Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio/Libro primo/Capitolo 30

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Libro primo

Capitolo 30

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Quali modi debbe usare uno principe
o una republica per fuggire questo vizio
della ingratitudine; e quali quel capitano
o quel cittadino per non essere oppresso
da quella.

Uno principe, per fuggire questa necessità di avere a vivere con sospetto, o essere ingrato, debbe personalmente andare nelle espedizioni, come facevono nel principio quegli imperadori romani, come fa ne’ tempi nostri il Turco, e come hanno fatto e fanno quegli che sono virtuosi. Perché, vincendo, la gloria e lo acquisto è tutto loro, e quando ei non vi sono, sendo la gloria d’altrui, non par loro potere usare quello acquisto, se non spengano in altrui quella gloria che loro non hanno saputo guadagnarsi; e diventono ingrati ed ingiusti: e sanza dubbio è maggiore la loro perdita che il guadagno. Ma quando, o per negligenza o per poca prudenza, e’ si rimangono a casa oziosi, e mandano uno capitano; io non ho che precetto dare loro, altro che quello che per loro medesimi si sanno. Ma dico bene a quel capitano, giudicando io che non possa fuggire i morsi della ingratitudine, che facci una delle due cose: o subito dopo la vittoria lasci lo esercito, e rimettasi nelle mani del suo principe, guardandosi da ogni atto insolente o ambizioso, acciocché quello, spogliato d’ogni sospetto, abbia cagione o di premiarlo o di non lo offendere; o, quando questo non gli paia di fare, prenda animosamente la parte contraria, e tenga tutti quelli modi per li quali creda che quello acquisto sia suo proprio e non del principe suo, faccendosi benivoli i soldati ed i sudditi; e facci nuove amicizie co’ vicini, occupi con li suoi uomini le fortezze, corrompa i principi del suo esercito, e di quelli che non può corrompere si assicuri; e per questi modi cerchi di punire il suo signore di quella ingratitudine che esso gli userebbe. Altre vie non ci sono: ma, come di sopra si disse, gli uomini non sanno essere né al tutto tristi, né al tutto buoni; e sempre interviene che, subito dopo la vittoria, lasciare lo esercito non vogliono, portarsi modestamente non possono, usare termini violenti e che abbiano in sé l’onorevole non sanno; talché, stando ambigui, intra quella loro dimora ed ambiguità, sono oppressi.

Quanto a una republica, volendo fuggire questo vizio dello ingrato, non si può dare il medesimo rimedio che al principe; cioè che vadia, e non mandi, nelle espedizioni sue, sendo necessitata a mandare uno suo cittadino. Conviene, pertanto, che per rimedio io le dia, che la tenga i medesimi modi che tenne la Republica romana a essere meno ingrata che l’altre. Il che nacque dai modi del suo governo. Perché, adoperandosi tutta la città, e gli nobili e gli ignobili, nella guerra, surgeva sempre in Roma in ogni età tanti uomini virtuosi, ed ornati di varie vittorie, che il popolo non aveva cagione di dubitare d’alcuno di loro, sendo assai, e guardando l’uno l’altro. E in tanto si mantenevano interi e respettivi di non dare ombra di alcuna ambizione né cagione al popolo, come ambiziosi, l’offendergli, che, venendo alla dittatura quello maggiore gloria ne riportava che più tosto la diponeva. E così, non potendo simili modi generare sospetto, non generavano ingratitudine. In modo che, una republica che non voglia avere cagione d’essere ingrata, si debba governare come Roma, e uno cittadino che voglia fuggire quelli suoi morsi, debbe osservare i termini osservati da’ cittadini romani.