Delle cinque piaghe della Santa Chiesa (Rosmini)/Delle cinque piaghe della Santa Chiesa/Capitolo I

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Capitolo I

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Delle cinque piaghe della Santa Chiesa Delle cinque piaghe della Santa Chiesa - Capitolo II
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CAPITOLO I.

Della piaga della mano sinistra della santa Chiesa, che è la divisione del popolo dal Clero nel pubblico culto1.


5. L’autore del Vangelo è l’Autore dell’uomo. Gesù Cristo venne a salvare tutto l’uomo (Ioan. vii, 23), essere misto di corpo e di spirito. La legge della grazia e dell’amore dovea dunque entrare e impossessarsi, per cosi dire, sì della parte spirituale, come della parte corporea della natura umana; dovea perciò presentarsi al mondo cotale, che ottener potesse questo fine, e, per così dire, dovea esser mista anch’essa, parte componendosi d’idee, parte di azioni, e colla sua parola imperante a un tempo e vivificatrice rivolgendosi alla intelligenza non meno che al sentimento; acciocchè tutto quanto v’avea d’umano, e le ossa aride stesse potessero sentire la volontà del loro Creatore, ed esserne vivificate.

6. Nè bastava ancora che il Vangelo penetrasse tutto l’uomo come individuo. Essendo la buona novella indirizzata a salvare l’umanità intera, non pure dovea agire sugli elementi della natura umana, ma dovea accompagnare colla sua azione divina questa natura senza mai abbandonarla in tutti i suoi sviluppamenti, e sorreggerla in tutti quegli stati suoi successivi, pe’ quali sarebbe passata, acciocchè il suo peso o gravitazione verso il male non la precipitasse alla distruzione, ma presiedesse al suo moto una legge benefica di progressivo perfezionamento; dovea in somma la buona novella mescolarsi e svolgersi di pari passo cogli umani individui, e con questi passare nelle associazioni ch’essi formano; dovea allora rigenerare e salvare ogni società di uomini, la famiglia, la nazione, l’intero umano consorzio dopo aver salvato l’uomo; dovea impor leggi salutifere a tutte queste aggregazioni, e dominarle in nome del Dio pacifico; perocchè le società sono l’opera dell’uomo; e quella legge divina che domina e signoreggia l’uomo, è natural signora e dominatrice altresì delle opere sue.

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7. Gli Apostoli mandati a istruire e battezzare tutte le genti dal divino Maestro, e ammaestrati dalla sua voce e dal suo esempio, si presentarono alla terra come gl’incaricati della grand’opera, e si mostrarono investiti di quella pienezza di spirito che corrisponder dovea a tanta missione.

Essi non tolsero già a fondare una scuola filosofica. Invitati a questo solo, gli uomini non sarebbero concorsi all’apostolica predicazione, che in piccol numero, eziandiochè quella scuola non insegnasse che verità. Così era avvenuto di tutte le sette filosofiche della Grecia, alle quali il concorso non fu già maggiore in ragione della parte di verità che insegnavano, o della minor quantità di menzogna che contenevano. Conciossiachè tutte le lingue insieme non avrebbero che date delle idee sotto varie espressioni; ma sempre idee; quando l’umana natura voleva di più, delle reali operazioni. E gli Apostoli non versarono sull’uman genere sole parole, come avean fatto i filosofi, ma delle opere: nè pure il parlare tutte le lingue sarebbe stato sufficiente all’esito felice di loro intrapresa. Al tempo stesso adunque, che alla parte passiva dell’umano intendimento rivelarono delle luminose verità e dei profondi misterii, e somministrarono ad imitare degli eroici esempii nella lor vita, alla parte attiva poterono dare un potente impulso, e una nuova direzione, e una nuova vita. Si noti bene: quando io parlo delle opere onde i banditori evangelici accompagnarono e completarono l’efficacia di lor parole io non intendo solo di alludere ai portenti che operarono sulla natura esteriore, e co’ quali provarono la divinità di loro missione. La potenza di cui si mostravan forniti, e per la quale piegavano le leggi della natura in ossequio e in testimonio delle verità che annunziavano, tutto al più avea per effetto di convincere gli uomini, che la dottrina loro era vera. Ma la verità della dottrina potea provarsi anche in altri modi; e potean gli uomini esserne convinti, senz’esserne soddisfatti; perocchè, siccome dicevo, se la natura umana aspira di trovare la verità nell’ordine delle idee, e non può quietarsi fino che non l’abbia rinvenuta; essa però ha un’altra esigenza, non meno possente ed essenziale di quella, per la quale aspira continuamente a trovare la felicità nell’ordine delle cose reali, e verso di questa gravita per legge di sua natura.

8. Erano adunque queste opere, colle quali gli Apostoli rinforzarono le alte parole ch’essi rivolsero al genere umano, le virtù da essi esercitate?

Certo, che un bisogno essenziale all’uomo è la virtù; perocchè senza la dignità morale, l’uomo è spregevole a sè stesso; e chi è a sè stesso spregevole, non è felice. E gli Apostoli mostrarono agli occhi degli uomini corrotti un nuovo spettacolo in sè medesimi, tutte quelle virtù, che essi stessi aveano vedute nel loro divino Maestro, e da lui imitate.

Ma che poteva ciò fare? Il bisogno naturale di virtù era oppresso, soffocato nell’uomo dell’idolatria, dal bisogno fattizio d’iniquità; e le virtù dell’apostolato non furono già quelle che trassero dal fondo della umana natura un accento di approvazione, perocchè questo fondo era divenuto un abisso, di cui custodiva l’adito, come cerbero feroce, l’umana perversità, acciocchè ivi dentro luce non penetrasse; ma furono anzi quelle che attizzarono contro gli Apostoli del Signore la ferocia e la crudeltà de’ figliuoli degli uomini, che si sbramarono e compiacquero del loro sangue. La fisonomia stessa della virtù già era dimentica agli uomini, o restava nota solo al loro odio; e dove anco alcuni di miglior volontà avessero ravvisata qualche traccia di sua bellezza, e fossero rimasti tocchi da qualche raggio di sue divine attrattive, la perfezione inarrivabile però, nella quale i Mandati del Cristo la praticavano, non poteva se non accrescere in essi, senza forre morali, la disperazione di conseguirla, e gittarli nell’avvilimento che è figlio alla disperazione, e padre a quella quiete di morte, in che l’uomo rifinito dalla [p. 9 modifica]depravazione spegne tutta la propria attività e si riposa nel vizio conosciuto. Tanto più, che nella vita di que’ nuovi inviati appariva un ordine di virtù straniero all’umanità, perchè soprannaturale: e le virtù soprannaturali, non che conoscere, ma nè pure si potevano giustificare, se non mediante una sapienza che cominciava dal dichiarare insania quanto il senno umano credea fino allora di possedere di più incontrastabile, di più vantaggioso, e di cui più applaudiva a sè stesso.

9. Le dottrine evangeliche adunque non poteano esser rese possenti ed efficaci fino a dover penetrare e signoreggiare l’umanità nei suoi principii e nel suo sviluppamento, nè da’ miracoli stupendi, nè dagli esempii virtuosi di che venivano accompagnate; imperocchè quelli non avevano virtù che di mostrare la verità delle praticate teorie, per sè stesse sterili e inefficaci, e il pregio di questi non si poteva estimare, nè si voleva, da uomini sommersi nel vizio, o al più al più si ammirava dai pochi, vanamente ed in parte, siccome prodigî di esseri straordinarii, non possibili ad imitarsi dal comune de’ mortali. Ond’era dunque quella secreta virtù dalla quale avveniva che le parole apostoliche fossero più che mere parole, e perciò tanto si allontanassero da quelle de’ maestri dell’umana sapienza? Onde derivava quella forza salvificatrice, che assaliva l’uomo fino dentro al recinto ultimo dell’anima, e ivi trionfava di lui? Quali opere singolari aggiungevan gli Apostoli per salvar tutto l’uomo, la parte intellettiva e la parte effettiva, e sommettere tutto il mondo ad una Croce?

Per conoscere queste opere, di cui ebbero comandamento di accompagnare il suono della loro voce i Mandati dal Cristo, conviene richiamare il testo della missione che ricevettero. Che disse loro Gesù Cristo? «Andando, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, e del Figliuolo, e dello Spirito Santo (Matt. xxviii, 19)». Nessun savio umano avea parlato giammai in questa maniera a’ suoi discepoli. In somigliante precetto è determinato ciò che gli Apostoli dovevano fare si relativamente alla parte passiva dell’uomo, come relativamente all’attività di cui egli è fornito. Poichè rispetto all’intelligenza, che è passiva in quanto ha per ufficio di ricevere la verità, veniva detto «ammaestrate tutte le genti,» e contemporaneamente era comandato di rigenerare la volontà, in cui tutta l’attività umana, anzi tutto l’uomo si contiene, dicendosi «battezzandole nel nome del Padre, e del Figliuolo, e dello Spirito Santo»; instituendo così un Sacramento, che è la porta di tutti gli altri, nel quale una occulta virtù ricreatrice del Dio uno e trino dovea operare il rinnovellamento della terra, il risuscitamento della già estinta nel peccato ed eternamente perduta umanità.

10. Furono adunque i Sacramenti, e fra essi il massimo, cioè il Sacramento che nasce dal sacrificio dell’Agnello, il quale avea detto prima di morire in cibandoli delle proprie carni: «Fate questo in mia commemorazione (Luc. xx, 19 — 1 Cor. xi, 24, 25)» que’ riti misteriosi, quelle opere potenti, onde gli Apostoli riformarono il mondo intero. Erano anch’essi questi Sacramenti altrettante parole, cioè segni, ma di quelle parole che non avevano avuto le scuole de’ savii di Grecia: erano le parole, ma di quelle che non ferivano solo gli orecchi materiali, nè solo erudivano l’intelligenza, ma che rivelavano al cuore riavvivato dell’uomo la immortale bellezza della verità, i reali premii della virtù, e che svelavano Dio al sentimento, il Dio nascostosi per non essere contaminato dal tocco dell’impura umanità: eran parole finalmente e segni, ma parole e segni di Dio, parole che creavano un’anima nuova dentro l’antica, una nuova vita, de’ nuovi cieli ed una nuova terra. In somma, ciò che gli Apostoli aggiunsero alla loro predicazione, fu il culto cattolico, che nel Sacrificio, ne’ Sacramenti e nelle preghiere annesse principalmente consiste.

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11. Le dottrine che colla predicazione si diffondevano, erano altrettanto teorie; ma la forza pratica, la forza di operare, nasceva dal culto, onde l’uomo attinger doveva la grazia dell’Onnipossente. Si fu solito di confondere queste due parole morale e pratica, e di dar loro un significato comune, dicendosi egualmente filosofia morale, e filosofia pratica. Così avvenne, che quando il filosofo insegnò i precetti della morale, si persuase con questo solo di essere uomo virtuoso; e che i suoi discepoli col pur udire a insegnare la definizione del vizio e della virtù, si persuasero pure di possedere già in sè la virtù, e di andarsene mondi dai vizii. Infelice umano orgoglio! diabolica superbia della mente, che crede di aver ogni bene compito in sè sola, e che ignora come il conoscere non è altro che un principio tenue ed elementare del bene, e come il bene vero e compito appartenga all’azione reale, alla volontà effettiva, e non al semplice intendimento! E pure quest’arroganza dell’intelligenza è la perpetua seduzione dell’umanità, che si continua tuttodì, dopo aver cominciato quel giorno, che fu detto all’uomo: «I vostri occhi si apriranno, e voi sarete simili a Dio (Gen. iii, 5)».

12. Intanto, quando l’autore dell’uomo tolse a riformarlo, non si appagò di annunziare all’intelligenza i precetti morali; ma diede ancora alla sua volontà la forza pratica di eseguirli. E se questa forza la congiunse a de’ riti esteriori, ciò fu per mostrare che egli la donava gratis all’uomo, e poteva aggiungere quelle condizioni che a lui ben piacessero; e se questi riti volle che fossero altrettanti Sacramenti, cioè segni, egli era perchè riuscissero accomodati alla natura dell’essere, per cui salute venivano istituiti; al quale, essendo intelligente, convenia che per mezzo appunto di segni e di parole si comunicasse la vita e la salute.

13. La grazia, la quale rende forte la volontà, si comunica mediante l’intelligenza; ed è un cotal senso intellettivo quello col quale il cristiano sente il suo Dio, e di questo sentimento vive, ed è possente nell’opera. E gli Apostoli, e i loro successori, che a’ pochi Sacramenti istituiti da Cristo aggiunsero gli ornamenti di sante preghiere, di cerimonie, di esteriori significazioni e riti nobilissimi, acciocchè il pubblico culto del Redentore degli uomini riuscisse più conveniente per decoro all’Uomo-Dio, ed all’assemblea di quelli che credevano nella sua parola; seguirono in far ciò l’esempio dato loro dal Maestro divino; cioè non introdussero cosa alcuna nel tempio priva di significazione: e tutto parlare, tatto significar doveva alte e divine verità; poichè niente poteva essere muto e privo della luce del vero quanto si faceva nelle sacre ragunanze, dove convenivano ad adorare e pregare l’Essere che irraggia le intelligenze delle creature intellettive; e dove la Intelligenza suprema che riceveva l’ossequio ragionevole, segnava di sè, e di sè penetrava e vitalmente accendeva quelle nature. E queste cerimonie, questi sacramentali che la Chiesa, secondo la potestà ricevuta, aggiunge alla porzione di culto da Cristo istituita e che di tutto il culto cattolico è fondamento, non solo hanno loro proprie significazioni come i Sacramenti, ma partecipano altresì della forza vivificante di questi onde dai sacri veri significati alla mente, discende al cuore una virtù confortatrice, che riassume e rianima in esso la volontà del bene.

14. Ma facciasi un’altra osservazione sul culto cristiano, introdotto ad un tempo colla cristiana predicazione. Questo culto, al quale Iddio aveva annessa la sua grazia, che dovea rendere gli uomini atti a praticare le dottrine morali che venivano loro insegnate, non fu solamente uno spettacolo presentato agli occhi del popolo, dove il popolo non intervenisse che per vedere ciò che si faceva, e non entrasse egli stesso parte e attore in questa religiosa scena di culto. Poteva certamente il popolo de’ credenti nel Cristo essere ammaestrato col solo vedere ciò che facevasi nella Chiesa, come [p. 11 modifica]semplice spettatore di sacra rappresentazione, e Iddio, padrone assoluto dei suoi doni, poteva, se avesse voluto, aggiungere alla sola vista delle funzioni del culto esercitate da’ sacerdoti l’influenza vivifica della sua grazia. Ma per accomodar tutto all’uomo nel modo il più conveniente, non volle farlo: ed anzi volle che il popolo stesso nel tempio fosse gran parte del culto; e ora sopra il popolo si esercitassero delle azioni, come avviene quando si applicano a lui i Sacramenti e le benedizioni ecclesiastiche; ora l’istesso popolo unito d’intelligenza non meno che di volontà e di azione col Clero, operasse con esso il Clero, siccome in tutte le preghiere dove il popolo stesso prega, dove risponde ai saluti o agl’inviti de’ sacerdoti, dove rende la pace ricevuta, dove offerisce, e dove interviene fino qual ministro di Sacramento, come nel Matrimonio. In somma nella Chiesa cattolica il Clero talora rappresenta Iddio, e parla ed opera sopra il popolo a nome di Dio; e talora anch’esso il Clero col popolo si mescola, e come appartenente al Capo dell’umanità col corpo congiunto, parla a Dio, e da lui attende la operazione misteriosa che il risani moralmente, e rinvigorisca. Sicchè il sublime culto della santa Chiesa è un solo, e risulta dal Clero e dal popolo, che con ordinata concordia e secondo ragione fanno insieme accordati una sola e medesima operazione.

15. Nella Chiesa tutti i fedeli, Clero e popolo, rappresentano e formano quella unità bellissima, di cui ha parlato Cristo quando disse: «Dove due o tre saranno congregati in mio nome consenzienti fra loro in tutte le cose che dimanderanno, ivi io sarò in mezzo di loro (Matth. xviii, 20)»; e altrove, parlando al Padre: «Ed io ho a loro dato quella chiarezza che tu hai data a me: acciocchè sieno una cosa sola, siccome anche noi siamo una cosa sola (Jo. xvii, 22)». Si consideri che questa unità ineffabile di spirito, di cui parla Cristo con sì sublimi parole, e che tanto ripete, trova il suo fondamento nella «chiarezza di luce intellettiva» che diede appunto Cristo alla sua Chiesa, acciocchè i fedeli fossero una cosa sola con lui, aderenti ad una stessa verità, o più tosto a lui che è la verità: e che ad essere perfettamente consenzienti in quelle cose, che domandano a Dio coloro che si ragunano a supplicarlo di ciò che abbisognano, è necessario che tutti intendano quello che dicono nelle preci, le quali innalzano in comune al trono dell’Altissimo. Quell’umanità perfetta di sentimenti e di affetti è dunque quasi condizione che mette Cristo al culto che rendono a lui i cristiani, acciocchè esso culto gli sia accettevole, ed egli si trovi nel mezzo di loro; ed è degno di osservazione, con quanta efficacia Cristo esprima questa condizione o legge che contraddistinguer dee la vera preghiera cristiana, e separarla dall’ebraica, che in un culto materiale e in una fede implicita consisteva; perocchè non si contenta col dire che i suoi fedeli preghino insieme uniti, e che preghino con consenso di volontà; ma espressamente dice, che li vuole uniti «in tutte le cose che a lui addimandano.» Tanto è sollecito Cristo dell’unità de’ suoi! unità non di corpi, ma di mente e di cuore, per la quale unità la plebe cristiana di ogni condizione, raccolta a piè degli altari del Salvatore, non forma più che una persona, ed è quell’Israello che, secondo la frase delle divine carte, pugna e s’innoltra come «un sol uomo». Ed ora quando mai più s’avvera, che tutta la plebe cristiana è consenziente in tutte le cose, e perfettamente una, se non allora che i cristiani adunati nel tempio eseguiscono concordi le sacre funzioni, tutti sapendo ciò che ivi fanno, ciò che vi si fa; tutti trattando gli stessi comuni interessi; tutti in somma entrando nel divino culto non solo materialmente, ma con perfetto intendimento de’ sacri misteri, delle orazioni e simboli e riti i onde il divino culto si compone? Egli è dunque necessario che il popolo possa intendere le voci della Chiesa nel culto pubblico, che sia istruito di ciò [p. 12 modifica]che si dice e si fa nel santo sacrificio, nell’amministrazione de’ Sacramenti, e in tutte le ecclesiastiche funzioni: e però l’essere stato il popolo pressochè diviso e separato d’intelligenza dalla Chiesa nel culto, è la prima delle piaghe aperte e sparte che grondano vivo sangue nel mistico corpo di Gesù Cristo.

16. Più cagioni v’ebbero d’una sì dolorosa e infausta divisione; ma due sembrano essere state le principali.

Ne’ simboli istituiti da Cristo, e ne’ riti aggiunti dalla Chiesa, viene espressa e quasi effigiata tutta la dottrina, sia appartenente al dogma o alla morale del Vangelo, in una lingua comune a tutte le nazioni, cioè nella lingua de’ segni, che mettono sott’occhio le verità in rappresentazioni visibili. Ma questa quasi lingua naturale e universale ha bisogno, per essere a pieno intesa, che quegli a cui è diretta, abbia prima in sè medesimo la cognizione delle verità, la cui ricordanza si vuole con essa suscitare nell’animo suo. E però il popolo cristiano tanto meno intende e prende degli alti sensi che esprime il culto cristiano, quanto è meno instruito coll’evangelica predicazione. Di che Cristo volle che precedesse alle azioni del culto, l’insegnamento della verità; e prima di dire «battezzate le nazioni», disse agli Apostoli suoi «ammaestratele». La scarsezza adunque di una vitale e piena istruzione data alla plebe cristiana (alla quale nuoce il pregiudizio gentilesco messosi in molti, che giovi tenerla in una mezza ignoranza, o che non sia atta alle più sublimi verità della cristiana Fede), è la prima cagione di quel muro di divisione che s’innalza fra lui e i ministri della Chiesa.

17. Dico di piena e di vitale istruzione; perocchè, in quanto all’istruzione materiale, abbonda forse più in questi che in altri tempi. I catechismi sono nelle memorie di tutti: i catechismi contengono le formole dogmatiche, quelle ultime espressioni, più semplici, più esatte, alle quali i lavori uniti insieme di tutti i Dottori che fiorirono in tanti secoli, con ammirabile sottigliezza d’intendimento, e soprattutto assistiti dallo Spirito Santo presente ne’ Concilii e sempre parlante nella Chiesa dispersa, ridussero tutta la dottrina del Cristianesimo. Tanta concisione, tanta esattezza nelle formole dottrinali è certamente un progresso; la parola è resa tutta e sola verità; una via sicura e tracciata, per la quale gl’institutori possono far risuonare, senza molto studio lor proprio, agli orecchi de’ fedeli che istituiscono, i dogmi più reconditi e più sublimi. Ma egli è poi egualmente un vantaggio che i maestri delle cristiane verità possano essere dispensati da un loro proprio e intimo studio delle medesime? Se è reso loro facile il fare udire agli orecchi dei fedeli che istituiscono, delle formole esatte; è egualmente reso facile il far entrare queste formole anche nelle loro menti? farle discendere ne’ loro cuori, dove non giungono se non per la via della mente? L’essere la dottrina abbreviata; l’essere le espressioni, di cui essa si è vestita, condotte a perfezione e all’ultima esattezza dogmatica, e soprattutto l’essere immobilmente fisse e rese per così dire uniche; ha egli forse cagionato che sieno rese alla comune intelligenza anche più accessibili? Non è forse da dubitarsi per lo contrario, che una certa moltiplicità e varietà di espressioni fosse un mezzo acconcio di introdurre negli animi della moltitudine la cognizione del vero, giacchè una espressione chiarisce l’altra, e quella maniera o forma che non si acconcia ad un uditore, è mirabilmente accomodata ad un altro; in somma col chiamare in aiuto tutta per cosi dire la dovizia moltiplice della divina lingua, non si tentano tutte le vie, non si premono tutti gli aditi pe’ quali la parola arriva negli spiriti degli ascoltatori? Non è vero che una sola ed immobile espressione è priva come di moto così di vita, e lascia pure immobile la mente e il cuore di chi l’ascolta? Non è vero che un istitutore che recita ciò ch’egli medesimo non intende, per quanto scrupoloso sia a ripetere verbalmente quanto ebbe [p. 13 modifica]altronde ricevuto, fa sentire d’avere il gelo su le labbra, e sparge brine anzichè caldi raggi tra’ suoi uditori? E le parole e le sentenze, più perfette e piene che sono, e più richieggono altresì d’intelligenza a toccarne il fondo, e più dimandano di sapienti dichiarazioni; perciocchè alla moltitudine riescono come pane sostanzioso allo stomaco del fanciullo, che nol digerisce fino che non gli si dia rammollato e tritato; e quelle formole, se si vuole, imperfette, che in altri tempi si usavano insegnando i dogmi cristiani, aveano forse nella loro stessa imperfezione questo vantaggio, che non comunicavano all’uman genere la verità tutta intera e soda, ma quasi direbbesi rotta in parti, e il disteso discorso emendava poi il difetto, se ve ne avea, delle espressioni, raccozzava ed univa quelle parti di verità solo nella parola esteriore smembrate: che anzi la verità stessa si raccozzava, per così dire, e si univa da sè medesima nelle menti e negli animi di quelli dove era entrata, e da sè ivi edificava sè medesima e si completava. Certo la verità non può operare negli spiriti, se in luogo di lei, ci contentiamo del suo morto simulacro, di parole che la esprimono bensì esattissimamente, ma la cui esattezza poco giova più che a muovere la sensazione dell’udito, giacchè quelle parole incespano, e muoiono negli orecchi. Vero è che trattandosi ora di ammettere a’ maggiori Sacramenti della Chiesa un fanciullo, si dimanda con sollecitudine s’egli sappia i principali misteri. Egli ne recita le formole: e questo è prova ch’egli li sa. Pure è ancora a dubitarsi assai, se il fanciullo il quale pronuncia a memoria le parole del catechismo, conosca di quei misteri un tantino più dell’altro che mai non le ha udite. Ma che? L’introduzione dunque moderna de’ catechismi è stata più di danno che di vantaggio alla santa Chiesa? Strano sarebbe, se ciò fosse, l’effetto arrecato da una istituzione che tanto prometteva considerata in sè medesima. Ma è a dirsi di que’ compendii ammirabili del cristiano insegnamento, quello che l’Apostolo diceva della legge di Mosè; «ch’essi sono certamente e santi e giusti e buoni; ch’essi sono utili in mano di chi legittimamente li usa (Rom. vii, 12 — 1. Timoth. 1, 8)». È dunque il difetto nell’uomo, e non nella cosa. Il catechismo all’uso moderno è invenzione ed ottima in sè medesima, e che dovea nascere nella Chiesa per la legge di progressione a cui sono soggette tutte le umane cose dal Cristianesimo sorrette. Il Clero ci pensi: a lui sarà dimandato conto del bene o del male che avrà prodotto così questa, come tutte le altre mirabili istituzioni di cui lo Spirito Santo arricchisce continuamente la Chiesa del Verbo, e che, morte da sè sole, aspettano la loro vita dalla sapienza del Clero.

18. Ma non solo i riti parlano a’ cristiani. Alla lingua di azione, ai segni dell’occhio, Cristo nell’istituzione del culto, e la Chiesa aggiunsero i segni dell’udito, cioè la parola vocale, e questa necessariamente dovette variare secondo la diversità delle nazioni. Contro questo impedimento ad una pronta comunicazione, la Providenza ebbe apparecchiato l’impero romano, che formando di innumerevoli nazioni una sola comunanza, aveva portata la lingua latina quasi fino alle estremità della terra; e i popoli chiamati al Vangelo si trovarono possedere una loquela comune, per la quale intendevano quelle parole, che accompagnano i Sacramenti ed i riti, gli spiegano, ed ancora più gl’informano. Conciossiacchè per questo appunto le parole sono la forma de’ Sacramenti; perchè Cristo con segni più determinati voleva parlare in modo al tutto chiaro all’intelligenza, e parlando ad essa, misticamente operare. E perciò conveniva che la virtù del Sacramento non fosse affissa alla materia che in essi si usa, e che per sè sola è mutola, e niente esprime di determinato; ma bensì alla parola che dichiara all’intendimento l’uso di quella materia, e il fine al quale ella si adopera. E l’intendimento così ricevea luce pel significato delle cose manifestategli, e [p. 14 modifica]forza per la grazia che in quel sacro rito viene ministrata. Ma le guerre e i rimescolamenti de’ popoli mutarono le favelle. La lingua della Chiesa cessò in tal modo, è già gran tempo, dall’essere la lingua de’ popoli, e il popolo si trovò per una sì grande mutazione nella oscurità, diviso per intelligenza da quella Chiesa che seguitò a parlare a lui, e di lui, e con lui; a cui egli non può risponder meglio che possa un peregrino esule in terra straniera, ove non ode che de’ suoni per lui disusati e privi al tutto di significazione.

19. Queste due calamità, l’istruzione vitale diminuita, e la lingua latina cessata piombarono sul popolo cristiano contemporaneamente, e per la stessa cagione cioè per l’invasione che i barbari del settentrione fecero in tutte le contrade del mezzogiorno. Il paganesimo ed il suo spirito era inviscerato nella società; la cristiana dottrina non avea dominato fino a quel tempo che gl’individui. La conversione stessa de’ Casari non era che un acquisto d’individui; possenti sì, ma individui; e ne’ destini del Cristianesimo, a’ quali tutto ubbidisce, era scritto, che la parola del Cristo penetrasse nella società, ch’ella giudicasse le scienze e le arti dopo aver giudicati gli uomini, e che ogni coltura, ogni fiore d’umanità, ogni vincolo sociale sbucciasse di nuovo da lei sola. La Providenza condannò dunque alla distruzione la società antica, e la schiantò fino dalle sue fondamenta. A condurre ad effetto tanto anatema, le orde de’ barbari, guidate dagli Angeli del Signore, succedendosi e raddossandosi le une sopra le altre, non solo rovinarono l’impero romano, ma ne spazzarono fino anco le rovine; e così fu preparato il suolo ignudo al grande edifizio della società novella de’ credenti. Di vero, nel corso dell’umanità, l’età dimezzo è un abisso che separa il mondo antico dal nuovo, i quali non hanno fra di sè comunione più che duo continenti divisi da un oceano interminabile. Nelle bilance della divina sapienza, le due calamità, dell’ignoranza e della perdita della lingua della Chiesa, che si rovesciarono in quelle circostanze addosso ai fedeli si trovarono pesar meno che non sia il bene inteso da lei nella distruzione radicale delle sociali istituzioni e consuetudini della idolatria: e per un giudizio così terribile, l’Eterno affrettò l’avvenimento in sulla terra di una società battezzata anch’essa di sangue, per così dire, e nella parola del Dio vivo rigenerata.

20. Ma se per queste due calamità Iddio permise che la Chiesa sua fosse vulnerata di sì larga piaga, quale è la divisione nelle funzioni del Culto della plebe cristiana dal sacerdozio, sarà ella insanabile una tal piaga? Sarà vero che quella plebe, che nel tempio del Signore per la primitiva istituzione non è solo spettatrice ma attrice in gran parte, non debba conservare appena se non una presenza materiale? Dico appena; imperocchè si fa troppo duro a un popolo d’intelligenza già dirozzata, intervenire stupidamente a dei riti a’ quali egli più non appartiene, e che nè pure egli intende2; e questa sua ripugnanza a frequentare le Chiese cristiane, diventa poi un’ingiusta cagione, per la quale l’indiscretezza umana si fa a tirare sovente ad un senso così strano, e così lontano dal vero, quel compelle intrare del Redentore.

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Ah se le nazioni sono fatte sanabili, molto più sanabili sono i mali della Chiesa; e ingiurioso al suo divino Autore mi parrebbe il pensare, che quegli che pregò l’Eterno Padre di rendere «tutti i discepoli suoi una cosa, come egli e il Padre erano una cosa sola (Jo. xvii, II.)» permettesse poi che per sempre fra la plebe e il Clero durasse un tanto muro di separazione, e che tutto ciò che si dice e si fa nella celebrazione de’ divini misteri, riuscisse pieno di finzioni; permettesse che il popolo, a cui è nata la luce del Verbo e ch’egli stesso è rinato al culto del Verbo, assistesse ai massimi atti di questo culto, quasi volea dire, come vi assistono le statue e le colonne del tempio, sordo alle voci che la sua madre la Chiesa gli volge nei momenti più solenni, quando ella gli parla ed opera in persona ed atto di Chiesa; e che il sacerdozio, segregato dal popolo ad un’altezza ambiziosa perchè inaccessibile, e ingiuriosa perchè ambiziosa, degenerasse in un patriziato, in una peculiare società, voglio dire divisa dalla società intera, con interessi proprii, con linguaggio proprio, con sue proprie leggi e costumi: conciossiachè tali sono necessariamente le deplorabili conseguenze di una cagione piccola in apparenza; le conseguenze a cui andrebbe soggetto indeclinabilmente quel sacerdozio che non istesse più in presenza del popolo, se non forse materialmente, e in realtà fosse assente dalla grande, cioè dalla popolare comunanza de’ fedeli.

21. Ma se la piaga è sanabile, chi applicherà alla medesima il farmaco salutare?

Il Clero. Il solo Clero cattolico è quello che può prima prepararne, e poi ottenerne la guarigione. Sulle sue labbra sta la parola di vita; e Cristo ve l’ha posta a salvamento della umanità; esso è il sale, esso la luce, esso la medicina universale.

Che impedisce adunque che la medicina non si appresti, non si applichi?

Nasce ciò da un’altra piaga della Chiesa, che non manda men vivo sangue della prima, cioè dalla insufficiente istituzione dello stesso Clero.


Note

  1. Non s’intende qui per «divisione» una separazione di comunione e di spirito, chè questa non può mancare mai nella Chiesa di Gesù Cristo; ma l’autore intende per «divisione» solo la mancanza di quella maggior unione attuale, che nasce fra il clero e il popolo, quando questo intende pienamente i riti e le preghiere che quello fa e recita nelle sacre funzioni.
  2. L’istruzione degli Oratorii e delle Congregazioni Mariane fu l’opera di alcuni santi, quali ben videro che la pietà del popolo cristiano avea bisogno di qualche altro nutrimento particolare, non bastando più le pubbliche funzioni della Chiesa. Degli uomini severi, i quali si attengono alla teoria, e poco badano alle nuove circostanze, gridarono fortemente contro tali istituzioni, come quelle che, secondo il loro vedere, sono nuove nella Chiesa, e non conosciute dalla venerabile antichità, e riescono quasi un disdoro alle comuni funzioni della Chiesa, come se queste non bastassero, che pur erano bastate sempre ne’ primi secoli. Ma censori sì severi e sì arditi non pongono mente all’essere le funzioni sacre divenute inaccessibili al popolo; e per l’opposto, S. Filippo Neri, S. Ignazio ed altri tali, a cui stava solo a petto il bene dell’anime diventano testimonii gravissimi della verità delle nostre parole.