo in lui, che è significata per Beatrice come è detto di sopra? A che risponde che non fu sanza mezzo: imperò che questo non potrebbe essere; ma precedettono due grazie inanzi; cioè la grazia preveniente e la grazia illuminante, et intorno a questo doviamo sapere che alla salute d’ogni peccatore si richieggono tre grazie; prima una grazia che viene sanza alcuno merito dell’uomo, e fa all’uomo riconoscere lo suo peccato et aver volontà d’uscirne. E perchè Idio la dona di sua bontade e liberalità a chi elli vuole, però si chiama grazia preveniente; cioè che viene innanzi al merito dell’uomo, e perchè questa non basta: imperò che non basta aver voglia d’uscire del peccato se non se n’esce, et entrasi nella virtù; et è poi conceduta l’altra che si chiama grazia illuminante la quale insegna et illumina l’uomo ad uscire del peccato, et entrare nelle virtù con la penitenzia. E perchè questa illumina, però la chiama Lucia, cioè luce che illumina, e perchè queste due non bastano: imperò che molti ànno già avuto voglia di uscire del peccato et entrare nelle virtù, et ànno avuto il sapere et ancora non ne sono usciti, e però è necessaria la terza, la quale si chiama grazia cooperante: imperò che adopera insieme con l’uomo a farlo uscire del peccato con la confessione e con la contrizione e satisfazione, et entrare nelle virtù e crescere in esse de18 grado in grado. E perchè in tutti e in più questa dura a chi la vuole infino al fine, e mena a salute, però si chiama grazia consumante, e il nostro autore la chiama Beatrice, perchè fa l’uomo beato. Ma in cui ella non durasse si chiamerebbe pur grazia cooperante: imperò che consumante grazia non è, se non ne’ perfetti che sono nella perfezione di virtù. E questo vuole lo nostro autore che sia con la santa Teologia: imperò che venutali la grazia preveniente e la illuminante, li venne19 la cooperante con la santa Teologia, alla quale elli si dè20, abbandonando le cose mondane e li studi mondani. [p. 73 modifica]Veduto questo è da vedere il testo il qual fia più agevole a intendere. Dice dunque così: Donna è gentil nel Ciel, che si compiange. Questa gentil donna che non si nomina, è la grazia preveniente. Dice che si compiange: Di questo impedimento, ov’io ti mando; cioè si duole di questo impaccio, che à Dante, Sì che duro giudicio lassù frange; cioè sì che rompe lo duro giudicio del fato: imperò che lo ordine della divina giustizia vuole che chi è in peccato sia privato della grazia di Dio. Questo è lo duro giudicio che molti chiamano fato, e questo si rompe quando Idio concede grazia all’uomo che riconosca il suo peccato e vogliane uscire. Questa; cioè la grazia preveniente, chiese Lucia in suo dimando; cioè addimandò Lucia, che significa la grazia illuminante, e però la nomina Lucia, quasi luce, che illumina l’intelletto di quello che si dee fare. E disse: Ora à bisogno il tuo fedele Di te; cioè Dante tuo fedele ora à bisogno di te. Dice l’autore di sè ch’elli fu fedele a credere; cioè che la grazia illuminante l’ammaestrava, et io a te lo raccomando. Imperò che la grazia preveniente fa meritare l’uomo la grazia illuminante, e però dopo la prima seguita la seconda, quando l’uomo la vuole e domandala. Lucia, nimica di ciascun crudele; cioè la grazia illuminante tutta piena di misericordia: imperò che Idio molto più allumina21, che non meritiamo, per la grazia preveniente Si mosse, e venne al loco dov’io era; cioè venne al luogo dov’io Beatrice era, che significa la grazia cooperante: imperò che dopo la grazia illuminante viene la grazia cooperante, quando l’uomo la vuole e domandala. Che mi sedea con l’antica Rachele. Questa Rachele fu moglie di Iacob, lo quale ebbe due mogli; cioè Lia, e Rachele figliuole di Laban, e per aver Rachele lo servìe sette anni et elli lo ingannò e dielli Lia che non era sì bella, e disse che se voleva ancora Rachele che lo servisse anche sette anni, e così servìe xiiii anni, per avere Rachele ch’era più bella che Lia. Questa Rachele significa la vita spirituale e contemplativa, Lia significa la sensuale et attiva. Tutti coloro che desiderano beatitudine servono22 a Dio per averla; ma conviene che innanzi abbino Lia; cioè che s’aoperino nella vita attiva e servano in quella, e poi ànno Rachele che è la vita contemplativa, nella quale si riposa l’anima. E però dice l’autore che Beatrice; cioè la grazia cooperante, e consumante, benchè cooperi nella vita attiva, non siede perchè è in esercizio; ma quando viene alla contemplativa allora siede, e però notantemente dice l’autore nel testo che Beatrice dice che si sedea con l’antica Rachele, et ogni uomo che vuole beatitudine, conviene che prima s’eserciti nella vita attiva, e poi viene alli riposi della contemplativa se non in questa vita, almeno poi nell’altra. [p. 74 modifica]Disse: Beatrice, loda di Dio vera; Lucia parlando a Beatrice la chiama vera loda di Dio: imperò che la santa Teologia con la grazia cooperante, e consumante accompagnata sempre, loda Idio veramente e non fintamente, ovvero nell’esercizio della attività, ovvero nel riposo della contemplazione. Che non soccorri quei, che t’amò tanto? Ecco ch’ella muove a soccorrere Dante, che amò tanto la santa Teologia, che per quella abbandonò tutte le cose mondane, e li studi mondani, e diessi alli studi, et all’opere della santa Teologia, e perciò seguita: Ch’uscì per te della volgare schiera; cioè della schiera delli uomini volgari del mondo? Non odi tu la pieta del suo pianto? Per questo mostra che Dante avesse avuta la grazia preveniente, in quanto mostra che piagnesse per li suoi peccati et errori. Non vedi tu la morte, che il combatte; cioè la lussuria, superbia, et avarizia, significati per li tre animali i quali sono morte spirituale; che combatteano Dante volente montare al monte delle virtù, illuminato dalla grazia illuminante? E notantemente dice nel primo non odi, e nel secondo non vedi: imperò che la contrizione del cuore conviene che scoppi della propria bocca, e per la voce si dimostri, la quale si riceve per l’udito; ma l’attività virtuosa si dimostra con l’opere che si comprendono per lo vedere. Su la fiumana pone il luogo ov’è questo combattimento; cioè nella piaggia, sopra la fiumana, è il mondo23 misero, pieno di fatiche, di tempesta, e di paure, non meno che il mare; e però aggiugne ove il mar non à vanto; cioè non à vantaggio. Questa che ora chiama fiumana, di sopra chiamò selva, e convengonsi questi nomi al mondo, come è mostrato di sopra, e finge che tra la selva e il monte fosse in mezzo una piaggia. Questa piaggia è lo stato ch’è mezzo tra li vizi e le virtù: quando l’uomo è uscito de’ vizi, innanzi che saglia alle virtù, si dice essere nella piaggia; et è da notare che questo mondo, che è come una fiumana, fiumana è più che fiume; cioè allagazione di molte acque, sospigne chiunque entra in esso; cioè ogni uomo che ci nasce, o è nella selva de’ vizi, e de’ peccati, o è nella piaggia ove si piglia lo salimento al monte delle virtù, et in questo stato era Dante uscito già della selva. Seguita Beatrice: Al mondo non fur mai persone ratte, A far lo pro, o a fuggir lor danno, Come io, dopo cotai parole fatte. Per questa comparazione dimostra come la grazia cooperante soccorre tosto a chi la vuole e domandala. Venni qua giù del mio beato scanno; cioè io Beatrice discesi qua giù a te Virgilio della mia beata sedia di paradiso. Ogni grazia viene di lassù, et in cielo essenzialmente abita e sta, benchè nelli uomini adoperi. Fidandomi del tuo parlare onesto; cioè del tuo parlare, Virgilio, il quale è onesto; cioè pieno d’onestà e di virtù. Ch’onora te, [p. 75 modifica]e quei ch’udito l’ànno. Veramente il parlar di Virgilio onora lui e qualunque l’ode, intendendo pur litteralmente; ma allegoricamente il parlar della ragione è sempre onesto, e onora chi lo profferisce, e chi l’ode.

C. II - v. 115-126. In questi quattro ternari l’autore pone la conclusione del parlare di Virgilio, il quale à continuato il suo parlare da quel verso: Se io ò ben la tua parola intesa, infino al fine di questi ove parla poi pur l’autore; e benchè per tutti parli l’autore, alcuna volta parla come recitatore del parlare altrui, alcuna volta parla come recitatore del suo. Qui parla Dante come recitatore del parlare di Virgilio, e pone la conclusione, dicendo: Virgilio continuò così il suo parlare: Poscia che m’ebbe ragionato questo; Beatrice, Li occhi lucenti, lagrimando, volse; cioè Beatrice mostrando che li calesse di Dante. Che sieno li occhi, esposto fu di sopra. Alli santi uomini et a Dio dispiace et incresce della morte del peccatore, siccome dice nell’Evangelio: Nolo mortem peccatoris; sed ut convertatur, et vivat. - Perchè mi fece del venir più presto. Quasi dica: Per ciò m’affrettai a venire, per ch’io le vidi tanta cura di te. E venni a te così, com’ella volse; cioè io Virgilio, come volle Beatrice. Dinanzi a quella fiera ti levai; cioè alla lupa, che significa l’avarizia, Che del bel monte il corto andar ti tolse. Questo s’intende allegoricamente che la ragione di Dante mossa dalla grazia cooperante, tostamente mosse la sua sensualità e levolla dall’avarizia delle cose mondane, che li tolse il corto andare del monte bello delle virtù. Pochi sono che per questa corta via vadano alle virtù; cioè che usciti del vizio subitamente vadano all’altezza delle virtù, ai quali Idio concede questo subito mutamento per sua grazia. Ma tutti li più, usciti de’ vizi con la contrizione e confessione, come mostra Dante di sè nella prima cantica, ove riconosce tutti li peccati e le loro debite pene; e poi purgati con la penitenzia e satisfazione, some dimostra in parte della seconda cantica infino che viene al salire del paradiso terrestro, ove pone la purgazione di tutti i peccati, vengono poi all’altezza delle virtù, crescendo in quelle per operazioni, come dimostra di sè Dante dalla montata del paradiso terrestro infino al fine della seconda cantica; e poi alla perfezione di quelle per la contemplazione come dimostra di sè Dante nella terza cantica ove finge che salisse a’ cieli a vedere la gloria de’ beati, la qual cosa fu per la contemplazione. Ora seguita la conclusione, con la riprensione: Dunque che è? perchè, perchè ristai; tu Dante? Perchè tanta viltà nel core allette; cioè perchè se’ sì vile? Perchè ardire e franchezza non ài; cioè perchè non se’ ardito e franco? Poscia che tai tre Donne benedette; cioè la innominata grazia preveniente, e Lucia, e Beatrice, Curan di te nella corte del Cielo; che perchè sono grazie [p. 76 modifica]date da Dio come mostrato è di sopra, ti dovrebbono dare ardire e franchezza. E il mio parlar tanto ben t’impromette? Quanto apparve di sopra nel primo canto ove disse: Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno, ec. Imperò che tutte queste cose ti dovrebbono dare ardire e gagliardia.

C. II - v. 127-142. In questi ultimi cinque ternari, et uno versetto ultimo, l’autore dimostra per una similitudine come fu rinvigorito per lo conforto di Virgilio e ritornato nel primo proponimento, onde dice: Quali i fioretti, dal notturno gielo Chinati e chiusi, poi che il sol l’imbianca, Si drizzan tutti aperti in loro stelo. Qui pone l’autore la prima parte della similitudine; cioè come li fioretti che stanno chinati e chiusi per lo gielo della notte, s’aprono e drizzansi in sul loro gambo, poi che ’l sole l’imbianca, e per questo appare che la bianchezza s’ingeneri nelli fiori dal sole, come veggiamo che imbianca la cera che è stata la notte alla rugiada. Tal mi fec’io di mia virtute stanca. Qui è l’altra parte della similitudine; cioè l’assimigliato. Ogni similitudine à due parti; cioè quello onde si piglia la similitudine e quello che s’assomiglia: posto à la condizione de’ fioretti onde si piglia la similitudine; ora pone la condizione sua che è la cosa assimigliata, dicendo che tal si fece elli della sua virtù stanca Quali i fioretti ec. Imperò che come il gielo della notte; cioè la paura dell’ignoranza avea chinata e chiusa la sua virtù; così lo caldo del sole e lo splendore; cioè il fervore e la confidenzia del sapere presa dalla grazia di Dio, levò su et aperse la sua virtù nella mente sua. E tanto buon ardir al cor mi corse; cioè a me Dante, Ch’io cominciai, come persona franca. Qui pone l’autore la risposta sua, posta la similitudine, e congratulando a Beatrice e a Virgilio dice: O pietosa colei, che mi soccorse; cioè fu Beatrice, E tu; cioè Virgilio, fosti cortese, ch’ubbidisti tosto Alle vere parole che ti porse! Beatrice. E per questo mostra la ragione sua essere stata ubbidiente per quel che finge di Virgilio, e mostra quanto sia giovato il conforto di Virgilio, dicendo: Tu m’ài con desiderio il cor disposto; a me Dante, Sì al venir, con le parole tue; cioè di te Virgilio, Ch’io; cioè Dante, son tornato nel primo proposto; cioè di seguirti, per la via che dicesti. Or va, ch’un sol volere è d’amendue; cioè di te Virgilio, e di me Dante: la volontà mia è una medesima con la tua. Tu; Virgilio, se’ duca, tu signore, e tu maestro. Bene istà l’uomo quando la sensualità si lascia guidare alla ragione. Così li dissi; a Virgilio, e poi che mosse fue; Virgilio, Entrai; io Dante, per lo cammino alto; cioè profondo, secondo la grammatica, e silvestro; cioè salvatico; cioè per lo cammino dell’inferno, l’entrata del quale soggiugne nel seguente canto.

Note

  1. C. M. chi il concede.
  2. C. M. dolesse.
  3. Tutti i nostri codici ànno la vita, che è un manifesto errore de’ copisti. E.
  4. Esempro ed assempro, quindi assemprare per esempio ed esemplare sono voci ancora vive in Toscana, e prodotte dal facile scambio delle due liquide r ed l, derivando dal latino exemplum. E.
  5. C. M.  antecedente.
  6. C. M.  per grandi effetti fusse che.
  7. C. M.  dimostra come si mutò.
  8. Per che pensando.
  9. Secondo la moderna grammatica il pronome che si riferisce a femina è le; ma gli antichi seguitando i Trovatori adoperavano li in ambi i generi, e codesto era uno scorcio del latino illi. E.
  10. C. M. fatica.
  11. Gli antichi per una certa uniformità di cadenza aveano ridotto anche parecchi aggettivi in o, oggi meglio adoperati in e; Terrestro, celesto, sublimo ed altri, seguendo i Latini, i quali pure ne ànno di varia desinenza.  E.
  12. Il codice Riccardiano manca delle parole, questo è sempre vero e perfetto, che si leggono nel M. E.
  13. C. M. ad alcuno con scrittura, et ad alcuno con spirazione.
  14. Cum in luogo di con, latinismo non infrequente nei primi secoli dell’italiano idioma.  E.
  15. C. M.  la invocazione che conviene.
  16. Fe terza persona singolare del passato, originata da fere è voce intera, e ricusa l’apostrofo.  E.
  17. C. M.  indugiato.
  18. Gli antichi nostri usavano talvolta il segno del secondo caso alla maniera della preposizione latina, onde leggesi de per di, ed il medesimo de si è conservato nell’incorporare degli articoli. Così del, della, ec.  E.
  19. C. M.  viene.
  20. per diè o diede terza persona singolare del passato del verbo dere, ora non si vorrebbe adoperare, quantunque l’uso mantenga in pregio le altre sorelle dessi, desseroE.
  21. C. M.  c’illumina.
  22. C. M.  servino.
  23. C. M.  sopra la fiumara, questa fiumara è lo mondo.


Altri progetti

Collabora a Wikipedia Wikipedia ha una voce di approfondimento su Inferno - Canto secondo

Collabora a Wikibooks Wikibooks contiene testi o manuali su Inferno - Canto secondo