Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto XXI

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Purgatorio
Canto ventunesimo

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Purgatorio - Canto XX Purgatorio - Canto XXII
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C A N T O   X X I.




1La sete natural che mai non sazia,
     Se non coll’acqua onde la feminetta
     Samaritana dimandò la grazia,1
4Mi travalliava, e pungeami la fretta
     Per la impacciata via dietro al mio Duca
     E condoleami a la giusta vendetta.2
7Et ecco, come ne descrive Luca,3
     Che Cristo apparve ai du’ che erano in via,
     Già surto fuor de la sepulcral buca,
10Ci apparve un’ombra, e dietro a noi venia
     Dal piè guardando la turba che giace;4
     Nè ci addemmo di lei, sì parlò pria,
13Dicendo: O frati miei, Dio vi dia pace:5
     Noi ci volgemmo subiti, e Virgilio
     Rendèli il cenno che a ciò si conface.6
16Poi cominciò: Nel beato concilio
     Ti pogna in pace la verace corte,7
     Che me relega ne l’eterno esilio.

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19Come! diss’elli, e perchè andate forte,8
     Se voi siete ombre che Dio su non degni?
     Chi v’à per la suoe scale tanto scorte?9
22E il Dottor mio: Se tu riguardi i segni
     Che questi porta e che l’Angel profila,1011
     Ben vedrai che coi buon convien che regni.
25Ma perchè lei che di’ e notte fila,12
     Nolli avea ancor tratta la conocchia,1314
     Che Cloto impone a ciascun e compila;
28L’anima sua, che è tua e mia sorocchia,15
     Venendo su non potea venir sola:
     Però ch’al nostro modo non adocchia;
31Ond’io fui tratto fuor dell’ampia gola
     D’inferno per mostrarli, e mosterrolli
     Oltre, quanto ’l potrà menar mia scola.
34Ma dinne, se tu sai, perchè tai crolli
     Diè dianzi il monte, e perchè tutto ad una16
     Parve gridar in fin ai suoi piè molli?17
37Sì mi diè, dimandando, per la cruna18
     Del mio desio, che pur co la speranza
     Si fece la mia sete men digiuna.
40Quei cominciò: Cosa non è che sanza
     Ordine senta la religione
     De la montagna, e che sia fuor d’usanza.
43Libero è qui da ogni alterazione:
     Di quel che ’l Ciel in sè da sè riceve,19
     Esser ci puote, e non d’altra cagione;

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46Perchè non pioggia, non grandine, o nieve,
        Non rugiada, non brina più su cade,
        Che la scaletta dei tre gradi breve.20
49Nuvule spesse non paian, nè rade,
        Nè corruscar, nè fillia di Taumante21
        Che di là cangia sovente contrade;
52Secco vapor non surge più avante22
        Ch’al sommo dei tre gradi ch’or parlai,23
        Dov’à il vicario di Pietro le piante.
55Trema forsi più giù poco o assai;
        Ma per vento che in terra si nasconda,
        Non so come, quassù non tremò mai:
58Tremaci quando alcun’anima monda24
        Sentesi sì, che surga o che si mova25
        Per salir su, e tal grido segonda.
61De la mondizia il sol voler fa prova,26
        Che tutto libero a mutar convento,2728
        L’alma sol prende, e di voler li giova.29
64Prima vuol ben; ma non lassa ’l talento,
        Che Divina Giustizia contra vollia,
        Come fu al peccar, pone al tormento.
67Et io, che son giaciuto a questa dollia
        Cinquecento anni e più, pur mo sentii
        Libera volontà di millior sollia.
70Però sentisti il terremoto, e’ pii3031
        Spiriti per lo monte render lode
        A quel Signor, che tosto su l’invii.32

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73Così ne disse, e però che si gode33
        Tanto di ber quant’è grande la sete,34
        Non saprei dir quanto mi fece prode.
76E ’l savio Duca: Ornai veggio la rete
        Che qui ne pillia, e come si scalappia;35
        Perchè ci trema, e di che congaudete.36
79Ora chi fosti piacciati ch’io sappia,
        E perchè tanti seculi giaciuto
        Qui se’ ne le parole tuoe mi cappia.37
82Nel tempo che il buon Tito co l’aiuto
        Del sommo Rege vendicò le fuora,
        Unde uscì ’l sangue per Giuda venduto,
85Col nome che più dura e più onora38
        Era io di là, rispuose quello spirto,
        Famoso assai; ma non con fede ancora.
88Tanto fu dolce mio vocale spirto,
        Che, tolosano, a sè mi trasse Roma,
        Dove mertai le tempie ornar di mirto.
91Stazio di là la gente ancor mi noma:39
        Cantai di Tebe, e poi del grande Achille;
        Ma caddi in via co la seconda soma.
94Al mio ardor fur seme le faville,
        Che mi scaldar, de la divina fiamma,
        Unde son già allumati più di mille;40
97Dell’Eneide dico, la qual mamma
        Fùmi, e fùmi nutrice poetando:41
        Senza essa non fermai peso di dramma.42

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100E per esser vissuto di là quando
        Visse Virgilio, assentirei un Sole
        Più che non deggio, al mio uscir di bando.
103Volsen Virgilio a me queste parole43
        Con viso che tacendo, disse: Taci;
        Ma non può tutto la virtù che vole:
106Chè riso e pianto son tanto seguaci
        A la passion da che ciascun si spicca,
        Che men seguen voler nei più veraci.
109Io pur sorrisi, come l’om che ammicca;
        Per che l’ombra si tacque, e riguardommi
        Nelli occhi, ove ’l sembiante più si ficca.
112Deh, se tanto lavoro in bene assommi,4445
        Disse, perchè la tua faccia testeso
        Un lampeggiar di riso dimostrommi?
115Or son io d’una parte e d’altra preso;
        L’una mi fa tacer, l’altra scongiura
        Ch’io dica; ond’io sospiro, e sono inteso
118Dal mio Maestro; e non aver paura,
        Mi dice, di parlar; ma parla, e dilli46
        Quel che e’ dimanda con cotanta cura.
121Ond’io: Forsi che tu ti meravilli,
        Antiquo spirto, del rider ch’io fei;47
        Ma più d’ammirazion vo che ti pilli.
124Questi, che guida in alto li occhi miei,
        È quel Virgilio, dal qual tu tolliesti
        Forsi a cantar delli omini e de’ dei.48

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127Se cagion altra a mio rider credesti,
          Lassala per non vera, et esser credi
          Quelle parole che di lui dicesti.
130Già s’inchinava ad abbracciar li piedi49
          Al mio Dottor; ma elli disse: Frate,50
          Non far, che tu se’ ombra, et ombra vedi.
133Et ei, surgendo: Or poi la quantitate51
          Comprender de l’amor che a te mi scalda,
          Quand’io dismento nostra vanitate,
136Trattando l’ombre come cosa salda.

  1. v. 3. C. M. C. A. Sammaritana
  2. v. 6. C. A. condoliemi alla
  3. v. 7. C. A. ne scrive
  4. v. 11. C. A Da piè
  5. v. 13. C. A. Frati
  6. v. 15. C. A. Rendè lui il
  7. v. 17. C. M. C. A. Ci ponga
  8. v. 19. C. A. e parte andavam
  9. v. 21. C. A. la sua scala
  10. v. 23. C. A. costui
  11. v. 23. C. A. proffila,
  12. v. 25. C. A. Ma per colei
  13. v. 26. C. M. Non li avea
  14. v. 26. C. A. Non gli era tratta ancora
  15. v. 28. C. A. sirocchia,
  16. v. 35. C. A. tutti ad una
  17. v. 36. C. A. gridar infino a’ piè suoi
  18. v. 37. C. A. la cuna
  19. v. 44. C. A. Ciel da sè in sè
  20. v. 48 C. A. di tre gradi
  21. v. 50 C. A. Autamante
  22. v. 52 C. M. ne surge
  23. v. 53 C. A. ch’io parlai,
  24. v. 58 C. A. Triemaci
  25. v. 59 C. A. Sentasi
  26. v. 61 C. A. Dell’immondizia solversi fa
  27. v. 62 C. A. tutta libera
  28. v. 62 Convento; congregazione, ragunanza. E.
  29. v. 63 C. A. sorprende, e di voler le
  30. v. 70 C. M. terremuoto,
  31. v. 70 C. A. e li pii
  32. v. 72 su ne invii.
  33. v. 73. C. A. ch’ei si
  34. v. 74. C. A. del
  35. v. 77. C. A. vi piglia,
  36. v. 78. C. A. di che ci
  37. v. 81. C. A. sei nelle parole tue
  38. v. 85. C. A. più l’onore
  39. v. 91. C. A. Stazio la gente ancor di là mi
  40. v. 96. C. A. Onde sono allumati
  41. v. 98. C. M. C. A. Fummi, e fummi,
  42. v. 99. C. A. non pesai peso
  43. v. 103 C. A. Volser
  44. v. 112 C. M. E, se tanto,
  45. v. 112 C. A. E se tanto labore
  46. v. 119 C. A. Mi disse,
  47. v. 122 C. M. C. A. Antico
  48. v. 126 C. A. Fortezza a cantar d’uomini e di Dei.
  49. v. 130. C. A. si chinava
  50. v. 131. C. A. ma e’ gli
  51. v. 133. C. M. Or puoi

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C O M M E N T O


La sete natural che mai non sazia ec. Questo è lo xxi canto de la seconda cantica, nel quale l’autore finge come, seguitando lo loro cammino, Stazio poeta tolosano s’adiunse con loro e dichiarò la cagione del tremuoto e del canto, e ricognovesi con Virgilio. E dividesi questo canto in due parti principali, perchè prima finge come, seguitando lo loro cammino, s’adiunse a loro Stazio preditto e dichiaròli la cagione del tremuoto e del canto; ne la seconda finge come si ricognove con Virgilio, et è la secunda: E ’l savio Duca: Omai, ec. La prima, che serà la prima lezione, si divide in parti quattro: imperò che prima finge come apparve loro, andando a loro cammino, Stazio preditto e salutolli; ne la seconda finge come Stazio, risalutato da Virgilio, intrò in parlamento con Virgilio, quive: Poi cominciò: ec.; ne la tersa finge come Virgilio dimanda Stazio de la cagione delli accidenti ditti di sopra, e Stazio si fa da lunga e dichiara de le condizioni del cielo di là, et incomincia quive: Ma dinne, se tu sai, ec.; ne la quarta finge come Stazio, procedendo nel suo dire, dichiara lo detto dubbio adiungendo notabili sentenzie, et incomincia quive: Trema forsi più giù ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co l’esposizione allegoriche, o vero morali.

C. XXI — v. 1-15. In questi cinque ternari lo nostro autore, continnando la materia ditta di sopra, finge come andando col desiderio ditto di sopra, apparve loro nel cammino uno spirito, lo [p. 496 modifica]quale finge che fusse Stazio poeta, come li salutò et adiunsesi a loro e salutolli, dicendo così: La sete natural; questa sete è lo desiderio del sapere, et è in de l’uomo naturalmente: imperò che dice lo Filosofo: Omnes homines natura scire desiderant — , che; cioè la quale, mai non sazia: imperò che questa sete non si tolle1 nè è sazia mai nell’omo mentre che vive in questa vita, infin che non è pieno de la grazia de lo Spirito Santo, come funno li Apostuli; e però adiunge: Se non coll’acqua onde la feminetta Samaritana dimandò la grazia; ecco che induce la storia dell’evangelio che scrive santo Gioanni cap. iv, quando dice che Cristo essendo ito in Samaria, e fermato al posso di Giacob, mandato li suoi discepuli ne la città per lo cibo, venne una femina di Samaria per l’acqua al posso, a la quale Cristo dimandò bere. Et ella disse: Come mi dimandi bere che se’ giudeo, e li giudei non usano insieme coi Samaritani? Et allora Gesù disseli2: Femina, se tu sapessi chi è colui che ti dimanda bere, tu ne dimandresti a lui, e darebbeti a bere acqua d’una fonte che sallie in vita eterna. Et ella di po’ molte parole la dimandò; e Cristo la riempiè de la grazia de lo Spirito Santo, come appare nel detto evangelio; e però dice l’autore che la sete natural mai non è sazia, se non con l’acqua; cioè co l’abondanzia de la grazia de lo Spirito Santo preveniente, onde; cioè da la quale grazia preveniente, la feminetta Samaritana dimandò la grazia; illuminante, cooperante e consumante da Cristo et ebbela, et allora fu sazia la sua sete: imperò che la grazia illuminante, cooperante e consumante sazia l’anima umana; ma ella non viene, se prima non viene la preveniente: imperò che nessuno la dimanda se non illuminato a ciò da Dio, et ella non viene se non dimandata, Mi travalliava; cioè lo desiderio di sapere facea me Dante discorrere d’uno pensieri in uno altro, e così mi travalliava: imperò ch’io pensava che potesse essere cagione de li sopra ditti accidenti, e vari pensieri n’erano ne la mente mia; e tutto questo è fizione poetica: imperò che l’autore sapea bene a che fine avea composto questa fizione; cioè per dichiarare alcuna bella sentenzia la quale porrà di sotto, che vuole mostrare che sia di Stazio et ella fa sua. E la cagione di questa fizione è allegoricamente: imperò che non è verisimile che la sensualità di Dante dovesse sapere la cagione di sì fatti accidenti sopra naturali, perchè non li avea provati sicchè non avea avuto esperienzia, nè Virgilio: imperò che non è cosa che la ragione umana, secondo lo suo discorso, dovesse comprendere. Nè anco secondo la lettera è verisimile che Dante, che [p. 497 modifica]non v’era mai stato più, e Virgilio dovesseno sapere li accidenti di quello luogo e le cagioni di quelli; e però finge che Stazio ne sia dichiaratore, che v’è stato, e dèli sapere per esperienzia; e questo è secondo la lettera. E secondo l’allegoria, Stazio significa lo intelletto di Dante, lo quale si stende a comprendere quello che per via da ragione non si può comprendere; e però in quelle cose, che l’umana ragione non comprende, inducerà Stazio ingiummai respondente. e pungeami la fretta; cioè de l’andare, secondo la lettera; e, secondo l’allegoria, di spacciare lo mio poema, Per la impacciata via; cioè del purgatorio che, secondo la lettera, era impacciata di quelli spiriti che3 giaceano per terra; e, secondo l’allegoria, questa via del procedere ne la materia sua era impacciata da molti intervalli: unde li convenia essere sollicito et affrettarsi, dietro al mio Duca; cioè dietro a Virgilio, cioè seguitando la ragione, E condoleami a la giusta vendetta; cioè avea compassione a la pena, che iustamente portavano quelli del purgatorio del v girone per lo peccato loro. E come ditto fu ne la prima cantica, l’omo si dè dolere che ’l prossimo suo abbia peccato; ma non che per lo peccato porti iustamente la pena, e così intende l’autore qui. Et ecco, come ne descrive Luca; cioè santo Luca evangelista nel suo Evangelio cap. xxiv: qui arreca l’autore la similitudine che, come apparve Cristo ai du’ discepoli; cioè s. Iacobo e s. Gioanni quando andavano in Emaus, poi che fu risuscitato; così apparve a loro, cioè a Virgilio et a lui in quello girone v del purgatorio Stazio poeta, che s’era purgato de la prodigalità e montava suso; e però dice: Che Cristo apparve ai du’; cioè discepoli s. Iacopo e s. Gioanni, che; cioè li quali, erano in via; cioè in viaggio che andavano in Emaus parlando di Cristo, et elli li apparve nel mezzo di loro in forma di pelegrino, et incominciò ad aprire loro le Scritture: e così fece Stazio a Virgilio et a Dante, secondo la fizione de l’autore, Già surto; cioè risuscitato e levato, fuor de la sepulcral buca; cioè de la clausura4 del sepulcro, Ci apparve un’ombra; cioè quella di Stazio tolosano a me Dante et a Virgilio, e dietro a noi venia; cioè la ditta ombra, Dal piè guardando; cioè guardando et avendo cura di non scalcare col piè, la turba che giace; cioè coloro che giaceno bocconi a purgarsi dell’avarizia, Nè ci addemmo; cioè ci avvedemmo nè Virgilio, nè io Dante, di lei; cioè di quella ombra, sì parlò pria; a noi la ditta anima che noi parlassemo5 a lei, e che noi ce ne avvedessemo, Dicendo; O frati miei, Dio vi dia pace; ecco la salute, che finge l’autore che Stazio [p. 498 modifica]desse, come dava Cristo e come insegnò ai suoi discepuli, quando disse: In quamcumque domum intraveritis etc. Noi; cioè Virgilio et io Dante, ci volgemmo subiti; quando udimmo sì6 fatto saluto, e Virgilio Rendèli; cioè a Stazio, che già ci avea salutato, il cenno; cioè la vista e l’atto d’amore e di riverenzia, che a ciò; cioè a sì6 fatto saluto, si conface; cioè si conviene. Questo dice: però che a le salute7 convegnano essere insieme li atti amicabili e reverenti insieme co le parole; e però, posto qui li atti, ne la seguente parte porrà le salute rendute per Virgilio.

C. XXI — v. 16-33. In questi sei ternari lo nostro autore finge come Virgilio, di po’ la riverenzia che fece a Stazio, li rendette lo saluto; e come intronno a ragionamento, dicendo: Poi; cioè di po ’l cenno fatto, com’è ditto di sopra, cominciò; cioè Virgilio a dir così a Stazio: Nel beato concilio: concilio è concordia di molte volontà, e però nessuno si può chiamare più degnamente concilio che quello di vita eterna, nel quale tutte le volontà sono in concordia et unite, Ti pogna in pace la verace corte; cioè la iusta corte di vita eterna ponga te spirito in pace, Che; cioè la quale corte, me; cioè Virgilio, relega; cioè sbandisce, ne l’eterno esilio; cioè che mai non dè aver fine; e qui Virgilio si pone, pur secondo la lettera, per Virgilio. Come! diss’elli; cioè Stazio ch’era iunto a loro, meravilliandosi, e perchè andate forte; cioè fortemente in suso: altro testo dice: e ’n parte andavan8 forte; cioè et in quel mezzo che elli dicea, noi andavam fortemente e non ci restavamo; però pilli lo lettore quale vuole, Se voi siete ombre che Dio su non degni; cioè se voi siete anime, che Dio non vi faccia degne d’essere in vita eterna, perchè andate? Et appresso dice: Chi v’à; cioè chi à voi, tanto scorte; cioè tanto guidate, per le suoe scale; cioè che voi siete montati in fin qui? E il Dottor mio; cioè Virgilio rispuose: Se tu riguardi i segni Che questi porta; cioè se tu, spirito, poni cura de li segni, che questi; cioè Dante, porta; ne la fronte; cioè li P che l’angiulo li scrisse ne la fronte col puntone de la spada; cioè quello che sta a la porta del purgatorio, e che l’Angel profila; cioè fa a ciascuno in fronte: perfilare9 è ornare la parte estrema, o di sopra, o di sotto; ora lo pillia per la parte di sopra, Ben vedrai; cioè tu, spirito, che coi buon convien che regni; cioè con quelli di paradiso; e così àe risposto a la condizionale; cioè Se voi siete ombre ec. Dichiarato che Dante è di quelli che Dio degna esser su, et appresso li manifesta di sè e risponde a la condizionata; cioè Chi v’à per le suoe ec., usando qui [p. 499 modifica]fizione poetica, dicendo: Ma perchè lei; cioè ma perchè colei, cioè Lachesis, che diceno li Poeti che è una de le tre Fate che ànno a dispensare la vita umana, et è quella che diceno li Poeti filare; e però dice l’autore: che di’ e notte fila: imperò che de la vita data a l’omo ogni di’ ne va uno di’, e meno è a vivere, Nolli avea; cioè a Dante, ancor tratta; cioè ancora compiuto a trarre: imperò che chi fila, a poco a poco tira giù lo lino o la stoppa tanto, che fa lo filo et a filo a filo tira giù da la rocca tutto lo pennecchio e la roccata, la conocchia; cioè quella parte del pennecchio, e de la roccata. Che; cioè la quale parte del pennecchio, Cloto; cioè quella Fata che si chiama Cloto, che àe ad assegnare e ponere a ciascheduno a la vita sua la parte del pennecchio de la vita, che è posta a la sua rocca; e però dice: impone a ciascun; cioè a ciascuno animale, e compila; cioè insieme raccollie che tocca a lui. Fingeno li Poeti che siano tre Fate; cioè Cloto, Lachesis et Antropos10, che ànno a dispensare tutte le cose che sono in tempo; e l’una, cioè Cloto, diceno tenere la rocca piena di lino, et interpretasi evocazione, perchè chiama la cosa dal non essere ad essere; Lachesis diceno filare; et Antropos diceno che àe a troncare lo filo. E cosi fingeno che, quando l’omo nasce, Cloto assegna e pone a la vita sua quella parte del pennecchio, che vasti a la vita sua, filando ogni di’ Lachesis; e quando è compiuto di filare tutto quello che li è ordinato et assegnato del pennecchio, et Antropos tronca lo filo, e l’omo muore; intendendo per questo li du’ termini de la vita, e lo mezzo; cioè prima la produzione dal non essere all’essere, e questo è lo primo termino11. E questo significa Cloto, che tiene la rocca et assegna a ciascheduno la sua parte del pennecchio; cioè del tempo: lo pennecchio significa lo tempo, e poi lo mezzo per lo quale dista dall’altro termine, e questo mezzo è dato a Lachesi, che si dice filare: imperò che è estensione dell’essere di di’ in di’, e Lachesis s’interpreta produzione; e l’altro termine si è quando si muore, che si passa dall’essere a non essere, senza ritornare, e questo è dato ad Antropos che significa sensa conversione: imperò che non si ritorna nell’essere di prima. Dei quali termini debbiamo tenere Iddio esser ordinatore, e così inteseno li savi omini ne la preditta fizione, sì come dice Boezio nel iv libro ne la Filosofica Consolazione: Omnium generatio rerum, cunctusque mutabilium naturarum progressus, et quicquid aliquo movetur modo, causas, ordinem, formas, et divinæ mentis stabilitate sortitur. E però finge l’autore che Virgilio, parlando a Stazio di Dante, volendo dire [p. 500 modifica]che non era ancor morto, parli poeticamente in sì fatta forma, come ditto è di sopra: L’anima sua; cioè di Dante, che è tua e mia sorocchia; dice Virgilio a Stazio: imperò che tutte l’anime umane sono create da Dio di niente, sicchè tutte sono suore; e però Virgilio dice che l’anima di Dante era suore di Stazio e sua, Venendo su; cioè per lo monte del purgatorio, non potea venir sola: imperò che secondo la lettera, convenia ire accompagnata col corpo, e perciò avea bisogno di guida: però che non v’era mai stato, e sensa guida non arebbe saputo come andare dovesse, sì ch’io li fui dato per guida come dirà di sotto; et assegna la cagione: Però ch’al nostro modo non adocchia12; cioè non vede: imperò che l’anima coniunta col corpo, come à altro essere coniunta che separata dal corpo; così à altro modo d’intendere: imperò che separata dal corpo à maggior cognoscimento di Dio e di sè e dell’altre anime e di tutte le cose ingenerate, che non à coniunta; dunque andando per cognoscere l’altre anime, per cognoscere Iddio, bisogno li era guida che liel facesse cognoscere più perfettamente, che per sè medesima non potea cognoscere; e però finge che Virgilio dica ch’elli fusse dato per guida infine a la purgazione di tutti peccati, e poi Beatrice da inde in su. Et allegoricamente dimostra come elli; cioè Dante, andò per li gradi de la penitenzia coll’anima, pensando e trattando di quelli, et anco operando sì in essi corporalmente; ma pur lo trattare d’essi non era se non dell’anima, e però fa menzione dell’anima la quale nelli atti pratichi de la penitenzia era accompagnata col corpo; ma nelli atti teorici e speculativi operava pur l’anima; ma non era sofficente ella per sè a ciò, se la ragione superiore, significata ora per Virgilio, noll’avesse guidata; e nelli atti pratichi la ragione inferiore e pratica, che anco è significata per Virgilio. E però che, secondo la lettera, l’autore finge che Virgilio dica questo, per fare noto a Stazio perch’elli v’era; cioè per guidare Dante infine al paradiso terrestre, e non per andare in paradiso, sicchè per questo si risponde a la dimanda: Se voi siete ombre ec., allegoricamente dà ad intendere che la ragione umana si può estendere a comprendere et intendere per li atti virtuosi de la penitenzia, infine a lo stato de la innocenzia aiutandola sempre la grazia di Dio, sensa la quale niuno bene operare si può; ma, a comprendere esso stato d’innocenzia e la beatitudine dei santi, è bisogno l’aiuto e lo lume de la s. Teologia; e però dice: Ond’io; cioè Virgilio, fui tratto fuor dell’ampia gola D’inferno; questo dice, per fare verisimile la sua fizione, e dèsi intendere secondo la lettera: imperò che ne la prima cantica finse che [p. 501 modifica]Virgilio e li altri scientifici stiano nel limbo ch’è a la entrata de lo inferno, secondo la sua fizione, e però dice dell’ampia gola: imperò che la entrata dello inferno è ampia, come appare ne la prima cantica; e, per mostrare che fusse di luogo unde potesse uscire, secondo la fizione, per mostrarli; cioè quello che per sè vedere non può; ecco la cagione, per ch’io ci sono, e mosterrolli; io Virgilio, Oltre; cioè più che quello ch’io li abbo mostrato, quanto ’l potrà menar mia scola; cioè la mia dottrina. E questo dice: imperò che, secondo la lettera, Dante non può comprendere de la dottrina di Virgilio, se non la punizione dei dannati, e la purgazione dei salvati, come appare per lo sesto dell’Eneide di Virgilio, dove tratta dei 9 cerchi de lo inferno, e nel nono finge essere quelli che si purgavano, e ne’ campi elisi li purgati; e però finge Dante che alla entrata del paradiso delitiarum, innanti che passi lo fiume Lete, Virgilio l’abbandoni e lassilo, e Beatrice poi lo guida e fa guidare a Matelda.

C. XXI — v. 34-54. In questi sette ternari lo nostro autore finge come Virgilio dimanda Stazio de la cagione del tremuoto e del canto, e Stazio lo dichiara dicendo alquante notabili sentenzie, dicendo cosi: Ma dinne; tu, Stazio, se tu sai, perchè tai crolli; cioè tremuoti, Diè dianzi il monte; cioè del purgatorio, come ditto fu di sopra, e perchè tutto ad una; cioè insieme, Parve gridar in fin ai suoi piè molli; cioè infine a la marina ch’è intorno all’isula? Sì mi diè; dice Dante: Sì mi diè Virgilio, dimandando; di ciò Stazio, per la cruna; cioè per lo mezzo, Del mio desio; cioè del mio desiderio: la cruna è lo foro unde s’infila l’ago, che si fa nel grosso dell’ago nel mezzo, che pur co la speranza; cioè d’udire la soluzione del dubbio, Si fece la mia sete; cioè lo mio desiderio di sapere, men digiuna; cioè meno vollioso. Quei; cioè quello spirito lo quale non nomina, perchè ancora non à mostrato che s’abbia13 nominato, cominciò: Cosa non è; questa che tu dimandi, cioè del tremuoto e del canto, che; cioè la quale, sanza Ordine senta la religione; cioè in questo purgatorio, ch’è religione dell’anime che si purgano, non c’è niuna cosa temeraria e sensa ordine, come dice Boezio nel iv de la Filosofica Consolazione: Ne quid in regno providentiæ liceat temeritati, fortissimus in mundo Deus cuncta regit. — , De la montagna; cioè del purgatorio lo quale finge esser in monte, perchè la penitenzia è montamento a Dio, e che sia fuor d’usanza; cioè non ci sono cose nuove, nè fuor d’usanza. Dice s. Agostino: Nihil est novum14 in tempore apud eum, qui condidit tempora — . Libero è qui; cioè in purgatorio, da ogni alterazione: cioè [p. 502 modifica]da ogni mutamento che proceda per via di natura; e questo è secondo la lettera, per la cagione che si dira di sotto; ma. secondo l’allegoria, chi è ne lo stato de la penitenzia, o vero ne l’atto, è libero da ogni mutamento e da ogni turbazione di mente: s’elli si conserva ne la grazia15 Dio può bene avere mutamento di bene in mellio; ma non per contrario, e però dice: Di quel che ’l Ciel in sè da sè riceve, Esser ci puote; cioè qui può bene esser lo mutamento che fa lo cielo, quanto al sito de le suoe parti: imperò che fa la volta tonda, et altri corpi sono lo di’ di sopra et altri la notte, e quando vi si fa di’, e quando notte, e non d’altra cagione; che de la sopra detta, sicchè secondo l’allegoria vi può esser mutamento che fa lo cielo; cioè la grazia di Dio; ma non quello che facciano li accidenti dell’aire, che significano le cose mondane e temporali per le quali non si muove chi è in atto di penitenzia, stante la grazia di Dio. E perchè lo ditto è stato generale, ora lo specifica, dicendo: Perchè; cioè per la qual cagione, non pioggia; cioè acqua che piova, non grandine, o nieve; che si generano de l’acqua ne la seconda regione dell’aire nel mezzo, al più su che montare possa lo vapore umido, Non rugiada, non brina; cioè brinata, che si generano ne la prima regione dell’aire, più su cade; cioè in verso lo nostro cielo cade, cioè incomincia a cadere, Che la scaletta dei tre gradi breve; cioè che quella che monta su a la porta del purgatorio, la quale finse l’autore che fusse di tre gradi picculina. Come è stato ditto di sopra nel canto v, li radi solari fanno levare da la terra, et anco la Luna, li vapori umidi e levansi suso al più infine a la seconda regione dell’aire; cioè al suo mezzo al più, la quale finge l’autore ch’adiunga in fine al sommo dei ditti tre scaloni, e quive finisce, e dal sommo grado incomincia la tersa regione; e levati16 si converteno, se sono pochi, in nuvole o nebbie, o rugiada o brinata, pure ne la prima regione possono anco convertirsi in piccula acquarella; e se sono più montano infine al mezzo de la seconda regione e convertensi in acqua, grandine o nieve, secondo lo tempo e secondo lo luogo. Fa ancora lo Sole levare li vapori secchi li quali, se sono bene sottili, montare possano al primo termine de la tersa regione, in fine al sommo dei tre gradi; e se trovano vapori umidi in aire, li ripercuoteno17 colli altri, e di quinde si generano fulgori, tuoni e saette e venti; e non trovando vapori umidi, se sono in quantità, si risolveno in venti grandi e picculi, secondo la quantità d’essi, et alcuna volta [p. 503 modifica]sono sì poghi che si risolveno in sè medesimi. Diviene alcuna volta che ’l Sole muove li vapori secchi dentro dal seno de la terra, li quali trovando luogo aperto, convertiti in vento esceno fuora; e se non trovano luogo aperto, vanno per le caverne de la terra e sospendella18 e fannola tremare, e quinde si genera lo tremuoto; e se la grosta de la terra non è resistente, apre e periculano allora le terre, e s’ella è resistente non fa danno; ma paura genera in ogni luogo che si sente. Ora veduto questo, è più chiaro lo testo. Dice lo spirito, seguendo questa materia: Nuvule spesse; come sono le turbe, non paian; più su che la ditta scala, nè rade; cioè le nuvule bianche, nè nebbia: ancora per questo si dè intendere che esce dei fiumi e de’ paludi, benchè le ditte nebbie stanno ne la prima regione dell’aire presso a la terra, Nè corruscar; cioè lampeggiare e saettare appare più su, nè fillia di Taumante; questo è l’arco che apparisce in aire, che li Poeti chiamano Iris, e diceno che è messaggiera di Giunone, mollie e suore di Giove, e fingeno che sia deificata per questa cagione. Finge Ovidio, Metamorf. nel primo, che al tempo che Giove visitò lo mondo, non trovato nessuno buono se non Pirra e Deucalione, volse disfare lo mondo et inacquò tutto ’l mondo et indusse lo diluvio et affogò ogni uno, se non Deucalione e Pirra che stetteno in sul monte Parnaso. E secondo altra fizione, Iris che fu filliuola di Taumante, la quale Giuno tirò a sè in cielo e fecela sua donzella perch’ella sempre li avea fatto sacrificio; e perch’ella andasse di cielo in terra a fare le suoe ambasciate, fece quello arco di diversi colori, lo quale è la via per che va Iris; e però l’autore pone ora Iris per l’arco, e però dice: nè fillia di Taumante; cioè non appare più su che la scaletta, Che; cioè la quale Iris, di là; cioè nell’altro emisperio, cangia sovente; cioè cambia spesso, contrade: imperò19 che sempre non appare in uno luogo, anzi sempre in opposito al Sole: imperò che questo arco non è altro, che nuvule illuminate dai raggi del Sole o de la Luna; ma la Luna fa cerchio tondo, e fanno diversi colori secondo che sono rare e dense, sì che le spesse20 fanno lo colore pieno quasi vermillio, e le rare fanno lo colore bianco, e le più rare che spesse fanno colore di fuoco rosso, e le più spesse che rare fanno lo colore verde. Et altri dice che quelli colori vi21 s’approntano dalli elementi: imperò che lo rosso è da la spera del fuoco, e lo verde dell’acqua, e lo bianco dall’aire, e lo vermillio da la terra. La fizione sopra ditta fu fatta da li Poeti in onore di Giove, volendo attribuire a lui quello che àe fatto lo vero Iddio. Due diluvi sono [p. 504 modifica]stati solamente in Grecia; l’uno al tempo d’Ogigio in Acaia, e l’altro al tempo di Deucalione in Tessalia, e di questi fanno menzione li poeti; del diluvio universale, che fece Iddio al tempo di Noè, non fanno menzione. Potrebbe essere che Giove re di Creta e di Grecia arebbe fatto riboccare22 fiumi nelle contrade della Grecia addosso ai suoi inimici, come fece messer Bernabo e messer Galeazzo riboccare lo Po nel campo dello imperadore Carlo, e di quinci arebbeno preso li Poeti argomento a la loro fizione; del quale diluvio campò Deucalione e Pirra che Giove, predicendolo loro, fece fuggire nel monte Parnaso, come suoi amici; e Giunone arebbe fatto venire a stare seco in Creta Iris filliuola di Taumante, che era suo amico. Secco vapor; che è quil che genera li venti e li fulguri e le saette e li tuoni quando è in aire, e li tremuoti quando è ne le caverne de la terra, non surge più avante; cioè non si leva de la terra più inverso ’l cielo, Ch’al sommo dei tre gradi; cioè de la scala de la porta del purgatorio, ch’or; cioè li quali ora, parlai; io Stazio, Dov’à il vicario di Pietro; cioè l’angiulo che sta a la porta del purgatorio, che figura lo sacerdote che è vicario di s. Piero, le piante; cioè dei suoi piedi li quali tiene in sul terso scalone, ch’è quello di sopra, com’è stato ditto di sopra nel canto ix.

C. XXI — v. 55-75. In questi sette ternari lo nostro autore finge come Stazio, seguendo lo suo parlare, dichiara lo dubbio mosso di sopra da Virgilio del tremuoto e del canto, dicendo: Trema forsi più giù; cioè di sotto a la scala de la porta del purgatorio; e dice forsi, perchè n’è in dubbio: però ch’è l’altro emisperio, quando23 finge Dante che sia l’isula col monte del purgatorio, e coperto dell’oceano, sicchè non vide che vapore secco quive si possa levare, e però lo mette in dubbio, poco o assai; et ecco che pone anco in dubbio la quantità, Ma per vento che in terra si nasconda; ecco che assegna la vera cagione del tremuoto, che si genera per li vapori secchi convertiti in vento ne le caverne de la terra, come ditto è di sopra, Non so come; questo dice, perchè non par possibile che in quello emisperio vapor secco si dubbia levare ne la terra, e convertirsi in vento, quassù non tremò mai; ecco che afferma che da la scala in su ma’ non tremò per accidenti, che siano ne la terra. Tremaci quando alcun’anima monda; poi che àe24 negato le cagioni accidentali comuni del tremuoto e l’effetto poter essere in quello luogo, dimostra la cagione perchè quive è tremuoto e canto, dicendo che vi trema quando un’anima, mondata25 per la penitenzia che àe fatto del suo peccato, Sentesi sì; cioè per sì fatto modo si sente monda, che [p. 505 modifica]surga; cioè in tutto si levi da la pena purgata, per andare in vita eterna, o che si mova; cioè del suo girone, purgata di quel peccato, per salir su; cioè all’altro balso, per purgarsi dell’altro peccato, e tal grido segonda; cioè e tal canto seguita di po ’l tremuoto, quale tu udisti diansi; cioè Gloria in excelsis Deo ec. Questa fizione àe posto qui l’autore, per seguitare la fizione di Virgilio che finge ne l’Eneide che, quando Apolline dava le risposte, parea tremare lo tempio e tutto ’l monte; e per convenienzia a le cose naturali: imperò che, se la natura mostra segno quando lo vapore secco è tirato in su dal calore del Sole, sicchè convertito in vento muove la terra per uscire fuora e sallire in suso, finge che quando è l’anima tirata de l’amore di Dio, separandosi dal peccato e da le cose terrene per andare inverso Iddio, ch’è cosa sopra natura, la terra e la natura ne mostri segno lo quale sia sopra naturale, che vegna remota ogni cagione naturale; e così àe dimostrato l’autore che quello accidente fue sopra tutte l’opere de la natura. E però àe finto che Stazio ne sia dichiaratore e non elli, nè Virgilio: imperò che queste sono cose che s’appartegnano a lo intelletto, e non a la ragione, o vero a la sensualità, a considerarle: imperò che Dante significa la sensualità, che sempre dà e ministra al senso interiore comune et a la ragione, come appare quando dirà Dante perchè Virgilio se ne vada ec.; e Virgilio significa la ragione pratica et inferiore, et anco la ragione teorica e superiore, e questi non vastano a considerare le cose sopra natura, come è questa. E però induce Stazio che significa lo intelletto, ch’è cosa stanziale et estendesi a vedere quello che la sensualità e la ragione non può vedere; cioè le cose che non sono sensibili, o che con ragione non si possano comprendere e sono sopra natura, come le levazioni26 dell’anime che cagionano lo tremuoto, lo quale è cagione del canto di tutto lo purgatorio. De la mondizia; cioè de la nettezza dell’anima del peccato, il sol voler fa prova. Leva ora l’autore uno dubbio, che lo lettore potrebbe avere; cioè: Come sa l’anima quando è soddisfatto per lo peccato? A che risponde, fingendo che ’l dica Stazio per la ditta cagione, che sola la volontà, che viene all’anima, di sallire è prova ch’ella sia monda del peccato. Che; cioè lo quale volere, tutto libero; cioè sensa repugnanzia e contradizione del voler respettivo, a mutar convento; cioè a mutare luogo, e cusì muta convento e compagnia, l’alma; cioè l’anima, sol; cioè solo tale volere e non altro, prende; cioè pillia tale27 volontà, quale è ditta di sopra, e di voler li giova; cioè prende l’anima diletto di tale volontà. Prima vuol ben; cioè l’anima. Ora tollie l’autore uno dubbio che nasce [p. 506 modifica]per quil ch’è ditto; cioè che ’l voler s’approva de la monda28 anima: imperò che, con ciò sia cosa che l’anima volia29 sempre il sommo bene e perfetto, secondo che dice Boezio nel iii libro de la Filosofica Consolazione: Est enim mentibus homimm veri boni naturaliter inserta cupiditas, sempre l’anima si sentrà mondata. A che l’autore risponde, fingendo che Stazio dichiari di qual volere s’intende, dicendo che l’anima àe due volontà; cioè l’una assoluta e simplice e questa sempre vuole lo bene sommo e perfetto, nè non può non volerlo essendoli mostrato; l’altra volontà è respettiva, e questa nol vuole se non per iusto modo, e questa così fatta volontà è quella che fa prova de la mondizia, cioè quando non contradice a la volontà naturale: imperò che, se non fusse monda, contra direbbe, e chiamala l’autore talento; e però finge che Stazio dica: Prima vuol ben; cioè l’anima vuole lo sommo bene e perfetto, ma non lassa ’l talento; cioè la volontà respettiva non lassa la volontà libera et assoluta voler quel bene, se prima non si sodisfà a la iustizia. Che cioè lo quale talento, Divina Giustizia; cioè la iustizia di Dio, contra vollia; cioè contra la volontà libera, pone al tormento; cioè pone a volere lo tormento, e sodisfare col tormento per lo peccato, Come fu al peccar; cioè come la volontà respettiva fu contra la volontà assoluta a fare lo peccato, che la volontà assoluta non può volere lo peccato e lo male, se non ingannata sotto specie di bene; così è contra a volere lo bene, se prima non è sodisfatto a la iustizia. Et io, che son giaciuto a questa dollia; ora parla Stazio di sè, dicendo che elli ch’è giaciuto in terra boccone a fare penitenzia et avere dolore e contrizione del suo peccato de la prodigalità, Cinquecento anni e più; questo finge l’autore per convenienzia del testo: imperò che dal tempo che Stazio morì, infine a quel tempo che l’autore finge che avesse questa fantasia, erano passati più di 1000 anni per li quali era stato a purgarsi dei suoi peccati; ma 500 era stato a purgarsi de la prodigalità, perchè v’era stato più colpevile che nelli altri più giù purgati, pur mo; cioè pur avale, sentii Libera volontà; cioè non impacciata dal talento: con ciò sia cosa che sia stato sodisfatto al peccato, di millior sollia; cioè di sallire a millior luogo. Però sentisti; tu, Virgilio, il terremoto; ecco che dichiara quello, per che incomincia a parlare, e’ pii Spiriti per lo monte render lode; cioè ringraziare e lodare Iddio de la mia esaltazione, A quel Signor; cioè Iddio, che; cioè lo quale, tosto su l’invii; ecco che prega Stazio per loro. Così ne disse; dice l’autore: Così disse Stazio, rispondendo a la dimanda di Virgilio, e però che si gode Tanto di ber quant’è [p. 507 modifica]grande la sete; ecco che l’autore dimostra quanto questa risposta li fu a grado, tenendo la similitudine de la sete; cioè come l’assetato si diletta di bere, secondo la grande sete che à sostenuta; così io, ch’avea sostenuto grande desiderio di sapere la cagione del terremoto e del canto, non saprei dire quanto mi dilettò la dichiaragione: sì eccessivamente; e però dice: Non saprei dir; cioè io Dante, quanto mi fece prode; cioè la ditta dichiaragione fatta da Stazio a Virgilio; ecco con quanto artificio l’autore àe posto questa utile fizione e notabile. E qui finisce la prima lezione del canto xxi, et incomincia la seconda.

E ’l savio Duca: ec. In questa seconda lezione del canto xxi lo nostro autore finge come Virgilio dimanda lo sopra ditto spirito chi elli fu, et elli si30 li manifesta; e come, ricognosciuto Virgilio, li fa grandissima riverenzia. E dividesi questa lezione in cinque parti: imperò che prima finge come Virgilio lo dimanda chi elli fu, et elli si li manifesta, e non sapendo che colui con cui parla sia Virgilio, loda molto Virgilio; ne la seconda finge che Virgilio accenna Dante che non dica nulla, et incomincia quive: Volsen Virgilio ec.; ne la terza finge come Stazio, veduto sugghignar Dante preso sospetto, lo dimanda perchè rise, quive: Deh, se tanto lavoro ec. ne la quarta finge, com’elli avuta licenzia da Virgilio, risponde a Stazio e dichiaralo del suo ridere, quive: Ond’io: Forsi ec.; ne la quinta finge come Stazio, riconosciuto Virgilio, li volse fare grandissimi segni d’amore e di riverenzia, quive: Già s’inchinava ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co l’esposizioni litterali, allegoriche e morali.

C. XXI — v. 76-102. In questi nove ternari lo nostro autore finge come Virgilio risponde a Stazio e dimandalo chi elli è, et elli si manifesta e loda molto Virgilio, dicendo: E ’l savio Duca; cioè Virgilio disse, s’intende: Omai; cioè ingiummai, veggio la rete; cioè la cagione, Che; cioè la quale, qui; cioè in questo luogo del purgatorio, ne pillia; cioè pillia l’anime, che è la volontà iusta respettiva che si chiama talento del sodisfacimento del peccato co la pena, e come si scalappia; cioè come si sciolge e spaccia da questa rete; cioè co la contrizione e dolore e pena tanto, che iustamente si sodisfaccia al peccato, Perchè ci trema; cioè in questo luogo, e di che congaudete; e le cagioni di questo sono state ditte di sopra. Ora chi fosti; cioè tu, spirito, che m’ai parlato, piacciati ch’io; cioè Virgilio, sappia; cioè da te, E perchè tanti seculi giaciuto Qui se’; cioè perchè tante [p. 508 modifica]centonaia d’anni, quante dicesti di sopra, se’ stato a giacere boccone in questo cerchio: seculo propriamente si dice tempo di cento anni, ne le parole tuoe mi cappia; cioè ne la risposta tua mi sia manifesto. E di po’ questo dimando finge l’autore che Stazio rispondesse in questa forma: Nel tempo che il buon Tito; questi fu Tito Vespasiano, lo quale di po’ lo padre suo fu imperadore dei Romani; et essendo lo padre, cioè Vespasiano, ad assedio a Ierusalemme, perchè li Iudei s’erano ribellati et aveano morto lo proposito che v’era per lo romano imperio, perchè si dicea che per le Fata era ordinato che in quello tempo li andati in Iudea doveano essere signori del mondo; la qual cosa arrecando a sè li Iudei, quasi dicesseno: Noi siamo quelli che siamo venuti in Iudea, noi debbiamo essere signori del mondo, secondo che scrive Svetonio si comincionno a ribellare da’ Romani, ucciso lo ditto proposito e scacciato lo legato di Siria che venia a darli aiuto, tolto ancora lo gonfalone dell’aquila; ma in quel tempo chiamato imperadore, andòsene a Roma e lassò Tito suo filliuolo a recare a fine la impresa di Ierusalemme, e cusì Tito ebbe la vittoria, essendo lo padre imperadore. E dice Cornelio e Svetonio che in quella battallia 600 milliaia di Iudei funno morti; ma Iosefo dice 110031 milliaia morti per fame e coltello, lo rimanente fu sparto per lo mondo, venduti bene 90 milliaia, e fu fatta questa vendetta forsi 4 anni di po’ la morte di Cristo, et a quil tempo Stazio venne a Roma. co l’aiuto Del sommo Rege; cioè di Dio, lo quale è sommo di tutti li re, quia ipse est rex regum, et dominus dominantium — , vendicò le fuora; cioè le piaghe fatte nel corpo di Gesù Cristo, Unde uscì ’l sangue per Giuda venduto; cioè de le quali piaghe uscitte lo sangue di Cristo, lo quale Giuda Scariot vendette 30 denari ai principi dei sacerdoti, come dice l’Evangelio: Quid vultis mihi dare, et ego vobis eum tradam. At illi constituerunt ei triginta argenteos. Questo Tito, lo quale l’autore chiama buono per la sua virtù: imperò che, come scrive di lui Svetonio, elli fu chiamato amor ac delitiæ generis humani, et essendo nello imperio fu milliore che privato, mai da lui niuno32 si partia sconsolato, et uno di’ che non avea fatto grazia nessuna: imperò che nolli era stata dimandata, la sera a li amici, disse a la cena: Questo di’, amici miei, abbo perduto; e molte altre cose virtuosissime scrive lo ditto autore di lui: fece iusta vendetta de la morte di Cristo, come sa chi lege Iosefo iudeo autore, lo quale ne fe libro che fra l’altre cose dice che vendette dei Iudei 30 a denaio, oltra la grande strage che fe di loro, sicchè ora non si trova nè città, nè castello, nè villa, che sia di Iudei. Col nome che più dura e più onora; cioè col nome poetico: dice [p. 509 modifica]Stazio che era fatto poeta, e nel tempo che Tito ebbe la vittoria, era a Roma; unde Lucano lib. ix: O sacer et magnus vatum labor, omnia fato Eripis et populis donas mortalibus ævum; e poco di sotto dice: Quantum Smyrnæi durabunt vatis honores, Venturi me teque legent: Pharsalia nostra vivet, et a nullo tenebris damnabimur33 ævo — , Era io; cioè Stazio, di là; cioè nel mondo, rispuose quello spirto; cioè Stazio, lo quale non s’è anco nominato dall’autore, e però dice: Famoso assai: imperò che avea grande fama, ma non con fede ancora: imperò che non era fatto ancora cristiano. Tanto fu dolce mio vocale spirto; cioè tanto ebbi dolce prolazione e facundia di lingua, che Iuvenale satirico scrive di lui: Curritur ad vocem iucundam, et carmen amicæ Thebaidos: quando Stazio recitava in Roma, tutto ’l popolo vi correa; e però finge l’autore ch’elli dicea le sopra ditte parole. Che, tolosano, a sè mi trasse Roma; cioè che essendo da Tolosa, ch’è una città di Guascogna posta in sul confine de la Guascogna e Bretagna, fu mandato per lui da lo imperadore, e fu fatto cittadino di Roma, Dove; cioè ne la quale città, mertai; io Stazio, le tempie; cioè mie, ornar di mirto; cioè coronarmi poeta: coronavansi a quel tempo li Poeti co la mortella; avale si coronano col lauro, unde si chiama la corona poetica laurea. Stazio di là; cioè nel mondo, la gente ancor mi noma: imperò che questo fu lo nome suo, per lo quale mostra sè anco essere in fama, mostrando che ancora sia nomato. Cantai di Tebe; cioè de la destruzione di Tebe città di Grecia, la quale venuta a reggimento di Polinice et Eteocle filliuoli del re Edippo, di po’ l’eccecazione d’Edippo, che si trasse li occhi poi che34 trovò marito di Iocasta sua madre, fu assediata da Polinice perchè Eteocle nolli volea rendere la signoria, secondo li patti fatti tra loro, e da sei altri re di Grecia; ne la quale battallia questi due fratelli s’ucciseno insieme, e di questa materia fece libro Stazio che si chiama Tebais, e però dice che cantò di Tebe: cantare s’intende scrivere appo li Poeti, e poi del grande Achille; cioè che fece poi libro de la condutta fatta d’Achille a l’assedio di Troia per Ulisse e Diomede. Ma caddi in via; cioè io Stazio: imperò che moritte allora che ’l componea, co la seconda soma; cioè coll’opera d’Achille incominciata da lui: imperò che nolla recò a fine, secondo lo parere di Dante; ma secondo la promessione che Stazio fa nel proemio de l’Achillilleide35, chi guarderà bene vedrà osservato da l’autore quello che elli promisse secondo lo intelletto che direttamente si li può dare; ma sforsandolo un pogo, si può recare ad intelletto che non parrà osservata la promessa. Appresso se vede lo libro esser corretto, e non si sa che fusse corretto per [p. 510 modifica]altrui che per Stazio, dunqua appare compiuto: imperò che li Poeti, non compiendo l’opera, nolla correggeno; e compiuta la rivedono e correggeno, e però non so pensare che cagione movesse lo nostro autore a dire cusì; se non forsi che ebbe nel proemio quello altro intendimento, dove pare promettere di dire di tutte l’altre cose d’Achille, de le quali non disse Omero poeta greco; e per tanto àe ditto che, caddi co la seconda soma; cioè co la seconda opera, in via; cioè nel viaggio, che nolla potè riducere al suo fine. Al mio ardor; dice Stazio, continuando lo suo parlare, che al suo ardore; cioè al suo splendore, per lo quale elli è venuto in fama e gloria, fur seme le faville; continua la similitudine: come lo seme è lo principio, unde nasce l’erba; così le faville funno36 principio de lo splendore di Stazio: imperò che da la favilla, come da principio effittivo37, nasce lo fuoco che risplende, Che; cioè le quali faville, mi scaldar; cioè acceseno me Stazio, de la divina fiamma; cioè de lo splendore divino de la poesi la quale era consecrata ad Apolline, sì come maestro de la teoria38, et a Baco sì come maestro de la pratica; unde Lucano in primo: Nec si te pectore vates Accipio, Cirrhaea velim secreta meventem Sollicitare deum, Bacchumque avertere Nysa; o volliamo intendere che dica divina; cioè avansante ogni ingegno umano: imperò ch’elli intende, come si dichiara di sotto, de la poesi de le Eneide di Virgilio, e l’autore lo prese dell’ultima parte de la Teibaide39 di Stazio, dove dice: Nec tu divinam Æneida tenta, Sed longe sequere, et vestigio semper adora — . Unde; cioè da la quale fiamma de la poesi, son già allumati; cioè fatti famosi e gloriosi, più di mille; cioè omini: imperò che per la poesi sono fatti famosi molti omini che non serebbeno, e sì li Poeti e sì le persone nominate dai poeti. Dell’Eneide dico; cioè io Stazio: ecco che dichiara di qual fiamma intese di sopra; e dice che intese del libro40 di Virgilio che si chiama Eneide, perchè in esso trattò de l’avvenimento di Enea troiano in Italia, del quale disceseno li Romani. Unde vegnano li primi movimenti in noi, noi non sappiamo, e però li pone l’autore nostro come seme posto da Dio ne le nostre menti, sì ch’elli finge che Stazio dica: Io ebbi desiderio d’esser poeta; et unde venisse questo nol dichiara, se non che questo ardore fu suscitato da faville, ch’erano ne la mente sua come seme; e questo desiderio l’accese ad adamare la poesi dell’Eneide di Virgilio, la quale è divina per respetto dell’altre: imperò che eccede ogni ingegno umano; e da quella ànno preso più di mille; cioè infiniti omini, quale ad esser poeta, quale ad esser [p. 511 modifica]retorico, chi ad uno fine e chi ad uno altro. E di quinde dice aver preso elli, e però dice: la qual; cioè Eneide, mamma; cioè puppulla41 da la quale io abbo succhiato, come lo fanciullo lo latte nutritivo de la sua vita, così lo modo de la mia poesi abbo cavato quinde, Fùmi; cioè a me Stazio, e fùmi nutrice; questo è espositivo di quil che è ditto, cioè la qual mamma fùmi, et è colore retorico che si chiama interpretazione42; et in quanto dice fùmi, e fùmi è colore che si chiama conduplicazione; cioè l’Eneide fùmi nutrice poetando: imperò che come la nutrice governa lo fanciullo in tutti li suoi bisogni; cusì quella, me Stazio in tutti li atti de la mia poesi. Senza essa; cioè sensa l’Eneide, non fermai peso di dramma: dramma è l’ottava parte d’una oncia; quasi dica: Sensa la poesi di Virgilio non fermai nulla ne la mia. E per esser vissuto di là; cioè nel mondo, quando Visse Virgilio, assentirei un Sole Più che non deggio, al mio uscir di bando; cioè per essermi trovato con Virgilio in vita, consentrei stare in purgatorio, e penare ad andare in paradiso uno corso solare più che non debbo: ecco che ben mostra grande affezione a Virgilio: un Sole si può intendere una revoluzione che ’l Sole fa per li segni, e questo serebbe uno anno. E benchè grande spazio sia al desiderio de la beatitudine, pur pare piccula cosa a noi mondani, misurandolo co lo eterno; e così mostrerebbe poca affezione; ma si può intendere uno ciclo43 solare, che si compie in anni xxviii; ma io credo che l’autore intendesse pur d’uno anno: imperò ch’è grande tempo uno anno a chi sta in pena, et aspetta vita eterna.

C. XXI — v. 103-111. In questi tre ternari lo nostro autore finge come Virgilio li fece cenno che tacesse; ma non si potè attenere che non sorridesse, e però dice: Volsen Virgilio a me; cioè fenno volgere a me Dante, queste parole; le quali disse Stazio ditte di sopra, Con viso; cioè con atto nel volto, che tacendo; cioè che non dicendomi nulla, disse: Taci; cioè io intesi che elli volea che io tacessi. Ma non può tutto la virtù che vole; cioè la virtù volitiva non può ottenere cioe ch’ella vuole, e massimamente ne le nostre passioni: spesse volte l’omo piange che non vorrebbe, e così ride; e però dice l’autore: Chè riso e pianto; che sono due atti che procedono da passione, son tanto seguaci; cioè de le passioni, unde descendeno; cioè lo riso da l’allegressa, e lo pianto dal dolore; e però dice: A la passion da che; cioè da la quale, ciascun si spicca; cioè di quelli alti di sopra nominati, si spicca; cioè procede sì, come da sua cagione, Che men seguen voler; cioè44 che men fanno quel che la volontà vuole, nei più veraci; cioè nelli omini più veritieri che non si fanno45 [p. 512 modifica]infingere, che quello ch’ànno d’entro mostrano di fuori. Io; cioè Dante, pur sorrisi; cioè sogghignai, non potendomi tenere, come l’om che ammicca; cioè come chi accenna ad altri, Per che; cioè per lo qual sorridere, l’ombra; cioè Stazio che prima parlava, si tacque; cioè non disse più, e riguardommi; cioè me Dante, Nelli occhi; cioè miei, ove ’l sembiante; cioè l’atto esteriore d’allegressa o di dolore, più si ficca; che in nessuna altra parte del corpo umano: imperò che ne la risa46 l’occhio s’apre e grilla, e nel pianto chiude e gietta fuor lagrime. Et è qui da notare che le nostre passioni dell’anima sono sì comunicative a certi membri esteriori del corpo, che come sono nell’anima immantenente si dimostrano nei ditti membri, come esemplificato è del riso e del pianto; e per mostrare questo, lo nostro autore àe fatta questa fizione.

C. XXI — v. 112-120. In questi tre ternari lo nostro autore finge come li parea esser preso, se non ch’ebbe licenzia da Virgilio di potere rispondere; e però dice: Deh, se tanto lavoro; quanto è quello che tu ài preso a fare, in bene assommi; cioè arrechi a buono fine, Disse; cioè Stazio a me Dante, perchè la tua faccia; cioè di te Dante, testeso; cioè al presente, Un lampeggiar di riso; cioè uno47 aprimento di risa: imperò che Dante fece come fa lo lampo, che prima apre l’aire quando esce fuora, e possa chiude, e cusì fece Dante; prima aperse li occhi a ridere mosso da passione, avendo allegrezza che tanto bene volesse Stazio al suo maestro Virgilio, e possa chiuse per obedire Virgilio che l’avea ammonito che tacesse, dimostrommi; cioè a me Stazio; cioè dimmi la cagione? E quinci si può prendere notabile, che l’omo si dè guardare di ridere in cospetto d’altrui: imperò che altri nè pillia sospetto, s’elli non sa la cagione; e però dice: Or son io; cioè ora sono io Dante, d’una parte e d’altra preso; cioè dall’una parte e dall’altra; cioè da Stazio e da Virgilio. L’una mi fa tacer; cioè Virgilio, che m’àe accennato ch’io taccia, l’altra; cioè parte, cioè Stazio, scongiura; cioè mi prega con ossecrazione, Ch’io dica; cioè ch’io Dante dica perchè io sorrisi, ond’io; cioè per la qual cosa io Dante, sospiro; perchè non so che mi faccia, e sono inteso Dal mio Maestro; cioè da Virgilio, e non aver paura, Mi dice; cioè a me Dante Virgilio, di parlar; cioè a Stazio, ma parla, e dilli Quel che e’ dimanda con cotanta cura; cioè dilli apertamente la cagione perchè sorridesti, sicchè tu lo cavi di sospetto. Virgilio avea accennato Dante che tacesse, perchè non interrompesse lo parlare di Stazio; ma poi che vidde Stazio dubitare del sorridere di Dante, lo conforta ch’elli dica e che lo certifichi: la ragione sempre conforta che l’omo non dia sospetto di sè ad altrui. [p. 513 modifica]

C. XXI — v. 121-129. In questi tre ternari lo nostro autore finge come, avuta la licenzia da Virgilio, elli prese a parlare a Stazio e di- chiarollo de la cagione del suo ridere, dicendo: Ond’io; cioè per la qual cosa io Dante, avuta la licenzia da Virgilio dissi, s’intende: Forsi che tu ti meravilli, Antiquo spirto; ben può chiamare antiquo spirto Stazio, che più di 500 anni era stato in purgatorio, come appare di sopra, del rider ch’io fei; cioè diansi, quando tu parlavi, Ma più d’ammirazion vo che ti pilli; ecco che l’autore parla corretto, dimostrando che le passioni pilliano noi, e non noi loro; e però dice: ti pilli; cioè pigli te. Questi; cioè colui con cui io sono, che guida in alto li occhi miei; cioè la ragione che guida la sensualità mia e che m’à come poeta mosso a questa poesi; e questo ditto è mellio ad intenderlo secondo la lettera al presente, È quel Virgilio; ecco che pur secondo la lettera si dè intendere, dal qual; cioè Virgilio, tu tolliesti; cioè tu, Stazio, Forsi a cantar delli omini e de’ dei; cioè a scriver la Tebaide e l’Acchilleide, ne le quali si fa menzione delli omini e delli iddii. Se cagion altra; cioè che quella, ch’io t’abbo ditto, a mio rider credesti; tu Stazio, Lassala per non vera; ecco che certifica Dante Stazio de la cagion del suo ridere, et esser credi; tu, Stazio, Quelle parole che di lui dicesti; ecco che conferma Dante la loda di Virgilio.

C. XXI — v. 130-136. In questi due ternari et uno verso lo nostro autore finge come Stazio, udito che quelli era Virgilio, lo volse abbracciare ai piedi per riverenzia, dicendo: Già s’inchinava; cioè Stazio, com’io Dante ebbi detto le parole ditte di sopra di Virgilio, ad abbracciar li piedi Al mio Dottor; cioè a Virgilio; e questo finge l’autore, per mostrare ch’el volesse riverire come maggiore, ma elli; cioè Virgilio, disse; cioè a Stazio: Frate; ecco che ’l chiama fratello, perchè tutti siamo48 usciti da uno padre, Non far; cioè non abbracciare, che tu se’ ombra; cioè imperò che tu se’ ombra, et ombra vedi: imperò che io anco sono ombra, e l’ombre sono impalpabili se non a sostener pena, come di sopra è stato dichiarato. Et ei; cioè Stazio, surgendo; cioè levandosi suso disse a Virgilio, s’intende: Or poi la quantitate Comprender de l’amor; cioè tu, Virgilio, che a te mi scalda; cioè lo quale amore, mi scalda; in verso di te, Quand’io; cioè Stazio, dismento nostra vanitate; cioè non mi appensava ora che tu eri ombra et io, Trattando; cioè volendo trattare e trafficare, l’ombre; dichiarato è stato per me di sopra, perchè si chiamino ombre, come cosa salda; cioè come cosa solida e palpabile, come è lo corpo. E qui finisce lo canto xxi, et incomincia lo canto xxii.

Note

  1. Tolle; inflessione originata dall’infinito tollere, imitando i Latini. E.
  2. C. M. Disseli: Chi è colui
  3. C. M. che già erano per terra;
  4. C. M. della clausita del sepolcro,
  5. Parlassemo, avvedessemo e simili, come fussemo alla pag. 176 di questo volume. E.
  6. 6,0 6,1 C. M. sì fatta salute,
  7. Salute. Dall’ablativo latino salute i nostri antichi trassero la salute, il saluto e la saluta. E.
  8. Andavan; seconda persona plurale, dagli antichi terminata in no, come usava anche la lingua romana. E.
  9. C. M. profilare
  10. Antropos; Atropo. Secondo l’etimologia l’n è soperchio; ma dagli antichi era frapposto in alcuni numi propri: Giansone, Ensiona. E.
  11. C. M. termine.
  12. Questo adocchiare speciale, avverte il Gioberti, è la cognizione metessica propria degli oltramondani. E.
  13. Pongano mente i giovani con quanta proprietà i Classici adoperano l’ausiliario avere, al quale i non pratici sostituiscono essere, quando il verbo non sia un intransitivo riflesso. E.
  14. novi
  15. C. M. grazia di Dio — . Il Riccardiano manca del di, che gli antichi talvolta ommettevano innanzi al nome Dio
  16. C. M. levati, se sono pochi, in nuvole o nebbia o rugiada o brinata pure nella prima regione presso non anco si convertisse in piccola
  17. C. M. ripercuoteno e contastano li uni con li altri,
  18. Sospendella; sospendenla. Qui l’n è cangiato in l per dolcezza di pronunzia. E.
  19. C. M. imperò che questo arco
  20. C. M. spesso fanno
  21. C. M. vi si rappresentano
  22. Da — fiumi — a — riboccare — si è aggiunto dal Magliab. E.
  23. C. M. emisperio quine finge
  24. che à
  25. monda
  26. C. M. le elevazioni
  27. C. M. pillia tal volta, quale
  28. C. M. s’approva della mondizia; imperò
  29. C. M. vollia — Il nostro Cod. porta — volia — , dall’infinito voliere. E.
  30. Si li manifesta; manifesta sè a lui. Di qui si veda come non si avveri sempre il precetto de’ Grammatici; che la particella pronominale avanti al pronome si cangia in se. E.
  31. C. M. dice dieci cento migliaia
  32. C. M. nimo
  33. dominabitur
  34. C. M. che si trovò
  35. C. M. Achilleide
  36. C. M. fanno splendore dello splendore
  37. C. M. effettivo,
  38. C. M. la teorica,
  39. C. M. Tebaide
  40. C. M. del libro de l’Eneide che si chiama Eneide,
  41. C.M. puppola
  42. C. M. interpetrazione; cioè l’Eneide
  43. C. M. un circulo solare,
  44. C. M. cioè fanno
  45. C. M. si sanno
  46. C. M. nel riso
  47. C. M. uno appaiamento di riso:
  48. C. M. siamo fatti da uno
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