Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio/Libro terzo/Capitolo 8

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Libro terzo

Capitolo 8

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Chi vuole alterare una republica,
debbe considerare il suggetto di quella.

Egli si è di sopra discorso, come uno tristo cittadino non può male operare in una republica che non sia corrotta: la quale conclusione si fortifica, oltre alle ragioni che allora si dissono, con lo esemplo di Spurio Cassio e di Manlio Capitolino. Il quale Spurio, essendo uomo ambizioso, e volendo pigliare autorità istraordinaria in Roma, e guadagnarsi la plebe con il fargli molti beneficii, come era dividergli quegli campi che i Romani avevano tolto agli Ernici; fu scoperta dai Padri questa sua ambizione, ed in tanto recata a sospetto, che, parlando egli al popolo, ed offerendo di darli quelli danari che si erano ritratti dei grani che il publico aveva fatti venire di Sicilia, al tutto gli recusò, parendo a quello che Spurio volessi dare loro il prezzo della loro libertà. Ma se tale popolo fusse stato corrotto, non arebbe recusato detto prezzo, e gli arebbe aperta alla tirannide quella via che gli chiuse. Fa molto maggiore essemplo di questo, Manlio Capitolino: perché mediante costui si vede quanta virtù d’animo e di corpo, quante buone opere fatte in favore della patria, cancella dipoi una brutta cupidità di regnare: la quale, come si vede, nacque in costui per la invidia che lui aveva degli onori erano fatti a Cammillo; e venne in tanta cecità di mente, che, non pensando al modo del vivere della città, non esaminando il suggetto, quale esso aveva, non atto a ricevere ancora trista forma, si misse a fare tumulti in Roma contro al Senato e contro alle leggi patrie. Dove si conosce la perfezione di quella città, e la bontà della materia sua: perché nel caso suo nessuno della Nobilità, come che fossero agrissimi difensori l’uno dell’altro, si mosse a favorirlo; nessuno de’ parenti fece impresa in suo favore: e con gli altri accusati solevano comparire, sordidati, vestiti di nero, tutti mesti per accattare misericordia in favore dello accusato, e con Manlio non se ne vide alcuno. I Tribuni della plebe, che solevano sempre favorire le cose che pareva venissono in beneficio del popolo; e quanto erano più contro a’ nobili, tanto più le tiravano innanzi; in questo caso si unirono co’ nobili, per opprimere una comune peste. Il popolo di Roma desiderosissimo dell’utile proprio, ed amatore delle cose che venivano contro alla Nobilità, avvenga che facesse a Manlio assai favori, nondimeno, come i Tribuni lo citarono, e che rimessono la causa sua al giudicio del popolo, quel popolo, diventato di difensore giudice, sanza rispetto alcuno lo condannò a morte. Pertanto io non credo che sia esemplo in questa istoria, più atto a mostrare la bontà di tutti gli ordini di quella Republica, quanto è questo; veggendo che nessuno di quella città si mosse a difendere uno cittadino pieno d’ogni virtù, e che publicamente e privatamente aveva fatte moltissime opere laudabili. Perché in tutti loro poté più lo amore della patria che alcuno altro rispetto; e considerarono molto più a’ pericoli presenti che da lui dependevano che a’ meriti passati: tanto che con la morte sua e’ si liberarono. E Tito Livio dice: «Hunc exitum habuit vir, nisi in libera civitate natus esset, memorabilis». Dove sono da considerare due cose: l’una, che per altri modi si ha a cercare gloria in una città corrotta, che in una che ancora viva politicamente; l’altra (che è quasi quel medesimo che la prima), che gli uomini nel procedere loro, è tanto più nelle azioni grandi, debbono considerare i tempi, e accommodarsi a quegli.

E coloro che, per cattiva elezione o per naturale inclinazione, si discordono dai tempi, vivono, il più delle volte, infelici, ed hanno cattivo esito le azioni loro, al contrario l’hanno quegli che si concordano col tempo. E sanza dubbio, per le parole preallegate dello istorico, si può conchiudere, che, se Manlio fusse nato ne’ tempi di Mario e di Silla, dove già la materia era corrotta e dove esso arebbe potuto imprimere la forma dell’ambizione sua, arebbe avuti quegli medesimi séguiti e successi che Mario e Silla, e gli altri poi, che, dopo loro, alla tirannide aspirarono. Così medesimamente, se Silla e Mario fussono stati ne’ tempi di Manlio, sarebbero stati, in tra le prime loro imprese, oppressi. Perché un uomo può bene cominciare con suoi modi e con suoi tristi termini a corrompere uno popolo di una città, ma gli è impossibile che la vita d’uno basti a corromperla in modo che egli medesimo ne possa trarre frutto; e quando bene e’ fussi possibile, con lunghezza di tempo, che lo facesse, sarebbe impossibile, quanto al modo del procedere degli uomini, che sono impazienti, e non possono lungamente differire una loro passione. Appresso, s’ingannano nelle cose loro, ed in quelle, massime, che desiderono assai; talché, o per poca pazienza o per ingannarsene, entrerebbero in impresa contro a tempo, e capiterebbono male. Però è bisogno, a volere pigliare autorità in una republica e mettervi trista forma, trovare la materia disordinata dal tempo, e che, a poco a poco, e di generazione in generazione, si sia condotta al disordine: la quale vi si conduce di necessità, quando la non sia, come di sopra si discorse, spesso rinfrescata di buoni esempli, o con nuove leggi ritirata verso i principii suoi. Sarebbe, dunque, stato Manlio uno uomo raro e memorabile, se e’ fussi nato in una città corrotta. E però debbeno i cittadini che nelle republiche fanno alcuna impresa o in favore della libertà o in favore della tirannide, considerare il suggetto che eglino hanno, e giudicare da quello la difficultà delle imprese loro. Perché tanto è difficile e pericoloso volere fare libero uno popolo che voglia vivere servo, quanto è volere fare servo uno popolo che voglia vivere libero. E perché di sopra si dice, che gli uomini nell’operare debbono considerare le qualità de’ tempi e procedere secondo quegli, ne parlereno a lungo nel sequente capitolo.