Cosima/Note

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VIII Bibliografia

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NOTE


Pag. 6.

Si chiamava Nanna... La maggior parte dei nomi che figurano in Cosima sono nomi veri: Nanna, è Nannedda Conzeddu moglie di Taneddu Muscetta. Proto, il servo di cui si parla a pag. 29, è Proto Manedda di Fonni. Antonino, a pag. 45, è Antonino Pau. Gioanmario, a pag. 60, è Giovanni Maria Mesina, sposo di Vincenza, sorella di Cosima, morta a ventun anno. Zia Paolina e zia Tonia, pag. 22, son le sorelle del padre della scrittrice, Giovanni Antonio Deledda, detto «Totoni». Così i fratelli di Grazia Santus, pag. 8, detto «Santeddu», e Andrea, pag. 9, e, delle sorelle, la già nominata Vincenza, (Enza) e Giovanna, pag. 9 (quest’ultima morta di angina in piccola età), e Beppa, pag. 11, e Nicolina (Coletta, pag. 72). La nonna materna, pag. 12, si chiamava Nicolosa Parededdu, andata sposa ad Andrea Cambosu, pag. 37. La nuova sorellina alla quale la piccola fantastica Cosima ha affibbiato il nome di Sebastianino, per omaggio puerile allo zio canonico don Sebastiano Cambosu, pagina 24, fratello della mamma Chischedda (Francesca) Cambosu, si chiamerà appunto, dal nome della nonna materna, Nicolina. Il canonico della casa di faccia, pag. 5, è il rev. Maccioni con la nipote Giuseppina che a 85 anni si ricorda ancora l’uscita della piccola Cosima: «Abbiamo un bambino nuovo, un Sebastianino».

Cambiato è il nome di Fortunio, pag. 104, il figlio del cancelliere, finito poi anche lui cancelliere come il padre: e come il nome è cambiata la natura dell’imperfezione che lo affliggeva: non era zoppo, ma guercio.
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Le due vecchie implacabili zitelle, pag. 82, rispondevano al nome di zia Tatana e zia Paschedda M., governanti del canonico S. La Continentale, pag. 40, era certa maestra Branca.


Pag. 14.

La casa paterna della scrittrice, coi grappoli d’uva appesi al soffitto, e la vista dei monti dalle finestre alte, è stata descritta a più riprese nei libri della D. con gli adattamenti dei singoli casi. Vedi le prime pagine de Il paese del vento, di Sino al confine; sul giardino vedi il racconto intitolato Casa paterna in Nell’azzurro, nel quale racconto trovansi anche notizie sui primi studii di Grazia Cosima. Sulla casa paterna della D. vedi Pietro Pancrazi, La casa di Grazia, in Donne e buoi, pag. 219, Ed. Vallecchi, Firenze, 1935, e Harukichi Shimoi in «Sardegna», giornale dell’Unione Sarda, Cagliari, 1° febbraio 1931.


Pag. 27.

Un inverno lungo e crudelissimo. A ricordo dei vecchi, veramente eccezionale. Vedi Comincia a nevicare... in Il dono di Natale (1930) pp. 17-20. Fu l’inverno del 1880.


Pag. 36.

Sul carattere della madre, vera «mater doloris», sopra le fatiche da lei sostenute nella direzione della casa vedi Pane casalingo in «Corriere della Sera» del 19 gennaio 1936. Aiutar la mamma a fare il pane era, per le ragazze, una insigne fatica.


Pag. 45.

Gabriele d’Annunzio, accompagnato da Cesare Pascarella e da Edoardo Scarfoglio, giunse a Nuoro il 28 maggio 1882. «A Nuoro», scrive Scarfoglio (Libro di Don Chisciotte), «ci giunsero le prime copie del Canto nuovo» [finito di stampare in Roma il 5 dello stesso mese].

Un ricordo del viaggio in Sardegna d’Annunzio rievocherà nel 1909 nella Prefazione alla traduzione italiana di Osteria di Hans Barth, e farà un cenno, oltre che del «nepente d’Oliena», delle Case delle Fate rievocate in Cosima a pagina 13 e delle Tombe dei Giganti, a pagina 91.


Pag. 48.

Quarto rondò dell’«Intermezzo melico» di Isaotta Guttadauro di G. d’Annunzio: primamente apparso coi tipi della [p. 175 modifica] «Tribuna», Roma, Natale 1886. Su d’A. citato con onore dalla D. vedi Tipi e paesaggi sardi, nella «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1901. Nel romanzo Colombi e sparvieri (1912) il protagonista adolescente parla, cap. VII, delle sue letture dannunziane: «I romanzi e le novelle di G. d’A. ci rivelavano un mondo incantato e malefico, una plaga dolce e ardente piene di fiori velenosi e di frutti proibiti... In quel tempo rileggevo Terra vergine e sognavo grandi fiumi luminosi, tutto un paesaggio caldo e fantastico, con isole coperte di canne e di giuncheti ombreggiate da boschi di salici e di pioppi, velato di vapori rosei e popolati di donne belle e voluttuose: e queste donne le vedevo coperte anch’esse di veli fluttuanti, coi capelli sciolti e gli occhi in color di viola come il cielo del crepuscolo. Il mondo reale intorno a me era invece nitido e duro; un mondo fatto di rocce e di macchie dai rami contorti... e le donne erano vestite di nero e di giallo, di panno ruvido...».

La D. nutrì sempre una viva ammirazione per il grande scrittore abruzzese. Da ragazzetta era innamorata del De Amicis. Avrebbe voluto avere (Frammenti di memorie infantili, nel volume Nell'azzurro, raccolto nel 1890) «la penna d’uno dei nostri più grandi scrittori — del De Amicis, per esempio — per scrivere le memorie della mia infanzia». Ma poco più tardi, in Fior di Sardegna (pag. 218), con maggiori ambizioni, «oh la penna, la penna di Victor Hugo per un’ora sola, per descrivere queste lotte interne, queste tempeste in un cranio...». Sulle prime simpatie letterarie della giovinetta Grazia vedi Stella d’Oriente in «Avvenire di Sardegna», Cagliari 1889: vi si fanno i nomi di Moore, Byron, Hugo, Dumas, Sue («gran romanziere glorioso o infame secondo i gusti, ma certo molto atto a commuovere l’anima poetica di un’ardente fanciulla»), Cavallotti. Più tardi lesse Balzac, Amiel, Scott, Manzoni, Grossi, Guerrazzi, Pellico, Metastasio, Goldoni; poi s’accostò ai contemporanei: Fogazzaro, Verga, Stecchetti, d’Annunzio, Ada Negri, Aurelio Costanzo, poi ad altri stranieri: Carmen Sylva, Elena Vacarescu, Turgheniev, Gogol, Tolstoi, Gorki. Più tardi ancora si appassionò di Dostoievschi.


Pag. 50.

Lo stesso stornello (mutos) cantano, sulla fine della prima parte di Cenere (1903), la prostituta cagliaritana Marta Rosa, e la giovine Gavina di Sino al confine (1909), «col solo motivo [p. 176 modifica] malinconico e primitivo ch’ella sapesse ripetere». In quest’ultimo romanzo il lettore troverà frequentemente personaggi, ambienti e situazioni simili a quelli di Cosima: il canonico Sulis, il padre, la cameretta di Gavina, e il fratello Luca, manesco come Andrea in Cosima a pag. 114.


Pag. 64.

Lettera a Epaminonda Provaglio direttore de l’Ultima Moda, stampata in Roma dall’editore Edoardo Perino. (Quadrivio, Roma, 23 agosto 1936).

«Mio padre è vecchio vecchio: colto da paralisi parla a stento e rimane silenzioso e cammina solo aiutato. Mia madre, tutta casa e famiglia, vestita in costume, non esce mai. Dei fratelli, uno studia a Cagliari, l’altro, oramai capo-famiglia, passa i suoi giorni tra gli affari, sempre a cavallo attraverso le nostre grandi tenute, pei monti e per le valli: mia sorella maggiore è fidanzata con un giovine avvocato e se ne andrà fra poco con lui; altre due sorelle, che completano la famiglia, sono piccole, quindici, tredici anni, e si divertono per conto loro senza pensare a me...» (marzo 1892).


(Allo stesso)

«Oh se tu sapessi come amo il mio babbo, e come egli era buono! Tutti, tutti gli vogliono bene. È vissuto beneficando, lasciando benedizioni dietro di sé, e non a Nuoro soltanto, ma in tutto il circondario. Vi. furono anni di carestia, mi ricordo, in cui egli sostentò del suo intere famiglie, e una volta fece venire dal continente un bastimento di polenta per un miserabile villaggio, perduto nei monti più desolati, che moriva di fame, senza aiuto, negli orrori dell’inverno...» (luglio 1892).


(Allo stesso)

«Avrai ricevuto il doloroso annunzio della morte del babbo mio... Benché preveduta, e da tanto tempo, questa disgrazia ha scosso profondamente le basi della felicità mia e di tutti i miei. Io ho sofferto tanto, tanto, che mi pare non si possa soffrire di più. Ma ora sono calma e ritorno, a poco a poco, alle mie antiche abitudini ed ai miei antichi pensieri. Nella tristezza del lutto mi pare che il mio babbo amato mi sia sempre vicino, più di prima, e che il suo spirito aleggi sempre intorno a me, preservandomi da ogni sventura, e guidandomi nella buona via... Come vedi, però, le mie novelle sono molto tristi, e la mia esistenza è più che mai oscura e monotona. Tu non puoi immaginarti, con che rigidezza [p. 177 modifica] qui si osservi il lutto. Le nostre finestre son chiuse ed io non mi posso neppure avvicinare ai vetri. Per due o tre mesi noi donne dobbiamo stare ermeticamente chiuse in casa e poi ci sarà concesso di uscire sì, ma per ricambiare solo le visite o per andare in chiesa. Niente passeggio, a meno che non sia in campagna, nessuno svago, e un contegno sempre rigorosamente triste... E così per tre o quattro o magari cinque anni. Per buona fortuna io sono quasi avvezza a questa tetra esistenza, e spero di cambiarla fra due anni al più tardi; altrimenti questo lutto artificiale unito al lutto intimo, mi ucciderebbe...» (novembre 1892).

A Onorato Roux: lettera del marzo 1907, pubblicata in Infanzia e giovinezza di illustri italiani contemporanei, Ed. Bemporad, Firenze, 1908, vol. I, parte 2a:

«Mio padre era un uomo intelligentissimo: poeta estemporaneo, dialettale. Di una bontà incredibile, egli conservava, forse, la sua natura di poeta anche nel trattare gli affari, perché aveva fiducia di tutti, aveva pietà di tutti, si lasciava raggirare da tutti. La nostra casa era come una specie di piccolo albergo gratuito. Da venti paesi del circondario di Nuoro venivano ospiti che se ne stavano due, tre e persino otto giorni in casa nostra. Erano tipi caratteristici; popolani, borghesi, preti, nobili, servi, dei quali io conservo vivissimo il ricordo...».


Pag. 80.

Roma era la sua mèta... Quante volte, nei romanzi anche dopo che la D. si fu incontinentata, ritorna come motivo di racconto questo fascino di Roma: Cenere, Nostalgie ecc. Scriveva a Epaminonda Provaglio nel febbraio 1895: «Il mio più bel sogno è sempre di poter venire a Roma per conoscere un po' di questo mondo che tutti vogliono farmi credere brutto, mentre a me invece pare bellissimo. Ma chi sa quando ciò sarà, chi sa quando? Non ho nessuno che possa accompagnarmi; e poi c’è un’altra cosa: io vorrei viaggiare con lusso e fare un po’ di figura... ».


Pag. 98.

Rosa di macchia: in realtà, Fior di Sardegna. (La prefazione, dell’A., al Fiore, comincia con queste parole: «Fermarsi in un sito sconosciuto e montuoso dell’isola di Sardegna, cogliere fra i lentischi e le rocce una timida rosa montana nata all’ombra degli elci e fra i profumi delle folte borraccine — esaminarla foglia per foglia... ecco lo scopo del presente racconto ». Il [p. 178 modifica] romanzo, ed. da Perino nel 1891, è dedicato «Alla contessa Elda di Montedoro in segno d’affettuosa gratitudine». Tale era lo pseudonimo di Epaminonda Provaglio, direttore — come s’è detto — dell’Ultima moda, col quale la giovine scrittrice ebbe dall’isola frequente carteggio ignorando per un po’ di tempo sesso e carattere del suo corrispondente. «Hai ragione su quanto mi scrivi circa il mio modesto romanzo», scriveva la D. alla immaginaria Elda, «mi correggerò sempre più sui difetti che ti son gratissima di avermi indicato, ma permettimi che io non accetti l’inverosimilità dei capitoli in cui Lara e Massimo si trovano insieme per quasi una notte intera senza che per ciò accadesse qualche guaio... È vero: la virtù di Lara è un po’ troppo invulnerabile, un po’ troppo fenomenale [a pag. 101 di Cosima, conviene sul carattere libresco di quegli amori e immaginario di quei convegni notturni], ma dimmi, se Lara non fosse stata così si sarebbe poi meritata il nome di Fiore che ho messo per titolo alla sua storia? E che mi dirai se ti assicuro che la tela di quel convegno io la ho rubata dalla lettera di un giovine scritta ad una fanciulla pallida e triste come Lara, il giorno dopo una notte passata insieme così, in un angolo di cortile, sotto un mantello, e senza alcun danno?... Oh, Elda, Elda! Tu l’hai detto: io conosco profondamente il cuore umano e, benché sia molto giovine, forse non ho più nulla a imparare su ciò: i personaggi del mio racconto non sono esistiti, ma le passioni che ho descritto sono quasi generali in tutti, ed io non ho dovuto che semplicemente studiare intorno a me, dentro di me, nel libro della vita...». Lettera del 16 gennaio 1892 pubbl. in Quadrivio, 23 agosto 1936.

La Deledda rifiutò sempre di ristampare quel suo romanzo giovanile e s’imbronciava a sentirselo ricordare. Fu spesso ristampato alla macchia.


Pag. 100.

«Le farò la mia silhouette in due o tre righe. Ho vent’anni e sono bruna e un tantino anche... brutta, non tanto però come sembro nell’orribile ritratto posto in prima pagina di Fior di Sardegna... Sono una modestissima signorina di provincia, che ha molta volontà e coraggio in arte, ma che nella sua vita intima, solitaria e silenziosa, è la più timida e mite ragazza del mondo». Lett. a E. Provaglio, 15 maggio 1892 (Quadrivio, num. cit.).

Molte volte, col favore della terza persona romanzata, la D. tornerà a delineare il proprio ritratto fisico e morale intorno a [p. 179 modifica] quel tempo giovanile. Tra i più riusciti quello del primo capitolo de Il paese del vento: «Piccola, scura, diffidente e sognante come una beduina [Io son di saracino sangue ardente..., cominciava una poesia intitolata Noi pubblicata in «Sardegna artistica» nel febbraio del 1893] che pur dal limite della sua tenda intravvede, ai confini del deserto, i miraggi d’oro di un mondo fantastico, raccoglievo negli occhi il riflesso della vastità ardente...». Ivi, a pag. 12, ritroveremo nel cortile un mufloncino che ci riconduce a quello dello straordinario racconto di Proto, pag. 29 di Cosima. Altra bella storia di muflone malinconico e fedele nella prima parte del romanzo Il vecchio e i fanciulli (1928). Nel racconto intitolato Il mio padrino in Il dono di Natale la D. ricorda il dono che il padrino per appunto le fece di un piccolo muflone.


Pag. 102.

Sullo scandalo che fecero a Nuoro i primi scritti stampati della D. vedi la cit. Casa paterna in Nell’azzurro e Primi passi in «Corriere della Sera» del 21 giugno 1930.


Pag. 119.

Il frantoio delle olive e la pittoresca adunata di gente del popolo riapparirà in Cenere, Cap. III. Le osservazioni fatte sul linguaggio e le superstizioni di cui più avanti, a pag. 122, la D. raccolse in un articolo apparso in «Rivista delle tradizioni italiane» diretta da Angelo De Gubernatis, intitolato Tradizioni popolari nuoresi.


Pag. 123.

Rami caduti: in realtà Anime oneste (1895) con prefazione di Ruggero Bonghi, datata da Torre del Greco il 28 agosto 1895. La Deledda fu incoraggiata a scrivere questo romanzo dalla direttrice della casa editrice milanese L. F. Cogliati («La Casa Cogliati vuole che io scriva un romanzo all’inglese, un romanzo famigliare d’anime buone e gentili»; e romanzo famigliare è specificato nel sottotitolo del libro. In un primo tempo il titolo doveva essere Gli onesti. Lettera a Epaminonda Provaglio del novembre 1894). La prefazione fu sollecitata dalla stessa editrice che era in grande amicizia col Bonghi e gli passò le bozze del romanzo. Ma il vero «lancio» della romanziera [p. 180 modifica] nel mondo letterario fu fatto un anno e mezzo dopo, da una recensione di Luigi Capuana sur un’opera successiva: La via del male. Al quale Capuana la D. scriverà da Nuoro, in data 30 marzo 1897: «Spero che l’opera mia, giacché non conto di fermarmi, debba sempre più riuscirle gradita. Sono ancora molto giovane, molto più giovane di quanto molti, giudicandone dalla mia produzione, mi credano: ebbi solamente il torto di cominciar troppo presto a pubblicare. Ma ero sola, come ancora lo sono, e non avevo maestri né guide. Se un vigile consiglio mi avesse guidata quel Fior di Sardegna, da Lei ricordato, e tanti e tant’altri lavori miei non avrebbero veduto la luce. Ma sento, ora che sono pienamente consapevole, che molto tempo ancora mi resta per compiere l’opera cominciata con La via del male. La guida che nei primi passi mi è mancata ora la sento in me stessa, ed è una intima voce che mi addita qualche cosa di alto e di puro e di fortemente luminoso». Nel 1896 la D. aveva avuto un breve scambio epistolare con Mario Rapisardi.


Pag. 130.

«Spesso vado in una campagna suggestiva: una pianura melanconica, deserta, senza alberi. La nostra vigna è l’ultima; due pini alti fremono continuamente sotto il cielo d’un azzurro triste di viola mammola; al di là cominciano le tancas melanconiche, animate solo da qualche greggia, e sembrano sconfinate. Da sotto il pino ove è inciso il nome di Sebastiano Satta che deve aver sentito la triste poesia di questo luogo, io guardo la vastità desolata e desidero andare, andare attraverso questa infinita eppur dolce tristezza della natura sarda. Chissà? se diventerò ricca, mi farò una casa qui sotto l’incessante murmure dei pini...». Lettera a Luigi Falchi, ottobre 1890: riprodotta in Confidenze dello stesso, Sassari, 1925.

Ai tempi del soggiorno in quella vigna deve risalire la ispirazione e composizione del nuovo romanzo La via del male, uno dei maggiori successi, anche di traduzione in lingue straniere, della D.; il quale comincia per appunto con un idillio al tempo della vendemmia. In un primo tempo detto romanzo doveva intitolarsi L’indomabile (titolo che aveva il colore del tempo: ricorda L’invincibile di Gabriele d’Annunzio, che fu la prima redazione — dal cap. I al XVI — del Trionfo della morte apparsa nella «Tribuna illustrata» del 1890; al quale tenne dietro L’Inarrivabile di Diego Angeli, Ed. Bontempelli, Roma, 1893). Nel frattempo [p. 181 modifica] uscì un romanzo con quel titolo, di una scrittrice veneta in corrispondenza con la D., Umbertina di Chamery. La D. se ne crucciò; ma a torto, ché il nuovo titolo era assai più significativo e calzante. Uscì alla fine del 1896 a Torino, coi tipi dello Speirani, con una dedica ad Alfredo Niceforo e a Paolo Orano.


Pag. 131.

Un colono del Continente. Un antico ex-coatto rimasto volontariamente nel suo luogo di esilio. Un personaggio con funzione quasi di protagonista, che molto gli somiglia, sarà Efix (Efisio) il servo tutto devoto alle figlie del padrone da lui ucciso in Canne al vento. Il vero nome era Arcangelo e proveniva dalla Calabria.


Pag. 168.

La prima persona che vide. «Viso fresco, capelli castani ondulati, occhi pieni di gioia furbesca ma schietta». Vedi tale incontro voltato in romanzesco ne Il paese del vento. Nella realtà, Palmiro Madesani, «continentale» in età allora di 35 anni. Le sarà presentato qualche giorno dopo l’arrivo a Cagliari, alla fine d’ottobre del 1899, in teatro, dal prof. Luigi Falchi. Si fidanzarono ai primi del novembre successivo e sposarono ai primi di gennaio del 1900. Fidanzamento e matrimonio sono narrati in modo assai vicino al vero ne Il paese del vento. Si stabilirono a Roma nel marzo dello stesso anno. Di quel tempo è un breve «poema» in otto componimenti in versi dei quali fu pubblicato solo il penultimo nella «Piccola rivista», Cagliari, 12 marzo 1900, col titolo A Palmiro (dalla Luna di miele di prossima pubblicazione). [Comprende: I fidanzati e La partenza dopo le nozze; L’aurora; Le ricordanze; Ancora le ricordanze; Il presente; La pineta e Verso l’ignoto, sciolti]. Sul fidanzamento vedi anche la lettera-prefazione alla traduzione tedesca di Tentazioni di E. Muller Roder, Ed. Bibliot. Univ., Lipsia, 1903. Sui versi, in genere, della D. vedi Stanis Ruinas in «Giornale di Genova» del 20 febbraio 1925 e in Scrittori di Sardegna, Ed. Campielli 1928, e Adolfo Faggi in Il paesaggio in Sardegna in «Marzocco» del 22 gennaio 1928; e particolarmente la recente pubblicazione di Antonio Scano: G. D., la piccola poetessa: estratto dalla «Cultura moderna», N. 1 del 1937, Vallardi, Milano. Ma delle sue poesie d’amore la D. non voleva sentirne parlare. [p. 182 modifica] Pag. 169.

Donna Maria Manca, direttrice di «Donna sarda», rivista cagliaritana della quale la D. era collaboratrice, con versi e prose, da parecchi anni. L’ospitale grazioso palazzo sorge tuttora in via S. Lucifero.


Pag. 170.

Lettera alla scrittrice Bisi Albini. Lettura, agosto 1911.

«Sofia, sono stata quaranta giorni a Cagliari, la luminosa nostra capitale, una graziosa città moresca il cui mare ardente, dai tramonti meravigliosi, fa sentire la vicina Africa. Mi hanno fatto festose accoglienze e mi sono riposata e divertita assai... » (dicembre 1899).