Del sistema in genere/Del sistema in genere

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Al chiarissimo uomo Donato Morelli
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DEL

SISTEMA IN GENERE

DISCORSO

LETTO NELL’UNIVERSITÀ DI PALERMO

addì 15 gennaio 1867






Professori onorandi e carissimi giovani,


Avanti ch’io incominci l’insegnamento della filosofia specolativa che mi venne commesso, giudico essere bene dire alcune opinioni mie intorno al sistema pigliato in significazione generale. Esso è la rappresentazione che persona fa dell’universo a sè medesimo; ed è ciò che il filosofo vagheggia con inestimabile costanza, e cerca di raggiungere con tutte le più efficaci industrie dello affetto; ed è la essenza stessa della filosofia. Le vulgari persone non sanno rappresentarsi l’universo per alcun modo, ma soltanto vedono le parvenze di quello senza isvolgimento interiore: e quegli poi che cultivano l’altre scienze sono soddisfatti di guardare e di considerare non l’intero universo, bensì alcuna sua parte nella quale s’asconde come la immagine della concordia del tutto. Poni esempio, il botanico studia non già nell’universo in genere, ma solo in quello particolare delle piante, cioè in tutte quelle copiose e molteplici forme dove si [p. 6 modifica]dispiega la unità della vita: lo zoologo tiene volta la mente solo all’universo animale, cioè alla moltitudine delle sembianza nelle quali la vita, divenuta dolce e dilettosa a sè stessa, si fa aperta: il mattematico contempla l’universo dei numeri e delle figure nei quali il moto come punto e uno si pone, discorre e s’espande, si rattiene. In somma il vulgo è necessitato dismagare la vista nel molti; i cultori poi delle scienze particolari nel molti intravvedono con mirabile perspicacia l’uno: però il molti in cui si espandono non è la totalità della contingenza, e l’uno attorno al quale lo raccolgono non è lo Assoluto, ma un relativo. Onde ciò che appunto contrassegna il sistema considerato largamente, o vero ciò che discerne la filosofia dalle rimanenti scienze si è la idea di universo nella integrità della significazione sua; conciossiachè ella si eserciti intorno all’assoluto Uno e attorno al totale multiplo in quanto che organatamente da quello discende ed a quello si volge, per dir più breve, intorno all’Unitutto. Ciò forse istà ben detto se persona vuol ispaziare nella contenenza dell’obbietto della filosofia; volendo poi fissare l’occhio nella intenzione e nella virtù di esso obbietto, bisogna aggiungere quest’altra cosa.

Le scienze non sono come campi che posano l’uno allato all’altro, bensì son moti delle menti trascorrenti l’uno nell’altro, congiugnenti e disgiugnenti le nozioni in siffatta forma da comporle insieme in rispondenza alla realità. Onde le speziali scienze sono le stesse menti diventate forze organative dei concetti alla simiglianza delle organative delle speziali cose; e la scienza, che s’addomanda filosofia, è la mente quale virtù [p. 7 modifica]organativa dell’universo ideale, all’immagine e similitudine dell’universo reale. E, come la pianta, l’animale, l’uomo sono parti organate dell’universo organico; le scienze, somigliatamente, sono come organi particolari della filosofia, la quale rappresenta e specchia l’organamento del tutto. Le molteplici scienze studiano un genere determinato d’apparenze, e in quelle indagano la causa e il fine proprio, cioè il pensiero che v’inabita dentro: dich’io pensiero, perchè il fine dovunque sia, dà la novella che c’è anco il pensiero, non essendo esso altro che lo effetto antipensato, o vero il pensiero dello effetto, disposato al volere che quello venga ad atto. La filosofia va più su: codeste cause e fini che sono l’internità e la essenza del Fatto, codesti pensieri dove l’altre scienze si riposano, a lei addiventano alla lor volta apparizioni del puro Fare, ch’è mente e volere assoluto. Di modo che se tu paragoni l’universo a un libro, di’ tu che il volgo di questo libro vede solamente la parte esteriore, cioè la carta, l’inchiostro, la figura e via via; gli scienziati leggono i pensieri che vi si contengono; il filosofo intravvede la mente medesima di colui che lo scrisse. Per tanto, paragonando più cose per ispargere un po’ di lume attorno all’idea che ci sta dinanzi, diciamo che il volgo vede il Fatto solamente come apparenza; lo scienziato intravvede in quello un Fare che alla volta sua è anco Fatto; il filosofo s’interna insino al puro Fare.

Il puro Fare è dunque il principio del sistema in generale, o vero della filosofia. Ogni filosofo poi a modo suo lo dilucida. E noi prima di procedere a parlare della filosofia in genere, facciamo un po’ di fermata per dire della maniera propria come noi intenderemo il detto [p. 8 modifica]principio: e, a questo fine paragoniamo il Fare puro con l’atto d’Aristotile, anco per satisfare al debito di adombrare in qualche modo il concetto delle lezioni che seguiranno appresso.

Dove Aristotile prende la filosofia in significato stretto, dimandandola πρώτη φιλοσοφία 1 o solamente σοφία 2, che risponde a quello che si chiama oggidì metafisica, dice ch’ella dev’essere speculativa dei primi principii e cause 3. I quali si contengono nella idea di sviluppamento, anzi nella idea vivace di diventare; e sono materia 4, forma 5, causa 6 e fine 7. I due ultimi, secondo essenza, sono con la forma una cosa: per tanto i quattro principii si ritraggono in due, materia e forma. Essi non sono diventati; per contrario solamente per essi è possibile l’istesso diventare. E, davvero, quello ch’è, non diventa, perchè già è; quello che non è, neppure diventa, perchè non è; quello può dunque diventare, che in parte è, e in parte non è; e diventa a fine d’essere pienamente. Il diventare è perciò trapassamento della materia, ch'è essere incompiuto o possibilità, nella forma ch'è compimento e realità e atto in rispetto a quella. Seguiamo: la possibilità e la realità hanno fra loro un riferimento vivace, perchè ciò ch’è possibile dev’essere quandochesia reale, se no, sarebbe impossibile; il reale poi ch’è già possibile, è chiaro. E in codesta relazione essenziale della possibilità e realità, della materia e della forma è il moto: il quale perciò è eterno, così come sono quelle; e le media e le aduna, da poi che ritrae dell’una [p. 9 modifica]e dell’altra, avendo della realità o atto in quanto è realeggiamento delle potenza, e avendo di questa in quanto è realeggiamento non anco terminato; e suppone tutt’e due le cose insieme, stantechè il solo atto non ha bisogno di generare il moto, e la sola potenza non ha virtù che basti. Andiamo pure: il moto suppone un movente primo, che sia eterno, com’è il moto, e che non sia mosso, appunto perciocchè è la condizione del moto medesimo. Or la forma è movente, la materia è mossa; dunque il primo movente vuol essere pura forma, o vero puro atto, o energia. Ma qual’è attività pura? non quella che vuole o produce, conciossiachè supponga fine e materia fuori di sè; sibbene quella che non si svaga fuori,ma in sè medesima sì quieta e gioconda: essa è l’intendere in atto, ovvero la intellezione, che, dovendo avere ad obbietto suo l’ottimo, ha perciò per obbietto se medesima, in modochè riesce la intellezione della intellezione. Or ecco i dubbi che rampollano dalla teoria d’Aristotile. Il diventare suppone un primo motore; ma s’egli non produce nè opera, com’è motore? Esso, come fine, senza muoversi, trae il mondo a muoversi verso lui, come lo amato l’amante. Ma così esso è il termine al quale il mondo si trae e move, ma la forza del trarsi e del movere non gli discende da esso come da princìpio: e così neppure si fa aperto d’onde venga nella materia l’innato desio verso all’atto puro, se questo non ve lo ascose. Per noi il divenire, perchè sia possibile, suppone un puro motore; e questo è il puro Fare. Il quale non è teoria soltanto, ma è produttivo ed operativo, poichè come speculazione schietta è astrazion vacua, che in tanto si riempie rispetto a noi, in quanto ha per obbietto sè stessa come [p. 10 modifica]principio del Fatto. Invero l’assoluta intellezione è per noi buja, siccome superiore alle categorie della mente; e chiareggia in quanto ch’è principio e cagion delle categorie medesime, e in quanto che perentro del Fatto traspare. Il Fare puro, perciocchè appunto è tutto vegghiante, non asconde alcuna pigra e quasi dormiente potenza, perciò è anco puro atto. Per lo Stagirita potenza, atto, moto, si rattrovano eternamente allato al puro motore, e codesta molteplicità malamente s’aduna insieme: per noi essi son termini del Fare, e in quello s’adunano, son Fatto, e hanno cominciamento. La connata e viva desianza della natura verso al puro atto per noi si chiarisce per ciò che il Fatto tende a divenir Fare; e vi tende perciocchè lo effetto, anelando ad assimigliarsi alla causa, cerca come effetto di svanire. E in codesta volontà che ha il Fatto d’immedesimarsi col Fare è appunto il moto secondo mia opinione. Il quale non comincia, secondo Aristotile, poi che gli pare presupponga il moto medesimo, e dica contro a sè: al contrario, secondo noi, bisogna che incominci, se esso è una fatta immagine del puro Fare. Alla triade sua, dunque, di mosso, mosso e movente, e puro movente, contrapponghiamo in vece quella di Fatto, di Fatto ch’è Fare, e di puro Fare. E il moto mostreremo essere principio di categorie, com’ha provato Trendelenburg che ha rinnovellato e ringiovanito la dottrina d’Aristotile, e che nominiamo insin da ora con venerazione e amore di discepolo: però ci pare che si debba volgere a miglior sentenza ch’ei non tenne. Ora basti questo adombramento del sistema in particolare, e torniamo in fretta là, d’onde sviammo, al sistema in genere.

Il Fatto, avendo concreato e virtuoso desiderio di [p. 11 modifica]moversi al puro Fare, è un organamento dove cotale desiderio, come potenza ascosa, opera per l’apparizione sua. E le scienze che si volgono dentro a una speziale cerchia del Fatto, quando vi scuoprono la detta vaghezza e s’internano sin nella finalità di quello, acquistano dignità di filosofia. La quale per ciò in antico non ebbe ben segnati i suoi termini. Platone e Aristotile, invero, oltre al pigliare la filosofia in istretto senso la intendono altresì largamente, comprendendo tutte o buona parte delle scienze dentro quella, come puoi vedere nel Teaeteto 8 e nel libro quinto della Metafisica 9. E anco il nostro Dante dice nel Convito 10: Per lunga consuetudine le scienzie nelle quali più ferventemente la Filosofia termina la sua vista, sono chiamate per lo suo nome. Ed io aggiungo che i termini di essa vannosi sempre più dilargando, e tempo verrà che ogni sapere sarà Filosofia; e ciò quando la vista della mente sarà divenuta cotanto perspicace da iscorgere il fine di Dio in ogni cosa.

Or persona ci potrebbe probabilmente dimandare: Vi può esser filosofo che non professi alcun sistema speciale? Ciò è come a dire se vi può esser filosofo che non sia filosofo; conciossiachè, ponghiamo sia vero che la filosofia abbia per obbietto suo il Fare che allumina e costrigne e aduna il Fatto, allora potrebb’ella non essere un sistema di concetti, quando l’universo non fosse un sistema di cose. E per fermo un filosofare senza sistema non è vero sapere, ma opinare. Ma è egli possibile il sistema? Sì, se la mente può isperare il multiplo all’uno; se può giugnere al Fare che finisce e collega il Fatto che si [p. 12 modifica]gemina in obbietto e suggetto; al fare che, essendo unimento vivo dei detti due termini, rende possibile la cognizione che sovra la communione e rispondenza loro si posa. Or posto che il pensiero nel suo primo movimento riconosca sè non com’ente bensì come Fatto, come essenzialmente relazione ad un altro, bisogna che communichi col Fare ch’è la chiarità del pensiero stesso in quanto ch’è relazione per essenza, ed è la vegghiante virtù che lo ispinge a muoversi e a rifarsi e a rifare, senza la quale communione il pensiero saria impossibile e dormiente, e, usando la locuzione dell’Alighieri, anco rispetto a sè sarebbe ad ogni conoscenza bruno. Posto che la mente in sè e in quello ch’è fuori conosca inabitare alcun fine; dappoichè il fine è pensiero; ella conoscendo in sè e in quello ch’è fuori inabitare un pensiero che da lei non è uscito, non dee e può anco per questa via entrare in communione col mentovato Fare come mente prima? Che se il Fatto è ragionevole, non c’è un fare ch’è ragione? Quegli che materialmente studiano la materia danno la baja a chi ragiona dell’universo come abitacolo del pensiero; che, dove l’hai tu veduto, dicono, tu che ne parli così securamente? Io riferirei loro un esempio. Vedi questa gentil cosa dell’occhio? tu mi consenti che tra la struttura sua e le leggi della luce, avvegnachè ella abbia le sue fonti ad infinita distanza, è una rispondenza perfetta; e che l’occhio veggente è quasi la schiarita coscienza della luce, e che per la luce l’occhio è visibile a sè stesso. Ora l’occhio non creò la luce, la luce neppure formò l’occhio, nè al suo formarsi sopravvegghiò nè rivolse alcuno sguardo, imperciocchè l’occhio siasi fabbricato dentro al [p. 13 modifica]bujo opificio del claustro materno 11. Dunque chi prestatuì l’armonia ch’è tra l’occhio e la luce? Colui che preparò codesta profonda commisuranza d’occhio e di luce può egli essere non veggente e giacere nella tenebra? E qual altro veggente havvi prima dell’occhio e della luce, se non il pensiero? A questo medesimo si giugne per altra via. Domando: L’occhio che fa? Vede. Dunque il vedere è effetto dell’occhio, e l’occhio è causa. Ma, da altra parte, l’occhio perchè fu fatto? A fine di vedere. Perchè ha l’umore che piglia nome dall’acqua, e quello che dal vetro, e quello che dal cristallo; e perchè hanno necessariamente questo sito, questa distanza, questa densità e questa figura? A fine di vedere. Di fatto provatevi, dice nella elegante sua forma il Bartoli, a fare una piccola variazione, e l’occhio già più non serve al suo ministerio: perocchè ne saranno scompigliate le refrazioni del lume che gli entra per lo foro della pupilla, e i raggi d’esso più non s’uniranno in punta a dipingerli su la pellicella del fondo l’immagine caopvolta dell’obbietto visibile. Dunque il fine del vedere è quello che architettò l’occhio, ed è la essenza stessa dell’occhio; chè, occhio che non vede, è un cadavere di se stesso, sepellito nella sua medesima fossa 12. Dunque poni mente che a dire l’occhio vede, cioè il vedere è effetto dell’occhio, che segue l’occhio quanto a tempo; e poi a dire che l’occhio fu fatto a fin di vedere, cioè che il [p. 14 modifica]vedere come fine è il fabbro dell’occhio, e precede per tempo l’occhio; noi ci siam messi dentro d’un circulo che’, come una stessa cosa in riferimento a una stess’altra è causa ed effetto, prima e dopo? Come uscire di codesto circulo? Mediante il pensiero. Il vedere che forma l’occhio, lampade del corpo, non è un vedere corporale, bensì un vedere ch’è pensiero, ed esce dalla mente: esso fabbrica l’occhio, come stromento suo, a fine d’apparire; e, come pensiero essendo perito e chiaroveggente, prestatuisce l’armonia tra l’occhio e la luce. Il circulo mentovato si ripresenta da per tutto: i piedi camminano, ma il camminare ha drizzato i piedi; la bocca parla, ma la stessa parola ha fatto la bocca; l’orecchio ode, ma lo stesso udire ha fatto l’orecchio e così via via: e codesto circulo si discioglie sempre allo stesso modo, mediante il pensiero. Or se possiamo noi communicare con codesto pensiero, possiamo communicare con l’assoluta Mente d’onde è uscito, cioè col puro Fare; per tanto il sistema è possibile.

Anzi, aggiungo, ogni uomo ha naturale inchinamento a scuoprirlo, perchè essendo esso la più leggiadra fattura dell’assoluto Fattore, esso è necessitato a fare alla simiglianza di lui; chè l’effetto quanto più s’impronta della bontà della causa d’ond’è uscito, tanto più da provvidenza di propria natura è ispinto a divenire causa come quella. Per tanto se Iddio fa il mondo, l’uomo sente innata vaghezza di rifarlo; è l’opera d’arte che vuol diventare artista. Quello che dicono i libri santi che Iddio creò l’uomo alla sua immagine, secondo la sua somiglianza, può anco significar questo medesimo, che Iddio creò l’uomo convenevole a rifar l’universo, però a quel modo che può ciò ch’è fatto rifare sè e l’altre cose. [p. 15 modifica]E in questo proposito lasciate, Signori, ch’io dica un’avvertenza che m’è venuta ora alla mente. L’istesso nome d’Università che voi date a questo onorabile luogo dove s’insegnano tutte le scienze, attesta che in cuore vostro si ha fede che ci sia la scienza d’un sistema che tutte con benevolenza le abbracci. Qui ogni parte della natura è rappresentata dal pensiero. La luce, l’elettrico, il cristallo, la pianta, l’animale, l’uomo, i moti delle sfere che si rivolgono per lo firmamento son qui dalle molteplici scienze schiarati e quasi rifatti. Nondimeno tutte codeste scienze non comporrebbero una università ideale, simolacro vivace dell’universo reale, se non ci fosse la scienza della congiunzione del tutto.

Dico questo, poichè vi ha persone che guardano ogni sistema filosofico disdegnosamente, e lo tengono in conto di vano giuoco della ragione. Ma, a quel modo che il pensiero, anco quando tu lo nieghi, tu lo affermi in virtù della tua negazione medesima; simigliantemente intravviene pel sistema in genere. In vero, allorchè tu nieghi un sistema speziale, se ciò fai con piena sincerità e opinione, tu lo nieghi perchè ti giovi d’un altro sistema che in cuor tuo tieni per vero, e ch’è già dispiegato nella tua mente, o vero tuttavia involuto e che ha già con prestezza preconquistato il tuo assentimento; conciossiachè nessuno possa negare un sistema senza che in alcuna forma lo ribatta nell’animo suo, nè può ribatterlo senza la virtù di talune idee. Or, secondo la sentenza che tutto è in tutto, ogni idea asconde in sè un sistema, stante che ogni idea che da prima appare come fermo e lucido punto nell’intelletto, guardata bene addentro ti [p. 16 modifica]s’adombra, e se poi avvien che si schiari, ti si apre in altre innumerabili idee, le quali alla propria volta si mostrano essere similmente relazioni. Così come quando tu a nudo occhio guardi taluna nebulosa, tu vedi da prima un certo albore indistinto: ma poi, se la rifrughi con un cannocchiale, quella chiarescente nebuletta ti diventa drappelli di molte stelle lucide e bellissime, così per le idee. E veramente ogni idea non è quieta sustanza bensì virtuosa parvenza del puro Fare, ch’è essenziale moto; e al moto ch’è nell’internità delle idee essere dee suggetto il moto della mente umana, se ella non si vuole movere invano. Ponghiamo esempio che persona si facesse meraviglia o beffa del sistema della creazione; se lo fa non fanciullescamente e per giuoco, bensì da uomo di senno, bisogna che abbia più o meno consapevolezza delle assurdità di esso, e che le oppugni. E per oppugnarle è necessario ch’egli si valga d’alcune idee, per esempio quella del diventare, dicendo: il diventare è impossibile, o vero il mondo è un eterno diventare. E questo giudizio se non vuoi che sia campato in aria, è mestieri che tragga valore da un ragionamento, che, quando è affatto dispiegato, è già un sistema bello e buono. Così gli Eleati parlarono in questa forma: Il diventare non è pensabile, perchè contraddittorio, come quello che unisce in sè l’essere e il non essere; dunque il diventare non è; e limite, multiplicità, moto son vane apparenze che ci discendono da’ sensi. Soltanto è, quello ch’è pensabile 13; [p. 17 modifica]e pensabile è solamente l’essere, perchè medesimo con sè stesso e non cela in grembo alcuna contraddizione. Da altra parte, chi ormeggia le tracce d’Eraclito, dice che se il diventare non è pensabile come derivato, però esso è pensabile come originario. Non è derivato, imperciocchè se fosse così, s’avrebbe a supporre un quando esso non era e cominciò ad essere, cioè un cominciamento; ma il cominciamento è per sè un diventare; dunque il diventare si presupporrebbe in quello che se ne cerca dare la ragione. E, andando giù giù, codeste due idee del puro essere e del puro diventare inchiudono in sè un sistema intorno la conoscenza: dappoichè, accettando il solo essere, si niega la possibilità del conoscere, perchè esso richiede distinzion di suggetto e obbietto, cioè il molti; ed ammettendo il solo diventare si niega medesimamente la possibilità del conoscere, il quale vuole costanza e immutabilità del vero. Ecco dunque che se tu nieghi non dico un sistema, ma una idea qualunque, se la negazione tua non è voce bensì parola, tu la nieghi in virtù d’un altro sistema che possiedi in seme o vero esplicato; ondechè sovra la tua negazione istessa si posa l’affermazione del sistema in genere. Per tanto concludo che ancora quegli che niegano la filosofia, se non parlan così per sollazzamento ma da senno, essi devono esser filosofi, conciossiachè la negazion d’una idea qualsivoglia, quando fatta sia con consapevolezza, nasconda già un sistema di filosofia.

Ma se l’universo è uno, e il sistema deve e può esser la rappresentazione di quello, perchè v’ha così molteplici e copiosi sistemi che tutti medesimamente [p. 18 modifica]sono chiamati per l’onesto nome di filosofia? Anzi perchè lo stesso concetto di filosofia è diverso appo i filosofi? Do alcuni esempi: Platone nel libro sesto della Repubblica dice che s’hanno a chiamare filosofi quei che possono attignere ciò ch’è sempre nel medesimo modo 14. Aristotile in un luogo della Metafisica assegna alla filosofia l’ufficio d’essere speculativa dei primi principî e cause 15. Per Kant è razionale conoscenza mediante concetti come tali, differendo dalla mattematica che è razional conoscenza mediante costruzione dei concetti 16. Ella è scienza dell’Assoluto per Schelling, che alla sottile critica kantiana contrappose gli ardiri della intuizione. Per Hegel è sviluppamento del pensiero nel pensiero 17, o vero è il pensiero categoreggiante sè stesso, di modo che il sistema suo è ottimamente detto monismo del pensiero (Monismus des Gedankes). Herbart dice filosofia essere la elaborazione dei concetti 18. E pretermettendo gli altri, colui che nel pensiero suo creò l’Italia, dice filosofia essere scienza della Creazione.

Cotale multiplicità e abbondanza di sistemi fa sì che le popolari persone piglino scandalo della filosofia e che vilipendano malamente codesta scienza, della quale [p. 19 modifica]Platone 19 disse, che gl’Iddii giammai hanno fatto nè faranno giammai un più gran dono alla generazione mortale. Però da prima è da porre mente che la detta varietà non è così grande come pare, stante che i sistemi nuovi e originali son pochi, e che i più non son che questi medesimi in parte trasformati. E, inoltre, si badi che v’ha due spezie di varietà; e l’una non dice contro al vero, l’altra sì. La prima discende da ciò che la ragione, che è quella per la quale tutti intravvedono nella essenza dell’universo, avvegnachè nelle sue forme e leggi sia per tutti medesima, tuttavia è in ciascuno individuata con vivezza dal sentimento ch’è e la stessa internità del suggetto; onde la vista dell’universo è generale e comune a tutti, ed è propria a ciascuno, ritraendo la unità del genere ed insieme la molteplicità delle individuazioni. Anzi è a notare che la generalità e individualità apparisce come gemina virtù dentro il pensiero medesimo, il quale s’invera nel loro buono componimento. E per fermo come per la vita havvi lotta incessante, ed è quella tra la natura esteriore che cerca l’organamento a sè assimilare, e l’organamento che vuole alla sua volta assimilare quella a sè; così pure v’ha lotta per il pensiero, conciossiachè quel ch’è individuale cerchi di comprendere in sè tutto il generale, e questo cerchi dentro di sè quello fare vanire. In codesta lotta si tentano l’un l’altro; imperciocchè il pensiero individuo fa di scuoprire se quello che è riputato pensiero generico sia piuttosto da dire comune, e questo guarda [p. 20 modifica]se quello sia piuttosto da dire strano che peregrino. Nel componimento istà il pensiero virtuoso, chè allora esso non è veramente nè comune nè strano, quando è una determinazione di ciò che si comprendeva già nella vista dell’universale; quando è come il testo genuino del pensiero che si cela nella coscienza della natura umana, bene interpretato; e così tu puoi rendere ragione della industria che ciascun filosofo pone a fine di mostrare il proprio sistema come nuovo e insieme come rampollante dalla tradizione della religione e della scienza, cioè di manifestar sè medesimo come pensante generico e altresì individuo. Essendo adunque l’uomo realmente genere e individuo, per ciò v’è e vi dee essere nel filosofare molte viste varie e insieme vere, appunto perchè la individualità molteplice dei pensanti è anco una cosa vera. E le condizioni del suggetto quadrano ottimamente alle condizioni dell’obbietto, perciocchè l’universo è uno e polilaterale, e può da chi essere sguardato per un rispetto, da chi per un altro, e li sguardamenti possono ben istare d’accordo. Anzi io affermo che non solamente l’universo ma altresì un’idea medesima, permanendo una, da chi è veduta d’un modo, da chi d’un altro, appunto perciocchè secondo noi non v’ha pensiero puro; quell’etere sottilissimo, radissimo, trasparente; bensì ogni idea è sempre materiata d’una mobile immagine, la qual varia nei particulari, come varia la immaginativa dei suggetti, ed è ogni idea variamente appresa secondochè variamente la sua immagine nella memoria si sigilla. Conseguentemente noi affermiamo ch’egli non v’ha, è vero, più filosofie, per essere l’universo uno; nondimeno all’unica filosofia si [p. 21 modifica]giunge per variazioni molte, le quali non sono la sua morte ma la fluente vita e l’istoria. E chi prosume di avere scoperto la filosofia assoluta e immutabile, opiniamo che non ha filosofia alcuna che gli appartenga in proprio; conciossiachè filosofia veramente nostra è quella che contenta i nostri desiderî ed affetti, e che perciò appunto piglia una forma particolare, nella quale la nostra interna figura limpidamente si specchia.

Scheleiermacher dice la coscienza religiosa essere supremamente soggettiva, al contrario la filosofia essere supremamente obbiettiva 20; noi pensiamo che il medesimo si possa dire in parte e non già in tutto come della prima, altresì della seconda, poichè ciascuno individua altresì la filosofia secondo che è individuata la sua ragione. Ecco perchè eziandio quegli che affermano di essere seguaci d’uno stesso sistema, soventi volte sono tra loro in discordia, e lo interpretano in diverse e contrarie forme; come ha dato esempio notabile la famiglia di Hegel ai tempi nostri.

V’ha un’altra varietà che non discende dalla ragione in quanto è abbondosa d’individualità moltiforme, bensì da quella in quanto che è malamente rindividuata dal volere. L’uomo perchè è individuo e genere, sovente è tratto a suggettar tutto sè a sè come individuo o vero come genere: e la filautia dell’uno non temperata da quella dell’altro, si trasmoda, e, speculativamente, si mostra in forma o di grossolano senso o di ragione astratta, vacua, senza la plenitudine della vita. Or si [p. 22 modifica]badi che, come individuo e genere vivono solo in quanto che si consustanziano in uno, per tanto la generalità della ragione senza la polpa e l’ossa del sentimento e della immaginativa è ombra e non cosa; e, viceversa, la individualità sua non ispirata dalla generalità, la intuizione sensitiva non purificata ed ischiarata dalla intuizione dell’intelletto è come morta e grave materia. Onde i sistemi nuvolosi per troppa generalità, o per la soverchia individualità affatto terrestri, cioè i sistemi che inchinano a trattare il Fare o il Fatto separatamente, non colgono nella verace realità dell’universo, bensì nelle apparenze di quello, grossolane, o raffinate e ridotte a ombre d’idee da una ragione che, astraendo, togliere può la vita ma non già resuscitarla. Onde vero è che la filosofia dee essere in qualche modo artistica, dovendo ella ritrarre la intuizione del generale e del particolare, del Fare e del Fatto nella vita e nella bellezza del loro intimo sposamento. E tutti i sistemi sono conseguentemente razionali o in modo compiuto o incompiuto, secondochè la ragione donneggia nella integrità sua, o vero sovrasta in una parte e sottogiace da un’altra; e gli uni cogliendo dentro la realità si convertono in quelli che si domandano reali, gli altri spargendosi fuori per le apparenze possono pigliar nome di fenomenali, dando, come ognun vede, a tutti questi vocaboli il significato più facile e che ad essi è più proprio. Ma è da badare che per la debilità della potenza ragionativa soventi volte, negligendo ciò ch’è reale, ci soffermiamo nelle apparenze, trattando l’ombre come cosa salda. E c’incontra spesso che drizziamo ferventemente la vista in certi primi veri, lucentissimi; ma, quando [p. 23 modifica]vogliamo scuoprire tutti i loro irraggiamenti per entro alle latebre della natura, essi vanno sempre via più discemando di lume, insino che abbujano. Incontra a noi come «a chi guarda col viso per una retta linea, che prima vede le cose prossime chiaramente; poi, procedendo, meno le vede chiare; poi, più oltre, dubita; poi, massimamente oltre procedendo, lo viso disgiunto nulla vede»: così il padre nostro, Dante, nel Convito 21. E, anco ai più fortunati, non vien mai fatto di giugnere alla evidenza piena, ma, al massimo, ad una certa verosomiglianza: di modo che ogni sistema è in piccolissima parte ciò che Platone chiama ἐπιςτήμη o scienza, ch’è vacua d’errore, immutevole, che coglie quel ch’è verace essere (οὐσία); e in grandissima parte è ciò ch’egli chiama δόξα o vero opinione, ch’è media tra la perspicua scienza e la scura ignoranza, che s’indirizza alla generazione (γένεσις), ed è suggetta ad errore ed è variabile 22. E Platone medesimo con ammirevole verecondia assegna alla fede (πίστις), ch’è facultà compresa nel genere della δόξα, lo stupendo dialogo suo sovra la natura 23. Veramente, solo il sistema di Dio è pura scienza (ἐπιςτήμη e σοφία), ma tutti quelli degli uomini non sono, poco dal più al meno, che amoroso studio di quello di Dio; per ciò gli antichi nostri ci tramandarono piamente il nome di filosofia, che non d’arroganza ma d’umiltade è vocabolo, come dice [p. 24 modifica]Dante 24. E l’istesso dice in un altro luogo che la filosofia è in Dio per modo perfetto e vero, quasi per eterno matrimonio: nell’altre intelligenzie, è per modo minore, quasi come donna dalla quale nella amatore prende compiuta gioja ma nel suo aspetto contentane sua vaghezza 25.

Nasce ora spontaneamente desiderio di sapere qual’è il giudicatorio della veracità de’ sistemi. Per ordinario ogni filosofo reputa per vero il suo; tanto la propria carità ne inganna. V’ha, egli è vero, alcuni, pe’ quali tutti i sistemi son veri come momenti d’un sistema assoluto; però, se tu riguardi bene, vedrai ch’essi sono dispogliati della loro viva individualità, e sono ridotti a nozioni generalissime e magrissime, cioè non son più sistemi, imperciocchè la propria essenza di quelli consista nel loro speciale organamento. Ciascun filosofo, per ordinario, reputa quel sistema essere più ragguardevole, nel quale riconobbe il principio ed il seme delle opinioni sue: e se egli è tratto a particolareggiare il suo giudizio, esalta maggiormente la parte dove si cela cotale principio e fa da quella discendere la reputazione dell’autore. Hegel tiene Eraclito in concetto grandissimo (avvegnachè l’Eraclito suo sia quello ringentilito da Platone e Aristotile), per ciò che colui pone per principio l’assoluto diventare; e dice in proposito di esso: Qui vediamo terra; non v’ha proposizione alcuna d’Eraclito ch’io non abbi accolta nella mia logica 26. Herbart loda gli Eleati, chiamandoli i pensatori migliori per aver essi [p. 25 modifica]appurato l’idea dell’essere dalle flussibili apparenze: che anche per lui l’essere dee dischiudere da sè ogni negazione, anzi dev’essere posizione assoluta 27. Arturo Schopenhauer chiama Empedocle un uomo compiuto (ein ganzer Mann), dappoichè pone a capo del mondo non già l’intelletto, ma amore e odio, come a dire il suo Wille, il volere.

Ed entrando più ne’ particolari, Hegel dice del Parmenide ch’esso è il più famoso capolavoro della dialettica di Platone, perciocchè in quello è adombrato il metodo della conciliazion de’ contrarî, avvegnachè lì i contrarî non si generino ma si presuppongano 28. Per lo contrario Schleiermacher ne fa minor conto, riputandolo fatto in giovinezza, e affermando che v’ha altri dialoghi dove la mente dialettica e speculativa di Platone si appresenta meglio. 29 L’architettonica del sistema di Kant che fa tanta meraviglia a vedere, Herbart dice in un luogo essere il disordine sotto la spezie dell’ordine. E non pure s’osserva così grandissima diversità ne’ giudizî intorno al valore de’ sistemi, ma anco la esposizione e interpretazione di quelli è più o meno intensamente adombrata ed è più o meno vivacemente lumeggiata secondo la interna vista dell’intelletto proprio. Per esempio, le cose che Platone dice intorno alla così detta materia, secondo Hegel non hanno significazione filosofica 30. Eduard Zeller pensa che la materia di [p. 26 modifica]Platone sia il fondamento del non essere del fenomeno, e che per contrario l’idea sia il fondamento dell’essere di quello; e afferma che il fenomeno è l’ombra o la spezzata immagine dell’idea, anzi ch’è l’idea istessa una e immutevole, disfigurata in multipla e divenente 31: altri crede che la materia di Platone non sia schietto nulla, e che il fenomeno non sia già l’idea disfigurata, bensì il portatore della sua simiglianza. Il vero Iddio di Platone, dice Hegel, non è l’Iddio generante «questo è una parola,» bensì il mondo o l’Iddio generato; nel modo simile che pel nostro chiarissimo Spaventa il vero creatore nel sistema di Gioberti non è o non dev’essere l’Ente, bensì lo spirito che lo ripensa. Le idee platoniche Herbart trae in una sentenza sua propria, dicendo ch’elle sono le assolute qualità delle cose, contrapponendole all’assoluto essere degli Eleati 32: per il Kantiano Tennemann elle sono pensieri nell’intelletto di Dio. Proprio a guardare cotanta diversità ne’ giudizî intorno a’ sistemi e nella interpretazione di quelli; e, poi, a vedere con qual forza di convinimento codesti giudizî medesimi si sostengano e, quello ch’è più notabile, come soventi volte nel sostenerli gli animi si riscaldino e malamente trasmodino; il cuore ti si stringe forte e ti viene alla mente quel

Non è il mondan rumore altro che un fiato
     Di vento, che or vien quinci ed or vien quindi,
     E muta nome, perchè muta lato.

Esco quel che da me ne penso: avanti che persona prenda a dar giudizio d’un sistema, fa mestieri che lo [p. 27 modifica]ricostruisca e se ne tenga a mente le parti pi vivaci. Ora e per lo esporre a sè medesimo un sistema e per giudicarlo v’ha un sol lume, quel che vien dall’idea d’universo; perchè ogni sistema dee e vuol essere unità interiore della totalità delle nozioni della mente. Di fatto, ogni sistema vagheggia di essere un organamento simile a quello del mondo; cioè a dire vuol che la legge di sua formazione sia determinata da una idea: la quale inabiti nella multiplicità, come l’anima nel corpo; e che le parti nascano da questa idea ch’è il tutto potenziale; e ch’elle siano ciò che sono, solamente in grazia di quella. Kant nell’architettonia della ragion pura dice anche del sistema ch’esso è «un tutto membrato (articulatio), e non accumulato (coacervatio); ch’egli può certo crescere internamente (per intussusceptionem) e non di fuori (per appisitionem), come un corpo animale il cui crescimento non aggiunge alcun membro, bensì rende, senza mutazion di proporzione, ciascuno più robusto e operoso secondo il fine proprio. Conseguentemente quando tu esponi, fa mestieri che tu ponga mente al tipo che si cerca manifestare nel sistema, e vegga quale e quanta è la sua virtù assimilativa e crescitiva; e quando cosa all’intiero organamento paia strana perchè non assimilata ma apposta, e tu tienla in minor conto, tranne se un nuovo e diverso tipo di organamento vi si nascondesse. la dottrina sincera di Platone su le idee è quella esposta nel Parmenide, spezialmente nel modo come da alcuni viene commentato, o nel Timeo? 33 e se diverse [p. 28 modifica]sono conciliabili? e quale dee essere interpretata in modo da umiliarsi all’altra? Si guardi attorno a quale di esse due si rigirano tutte le altre dottrine, formando quasi unico e vivo universo, e la risposta non pare che debba essere malagevole. E quando vuoi giudicare un sistema, tu dei fare per forma che non sia tu che proferisca il giudizio, bensì sia esso medesimo; conciossiachè avendo egli un veemente e connato desiderio di essere un vivo universo d’idee, quando al detto desiderio ha satisfato in buona parte, da sè ti dà la novella ch’è nel vero: se poi no, no.

È vano poi quel giudizio che tu dai d’un sistema mediante un altro, vuoi che l’abbia in mente con lucidezza, vuoi che l'abbi in ombra, come incontra quando alle idee assegni un significato diverso da quello che ad esse è dato dal sistema che tu esamini. Se contro ad Hegel tu di’ quelle vecchie ma bonissime sentenze, cioè il necessario non essere contingente, l’infinito non essere finito e via via, tu perdi la voce e il tempo, perciocchè le mentovate idee abbiano nel sistema di lui un altro valore. Così dunque, a questo modo, mala via si tiene: meglio è, per addurre l’istesso esempio,

[p. 29 modifica]ormeggiare le sue tracce, e contemplar l’edifizio suo, ch’è stupendissimo, non da fuori ma da dentro. Per mo’ di pruova, l’Hegel vuol che l’universo si generi dialetticamente nel puro etere del pensiero: ebbene, tu osserva attento il sublime travaglio di questo nuovo e portentoso Prometeo che vuole rapire all’Olimpo il più occulto foco della scienza. Cominciano dal suo primo, ch’è il pensare puro, che per anco non è nè suggetto nè obbietto. Noi modestamente domandiamo: che è il pensare puro? Si risponde: non è che tutta la seguenza de’ suoi predicati, insino all’ultimo che tutti li aduna, ch’è lo Spirito, lo Assoluto. Il dialettico svolgimento di tutti i predicati, che sono tutti momenti dello Assoluto, compone il sistema, che è perciò una costruzione dell’Assoluto medesimo. Dunque tutto quanto il sistema è come la definizione del pensare: è il dispiegamento di quello che esso in sè contiene.

Or dich’io: il pensare puro è dunque come voto, e allora è veramente pieno di significato, quando da vero s’è pensato e ha veduto tutto quel che contiene; ed esso vede il contenuto suo nell’atto stesso che lo genera dialetticamente, e lo genera nell’atto che lo vede. Dunque il pensare puro per sè è incognita e vana cosa, il cui valore si comincia a determinare per la sua prima genitura, ch’è una categoria o vero un suo generale predicato; e questo è l’essere. Che è il pensare? è essere. Però anco codesto essere, se non ha significato, è parola vacua. Bisogna che tu mi di’. L’essere è la nozione più indeterminata, più astratta, più semplice, più elementare: è il pensare nello stato di non ispiegamento; è il pensare che semplicemente si pone e via via; or [p. 30 modifica]queste nuove idee sono relazioni ad altre idee. Dunque un’idea è idea, cioè non è vano vocabolo, in quanto ch’è relazione viva ad altre, e queste alla volta loro ad altre e così a mano a mano. Dunque un’idea non genera nessun’altra idea dialetticamente, bensì le suppone tutte, e queste suppongono quella. Onde il ripensamento d’un’idea richiede quel tal cannocchiale dell’intuizione di cui hanno fatto i superficiali Giobertiani così malo uso, e che perciò il chiarissimo Spaventa ha cercato di fare in pezzi come inutile strumento. Per vaghezza di colorire alquanto il nostro concetto, entro un po’ nei particulari. L’Hegel passa dall’essere al non essere: e un passaggio bello per brevità è quello che delinea un luogo dove dice che l’essere per la vacuità di contenuto è nulla, e il nulla come pensiero della detta vacuità è essere 34. Or se l’essere fosse idea semplicissima e una e come viene riputata dall’universale, sarebbe come a dire A; ma, ciò posto, come si potrebbe per virtù dialettica passare alla idea del non essere, cioè a una idea non affatto identica, che in tale caso, non vi sarebbe, come nota Kuno Fischer, alcun passaggio, bensì a un’idea in parte diversa, come a dire all’idea C, se in A non fusse celata alcuna idea che sia anco in C? dall’idea A tu passerai all’idea C, allorchè A non t’appaja come semplice A, bensì come AB; e se C non t’appaja come semplice C, sebbene come BC. E, di fatto, Hegel fa il passaggio per la virtù di parecchi intermedi non ancora generati ma trovati. Così, l’essere è A; ma esso è «lo assoluto negativo» 34; or la negazione è una [p. 31 modifica]nuova idea, essa è B: e l’assolutezza è ancora un’altra nuova idea, essa è B'. Dunque non l’idea dell’essere come tale t’ispinge a quella del non essere, bensì la virtù d’intermedî i quali la ragione afferma immediatamente, e questo tale immediato affermare non è che un immediato vedere. Per ciò il trapassamento dall’essere al non essere non è per dialettica generativa, come appare, ma sì per intuizione continua sotto spezie d’intuizione discreta, cioè per dialettica discernente la simultanea intuizione che la mente ha della divina figliolanza delle idee. Codesta forma di giudicare, ch’io ora ho adombrata ma non lumeggiata, chiamo io obbiettiva e interiore, e consiste nello internarsi in un sistema sino a scuoprirne il seme mortifero che ha in sè nascosto siccome genitura di ragione confinata: perchè, quel che Platone dice nel Timeo, che «ogni animale porta da natura preordinati nella sua nascita i tempi della vita» si può affermare medesimamente dei sistemi umani.

Ma si dirà da alcuno: codesto giudicatorio che si posa sovr’al principio della universalità interiore e obbiettiva del sistema, quantochè vien da una mente esteriore messo in opera, torna di nuovo in giudicatorio soggettivo e mutabile. Egli è certo che la ragione è capace del vero, che essa come diafana è passata dal raggio delle luci sante delle idee, e che della gentilezza sua non può colui che ragiona dubitare senza contraddizione aperta; tuttavia, da poi che la diafanità sua può ricevere alcuna ombra d’oscurità, ella è eziandio soventi volte fallace avvegnachè non per natura propria: e per questo più che nel giudizio dei singuli s’ha a fare assegnamento nel giudizio della mente del genere. Ella è il principio e l’uno [p. 32 modifica]al quale tutti gl’intelletti sommettono con buona e bella accordanza: dimodochè come il giudicatorio dal lato dell’obbietto posa sul principio dell’universo delle idee; da lato del suggetto posa sul principio somigliante dell’universo delle menti. Or secondo ch’io ne penso, cotale nuovo principio, cotale uno a cui le multiplici intelligenze si rivolgono necessariamente, si disvela nella critica, non ristretta nè a luogo nè a tempo. Mediante quella i pensieri dell’uno si scontrano, pugnano e si rappaciano con i pensieri dell’altro; e la mente di ciascuno addiventa così come nitido specchio delle menti di tutti. Per essa le menti divise, chiuse in sè, si dilargano di fuori dei termini dell’individualità propria, svanendo la molteplicità loro in una nuova unità; e i pensieri diversi si ricompongono in un pensiero che non è di nessuno in particolare, ma è l’unità delle reciproche efficacie di tutt’insieme; il quale appartiene alla mente generale che, quanto alla sua apparizione, è posteriore alla lotta di tutte le singule menti, ma come principio le precede tutte e a provveduto fine le indirizza.

Or il sistema si chiarificherà via maggiormente, e la veggente critica tanto più diventerà perspicace e acuta, quanto si moveranno più le altre scienze: perchè, si badi, la filosofia, ch’è prima a nascere, è l’ultima a perfezionare, rivelandosi così anco nel tempo la natura sua ch’è d’essere scienza del principio e del fine. Per tale rispetto quello che fu detto all’Italia, essere ella la Niobe delle nazioni, vale per la filosofia; essa è la Niobe delle scienze; però più che le gioje di queste è sublime il muto e lungo travagliare e dolorare di [p. 33 modifica]quella. Nè si travaglia essa in vano: chè, s’egli è vero che in ogni sistema che apparisce la critica trova il germe di morte; però ogni sistema che muore lascia alla volta sua un seme di vita, che, procedente il tempo, vigorirà in più cresciture germoglie. Per esempio, le principali leggi della logica, cioè le leggi del pensiero, che valgon più che quelle degli astri, si sono francati dal tempo e dalla morte; esse vivranno sempre: e, da altra parte, le ipotesi per sempre isbandite o morte torneranno a giovamento della vita d’ipotesi nasciture.

Con pazienza e longanimità l’uomo giugnerà allo scoprimento del sistema universale, perchè egli è per provvidenza di propria natura insaziabilmente avido delle ragioni generali delle cose, ed ha un levamento e un’altura tale, che disdegna fermarsi sovra a tutto ciò ch’è particulare. La simiglianza di Dio, che l’informa e move, fallo così disdegnoso. Onde l’istoria della filosofia non è istoria di perpetue distruzioni del pensiero per opera del pensiero, come crede chi, selvaggio della filosofia, si fa beffa della ragione umana; e neppure è istoria di conquiste e trionfi incessabili, come giudica chi prosuntuosamente india la ragione; bensì ella è istoria d’anzie ferventi, di dolori, di speranze, di gioje, di utili conati, di emende e riformazioni e trasfiguramenti di concetti e sistemi: e ciò per contentare l’interna e concreata brama d’ispecchiare in noi la mente assoluta. Ma, quando avrà posa l’anzia della speculante ragione? E giugnerà ella all’ultima trasfigurazione sua? Quando si vestirà ella dell’indumento nuziale? E le sponsalizie sue col Vero quando avverranno? Quando la umanità, finito di raunare le sparte membra del suo corpo e satisfatto ai più pungenti bisogni della vita esteriore, si volgerà più intenta [p. 34 modifica]alla unificazione del suo spirito; quando, accettata una fede in virtù d’unità di ragionamento, accelererà ella il tardo suo moto a raggiungere il fine; e, prossima a passare di là dal deserto e compire il suo travaglioso pellegrinaggio, s’apparecchierà a piantare le sue tende in campi più aperti e luminosi.


Note

  1. Metaph. V, 1. Ed. Didot.
  2. Ivi stesso, I, 2.
  3. Metaph. I, 2.
  4. Ὑλη, τὸ ἐξ οὗ, δυνάμει δν.
  5. Εἶδος, τo τί ἐστι.
  6. Τò διὰ τί.
  7. Τò τέλος, οὗ ἔνεκα. Met. 1, III.
  8. Pagina 143, D.
  9. V, 1 Ed Didot.
  10. Trattato III, Cap. XI.
  11. Vedi il IX capitolo delle Logische Untersuchungen di Trendelenburg, ch’è bellissimo anco secondo arte, dove questo pensiero, ch’è antico, è fatto nuovo.
  12. Così il Bartoli.
  13. Tò γάρ αύτò νοείν εστίν τε καί είναι. Mullachius. Fragmenta Philosophorum Graecorum.
  14. P. 484, A: φιλόσοφοι μέν οί τού αεί κατά ταύτά ώςαύτως έχοντος δινάμενοι έφάπτεσθαι
  15. Metaph. I, 2. Nel libro V, 1 dice: È della filosofia prima speculare l’ente come ente, e che è, e ciò che è in esso come ente.
  16. Krit. der reinen Vern., Methodenl., 3 Hauptst.
  17. Encycl. § 14.
  18. Lehrbuch zur Einl. in die Philos. cap. I, § 1, cap. II, § 4.
  19. Vedi il mio volgariz. del Parmenide e del Timeo, pagina 113.
  20. Erdmann, Geschicte der neuern Philosophie, 1853, pag. 73, parte II.
  21. Trattato III, cap. III.
  22. De Rep. V, p. 477-480.
  23. Volgarizzamenti da Platone per lo stesso autore, pag. 88, edizione di Berlino 1862.
  24. Con. Trat. III, cap. XI.
  25. Con. Trat. III, cap. XII.
  26. Hegel. Geschichte der Phil. Vol. 1, p. 328, Berlino, 1833.
  27. Lehrbuch sur Einleitung di die Philosophie, cap. I, § 3, Leipsig, 1850.
  28. Geschichte der Phil. Vol. II, p.240.
  29. Platons Werke von F. Schleiermacher. Introduzione al Parmenide.
  30. Gesch. der Phil. vol. II, p. 250.
  31. Die Philosophie der Griechen. Parte II, p. 457-474. Tubingen, 1859.
  32. Lehrbuch zur Ein. in die Phil. p. 242.
  33. Questa domanda muove a sè il mio Francesco Fiorentino, professore nell’Università di Bologna, in un libro molto virtuoso, intitolato Saggio storico sulla filosofia greca. Noi fummo compagni di giovinezza, e per qualche tempo tenemmo le stesse vie. Ora egli con la mente s’è volto a nuovo pensiero; ma non ci siamo lasciati col cuore. Qualunque via prenda, io fo festa vedendo chiaramente ch’ei per la fecondità e forza dell’ingegno è deputato a essere continuatore in filosofia delle antiche e recenti glorie della mia vergine e silvosa Calabria.
  34. 34,0 34,1 Philosophische Propädeutik, p.150.