Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio/Libro terzo/Capitolo 35

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Libro terzo

Capitolo 35

../Capitolo 34 ../Capitolo 36 IncludiIntestazione 1 agosto 2011 75% Storia

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Quali pericoli si portano
nel farsi capo a consigliare una cosa;
e, quanto ella ha più dello istraordinario,
maggiori pericoli vi si corrono.

Quanto sia cosa pericolosa farsi capo d’una cosa nuova che appartenga a molti, e quanto sia difficile a trattarla ed a condurla, e, condotta, a mantenerla, sarebbe troppo lunga e troppo alta materia a discorrerla: però, riserbandola a luogo più conveniente, parlerò solo di quegli pericoli che portano i cittadini, o quelli che consigliano uno principe a farsi capo d’una diliberazione grave ed importante, in modo che tutto il consiglio di essa sia imputato a lui. Perché, giudicando gli uomini le cose dal fine, tutto il male che ne risulta s’imputa allo autore del consiglio; e, se ne risulta bene, ne è commendato: ma di lunge il premio non contrappesa a il danno. Il presente Sultan Salì, detto Gran Turco, essendosi preparato (secondo che ne riferiscono alcuni che vengono de’ suoi paesi) di fare la impresa di Soria e di Egitto, fu confortato da uno suo Bascià, quale ei teneva ai confini di Persia, di andare contro al Sofì: dal quale consiglio mosso andò con esercito grossissimo a quella impresa; e arrivando in uno paese larghissimo, dove sono assai diserti e le fiumare rade, e trovandovi quelle difficultà che già fecero rovinare molti eserciti romani, fu in modo oppressato da quelle, che vi perdé, per fame e per peste, ancora che nella guerra fosse superiore, gran parte delle sue genti: talché, irato contro allo autore del consiglio, lo ammazzò. Leggesi, assai cittadini stati confortatori d’una impresa, e, per avere avuto quella tristo fine, essere stati mandati in esilio. Fecionsi capi alcuni cittadini romani, che si facesse in Roma il Consule plebeio. Occorse che il primo che uscì fuori con gli eserciti, fu rotto; onde a quegli consigliatori sarebbe avvenuto qualche danno, se non fosse stata tanto gagliarda quella parte, in onore della quale tale diliberazione era venuta.

È cosa adunque certissima, che quegli che consigliano una republica, e quegli che consigliano uno principe, sono posti intra queste angustie, che, se non consigliano le cose che paiono loro utili, o per la città o per il principe, sanza rispetto, e’ mancano dell’ufficio loro; se le consigliano, e’ gli entrano in pericolo della vita e dello stato: essendo tutti gli uomini in questo ciechi, di giudicare i buoni e i cattivi consigli dal fine. E pensando in che modo ei potessono fuggire o questa infamia o questo pericolo, non ci veggo altra via che pigliare le cose moderatamente, e non ne prendere alcuna per sua impresa, e dire la opinione sua sanza passione, e sanza passione con modestia difenderla: in modo che, se la città o il principe la segue, che la segua voluntario, e non paia che vi venga tirato dalla tua importunità. Quando tu faccia così, non è ragionevole che uno principe ed uno popolo del tuo consiglio ti voglia male, non essendo seguito contro alla voglia di molti: perché quivi si porta pericolo dove molti hanno contradetto, i quali poi nello infelice fine concorrono a farti rovinare. E se in questo caso si manca di quella gloria che si acquista nello essere solo contro a molti a consigliare una cosa, quando ella sortisce buono fine, ci sono a rincontro due beni: il primo, del mancare di pericolo; il secondo, che, se tu consigli una cosa modestamente, e per la contradizione il tuo consiglio non sia preso e per il consiglio d’altrui ne seguiti qualche rovina, ne risulta a te gloria grandissima.

E benché la gloria che si acquista de’ mali che abbia o la tua città o il tuo principe, non si possa godere, nondimeno è da tenerne qualche conto.

Altro consiglio non credo si possa dare agli uomini in questa parte: perché consigliandogli che tacessono, e che non dicessono l’opinione loro, sarebbe cosa inutile alla republica o al loro principe, e non fuggirebbono il pericolo; perché in poco tempo diventerebbono sospetti: ed ancora potrebbe loro intervenire come a quegli amici di Perse re de’ Macedoni, il quale essendo stato rotto da Paulo Emilio, e fuggendosi con pochi amici, accadde che, nel replicare le cose passate, uno di loro cominciò a dire a Perse molti errori fatti da lui, che erano stati cagione della sua rovina; al quale Perse rivoltosi, disse: - Traditore, sì che tu hai indugiato a dirmelo ora che io non ho più rimedio! - e sopra queste parole di sua mano lo ammazzò. E così colui portò la pena d’essere stato cheto quando e’ doveva parlare, e di avere parlato quando e’ doveva tacere; non fuggì il pericolo per non avere dato il consiglio. Però credo che sia da tenere ed osservare i termini soprascritti.