Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio/Libro primo/Capitolo 18

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Libro primo

Capitolo 18

../Capitolo 17 ../Capitolo 19 IncludiIntestazione 1 agosto 2011 75% Storia

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In che modo nelle città corrotte
si potesse mantenere uno stato libero,
essendovi; o, non vi essendo,
ordinarvelo.

Io credo che non sia fuora di proposito, né disforme dal soprascritto discorso, considerare se in una città corrotta si può mantenere lo stato libero, sendovi; o quando e’ non vi fusse, se vi si può ordinare. Sopra la quale cosa, dico, come gli è molto difficile fare o l’uno o l’altro: e benché sia quasi impossibile darne regola, perché sarebbe necessario procedere secondo i gradi della corruzione; nondimanco, essendo bene ragionare d’ogni cosa, non voglio lasciare questa indietro. E presupporrò una città corrottissima, donde verrò ad accrescere più tale difficultà; perché non si truovano né leggi né ordini che bastino a frenare una universale corruzione. Perché, così come gli buoni costumi, per mantenersi, hanno bisogno delle leggi; così le leggi, per osservarsi, hanno bisogno de’ buoni costumi. Oltre a di questo, gli ordini e le leggi fatte in una republica nel nascimento suo, quando erano gli uomini buoni, non sono dipoi più a proposito, divenuti che ei sono rei. E se le leggi secondo gli accidenti in una città variano, non variano mai, o rade volte, gli ordini suoi: il che fa che le nuove leggi non bastano, perché gli ordini, che stanno saldi, le corrompono.

E per dare ad intendere meglio questa parte, dico come in Roma era l’ordine del governo, o vero dello stato; e le leggi dipoi, che con i magistrati frenavano i cittadini. L’ordine dello stato era l’autorità del Popolo, del Senato, de’ Tribuni, de’ Consoli, il modo di chiedere e del creare i magistrati, ed il modo di fare le leggi. Questi ordini poco o nulla variarono negli accidenti. Variarono le leggi che frenavano i cittadini; come fu la legge degli adulterii, la suntuaria, quella della ambizione, e molte altre; secondo che di mano in mano i cittadini diventavano corrotti. Ma tenendo fermi gli ordini dello stato, che nella corruzione non erano più buoni, quelle legge, che si rinnovavano, non bastavano a mantenere gli uomini buoni, ma sarebbono bene giovate, se con la innovazione delle leggi si fussero rimutati gli ordini.

E che sia il vero, che tali ordini nella città corrotta non fussero buoni, si vede espresso in doi capi principali, quanto al creare i magistrati e le leggi. Non dava il popolo romano il consolato, e gli altri primi gradi della città, se non a quelli che lo domandavano. Questo ordine fu, nel principio, buono, perché e’ non gli domandavano se non quelli cittadini che se ne giudicavano degni ed averne la repulsa era ignominioso sì che, per esserne giudicati degni, ciascuno operava bene. Diventò questo modo, poi, nella città corrotta, perniziosissimo; perché non quelli che avevano più virtù, ma quelli che avevano più potenza domandavano i magistrati; e gl’impotenti, comecché virtuosi, se ne astenevano di domandarli, per paura. Vennesi a questo inconveniente, non a un tratto, ma per i mezzi, come si cade in tutti gli altri inconvenienti: perché avendo i Romani domata l’Africa e l’Asia, e ridotta quasi tutta la Grecia a sua ubbidienza, erano divenuti sicuri della libertà loro, né pareva loro avere più nimici che dovessono fare loro paura. Questa sicurtà e questa debolezza de’ nimici fece che il popolo romano, nel dare il consolato, non riguardava più la virtù, ma la grazia; tirando a quel grado quelli che meglio sapevano intrattenere gli uomini, non quelli che sapevano meglio vincere i nimici: dipoi da quelli che avevano più grazia, ei discesono a darlo a quegli che avevano più potenza; talché i buoni, per difetto di tale ordine, ne rimasero al tutto esclusi. Poteva uno tribuno, e qualunque altro cittadino, preporre al Popolo una legge; sopra la quale ogni cittadino poteva parlare, o in favore o incontro, innanzi che la si deliberasse. Era questo ordine buono, quando i cittadini erano buoni; perché sempre fu bene che ciascuno che intende uno bene per il publico lo possa preporre; ed è bene che ciascuno sopra quello possa dire l’opinione sua, acciocché il popolo, inteso ciascuno, possa poi eleggere il meglio. Ma diventati i cittadini cattivi, diventò tale ordine pessimo; perché solo i potenti proponevono leggi, non per la comune libertà, ma per la potenza loro; e contro a quelle non poteva parlare alcuno, per paura di quelli: talché il popolo veniva o ingannato o sforzato a diliberare la sua rovina.

Era necessario, pertanto, a volere che Roma nella corruzione si mantenesse libera, che, così come aveva nel processo del vivere suo fatto nuove leggi, l’avesse fatto nuovi ordini: perché altri ordini e modi di vivere si debbe ordinare in uno suggetto cattivo, che in uno buono; né può essere la forma simile in una materia al tutto contraria. Ma perché questi ordini, o e’ si hanno a rinnovare tutti a un tratto, scoperti che sono non essere più buoni, o a poco a poco, in prima che si conoschino per ciascuno; dico che l’una e l’altra di queste due cose è quasi impossibile. Perché, a volergli rinnovare a poco a poco, conviene che ne sia cagione uno prudente, che vegga questo inconveniente assai discosto, e quando e’ nasce. Di questi tali è facilissima cosa che in una città non ne surga mai nessuno: e quando pure ve ne surgessi, non potrebbe persuadere mai a altrui quello che egli proprio intendesse; perché gli uomini, usi a vivere in un modo, non lo vogliono variare; e tanto più non veggendo il male in viso, ma avendo a essere loro mostro per coniettura. Quanto all’innovare questi ordini a un tratto, quando ciascuno conosce che non son buoni, dico che questa inutilità, che facilmente si conosce, è difficile a ricorreggerla; perché, a fare questo, non basta usare termini ordinari, essendo modi ordinari cattivi; ma è necessario venire allo straordinario, come è alla violenza ed all’armi, e diventare innanzi a ogni cosa principe di quella città, e poterne disporre a suo modo. E perché il riordinare una città al vivere politico presuppone uno uomo buono, e il diventare per violenza principe di una republica presuppone uno uomo cattivo; per questo si troverrà che radissime volte accaggia che uno buono, per vie cattive, ancora che il fine suo fusse buono, voglia diventare principe; e che uno reo, divenuto principe, voglia operare bene, e che gli caggia mai nello animo usare quella autorità bene, che gli ha male acquistata.

Da tutte le soprascritte cose nasce la difficultà, o impossibilità, che è nelle città corrotte, a mantenervi una republica, o a crearvela di nuovo. E quando pure la vi si avesse a creare o a mantenere, sarebbe necessario ridurla più verso lo stato regio, che verso lo stato popolare; acciocché quegli uomini i quali dalle leggi, per la loro insolenzia, non possono essere corretti, fussero da una podestà quasi regia in qualche modo frenati. E a volergli fare per altre vie diventare buoni, sarebbe o crudelissima impresa o al tutto impossibile; come io dissi, di sopra, che fece Cleomene: il quale se, per essere solo, ammazzò gli Efori; e se Romolo, per le medesime cagioni, ammazzò il fratello e Tito Tazio Sabino, e dipoi usarono bene quella loro autorità; nondimeno si debbe avvertire che l’uno e l’altro di costoro non aveano il suggetto di quella corruzione macchiato, della quale in questo capitolo ragioniamo, e però poterono volere, e, volendo, colorire il disegno loro.