Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia/Capitolo II

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CAPITOLO II




SE AL TEMPO DELL’INVASIONE DI CARLOMAGNO
I LONGOBARDI E GL’ITALIANI FORMASSERO UN POPOLO SOLO


Due popoli viventi nello stesso paese, e diversi di nome, di lingua, di vestiario, d’interessi, e in parte di leggi, tale è lo stato in cui, per un tempo, nè definito, nè definibile, si trovò quasi tutta l’Europa, dopo l’invasioni e gli stabilimenti de’ Barbari. Le relazioni che dovettero formarsi e sussister tra queste due così differenti, e soprattutto così disuguali società; relazioni fondate per tutto sur un fatto dello stesso genere, la conquista, e nello stesso tempo variamente modificate, nei vari paesi, da infinite circostanze speciali; furono certamente una delle cose più importanti e più caratteristiche d’un tal tempo; e, non meno certamente, anzi per necessità, una delle più manifeste. E con tutto ciò è questo uno de’ punti più oscuri, più ignorati, più trascurati della storia. I cronisti del medio evo raccontano per lo più i soli avvenimenti principali o straordinari, e fanno la storia del solo popolo conquistatore, e qualche volta de’ soli re e de’ personaggi primari di quel popolo. Delle sue relazioni coi conquistati, dello stato di questi, non parlano quasi mai di proposito; e, quando lo fanno occasionalmente, le formole di cui si servono sono per lo più rapide, originali, speciali: si vede che avevano un significato chiaro, e, per dir così, un valor corrente, che per noi è perso; e sono più proprie a somministrare un soggetto di discussione, che uno [p. 105 modifica]schiarimento. Tra tutte poi le memorie del medio evo, le più segnalate per laconismo, per omissioni su tutto ciò che riguarda la popolazione conquistata, sono forse quelle che ci rimangono della dominazione longobardica in Italia.

Malgrado questa scarsità di notizie, c’è, sulle relazioni de’ due popoli, almeno per un certo periodo della loro convivenza, un’opinione espressa con molta sicurezza da scrittori riputatissimi, e ricevuta con fiducia dalla più parte di coloro ai quali piace d’avere, in poche parole, de’ giudizi generali sull’epoche importanti della storia. Ed è che, già prima della conquista di Carlomagno, Longobardi e Italiani fossero diventati un popolo solo. Quest’opinione ci proponiamo d’esaminare.

Il primo, a mia notizia, che l’abbia, non so s’io dica espressa o iniziata, fu Giovanni Villani, con queste parole: «E così per gran tempo signoreggiarono i Longobardi in Italia; tanto che si convertirono in paesani per tutta Italia 1.» Dopo lui (non oserei dire dietro lui), il Machiavelli: «Erano stati i Longobardi dugento ventidue anni in Italia, e di già non ritenevano di forastieri altro che il nome 2.» Poi, con affermazione non meno sicura, e con più apparenza e precisione, il Muratori: «Divenuti Romani e Longobardi un popolo solo, ecc. 3.» Finalmente, con termini ancor più qualificativi, un autor più moderno: «Felice esser doveva anzi che no la condizione dei cittadini sì longobardi che italiani, i quali con loro formavano uno stesso corpo civile, ed una stessa repubblica 4

In queste asserzioni generalissime si trovano affermati molti fatti, e specialmente questi: che nessuna delle due razze aveva diritti politici dai quali l’altra fosse esclusa, val a dire che, tra le condizioni che potevano esser richieste per posseder questi diritti, non entrava punto l’appartenere all’una o all’altra; che, per conseguenza, il potere non era ristretto privativamente in una, che le persone investite d’un’autorità qualunque erano indifferentemente di quella de’ conquistatori, o di quella de’ conquistati, e quindi un Italiano poteva essere il superiore d’un Longobardo, come viceversa; che, se c’erano distinzioni ereditarie di gradi, di titoli, d’autorità, queste distinzioni si trovavano sparse nelle famiglie delle due nazioni; che, in somma, il discendere da Longobardi o da Italiani, era un semplice fatto genealogico, senza alcuna conseguenza politica o civile.

Un tale stato di cose, a que’ tempi, sarebbe certo un fenomeno de’ più singolari della storia; ma questa singolarità appunto deve avvertirci di non ammetterlo, senza buoni argomenti. Quattro, ch’io sappia, ne sono stati piuttosto accennati che esposti; e sono: la lunga durata dell’occupazione; il non avere i Longobardi conservati altri stabilimenti fuori d’Italia; la loro conversione; i matrimoni. Esaminiamo brevemente questi quattro argomenti. [p. 106 modifica] Il primo riposa sur una supposizione affatto arbitraria, cioè che due nazioni non possano, per un tempo anche lunghissimo, abitar lo stesso paese, rimanendo affatto distinte politicamente. In teoria non si vede su cosa sia fondata questa impossibilità. Una nazione armata ne sottomette un’altra, e s’impadronisce del suo territorio; si stabilisce in questo, con possessi e privilegi particolari, che riguarda come il frutto della conquista; mantiene o crea per sè sola dell’istituzioni particolari, destinate a conservarli; trasmette quell’istituzioni di generazione in generazione, usando ogni cautela per evitar la confusione e la mescolanza, perchè queste equivalgono a perdita de’ privilegi stessi: per qual ragione un tale stato di cose non potrà durare tre, quattro, dieci secoli? Perchè cessi, converrà che quelli che ne godono il vantaggio, o ci rinunzino, o ne siano spogliati; ma, per l’uno e per l’altro di questi effetti, non basta il tempo; nel quale, ma non dal quale le cose si fanno. In pratica poi, quella supposizione è smentita da troppi fatti. I Mori non diventarono Spagnoli, i Turchi non son diventati Greci, dopo occupazioni molto più lunghe di quella de’ Longobardi alla fine dell’ottavo secolo. Chi dunque fonda l’identificazione delle due nazioni longobarda e latina sul loro lungo convivere nello stesso paese, ragiona a un di presso come chi dicesse: quel carceriere abita da tant’anni nelle prigioni, che oramai può esser chiamato prigioniero.

Si vede che l’errore cominciò con un equivoco, cioè con qualcosa di vero in un senso, ma che non è il senso a cui si mira: come comincia ogni errore che non sia puramente negativo: s’appoggia alla verità, e ne sporge in fuori, con la tendenza a andar sempre più in fuori. Paesano, forestiero, son vocaboli che possono riferirsi, tanto al paese materiale, quanto a ciò che costituisce la concittadinanza. Nel primo senso, quella proposizione è vera, ma inconcludente: troppo vera, perchè non fa altro che dir la stessa cosa con diversi termini. — I Longobardi, nati in Italia, di padri e da avi nati in Italia, erano, riguardo al luogo della nascita, paesani, non forestieri, in Italia. — Non c’è che ridire: ma non c’è ragion di dirlo. Dunque erano paesani, non erano forestieri, in nessun senso, riguardo agl’Italiani. – Oh! questo no: ci vuol altro.

Il secondo argomento è stato messo in campo la prima volta, se non m’inganno, dal Giannone, in questi termini: «Assuefatta l’Italia alla dominazione de’ suoi Re, non più come stranieri gli riconobbe, ma come Principi suoi naturali; poichè essi non aveano altri Regni o Stati collocati altrove, ma loro proprio paese era già fatta l’Italia, la quale per ciò non poteva dirsi serva, e dominata da straniere genti 5.» Ma è lo stesso equivoco, sotto un’altra forma; e non si può altro che opporgli la stessa distinzione. Non più stranieri, riguardo a che? All’Italia, geograficamente intesa? È, se ci si passa questo vocabolo, un identicismo puerile. All’Italia, moralmente intesa, cioè agl’Italiani? È una falsa conseguenza. E cosa vuol dire quell’altrove? In altri luoghi? Siam sempre lì: c’è altro da vedere. Se, riguardo agl’Italiani, il regno, lo Stato fosse o non fosse collocato altrove, cioè in una società della quale essi non facessero parte, questa è la questione, che il Giannone non vide. Suppose che l’avere una stessa e sola patria materiale costituisca necessariamente la connazionalità. E, a ragionare a modo suo, gl’Iloti avrebbero dovuto riguardarsi come concittadini de’ Lacedemoni, loro conquistatori, perchè questi non avevano regni o Stati, fuori del Pelopenneso.

Gli altri due argomenti sono addotti indirettamente dal Muratori: [p. 107 modifica]poichè, prima d’asserire che «Romani e Longobardi erano divenuti un popolo solo» dice: «Deposero i Longobardi gli errori d’Ario, s’imparentarono coi Romani, cioè con gli antichi abitatori d’Italia.»

Ora in quanto alla religione, è cosa troppo evidente che l’averne le due nazioni una sola, avrebbe potuto bensì facilitar la riunione, ma non ha potuto operarla. Non era nemmeno una condizione necessaria; giacchè, come l’identità della religione non crea punto la concittadinanza, così la diversità di quella non basta punto a impedirla. Gl’Iloti e i Lacedemoni, citati or ora, avevano, oltre la patria materiale, comune anche la religione; e ognuno sa come fossero concittadini. Lo furono, all’opposto, in qualche tempo dell’Impero romano, cristiani e pagani: per non citare una quantità d’esempi moderni. Quest’argomento ha dunque il difetto degli altri due, cioè di far nascere un fatto immaginario da fatti, veri bensì, ma che, riguardo ad esso, non potevano esser cagioni.

Parrà forse, a prima vista, che, lo potesse essere l’altro allegato dal Muratori; ma basta la più piccola riflessione, per far vedere il contrario. I matrimoni tra persone di due diverse nazioni possono bensì far passare delle persone da una nazione nell’altra; ma identificar le due nazioni, neppur per idea. Sabini e Romani rimasero due popoli, dopo il celebre ratto; e sarebbe stato lo stesso, se anche i giovinotti sabini avessero rapite altrettante Romane. Per farne un popolo solo, ci volle un trattato positivo, con una guerra di mezzo. Nec pacem modo, sed et civitatem unam ex duabus faciunt: regnum consociant 6, dice quel Padovano che diceva mirabilmente ogni cosa; e se questa non foss’altro che un apologo, sia citata per quello a cui servon benissimo gli apologhi, cioè, non a provare, ma a render chiaro. Non ci s’opponga, di grazia, che Sabini e Romani non vivevano sullo stesso territorio. Sarebbe un tirar di nuovo nella questione una circostanza che non ci ha che fare, e dimenticarne il punto essenziale, e, di più, un punto che s’è ammesso, e nel genere e nella specie. Infatti, che due popoli possano rimaner due popoli distinti e separati politicamente, abitando lo stesso paese; che questo sia stato, per un tempo qualunque, il caso de’ Longobardi e degli Italiani; son cose ammesse, anzi affermate implicitamente da chi dice che diventaron poi un popolo solo. Ora, per far cessare quel primo fatto e produrre questo secondo, i matrimoni non avevano virtù alcuna. Non occorre nemmeno osservare che, per cagione appunto di quella distinzione e separazione, tali matrimoni dovevano essere molto rari. Fossero anche stati frequenti (come pare che, senza alcuna prova, e contro ogni probabilità, abbia supposto in questo caso il Muratori: e, certo, senza una tal supposizione, l’argomento non sarebbe neppure stato specioso), in qual maniera avrebbero operato il miracolo di far delle due nazioni una sola? Per mezzo de’ figli? Ma cosa si vuol supporre che questi fossero? Longobardi e Italiani insieme? Vorrebbe dire che avevano e non avevano certi diritti, o certe capacità, delle quali, o d’alcuna delle quali toccheremo or ora qualcosa. È egli in uno stato contradittorio e impossibile, cioè nel nulla che due cose possono unirsi, per diventare una sola? Bisogna dunque dire necessariamente che i figli di que’ matrimoni appartenessero a una nazione o all’altra: ed ecco sempre le due nazioni. E che quelli che nascevano da una Longobarda e da un Romano, dovessero appartenere alla nazione del padre, affinchè le donne non potessero portare nelle famiglie romane la nazionalità longobarda, è cosa talmente [p. 108 modifica]verisimile, anzi è talmente la sola verisimile, che si dovrebbe supporla quando non se n’avesse alcun documento. Ma ce n’è; e quell’egregio scrittore, le di cui diligenti, importanti, numerose scoperte saranno sempre un oggetto di riconoscenza, e una scusa abbondante per le sviste che possa aver fatte; quell’egregio scrittore non si rammentò che, in quelle stesse leggi longobardiche che furono ristampate e commentate da lui, sta scritto: «Se un Romano avrà sposata una Longobarda..., questa è diventata Romana, e i figli che nasceranno da un tal matrimonio siano romani, e seguano la legge del padre 7.» Sicchè questo fatto non serve ad altro che a somministrarci una testimonianza della separazione de’ due popoli. N’addurremo alcuni altri che l’attestano ugualmente, e dimostrano quindi quanto l’opinione opposta sia, non solo arbitraria, ma positivamente falsa, in contradizione perpetua con la storia e smentita dai documenti del tempo.

I. Da Rotari, che fu il primo, fino ad Astolfo, che fu l’ultimo de’ re longobardi di cui si siano conservate leggi, tutti, in testa a quelle, si sono intitolati: re della nazione de’ Longobardi 8. Si domanda, se questa denominazione comprendeva tutti gli abitanti d’Italia, o la sola nazione conquistatrice. Se tutti; perchè dunque le leggi stesse distinguono Longobardo da Romano? Se la sola nazione conquistatrice; qual testimonianza, più autentica, più solenne, più concludente può cercarsi della distinzione politica delle due nazioni, che quella de’ re, i quali si chiamano esclusivamente capi d’una di esse: quel re che dai propugnatori dell’unità sono rappresentati come l’anello che le riuniva? Potevano far di più per avvertire il Giannone di non mettere in carta quelle strane parole: «Assuefatta l’Italia alla dominazione de’ suoi re?»

II. Tutti questi re promulgatori di leggi parlano poi dell’intervento de’ Giudici, o de’ Fedeli longobardi, o anche di tutto il popolo. Si domanda anche qui se, per popolo, si deva intendere tutti gli abitanti d’Italia. C’è stato alcuno che abbia detto, o c’è alcuno che voglia dire che gl’Italiani erano chiamati a dare il loro parere sulle leggi de’ Longobardi? E se no, come si può dire, che formino uno stesso corpo civile, una sola repubblica, due popolazioni, una delle quali, o in corpo o per frazione, concorre alla legislazione, e l’altra n’è affatto esclusa? A questo si darà forse una risposta, la quale, diremo anche qui, non può servire ad altro che a somministrare una prova di più al nostro assunto. Si dirà che le leggi promulgate dai re con l’intervento de’ Longobardi, obbligavano questi soli; che i Romani avevano la loro legge; e che a questi non si faceva torto, non chiamandoli a ciò che non li riguardava. Anzi, questo permesso dato ai Romani di vivere secondo la loro legge, è addotto come una prova della clemenza de’ vincitori 9. Lasciamo per ora da una parte la clemenza, della quale si parlerà altrove: fosse questo, o qualunque altro, il motivo del fatto; il fatto medesimo, cioè l’aver leggi diverse, importa tutt’altro che unità delle due nazioni. Pretendere, che Longobardi e Romani fossero un popolo solo, e nello stesso tempo, che i Longobardi fossero un popolo clemente verso i Romani, è un attribuire ai primi due meriti incompatibili: per quanto buona volontà uno si senta di favorirli, bisogna pure scegliere tra i due sistemi di lode. [p. 109 modifica]Si noti qui di passaggio, che il primo e debole principio di concittadinanza tra Longobardi e Romani, pare che si possa vederlo ne’ proemi alle leggi costituite dai re di nazione Franca; ne’ quali, per la prima volta, si fa menzione dell’assistenza de’ vescovi e degli abati 10. Se, come pare più che probabile, si deve intendere di tutti i prelati del regno, e non di quelli soli che fossero longobardi o franchi, si comincia qui a veder qualche Italiano prender parte a un atto politico: per lo stesso mezzo che i Gallo-romani in Francia; ma molto più tardi, troppo più tardi, e quindi con troppo diversi effetti.

III. S’è mai citato, non dico tra i re, ma tra i duchi, tra i giudici, tra i gastaldi, tra i gasindi regi, tra le cariche di qualunque sorte del regno longobardico, il nome d’un personaggio latino? In quell’ammasso di notizie, vere, false, dubbie, che si chiama storia de’ Franchi, si trova almeno qualche ambasciatore, qualche capitano romano, e fino un re, o capo temporario 11; e questo è stato un grande argomento per quegli scrittori sistematici che hanno voluto provare che i Franchi, impadronendosi delle Gallie, non avevano serbato esclusivamente nella loro nazione l’esercizio del potere. Ma nelle cariche, come nell’imprese de’ Longobardi, prima di Carlomagno, non è mai fatta menzione d’un personaggio italiano, nemmeno con un titolo dubbioso, nemmeno immaginario.

IV. Cosa poi pensassero gl’Italiani e Longobardi medesimi di questo esser diventati un popol solo, n’abbiamo due celebri testimonianze. «La perfida e puzzolentissima nazione de’ Longobardi, che non si conta neppure tra le nazioni, e dalla quale è certo essere venuta la razza de’ lebbrosi 12, dice un Italiano, Stefano III, nella lettera con cui vuol dissuadere i due figli di Pipino dall’imparentarsi con la casa di Desiderio. Fu quattr’anni prima della conquista di Carlomagno: e, di certo, non viene in mente a nessuno, che quel papa volesse parlar di tutti gli abitanti [p. 110 modifica]del regno longobardico. «Per noi altri Longobardi, Sassoni, Franchi, Lotaringi, Baioari, Svevi, Burgondioni, il nome stesso di Romano è un’ingiuria 13,» dice con altre galanterie, un Longobardo, nato probabilmente a Pavia, certamente in Italia, Liutprando, vescovo di Cremona, in risposta a Niceforo Foca, presso cui era inviato d’Ottone I, e che gli aveva detto: «Voi altri non siete Romani, ma Longobardi.» Per ciò che riguarda la nostra questione, Stefano e Liutprando non potrebbero andar più d’accordo. E si noti che quest’ultimo parlava così nel 968. Se l’unione era già compita prima della conquista suddetta, ci sarebbero due secoli di buona misura.

Si potrebbero aggiungere altri argomenti; ma ci par che questi bastino, se non son troppi, per dimostrare che quell’opinione, e non è fondata sui fatti, e gli ha contro. Piuttosto non sarà inutile l’osservare un suo carattere notabile, e un gravissimo effetto.

Il carattere è quell’indeterminatezza, quell’ambiguità, che si trova sempre nell’errore, ma di rado a questo segno. Quando si fosse ammesso a occhi chiusi, che la cosa era, resterebbe ancora da domandar cos’era; giacchè essere i Longobardi e gl’Italiani diventati un popol solo, può voler dire cose molto diverse e che si contradicon tra di loro. Anzi, la prima che volle dire (e nessuno, ch’io sappia, di quelli che adottaron poi una tale opinione, n’escluse quel senso primitivo) si risolve essa medesima in una contradizione o, per dir meglio, in un impossibile. «Si convertirono in paesani; non ritenevano di forestieri altro che il nome,» vuol dire certamente e manifestamente, che il modo speciale con cui si formò la supposta unità de’ due popoli, fu l’essere i Longobardi diventati Italiani. E l’essere i Longobardi diventati Italiani (chi pensi un momento allo stato di cose in cui si suppone che questo sia avvenuto), vuol dire essersi trovati gli uni e gli altri senza quel potere supremo, che può bensì ricevere diverse forme, ma ne richiede una; senza alcun mezzo di far, nè leggi, nè guerra, nè pace, nè trattati di sorte veruna: bella maniera d'essere un popolo! Chè tra gl’Italiani, quando furon conquistati da’ Longobardi, non c’era chi avesse alcuna di queste attribuzioni, poichè non eran altro che sudditi dell’impero greco. Si lasci da una parte la questione de’ municipi: bella e importante quistione, ma estranea alla presente; giacchè cento, mille, ventimila municipi, senza il vincolo di un’autorità comune e suprema, non costituiscono un popolo politicamente inteso (che è ciò che l’argomento richiede) più di quello che un numero qualunque di mattoni costituisca una fabbrica. La conquista fece che gl’Italiani o, per parlar più esattamente, una parte degl’Italiani, cessassero d’appartenere a uno Stato, non che diventassero uno; giacchè nessuno, credo, ha sognato che si siano eletto un capo, o de’ capi, costituiti de’ poteri, creata un’organizzazione politica, all’andarsene de’ Greci, e sotto la protezione de’ Longobardi. Non avevan nemmeno, nelle loro relazioni con questi, un nome nazionale e loro proprio: eran chiamati Romani, cioè col nome medesimo che i Sassoni, i Franchi, e gli altri signori enumerati da quel così italiano Liutprando, davano ai loro conquistati: nome che significava una classe di diversi paesi, non il popolo d’un paese, una condizione, non una nazione: nome simile, per questo riguardo (dico: per questo riguardo; e chi volesse farmi dir di più, io non ci ho colpa), a quello di servi. Siam noi che li chiamiamo Italiani; e facciamo bene; perchè il non esser contati per una nazione, non faceva che non lo [p. 111 modifica]fossero; e sarebbe troppo strano che, per conservar le buone usanze dei barbari del medio evo, non dovessimo poter nominare gli antichi abitatori dell’Italia che con un nome comune a quelli di tant’altre parti d’Europa. Ma quest’usanza medesima è la conseguenza e, per dir così, l’espressione d’un fatto, e del fatto concludente per la questione. Longobardi e Italiani erano, in un senso, due nazioni ugualmente; ma una formava un corpo politico; l’altra no. E quindi l’essere i Longobardi diventati Italiani, importerebbe la distruzione del solo corpo politico che ci fosse nella parte d’Italia posseduta da loro; vorrebbe dire una società composta solamente di sudditi, cioè, come s’è detto qui da principio e come t’era detto in un caso simile, un fatto contradittorio, impossibile.

Proporrebbe bensì un’ipotesi, non dico fondata, ma intelligibile, chi dicesse invece, che gl’Italiani eran diventati Longobardi, e che in questa maniera le due nazioni formavano un popol solo. Che delle materie inorganiche, assorbite e assimilate da un corpo organizzato, partecipino della sua vita, e formino con esso un tutto, è una cosa che s’intende. E dobbiam noi credere che questo sia il senso sottinteso dell’altra proposizione, «formavano uno stesso corpo civile, una stessa repubblica?;» cioè che la nazione in cui questo non c’era, fu ammessa, o a poco a poco, o tutt’in una volta, a far parte di quella in cui c’era? O vuol dire che l’una e l’altra, per delle cagioni, con de’ mezzi, in una maniera qualunque, s’unirono a costituire in comune un nuovo corpo civile, una nuova repubblica? o che un’altra forza qualunque volle e potè procurare alla nazion conquistata, imporre alla conquistatrice, una tal comunione? Può voler dire ognuna di queste cose, che equivale a non dirne nessuna. Ed è naturale: l’autore di quella frase, uomo tutt’altro che ignaro de’ fatti materiali dell’epoca longobardica, non avrebbe potuto pensare a qualsiasi di queste ipotesi, senza veder subito che non aveva il più piccolo fondamento nella storia. E tanto era lontano dall’aver su questo punto un’idea distinta, che nella Dissertazion medesima, e poco prima, aveva detto che, regnando Autari, «gl’Italiani e i Longobardi, cominciavano già ad essere come nazionali della stessa patria 14:» dove pare che non pensasse punto a quel formare uno stesso corpo civile, una stessa repubblica: effetto, per il quale si richiedono atti positivi, ma che pensasse, come gli altri, a un effetto che dovesse venir naturalmente da un più lungo convivere nello stesso paese. Quel che è certo è che e lui e gli altri vollero la cosa, non si curaron del modo; senza accorgersi (e per qualcheduno di loro il fatto è strano) che, senza il modo, la cosa non c’era.

L’abate Dubos, il quale pure volle che, in quel medesimo periodo, i Gallo-romani e i Franchi formassero un popolo solo (e, in verità, c’era un po’ più, non dirò di ragioni, ma d’attaccagnoli) fece almeno un sistema 15; sentì almeno, che una proposizione di quella sorte richiedeva d’esser discussa e, prima di tutto, definita. Due nazioni, una antica abitatrice delle Gallie, l’altra stabilita in un territorio confinante, e vissuto in istato di pace e spesso d’alleanza, per lo spazio di due Secoli 16; poi questa, ammessa, come ausiliaria, nelle Gallie 17 dall’imperatore, che n’era l’assoluto padrone 18; poi quella passata, prima per delegazione 19, quindi per intera e definitiva cessione 20, sotto il dominio de’ re, non meno assoluti 21, dell’altra; due nazioni, per conseguenza, uguali tra di loro, [p. 112 modifica]senza alcuna cagione, senza alcun mezzo di superiorità dell’una sull’altra; senza occupazion violenta d’una porzione de’ beni privati 22, come nelle parti dell’impero conquistate dagli altri barbari, perchè lì non c’era stata conquista; senza interruzion di governo, senza annullamento di poteri subordinati, perchè il re franco era entrato pacificamente e graditamente in luogo dell’imperator romano 23; due nazioni ancora distinte civilmente, ma riunite politicamente sotto un potere unico, ereditario indipendente da ciascheduna, sovrano di ciascheduna; aventi leggi diverse, e tribunali nazionali, ma sotto la giurisdizione comune di magistrati superiori, eletti dal re, sotto la giurisdizion suprema di questo, quando una parte ricorresse a lui 24; partecipi ugualmente de’ vantaggi e de’ pesi dello Stato, perchè il re, libero distributore degli uni e degli altri, chiamava, a piacer suo, e come credesse più conveniente al suo servizio, uomini dell’una e dell’altra nazione alle dignità e alle cariche del governo e della milizia 25, e riscoteva da tutti gli stessi tributi 26; tali furono, secondo il Dubos, i Gallo-romani e i Franchi sotto le due prime razze; tale il loro modo d’essere un popolo solo, insieme con altre nazioni che abitavano il territorio medesimo. Non fece uscire un effetto indefinito da una confusion di nazioni, da un’operazione del tempo, ugualmente indefinito. Stiracchiò i fatti decisivi per la quistione, ma non li lasciò da una parte; combattè le difficoltà con delle congetture spesso arbitrarie, ma non le saltò a piè pari; diede alla sua ipotesi degli antecedenti, o supposti o inefficaci, de’ momenti immaginari, una forma fattizia, ma degli antecedenti, de’ momenti una forma. Certo, non c’è la buona maniera d’ingannarsi; e non voglio dir punto che l’errore migliori con l’essere circostanziato e laboriosamente congegnato. Voglio solamente far osservare, anche col paragone, quanto quello che tra di noi fu, non dirò sostenuto, ma buttato là di passaggio, e in proposizioni incidenti, abbia un carattere singolare d’indeterminatezza, d’ambiguità, non meno che di superficialità e di leggerezza, e sia, non solo un errore, ma un indovinello.

L’effetto gravissimo poi di quest’errore è d’isterilire, per dir così, tutta la storia del medio evo. Facendo le viste di sciogliere o di prevenire le questioni più importanti, distorna la mente anche dal proporsele; vi fa attraversare senza curiosità, senza darvi il tempo di fare una domanda o un’osservazione, de’ secoli d’un carattere tanto particolare, e pieni di tanti problemi: istituzioni, fatti, personaggi, rivoluzioni, a tutto porta via il senso importante, a tutto attribuisce cagioni volgari e false; e quel complesso che potrebb’essere soggetto di scoperte interessanti, o almeno di ricerche o di congetture ragionate, non lo lascia più comparire che come un ammasso di casi staccati, di combinazioni fortuite, di deliberazioni venute da un impulso senza disegni. Precipitando, con un avventato anacronismo, il risultato di molte cagioni che hanno operato in una lunga successione di tempi, v’impedisce d’osservar queste cagioni, di scoprire il principio, di seguire il progresso delle loro operazioni; giacchè al momento in cui la fusione si forma, in cui nuovi interessi, nuove forze, nuove idee cominciano a crollare l’antico muro di separazione tra le due nazioni, cosa può osservare chi pensa che, da gran tempo, queste due nazioni ne formassero una sola? Così, dopo avervi impedito d’intendere quell’istituzioni e que’ fatti che avevan per iscopo di mantenere la divisione con un possesso, questa formola nemica d’ogni riflessione, [p. 113 modifica]non vi lascia nemmeno scoprire nulla ne’ lenti sforzi della giustizia per introdursi in qualche angolo, delle cose umane, nulla ne’ ritrovati ingegnosi delle passioni per servirsi contro altre passioni del sentimento della giustizia. Vi dà gli effetti più meravigliosi, senza nemmeno accennarvi i mezzi: vi asserisce la pace fatta tra lo spogliatore e lo spogliato, tra il violento e il sottomesso, tra il lupo e l’agnello, senza neppur parlarvi delle trattative che poterono condurre a concluderla; vi rappresenta una certa quale equità stabilita tutt’a un tratto, una certa giustizia venuta alla luce in un parto senza dolori: e questo in un’epoca, in cui la forza tutta da una parte, e la debolezza tutta dall’altra rendevano l’ingiustizia la cosa più facile e più naturale. La distinzione de’ conquistatori e de’ conquistati è un filo che, non solo conduce l’osservatore per gli andirivieni dell’istituzioni del medio evo, ma serve anche a legar qnest’epoca con altre, delle più caratteristiche della storia, e che paiono le più differenti. Chi stia attaccato a quel fatto, per dir così, maestro, l’indicazioni più leggiere, le tradizioni più succinte de’ secoli anteriori all’invasione, giovano qualche volta a rischiarare la storia de’ tempi barbarici e vicendevolmente questa storia diventa una spiegazione nell’antichità. Non basta: usanze e istituzioni, non più vigorose, ma ancora viventi in tutta Europa, e per sè oscurissime, acquistan luce, se ne vede subito il perchè e l’origine, quando s’attaccano a questo fatto: la formola che lo nega, tronca tutti questi legami di storia e di filosofia.

Questa formola finalmente è stata cagione agli storici, anche i meno creduli, d’affermare e di propagare opinioni le più mancanti di fondamento; e nello stesso tempo ha fatto loro trovar degl’inciampi in que’ luoghi della storia, dove la strada sarebbe più piana. Cito un esempio di ciascheduno di questi due effetti; e li prendo, a preferenza, dall’opere del Muratori, e per la sua autorità, e perchè è cosa meno dispiacevole il ribatter l’opinioni di quegli scrittori, de’ quali nel confutarli, si può parlare con un gran rispetto. «Laddove nei primi tempi di questo nuovo regno essi Romani, per attestato di Paolo Diacono, dovevano tertiam partem suarum frugum Langobardis persolvere 27, nel progresso de’ tempi tolta fu questa diversità di trattamento, e divenuti Romani e Longobardi un popolo solo, la stessa misura di tributi fu imposta ad ognuno 28.». Così, un fatto di tanta importanza, un fatto, non so se più difficile a venir col tempo, o a stabilirsi alla prima, un fatto che a’ tempi stessi del Muratori era ben lontano dall’essere universale in Europa, l’uguaglianza dell’imposizioni per tutti gli abitatori d’un paese, è qui da lui affermato come un fatto del settimo o dell’ottavo secolo; affermato, contro l’uso di quell’accurato scrittore, senza documenti, e solo come una conseguenza di quell’unità, ugualmente supposta 29. [p. 114 modifica]Il secondo esempio ci vien somministrato dal Muratori nella dissertazione XXVI, dove, dopo aver fatto vedere con le leggi de’ Longobardi, quanto pochi uomini atti all’armi fossero esenti dal marciare all’esercito, si fa, tra l’altre, questa difficoltà: «Se allora l’Italia fosse stata al pari d’oggidì popolata, il menar tanta gente al campo più danno e confusione avrebbe recato che utilità.» Grave difficoltà senza dubbio, anzi tale da rendere inesplicabili quelle leggi, quando si sia supposto che gl’Italiani fossero ascritti alla milizia, come i Longobardi. Ma la supposizione su

[p. 115 modifica]cosa è fondata? Chi ha detto al buon Muratori che questi avessero disciplinati, fatti cavalieri, mischiati nelle loro file i vinti? N’ha egli trovata la più piccola traccia nella loro storia?

Da queste ultime osservazioni, si può francamente concludere (poca cosa pur troppo) che l’opinione dell’unità politica de’ Longobardi e de’ Romani chiude ogni strada, e a conoscere, e anche a cercare quali fossero le vere relazioni tra i due popoli.

Ma quali erano queste relazioni?

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Qui dovrebbe cominciare la storia positiva, la vera, l’importante storia: qui si sente subito, che la scoperta di quell’errore non è tanto una cognizione quanto una sorgente di curiosità per chi nella storia vuol vedere in quante maniere diverse la natura umana si pieghi e s’adatti alla società: a quello stato così naturale all’uomo e così violento, così voluto e così pieno di dolori, che crea tanti scopi, dei quali rende impossibile l’adempimento, che sopporta tutti i mali e tutti i rimedi, piuttosto che cessare un momento; a quello stato che è un mistero di contradizioni in cui la mente si perde, se non lo considera come uno stato di prova e di preparazione a un’altra esistenza.

Appena ammesso il fatto della distinzione delle due nazioni, s’affacciano molt’altre questioni: n’accenneremo qui alcune, per indicar l’importanza di ciò che s’ignora, avvertendo però prima che non siamo in caso di risolverne nessuna.

Qual era, ne’ due secoli della dominazione longobardica, lo stato civile degl’Italiani, superiori certamente, e di molto, in numero alla nazione conquistatrice? Eran essi, come dice il Maffei 30, in vera servitù? Ma in qual grado? O eran rimasti padroni delle loro persone e delle loro proprietà, e la loro dipendenza era puramente politica? Ma com’eran protette quelle? e qual era la forma di questa? Erano state lasciate in piedi l’autorità subordinate che si trovavano al tempo della conquista? E da chi dipendevano? chi le conferiva? O eran cessate per cagion di quella? E qual fu, in questo caso, il nuovo modo d’azione e di repressione su quel popolo, o su quella moltitudine? Noi sappiamo, o poco o tanto, o bene o male, quali eran le attribuzioni de’ re, de’ duchi, de’ giudici longobardi, riguardo alla loro propria nazione; ma cosa erano tutti costoro per gl’Italiani, tra i quali, sopra de’ quali vivevano?

Ecco alcune delle tante cose che ignoriamo intorno allo stato della popolazione d’una così gran parte d’Italia, per il corso di due secoli. Si può certamente rassegnarsi a ignorarle; si può anche chiamar frivolo e pedantesco il desiderio di saperle; ma allora non bisogna esser persuasi di posseder la storia del proprio paese. E quand’anche si conosca e la precipitosa invasione, e l’atroce convito, e l’uccisione a tradimento d’Alboino, le galanterie d’Autari, le vicende di Bertarido, la ribellione d’Alachi e il ristabilimento di Cuniberto, le guerre di Liutprando e d’Astolfo, e la rovina di Desiderio, bisogna confessare che non si conosce se non una parte della storia, per dir così, famigliare d’una piccola nazione stabilita in Italia, non già la storia d’Italia.

Prenda dunque qualche acuto e insistente ingegno l’impresa di trovare la storia patria di que’ secoli; ne esamini, con nuove e più vaste e più lontane intenzioni, le memorie; esplori nelle cronache, nelle leggi, nelle lettere, nelle carte de’ privati che ci rimangono, i sogni di vita della popolazione italiana. I pochi scrittori di que’ tempi e de’ tempi vicini non hanno voluto nè potuto distinguere, in ciò che passava sotto i loro occhi, i punti storici più essenziali, quello che importava di trasmettere alla posterità: riferirono de’ fatti; ma l’istituzioni e i costumi, ma lo stato generale delle nazioni, ciò che per noi sarebbe il più nuovo, il più curioso a sapersi, era per loro la cosa più naturale, più semplice, quella che meritava meno d’essere raccontata. E se fecero così con le nazioni attive e potenti, e dal nome delle quali intitolavano le loro storie, si pensi poi quanto dovessero occuparsi delle soggiogate! Ma c’è pure un’arte di sorprendere con certezza le rivelazioni più importanti, sfuggite allo

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scrittore che non pensava a dare una notizia, e d’estendere con induzioni fondate alcune poche cognizioni positive. Quest’arte, nella quale alcuni stranieri fanno da qualche tempo studi più diligenti, e di cui lasciano di quando in quando monumenti degni di grande osservazione, quest’arte, se non mi inganno, è, a’ giorni nostri, poco esercitata tra di noi. Eppure ci par che si possa dire che ha avuto il suo cominciamento e un progresso non volgare in Italia. Due uomini certamente insigni aprirono in essa due strade che, all’imboccatura, per dir così, posson parere lontane l’una dall’altra, e affatto diverse; ma che tendono naturalmente a riunirsi in una, in quella sola che può condurre a qualche importante verità sulla storia del medio evo.

Uno, l’immortale Muratori, impiegò lunghe e tutt’altro che materiali fatiche nel raccogliere e nel vagliare notizie di quell’epoca: cercatore indefesso, discernitore guardingo, editore liberalissimo di memorie d’ogni genere: annalista sempre diligente, e spesso felice nel riconoscere i fatti, nel rifiutare le favole che al suo tempo passavan per fitti, nell’assegnar le cagioni prossime e speciali di questi; esecutore animoso e paziente del disegno vasto e suo, di rappresentare in complesso, e per capi, l’istituzioni, le costumanze, lo stato abituale insomma del medio evo; e qui, come nella storia propriamente detta, sceglitore e ordinatore, per lo più, cauto, e spesso sagace de’ materiali che si trovavano sparsi in una gran quantità e varietà di documenti, scovati in gran parte da lui; risolvette tante questioni, tante più ne pose, ne sfrattò tante inutili e sciocche, e fece la strada a tant’altre, che il suo nome, come le sue scoperte, si trova e deve trovarsi a ogni passo negli scritti posteriori che trattano di quella materia.

Contemporaneamente al Muratori, ma in una sfera più alta, meno frequentata, quasi sconosciuta, Giambattista Vico andò in cerca di princìpi generalissimi intorno alla comune natura delle nazioni. Non si propose d’illustrare alcuna epoca speciale di storia, ma cercò di segnare un andamento universale della società nell’epoche le più oscure, in quelle di cui sono più scarse e più misteriose le memorie, o le tradizioni. Volendo per lo più trattare di tempi in cui non vissero scrittori: persuaso che, quando gli scrittori apparvero, l’istituzioni, le credenze sociali erano già tanto modificate, le tradizioni di que’ tempi antichissimi già tanto sfigurate dai nuovi fatti stessi, che non potevano essere rettamente intese, nè trasmesse dagli scrittori, ma persuaso nello stesso tempo, che l’idee di questi, come figlie in gran parte degli avvenimenti e delle dottrine, anteriori, dovevano serbarne delle tracce importanti e caratteristiche; riguardò questi scrittori come testimoni, in parte pregiudicati, in parte disattenti, in parte smemorati, ma però sempre testimoni di fatti generali e rilevanti; e come tali si diede a esaminarli. Facendo poco conto de’ loro giudizi, cercò una verità in quell’idee che par piuttosto che trasmettano, come venuto da più alta origine; e, rifiutando le loro conclusioni, stabili delle norme per cavarne di più fondate dalle loro rivelazioni, per dir così, involontarie. Queste norme, si propose di derivarle dalle proprietà della mente umana e dall’esperienza de’ fatti più sconosciuti; e, certo, quand’anche, siano troppo più vaste che fondate, non sono mai d’una fallacia volgare. Si studiò di raccogliere da epoche le più distanti l’una dall’altra, da costumi in apparenza disparatissimi, degli elementi simili, ne’ punti più importanti della vita sociale; e fu, come delle volte acutissimo, così dell’altre troppo facile nella scelta di questi elementi, strascinato a ciò da quella sua unità di mire intorno allo sviluppo della natura umana. Da’ secoli eroici e dal medio evo, dalle leggi e dalle poesie, dai simboli e dai monumenti, da etimologie qualche volta ingegnose e che sono una scoperta, ma qualche volta arbitrario e smentite da cognizioni venute dopo di lui;

[p. 118 modifica]dai riti religiosi, dalle formole di giurisprudenza, e dalle dottrine filosofiche; da temi, da fatti, da pensieri, in somma sparpagliati, per dir così, nella vita del genere umano, prese qua e là qualche indizio, che, per dir la verità, nelle sue idee diventa troppo presto certezza. Ma quando, dopo aver dimostrata l’ambiguità, la falsità, la contradizione dell’idee comuni intorno allo stato della società in un’epoca oscura e importante, sostituisce ad esse un’idea fondata sur una nuova osservazione de’ pochi fatti noti di quell’epoca; quanti errori distrugge a un tratto! che fascio di verità presenta, in una di quelle formole splendide e potenti, che sono come la ricompensa del genio che ha lungamente meditato! E anche quando, o la scarsità delle cognizioni positive, o l’amore eccessivo d’alcuni princìpi, o la fiducia che nasce negl’ingegni avvezzi a scoprire, lo trasporta e lo ferma in opinioni evidentemente false, e oscure non per profondità, ma per inesattezza d’idee, e quindi di espressioni; lascia nondimeno un senso d’ammirazione, e dà quasi ancora l’esempio d’un’audacia che potrebb’esser felice con qualche condizione di più; se non v’ha dimostrata, come credeva, una gran verità, vi fa sentire d’avervi condotti in quelle regioni, dove soltanto si può sperar di trovarne.

Osservando i lavori del Muratori e del Vico, par quasi di vedere, con ammirazione e con dispiacere insieme, due gran forze disunite, e nello stesso tempo, come un barlume d’un grand’effetto che sarebbe prodotto dalla loro riunione. Nella moltitudine delle notizie positive, che il primo vi mette davanti, non si può non desiderare gl’intenti generali del secondo, quasi uno sguardo più esteso, più penetrante, più sicuro; come un mezzo d’acquistare un concetto unico e lucido di tante parti che, separate, compariscono piccole e oscure, di spiegar la storia d’un tempo con la storia dell’umanità, e insieme d’arricchir questa, di trasformare in dottrina vitale, in scienza perpetua tante cognizioni senza principi e senza conseguenze; e, bisogna pure aggiungere, come un mezzo d’evitar qualche volta de’ giudizi precipitati; giacchè, ne’ confini più circoscritti, che paiono naturalmente i più sicuri, c’è però il pericolo di non rimanerci31 E seguendo il Vico nelle ardite e troppo spesso ipotetiche sue classificazioni, come si vorrebbe andar sempre avanti con la guida di fatti sufficienti [p. 119 modifica]all’assunto, o severamente discussi! Ma dopo que’ due scrittori, nessuno ch’io sappia, s’è portato al punto dove possono unirsi le due strade, per arrivare a più importanti scoperte nella storia de’ tempi oscuri del medio evo. Riman dunque intentato un gran mezzo, anzi il solo: e perchè non si potrà sperare, che alcuno sia per tentarlo? L’ammirazione per i segnalati lavori dell’ingegno è, certo, un sentimento dolce e nobile; una forza, non so se ragionevole, ma comune, ci porta a provare ancor più un tal sentimento, quando gli uomini che ce l’ispirano, sono nostri concittadini; ma l’ammirazione non deve mai essere un pretesto alla pigrizia, non deve mai includer l’idea d’una perfezione che non lasci più nulla da desiderare, nè da fare. Nessun uomo è tale da compir la serie dell’idea in nessuna materia; e, come nell’opere della produzion materiale, così in quelle dell’ingegno, ogni generazione deve vivere del suo lavoro, e riguardare il già fatto, come un capitale da far fruttare, non come una ricchezza che dispensi dall’occupazione.

Che se le ricerche le più filosofiche e le più accurate sullo stato della popolazione italiana durante il dominio de’ Longobardi, non potessero condurre che alla disperazione di conoscerlo, questa sola dimostrazione sarebbe una delle più gravi e delle più feconde di pensiero che possa offrire la storia. Un’immensa moltitudine d’uomini, una serie di generazioni, che passa sulla terra, sulla sua terra, inosservata, senza lasciarci traccia, è un tristo ma importante fenomeno, e le cagioni d’un tal silenzio possono riuscire ancor più istruttive che molte scoperte di fatto.

Note

  1. Ist. Fior, lib. 2, cap. 9, dell’edizione del Muratori; Rer. It., t. XIII.
  2. Ist. Fior., lib. 1.
  3. Muratori, Antich. It., diss. 21. Chi conosce appena appena la storia del medio evo, sa che, tanto in Italia, quanto nelle Gallie, e nelle Spagne, i popoli conquistati eran chiamati Romani, cioè col nome dei loro antichi padroni. Così, in quella parte dell’antico impero romano, dove i conquistatori sono ancora affatto separati e distinti di nome e di fatto, la parte occupata dai Turchi, gl’indigeni serbano ancora il nome di Romei.
    Nel seguito di questo discorso useremo indifferentemente i nomi d’Italiani, di Romani, e anche di Latini, per indicare i nativi della parte d’Italia posseduta da’ Longobardi.
  4. Antich. longobardico-milanesi, diss. I, § 71. L’uno e l’altro scrittore parlan de’ tempi che precedettero la conquista di Carlomagno.
  5. Ist. Civ., lib. 5, cap. 4.
  6. T. Liv., 1, 13.
  7. Si romanus homo mulierem langobardam tulerit, et mundium ex ea fecerit,... romana effecta est, et filii qui de eo matrimonio nascuntur, secundum legem patris romani sint. Liutpr. Leg., lib. 6, 74.
  8. I due citati e Grimoaldo e Liutprando usano la formola: Rex gentis Langobardorum, Ratchi dice lo stesso con una perifrasi: Dum cum gentis nostrae, idest Langobardorum, Judicibus.... considerassem, etc.
  9. Clementi quippe, simulque prudenti consilio usi. In Leges Langobardor. Præfat. L. A. Muratori; Rer. It., tom. I, par. 11; ed altri.
  10. Audite qualiter placuit mihi Pippino, Excellentissimo Regis Gentis Langobardorum, cum adessent nobiscum singuli Episcopi, Abbates et Comites, seu reliqui Fideles nostri, Franci et Langobardi. Italiæ regis, Leges; Rer. It., tom. I, par. II, p. 118. Non si sa in qual anno fossero promulgate queste leggi; e non si sa neppur bene quando Pipino, figlio di Carlomagno, principiasse a regnar di fatto: morì nell’810.
  11. Franci, hoc (Childerico) ejecto, Aegidium sibi, quem superioris Magistrum militum a Republica missum diximus, unanimiter Regem adsciscunt. Gregor. Turon., Hist. Francor., lib. 2, c. 12. La parola Regem non si trova in tutti i manoscritti.
  12. Quæ est enim, prœcellentissimi filii, magni reges, talis desipientia, ut penitus vel dici liceat, quod vestra præclara Francorum gens, quae super omnes enitet, et tam splendiflua ac nobilissima regalis vestræ potentiæ proles, perfida, quod absit, ac fœtentissima Langobardorum gente polluatur; quae in numero gentium nequaquam computatur, de cujus natione et leprosorum genus oriri certum est? Cod. Car. Ep. 45. Questa taccia è parsa al Muratori (an. 770) tanto strana e piena d’ignoranza, da far nascer de’ dubbi sull’autenticità della lettera. Mi par però che si possa dare a tali parole di Stefano un senso ragionevole. Era conosciuta presso i Longobarli una malattia, qualunque poi fosse, la quale si chiamava lebbra. Ciò si vede nelle leggi, e segnatamente nella 176 di Rotari, nella quale il lebbroso, espulso giuridicamente da casa sua, è dichiarato morto civilmente, e da mantenersi del suo per carità. Tamen, dum vixerit, de rebus quas dereliquerit, pro mercedis intuitu, nutriatur. Della quale legge stranissima, e, credo, particolare ai Longobardi, dev’essere stata cagione l’opinione superstiziosa e temeraria, che questa lebbra fosse un indizio certo e manifesto di peccati commessi: peccatis imminentibus; peccato imminente (Id. leg. 180). Ora, può darsi che questa lebbra, sconosciuta in Italia prima dell’arrivo dei Longobardi, sia stata da essi comunicata agl’indigeni; e, in questo caso Stefano ha voluto dire che la razza de’ lebbrosi del suo tempo era venuta da loro. Ha parlato come un Greco, il quale, non ignorando che c’è stata peste nel suo paese molte volte prima che i Turchi ne fossero padroni, dice però che i Turchi ci hanno portata la peste, cioè quella che attualmente ci regna. - Il Muratori adduce altri argomenti contro l’autenticità della lettera; de’quali non crediamo di dover parlare, perchè nessun altro scrittore, a nostra notizia, è stato da essi indotto a dubitarne; e lui medesimo, non si vede chiaro se dicesse davvero, o se fosse una maniera di far sentire più fortemente quanto quella lettera gli pareva poco degna del suo autore.
  13. .... quos nos, Longobardi scilicet, Saxones, Franci, Lotharingi, Bajoarii, Suevi, Burgondiones, tanto dedignamur, ut inimicos nostros commoti, nil aliud contumeliarum, nisi, Romane, dicamus. Liutprandi Legatio ad Nicephorum Phocam; Rer. It., t. II, pag. 481.
  14. Antich. longobardico milanesi; diss. 1, § 66.
  15. Histoire critique de l’établissement de la monarchie françoise dans les Gaules; Paris, 1734. 3 vol. in-4.
  16. Liv. I, chap. 17.
  17. Liv. II, chap. 15.
  18. Liv. I, chap. 4.
  19. Liv. V, chap. l.
  20. Ibid., chap. 10.
  21. Liv. VI, chap. 16.
  22. Liv. I, chap. 13.
  23. È noto che gl’imperatori d’Oriente usarono questo titolo per molto tempo dopo la distruzione dell’impero d’Occidente.
  24. Liv. VI, chap. 9.
  25. Ibid., chap. 10.
  26. Ibid., chap. 14.
  27. Pagare ai Longobardi la terza parte della loro raccolta. Paolo Diacono lib. 2, e 32.
  28. Antich. It., dissert. 21.
  29. Un altro scrittore, citato da noi più volte, congetturò che d’un tal fatto si potesse trovare una testimonianza in quelle parole di Paolo Diacono: Populi tamen aggravati per Langobardos hospites partiuntur (Lib. 3, cap. 16). «Varie interpretazioni, dice, sono state dagli eruditi proposte su questo oscuro passo: a me sia lecito azzardarne una nuova. La ripartigione qui accennata dallo storico, riguardar non dovrebbe, a mio avviso, le persone, ma gli aggravi delle medesime, così che da quel punto in avanti avessero questi ad essere ripartiti indifferentemente e sugl’Italiani e su i Longobardi, i quali cominciavano già ad essere come nazionali della stessa patria, e ciò secondo i principi dell’equità e della giustizia distributiva che, regnando Autari, con altre virtù allignato avevano felicemente in tutti i sudditi; onde sembrava quasi risorta l’età d’oro. Così almeno ce la rappresenta il Varnefridi.» (Antich. longobardico-milanesi, diss. I,§ 66). Ma il Muratori, non si può supporre che si fondasse qui su quel passo, poichè altrove l’interpreta in tutt’altro senso. «Pare che accenni che ai popoli italiani fu addossato il peso di mantenere i soldati longobardi, e però li compartirono fra di loro.» (Annal. 584). E se avesse creduto di poter fondarsi su qualche altro documento, n’avrebbe di certo fatta menzione.
    In quanto all’interpretazione dell’altro scrittore, non si saprebbe come fare a discuterla, giacchè, come il lettore ha potuto vedere, non dice nemmeno qual sia la relazione che gli par di trovare tra le parole del testo, e il senso da lui immaginato. Ci si permetta, in vece, d’accennare una circostanza che rende ancor più singolare dalla parte sua la supposizione d’un tal pareggiamento tra i vincitori e i vinti. La faceva, questa supposizione, o almeno la dava fuori, nel 1792, cioè nel terz’anno della rivoluzion francese, uno de’ motivi più espressi, e degli scopi principali della quale era appunto di assoggettare i successori della nazion conquistatrice all’uguaglianza dell’imposizioni. E, in mezzo al rumore d’una tal rivoluzione, s’immaginava che una cosa simile fosse stata fatta tranquillamente, spontaneamente, dodici secoli prima! — Del resto, ho voluto dire uno de’ motivi e degli scopi d’allora, anzi del primo momento; giacchè anche allora ce n’erano già in campo di nuovi, e di che sorte! Le rivoluzioni.... ma che dico? come se questa si potesse mettere in un fascio con l’altre! Una rivoluzione, dirò dunque, nella quale non si questioni solamente dell’uso o delle condizioni del potere, o di chi ne deva essere investito, ma sia messo in questione il principio medesimo del potere, è un gran viaggio, che s’intraprende credendo di non aver a fare altro che una passeggiata. O, se ci si passa un’altra similitudine (che è un gran mezzo di dir le cose in breve, col rischio, si sa, di non dirle punto), è una scala, nella quale, stando giù, si prende per l’ingresso d’un piano abitabile quello che non è altro che un pianerottolo; e quando ci s’è arrivati, si scopre un’altra branca che non s’aspettava, e dopo quella, un’altra, e.... e a caposcala, al luogo dove si starà di casa, quando s’arriva? quando, voglio dire, comincia uno stato di cose, alla durata del quale si creda, e che duri in effetto? Ne’ singoli casi (giacchè quella rivoluzione, se fu forse la prima del suo genere, non fu certamente la sola), ne’ singoli casi, fin che quel momento non è arrivato, lo sa il Signore: in astratto, lo può dire ognuno. È quando, invece di cercare il principio del potere dove non è, cioè in un ente creato, contingente, relativo, qual è l’uomo, in un ente che, non essendo il principio di sè stesso, non può avere in sè il principio di nulla, si riconosce, o si torna a riconoscerlo dov’è, cioè nel suo Autore; è quando sia pubblicamente professato, e generalmente creduto che ogni potere viene da Dio. Cos’è, infatti, il potere di cui si tratta, se non una superiorità? dico una superiorità di diritto, che si vuole appunto per circoscriver gli effetti delle superiorità naturali o di fatto. E come mai trovar negli uomini il principio di questa superiorità? In alcuni? con che ragione? In tutti? è un assurdo. Ma appunto, dicono, appunto perchè non c’è negli uomini un principio di superiorità, c’è negli uomini il principio dell’uguaglianza; col mezzo e per opera della quale si crea poi una superiorità di diritto. E non s’accorgono che, per quanto la superiorità e l’uguaglianza siano oggetti diversi, anzi opposti, metter negli uomini il principio, tanto dell’una, quanto dell’altra, è, in ultimo, un medesimo errore. Per concepire come gli uomini avessero in loro questo principio d’uguaglianza, bisognerebbe poter concepire che ogni uomo fosse l’autore di sè medesimo. E non si potendo questo, bisogna pur riconoscere che gli uomini non possono essere uguali, se non in quanto abbiano ugualmente ricevuto, se non dipendentemente da Chi gli abbia costituiti tali, e perchè fin dove gli abbia voluti e costituiti tali. Quindi, non che quest’uguaglianza sia un principio, non può essa medesima avere la sua ragion d’essere, che in un principio superiore, in ciò di cui si vorrebbe far di meno, per la prima volta. Dicendo che è più facile piantare una città per aria, che stabilire uno Stato senza il fondamento della religione, Plutarco non fece altro che esprimere con una formola generale un sentimento sottinteso in tutti i fatti particolari dell’umanità. Non che l’umanità e Plutarco conoscessero, nella sua integrità e purezza, la dottrina divinamente espressa in quelle parole di san Paolo; ma negli errori positivi c’è sempre una parte di verità; e in tutte le false religioni c’era e c’è appunto la parte di verità necessaria alla stabilità d’un potere, cioè la nozione generalissima di qualcosa di superiore agli uomini, e da cui il potere di diritto, quello che si vuole e non si vede, derivi negli uomini. Per questo, gli auspizi del patriziato romano, le caste indiane, la missione di Maometto, tant’altre cose altrettanto o più assurde, hanno potuto servir di fondamento a degli Stati che son durati discretamente, o che durano ancora. Ma dove ha regnato il cristianesimo, ogni altra religione è diventata come impossibile. Si può sconoscere il vero Autore dell’uomo, e quindi d’ogni diritto nell’uomo; ma riconoscerne uno falso, o de ’falsi, può bensì essere il sogno d’alcuni, non il fatto d’un popolo. È il nostro privilegio, o il nostro peso, se non vogliamo accettar come il privilegio, l’esser messi tra la verità e l’inquietudine. Le circostanze de’ diversi tempi e delle diverse società possono certamente render più facile, come più desiderabile, lo stabilimento durevole d’una o d’un’altra forma di potere; ma, ben inteso quando questa durata sia possibile. E ciò che la rende tale, è il poter associare a quella forma l’idea del diritto; e per arrivare a questo, il mezzo necessario, assolutamente parlando, è il riconoscere il principio del potere in qualcosa d’anteriore e di superiore all’uomo; per noi, il mezzo diventato unico, è il riconoscer questo principio nel Dio predicato da san Paolo. Ho detto: lo stabilimento d’una o d’un’altra forma; che è appunto uno de’ caratteri divini del cristianesimo il non esser legato esclusivamente a nessuna, e uno de’fatti divini del cristianesimo il sostituire alle teogonie particolari, che servirono di fondamento agli Stati delle genti, una teologia universale, applicabile alle più diverse forme di potere, come alle più diverse condizioni delle società umane, e, nello stesso tempo, efficacissima a corregger l’une, e a mutar gradatamente in meglio l’altre. Che se, anche nel cristianesimo, alcuni hanno tentato di restringere il diritto del potere a una forma speciale; se a una tale dottrina hanno applicato il titolo di diritto divino; se hanno voluto che Ogni potere significasse un tal potere esclusivamente, è perchè non c’è abuso di parole che gli uomini non possano fare. Ma è forse più strano l’attribuire una tale dottrina alla Chiesa cattolica, la quale, come incapace, per istituzione divina, di sacrificare l’universalità a nessuna forza particolare di circostanze, d’interessi, d’opinioni, ha costantemente ripudiata e combattuta la dottrina medesima, e con l’insegnamento e co’ fatti. Non fu, credo, nemmeno in un paese cattolico, che si diede la prima volta quel significato alle parole: diritto divino; e se si volesse cercare qual sia il libro che ha fatto di più per mettere in onore la dottrina anche in un paese cattolico, si troverebbe, credo, che non fu un trattato teologico, ma un poema epico, nel quale non è introdotta se non in odio del cattolicismo: chè certamente Voltaire non credeva all’inamissibilità del potere, messa da lui per fondamento razionale alla Henriade; ma trovò che quel falso domma poteva servirgli di spada insieme e di scudo, per combatter la Chiesa. Altri poi non sarebbero lontani dal riconoscere in Dio il principio del potere, come d’ogni cosa: solamente non vorrebbero il Dio d’una religione positiva. Ma essi medesimi non sperano molto che questa possa mai diventar la credenza d’un popolo. E hanno ragione; se non che mi pare che la causa alla quale attribuiscono la difficoltà d’una tale impresa, non sia la vera. Non è, come dicono, perchè un popolo intero non possa andar tanto avanti nella filosofia; è piuttosto perchè un popolo intero ha troppa filosofia per intendere un Dio autore dell’umanità, col quale l’umanità non abbia nessuna relazione positiva. Non è un concetto puro, elevato, al quale un popolo non arrivi; è un concetto tronco, che un popolo rifiuta. Vede bene che in questo concetto non c’è altro di nuovo che una negazione; che quello di cui gli si parla, è il Dio della rivelazione, meno la rivelazione. E se fosse altro, se fosse il mero nome che si volesse conservare, non solo smozzicando il concetto, ma cambiandolo; la riuscita sarebbe, grazie al cielo, molto più difficile, e insieme affatto inutile all’intento. Molto più difficile; perchè si tratterebbe di far accettare a de’ popoli una credenza positiva intorno alla divinità, senza autorità, senza storia, contro l’esempio di tutti i popoli; e una credenza nova a de’ popoli cristiani (foss’anche di solo nome e di sola reminiscenza, che non è, grazie ancora al cielo), contro l’esempio di tutti i popoli cristiani. Inutile all’intento poichè si tratta di trovare il principio del potere in qualcosa di distinto dall’uomo, e di superiore all’uomo; e una divinità distinta dall’uomo e superiore all’uomo, non è più possibile trovarla fuori del cristianesimo, nè immaginarla fuori del deismo, che è un cristianesimo smozzicato. Quelli poi i quali trovando, con ragione, il problema insolubile senza la religione, e non volendo accettar la soluzione religiosa, pretendono di levar di mezzo il problema medesimo; quelli, dico, i quali s’immaginano che una società possa prescindere dal diritto, per essersi immaginati di prescinderne essi (che il prescinderne davvero e coerentemente non è possibile nemmeno a un uomo solo, nemmeno a un sistema fatto apposta per un tal fine … ) Ma è ora d’accorgerci che queste, nè son cose da note, nè hanno che fare co’Romani e co’Longobardi.
  30. Verona illustrata, Lib. 10, col. 273.
  31. Il Vico (Scienza Nuova, lib. 4: Della custodia degli Ordini), parlando delle due celebri rogazioni promulgate da C. Canuleio, sul principio del quarto secolo di Roma, dice che, a quel tempo, i plebei in Roma erano ancora stranieri. Non dico che tutti gli argomenti dal quali dedusse questo grande, e allora nuovissimo concetto, sarebbero parsi, nè avrebbero dovuto parere al Muratori ugualmente fondati; dico bensì che quelli che lo sono, e sono insieme così elevati e fecondi, obbligandolo a considerar più in grande o più addentro cosa importi, come esista, come si mantenga la cittadinanza in una società distinta da un’altra, e superiore ad essa, quantunque abitante nello stesso paese, non gli avrebbero permesso di credere, e nemmeno d’immaginarsi che i Longobardi e gl’Italiani fossero diventati, alla sordina, e per il corso naturale delle cose, un popolo solo. E, cosa singolare, quei due giudizi così diversi erano egualmente contrari alle prime apparenze. Il Vico vide degli stranieri, dove le denominazioni di patrizi e di plebe non facevano supporre altro che due classi di concittadini; il Muratori, con altri, volle de’ concittadini, dove i nomi indicavano due nazionalità. Senonchè il primo arrivò al suo, per dir cosi, paradosso con l’avere acutamente e profondamente osservato nelle condizioni di quelle due sorti d’abitatori di Roma antica alcune differenze essenziali e originarie, cioè tali da non essere nate da la convivenza, ma da dovere averla preceduta; il secondo aderì al paradosso davvero, per essersi fondato in vece sopra somiglianze accessorie, e sopra circostanze inefficienti. Certo, sarebbe sciocchezza, più che insolenza, il dire che a un tal uomo mancava il criterio da giudicar rettamente cosa valessero, quando l’avesse voluto! ma è lecito osservare che gli mancò il volerlo, perchè gli mancò l’eccitamento a volerlo, cioè l’essere avvertito dell’importanza del giudizio, l’aver presenti le relazioni del fatto su cui si decideva, con un genere di fatti. La filosofia della storia, che si manifesta così splendidamente nel primo di que’ giudizi, aveva senza dubbio molto meno da fare, ma era ugualmente necessaria nel secondo.