Compendio del trattato teorico e pratico sopra la coltivazione della vite/Parte II/V

Da Wikisource.
Parte II - Capitolo V

../IV/Art II ../VI IncludiIntestazione 30 settembre 2011 100% Da definire

IV - Art II VI - VI
[p. 110 modifica]

CAPITOLO V.


Del tempo e dei modi di travasare il vino.


Per determinare con maniera precisa il tempo necessario alla fermentazione, bisognerebbe poter valutare le proporzioni rigorose dei principj del mosto, l’azione delle stagioni, la temperatura, la qualità, e il colore del vino che si desidera: ma questa folla di circostanze sì variabili, ci fa sentire la necessità di non fissare in principio, che quel piccolo numero di fatti, che può solamente servire a dirigere con successo questa importante operazione [p. 111 modifica]Se il mosto che si fa fermentare deve servire alla fabbrica dell’acqua di vita, per ottenerne la maggior quantità possibile, si deve con una viva e completa fermentazione convertire in spirito tutto il principio zuccherino: ma se questo vino è destinato ad arricchire le nostre tavole, a servirci da bibita, si deve rallentare la fermentazione, che distruggerebbe tutto il principio zuccherino, e darebbe luogo allo sprigionamento della parte aromatica, ch’è tanto importante nei nostri vini di prima qualità.

Il sig. Rouger-Labergerie, che à riuniti nelle sue eleganti georgiche francesi i precetti più certi sopra ogni genere di coltivazione alle sue numerose e dotte osservazioni, parlando della fermentazione, così si esprime: la fermentazione non può avere regole certe, sopra tutto, circa la durata che necessariamente è relativa alla qualità delle uve, ed alla differenza de’ climi. I vini celebri di Migrenne, della Chenette, e della gran costa di Auxerre, generalmente non restano mai nella tina lo stesso spazio di tempo: talune volte diciotto, ventiquattro, o trentasei ore, e ciò nullostante si conservano lungo tempo.

L’anno 1802 sarà memorabile per le qualità squisite di vino; cionnullostante non si è lasciato il vino nella tina, che dalle ventiquattro alle trenta ore. Se vi restava più a lungo il vino era più duro, e senza aroma: non vi sono ragioni da opporre a un fatto, che due secoli di sperienza confermano; quando in un grandissimo numero di vigne si lascia stare il vino nella tina quattro, sei, otto e quindici giorni: in una parola sinchè la feccia e il vino siano freddi. [p. 112 modifica]Dietro la teoria e i fatti che abbiamo avanzati, ecco i principj che si possono stabilire:

1. Il mosto deve rimanere nella tina tanto meno tempo, quanto è meno zuccherino. I vini leggeri, chiamati vini primi, in Bourgogne, non possono rimanere in tina che sei o dodici ore.

2. Il vino deve restare nella tina tanto meno, quanto più si cerca di averlo vaporoso, e fare un vino spumoso. In questo caso, bisogna contentarsi di follare l’uva, e deporre il succo in botti, dopo averlo lasciato nella tina qualche volta ventiquattro ore, e sovente senza lasciarvelo soggiornare.

3. Deve tanto meno restare nella tina quanto meno colore si vuole che abbia il vino. Quanto ai vini bianchi, non si giugne a fargli acquistare questa bianchezza ch’è la prima loro qualità, se non che usando grandi attenzioni nel sortire dalla vigna.

4. Deve restare tanto meno nella tina, quanto più la temperatura è calda, e più voluminosa la massa. In questo caso la vivacità della fermentazione supplisce alla sua durata.

5. Deve restare tanto meno nella tina, quanto più si vuol ottenere un vino aggradevole aromatico.

6. La fermentazione sarà al contrario tanto più lunga, quanto più sarà abbondante il principio zuccherino, e il mosto più denso.

7. Tanto più sarà lunga, allorchè si abbia per iscopo di fabbricare vini per la distillazione; si deve sacrificare lutto alla fermentazione dell’alcool 1. [p. 113 modifica]8. Tanto maggiormente sarà lunga, quanto più fredda sarà stata la temperatura, allorché si colse l’uva.

9. Sarà alla fine tanto più lunga, quanto più colorito si desidera il vino.

Bisogna sempre apparecchiare prima le botti, che devono servire a mettere il mosto. Le botti nuove comunicherebbero al vino una disaggradevole amarezza; la si leva interamente mettendovi dell’acqua bollente, o salata, e dopo chiusa esattamente, si agita il liquore e si lascia raffreddare.

Si può anche lavarle con vino caldo, e colle infusioni bollenti di foglie di persico, o di lupolo. Quanto alle botti che ànno già servito, se non si è usata l’attenzione di darle lo zolfo, e di ben cocconarle, ammuffiscono facilmente, e allora torna più conto non servirsene, ch’esporsi al pericolo di dare al vino un odore spiacevole, da cui non si potrebbe sbarazzarlo.

[p. 114 modifica]Le botti devono esser poste nella cantina sopra due pezzi di legno paralleli, chiamati sedili, i quali presentandosi con uno de’ loro angoli, fanno in questo modo, che il contatto non si stabilisca, per così dire, che sopra due punti; allora la botte, alta sei pollici, o un piede sopra il suolo, può, sendo così disposta, permettere all’aria di circolare facilmente, ed offrire la facilità di visitarla da ogni parte. Le si mette il vino, e si ferma con rotoli, che impediscono muoverla.

Si deve egualmente aver cura di lasciar soggiornare l’acqua nei diversi vasi di legno, che devono servire a trasportare il vino, ed a contenerlo momentaneamente. Si cava il vino dalla tina, o col mezzo di un cannello, posto alla parte inferiore, od impiegando un grandissimo cesto bucato assai stretto, che s’immerge nella feccia, dove si riempie di liquido.

Le prime botti, che si cavano, sono sempre le più delicate e le più piacevoli, così si devono mettere a parte, e guardarle come la testa del vino. La feccia si mette subito sotto il torchio, e si ricava un vino di più in più colorato, e forte. A misura che si accresce il numero de’ colpi, e che si stringe, il sapore aspro e assai acerbo serve facilmente a distinguerlo dal primo, che si è ottenuto. Molti, che vogliono avere una sola qualità buona di vino, meschiano, a parti eguali, nelle botti il vino di ogni stretta di torchio al quale riuniscono alcune volte quello che si è cavato dalla tina.

Si fanno in Champagne alcuni vini, che si chiamano vini gris, che sono debolmente coloriti per [p. 115 modifica]l’attenzione avuta di spremere pochissimo, e di fare con molta prontezza. Il vino che dà la prima e seconda pressione si chiama occhio di pernice, e quello della terza e quarta vino de taille.

La feccia colle diverse ripetute pressioni fattele, qualche volta à acquistato una durezza tanto grande, che non si può levarla, senza tagliarla in pezzi coll’accetta, che ordinariamente serve a questa operazione.

Ecco i diversi usi ai quali s’impiega la feccia. In Champagne si ricava un’assai cattiva acqua-vite, che si conosce sotto il nome di acqua-vite d’Aisne: ma in una parte del dipartimento dell’Yonne, dove si pratica questa fabbrica generalmente è aggradevole, sopra tutto, come divenga vecchia.

Del resto, si deve attribuire questa differenza alle attenzioni usate in questa operazione. Non si saprebbe condannare troppo l’uso generalmente adottato, di non abbruciare che in inverno le fecce per fare le acque-vite. Con questo ritardo si minora la quantità, che si deve ricavare.

A Montpellier, la feccia serve a fabbricare del verde-rame. In qualche paese s’impiega a fare dell’aceto. Se si vuol darsi la pena di conservare la feccia, bisogna dividerla con attenzione, e metterla in botti, che si coprono di paglia, e di un intonaco densissimo di terra. Serve assai bene alle bibite, che si danno ai cavalli, e alle vacche, che la mangiano con piacere: ma bisogna dargliela in piccola quantità, sopra tutto alle vacche, cui può allontanare il latte.

L’ultimo uso della feccia, e che non è [p. 116 modifica]certamente il meno vantaggioso è di bruciarla per ottenere dell’alkali. Quattromila libbre di feccia danno cinquecento libbre di ceneri, dalle quali si ricavano cento e dieci libbre di alkali secco.

In Italia si ricava dai granelli dell’uva rossa un olio, che gli abitanti del parmigiano mangiano qualche volta, e del quale se ne servono per abbruciare, ed ungere le pelli di vitello.

Preparato a freddo, ed estratto senza fuoco, sarebbe buonissimo per tutti gli usi della tavola 2. [p. 117 modifica]

CAPITOLO VI.


Del modo di governare i vini che sono nelle botti.


Il vino che si mette nella botte, subisce una seconda fermentazione, la quale è più o meno viva secondo ch’egli è più o meno generoso: al nord il vino fermenta tanto poco, che si può a ragione nominare questa operazione fermentazione insensibile. Ordinariamente è preceduta da un leggero strepito, che annuncia lo sviluppo dei vapori, i quali diventando più numerosi producono, nell’atto di attraversare il liquido, un’abbondante spuma, che scola fuori della botte per l’apertura. Sebbene sia cessato ogni movimento interno, si continua cionullostante a riempire la botte, la cui apertura si chiude per qualche tempo con foglie di vite. Questa operazione, che si chiama dar la piena (ouiller), in qualche paese, si ripete per i vini dell’Hermitage, ogni giorno nel primo mese; tutti i quattro giorni nel secondo, e tutti gli otto giorni sino al travasamento. I vini gris non fermentano

Note

  1. Spirito di vino. L’autore. — L’antica nomenclatura chimicha distingueva tre specie di spirito di vino, il semplice, il rettificato, e il rettificatissimo, ossia volgarmente di sette-cotte. Queste differenze non dipendono che dal più, o meno di acqua, che si trova unita all’alcool; il quale corrisponde appunto allo spirito di vino rettificatissimo. L’alcool risulta «da una combinazione di carbonio, e idrogeno, modificata però in guisa da costituire nè olio, nè etere, nè grassi, che sono formati degli stessi principj in proporzioni e modificazioni differenti. ( Dizionario di chimica di V. Dandolo ).— Il Trad.
  2. L’olio è un articolo troppo interessante perchè si debba tentare questo mezzo onde supplire almeno in parte al costoso di oliva, e tanto più, che gli olivi vanno tutto giorno perendo, ed abbenchè si rimettano, esigono lungo tempo prima di dar frutto. Noi siamo attualmente in lusinga, che se le sperienze fatte da alcuni nostri compatrioti col Rafano oleifero cinese (Vedi Istruzione sulla di lui coltivazione di D. F. de Grandi. Udine 1804.) ànno disanimato, anzichè no, dal coltivarlo per l’oggetto contemplato, non sarà lo stesso sicuramente del Falso pistacchio ( Staphylea pinnata L.), che il mio amico ab. Fecchinis di S. Vito (dipartimento del Tagliamento, distretto di Porto-Gruaro) à trovato sì utile, e tanto buono. S. A. I. il nostro Principe Vice-Re colla profonda penetrazione, che lo segnala si è degnato accogliere con parzialità la di lui scoperta, e principalmente per ciò che riguarda la macchina, che à inventata per frangere i nocciuoli. La pianta faceva parte anche in addietro delle oleifere, come ultimamente, tra gli altri l’aveva commendata il C. F. Re ( Elem. di agricoltura T. III p. 87. Ed. terza ): ma si mancava di mezzo opportuno per trarla ad utile in modo economico. Il dotto ab. Miotti ebbe l’onore di spiegare questo meccanismo alla predetta A. S. I. (Vedi Giornale di Passariano, n. 4, p.26.) Il trad.