Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio/Libro secondo/Capitolo 30

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Libro secondo

Capitolo 30

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Le republiche
e gli principi veramente potenti
non comperono l’amicizie con danari,
ma con la virtù e con la riputazione
delle forze.

Erano i Romani assediati nel Campidoglio, e ancora ch’eglino aspettassono il soccorso da Veio e da Cammillo, sendo cacciati dalla fame, vennono a composizione con i Franciosi di ricomperarsi certa quantità d’oro; e sopra tale convenzione pesandosi di già l’oro, sopravvenne Cammillo con lo esercito suo: il che fece, dice lo istorico, la fortuna, «ut Romani auro redempti non viverent». La quale cosa non solamente è notabile in questa parte, ma etiam nel processo delle azioni di questa Republica; dove si vede che mai acquistarono terre con danari, mai feciono pace con danari, ma sempre con la virtù dell’armi: il che non credo sia mai intervenuto a alcuna altra republica. Ed intra gli altri segni per gli quali si conosce la potenza d’uno stato forte, è vedere come egli vive con gli vicini suoi. E quando ei si governa in modo che i vicini, per averlo amico, sieno suoi pensionari, allora è certo segno che quello stato è potente: ma quando detti vicini, ancora che inferiori a lui, traggono da quello danari, allora è segno grande della debolezza di quello.

Legghinsi tutte le istorie romane, e vedrete come i Massiliensi, gli Edui, i Rodiani, Ierone siracusano, Eumene e Massinissa regi, i quali tutti erano vicini ai confini dello imperio romano, per avere l’amicizia di quello concorrevono a spese ed a tributi ne’ bisogni d’esso, non cercando da lui altro premio che lo essere difesi. Al contrario si vedrà negli stati deboli: e cominciandoci dal nostro di Firenze, ne’ tempi passati, nella sua maggiore riputazione, non era signorotto in Romagna che non avessi da quello provvisione; e di più la dava a’ Perugini, a’ Castellani, e a tutti gli altri suoi vicini. Che se questa città fusse stata armata e gagliarda, sarebbe tutto ito per il contrario; perché molti, per avere la protezione di essa, arebbono dato danari a lei; e cerco, non di vendere la loro amicizia, ma di comperare la sua. Né sono in questa viltà vissuti soli i Fiorentini, ma i Viniziani, ed il re di Francia, il quale, con un tanto regno, vive tributario di Svizzeri, e del re d’Inghilterra. Il che tutto nasce dallo avere disarmati i popoli suoi, ed avere più tosto voluto, quel re e gli altri prenominati, godersi un presente utile, di potere saccheggiare i popoli, e fuggire uno immaginato più tosto che vero pericolo, che fare cose che gli assicurino, e faccino i loro stati felici in perpetuo. Il quale disordine, se partorisce qualche tempo qualche quiete, è cagione col tempo di necessità, di danni e rovine irrimediabili. E sarebbe lungo raccontare quante volte i Fiorentini, Viniziani, e questo regno, si sono ricomperati in su le guerre, e quante volte ei si sono sottomessi a una ignominia; a che i Romani una sola volta furono per sottomettersi. Sarebbe lungo raccontare quante terre i Fiorentini ed i Viniziani hanno comperate: di che si è veduto poi il disordine, e come le cose che si acquistano con l’oro, non si sanno difendere con il ferro. Osservarono i Romani questa generosità e questo modo di vivere, mentre che ei vissono liberi; ma poi che gli entrarono sotto gl’imperadori, e che gl’imperadori cominciarono a essere cattivi, ed amare più l’ombra che il sole, cominciarono ancora essi a ricomperarsi, ora dai Parti, ora dai Germani, ora da altri popoli convicini: il che fu principio della rovina di tanto Imperio.

Procedono, pertanto, simili inconvenienti dallo avere disarmati i tuoi popoli: di che ne risulta uno altro, maggiore, che quanto il nimico più ti si appressa, tanto ti truova più debole. Perché chi vive ne’ modi detti di sopra, tratta male quelli sudditi che sono dentro allo imperio suo, e bene quegli che sono in su i confini dello imperio suo, per avere uomini ben disposti a tenere il nimico discosto. Da questo nasce che, per tenerlo più discosto, ei dà provvisione a quelli signori e popoli che sono propinqui ai confini suoi. Donde nasce che questi stati così fatti fanno un poco di resistenza in sui confini, ma, come il nimico gli ha passati, ei non hanno rimedio alcuno. E non si avveggono, come questo modo del loro procedere è contro a ogni buono ordine. Perché il cuore e le parti vitali d’uno corpo si hanno a tenere armate, e non le estremità d’esso; perché sanza quelle si vive, e, offeso questo, si muore: e questi stati tengono il cuore disarmato, e le mani e li piedi armati.

Quello che abbia fatto questo disordine a Firenze, si è veduto, e vedesi ogni dì: e come uno esercito passa i confini, e che gli entra dentro propinquo al cuore, non truova più alcuno rimedio. De’ Viniziani si vide, pochi anni sono, la medesima pruova; e se la loro città non era fasciata dalle acque, se ne sarebbe veduto il fine. Questa isperienza non si è vista sì spesso in Francia, per essere quello sì gran regno, ch’egli ha pochi inimici superiori: nondimanco, quando gli Inghilesi, nel 1513, assaltarono quel regno, tremò tutta quella provincia: ed il re medesimo, e ciascuno altro, giudicava che una rotta sola gli potessi tôrre il regno e lo stato. Ai Romani interveniva il contrario; perché, quanto più il nimico s’appressava a Roma, tanto più trovava potente quella città a resistergli. E si vide nella venuta d’Annibale in Italia, che, dopo tre rotte e dopo tante morti di capitani e di soldati, ei poterono, non solo sostenere il nimico, ma vincere la guerra. Tutto nacque dallo avere bene armato il cuore, e delle estremità tenere meno conto. Perché il fondamento dello stato suo era il popolo di Roma, il nome latino, le altre terre compagne in Italia, e le loro colonie; donde ei traevano tanti soldati, che furono sufficienti con quegli a combattere e tenere il mondo. E che sia vero, si vede per la domanda che fece Annone cartaginese a quelli oratori d’Annibale dopo la rotta di Canne, i quali avendo magnificato le cose fatte da Annibale, furono domandati da Annone, se del popolo romano alcuno era venuto a domandare pace, e se del nome latino e delle colonie alcuna terra si era ribellata dai Romani; e negando quegli l’una e l’altra cosa, replicò Annone: - Questa guerra è ancora intera come prima -.

Vedesi, pertanto, e per questo discorso, e per quello che più volte abbiamo altrove detto, quanta diversità sia, dal modo del procedere delle republiche presenti, a quello delle antiche. Vedesi ancora, per questo, ogni dì, miracolose perdite e miracolosi acquisti. Perché, dove gli uomini hanno poca virtù, la fortuna mostra assai la potenza sua; e, perché la è varia, variano le republiche e gli stati spesso; e varieranno sempre, infino che non surga qualcuno che sia della antichità tanto amatore, che la regoli in modo, che la non abbia cagione di mostrare, a ogni girare di sole, quanto ella puote.