Don Chisciotte della Mancia/Capitolo VIII

Da Wikisource.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
Capitolo Ottavo

../Capitolo VII ../Capitolo IX IncludiIntestazione 25 marzo 2023 100% Romanzi

Capitolo VII Capitolo IX



[p. 65 modifica]




CAPITOLO VIII.



Del fortunato compimento che diede il valoroso don Chisciotte alla spaventevole e non mai immaginata avventura dei mulini da vento, con altri successi degni di gloriosa memoria.



EE
d ecco intanto scoprirsi da trenta o quaranta mulini da vento, che si trovavano in quella campagna; e tostochè don Chisciotte li vide, disse al suo scudiere: “La fortuna va guidando le cose nostre meglio che noi non oseremmo desiderare. Vedi là, amico Sancio, come si vengono manifestando trenta, o poco più smisurati giganti? Io penso di azzuffarmi con essi, e levandoli di vita cominciare ad arricchirmi colle loro spoglie; perciocchè questa è guerra onorata, ed è un servire Iddio il togliere dalla faccia della terra sì trista semente. — Dove sono i giganti? disse Sancio Panza. — Quelli che vedi laggiù, rispose il padrone, con quelle braccia sì lunghe, che taluno d’essi le ha come di due leghe. — Guardi bene la signoria vostra, soggiunse [p. 66 modifica]

Sancio, che quelli che colà si discuoprono non sono altrimenti giganti, ma mulini da vento, e quelle che le pajono braccia sono le pale delle ruote, che percosse dal vento, fanno girare la macina del mulino. — Ben si conosce, disse don Chisciotte, che non sei pratico di avventure; quelli sono giganti, e se ne temi, fatti in disparte e mettiti in orazione mentre io vado ad entrar con essi in fiera e disuguale tenzone. Detto questo, diede de’ sproni a Ronzinante, senza badare al suo scudiere, il quale continuava ad avvertirlo ch’erano fuor d’ogni dubbio mulini da vento e non giganti quelli che andava ad assaltare. Ma tanto s’era egli fitto in capo che fossero giganti che non udiva più le parole di Sancio, nè per avvicinarsi arrivava a discernere che cosa fossero realmente; anzi gridava a gran voce: “Non fuggite, codarde e vili creature, chè un solo è il cavaliere che viene con voi a battaglia„. In questo levossi un po’ di vento per cui le grandi pale delle ruote cominciarono a moversi; don Chisciotte soggiunse: “Potreste agitare più braccia del gigante Briarèo, chè me l’avete pur da pagare„. Ciò detto, e raccomandandosi di tutto cuore alla Dulcinea sua signora affinchè lo assistesse in quello scontro, ben coperto con la rotella, e posta la lancia in resta, galoppando quanto poteva, investì il primo mulino in cui s’incontrò e diede della lancia [p. 67 modifica] in una pala. Il vento in quel mentre lo rivoltò con sì gran furia che ridusse in pezzi la lancia, e si tirò dietro impigliati il cavallo ed il cavaliere, il quale andò rotolando buon tratto per la campagna. S’affrettò Sancio Panza a soccorrerlo quanto camminava il suo asino, e quando il raggiunse lo trovò che non si poteva movere; così fieramente era stramazzato con Ronzinante. “Dio buono! proruppe Sancio, non diss’io alla signoria vostra che ponesse mente a ciò che faceva, e che quelli eran mulini da vento? Li avrebbe riconosciuti ognuno che non ne avesse degli altri per la testa. — T’acqueta, amico Sancio, rispose don Chisciotte; le cose della guerra sono più delle altre soggette a continuo cambiamento: massimamente perchè stimo, e così senza dubbio dev’essere, che il savio Frestone, il quale mi svaligiò la stanza e portò via i libri, abbia cangiati questi giganti in mulini per togliermi la gloria di restar vincitore; sì dichiarata è l’inimicizia ch’egli mi porta! ma alla fine dei conti non potranno prevalere le male sue arti contro la bontà della mia spada. — Faccia il signore quello che sia per il meglio, rispose Sancio Panza, e l’ajutò ad alzarsi ed a montare sopra Ronzinante che stava mezzo spallato.

Quindi proseguendo il ragionamento sulla seguíta vicenda si avviarono a Porto Lapice, dove don Chisciotte diceva che non sarebbero mancate avventure, per essere luogo di gran passaggio: se non che gli dava gran pensiero quel trovarsi privo della lancia; e facendone parola collo scudiere, gli disse: “Ben mi sovviene di aver letto che un cavaliere spagnuolo, chiamato Diego Perez di Vargas, essendosegli rotta in un combattimento la spada, strappò da una quercia un pesante ramo, o forse il tronco, e con esso operò tai prodigi in quel giorno, e schiacciò tanti Mori, che gli fu posto il soprannome di Schiaccia; e per tal guisa sì egli che i suoi discendenti si chiamarono da quel giorno in poi Vargas e Schiaccia1. Ciò ti dico perchè dalla prima quercia o rovere in cui m’abbatto, voglio staccare un ramo sì forte come se lo figura la mia immaginazione, e tentare con esso tali prodezze che tu abbia a chiamarti ben avventuroso che ti sia dato in sorte di vederle e di essere testimonio a cose che mal saranno credute. — Alla buon’ora, disse Sancio, io credo quanto vossignoria mi dice; ma di grazia, si raddrizzi un cotal poco, che sembra ch’ella pieghi soverchiamente da questo lato; forse per effetto della sua caduta. — Così è veramente, rispose don Chisciotte, e se non mi [p. 68 modifica] lagno del dolore che sento, egli è perchè non è lecito a’ cavalieri erranti il dolersi per nessuna ferita, quand’anche uscissero le loro budella del corpo2. — Se la cosa è a questo modo non so che replicare, rispose Sancio; ma sa Dio ch’io non troverei punto sconveniente che vossignoria si lagnasse quando è addolorata nella persona. Io per me, le dico che mi lagnerò di ogni minimo male, se già non s’intende che al pari dei cavalieri erranti anche i loro scudieri si debbano astenere dal lamentarsi„. Non lasciò di ridere don Chisciotte della semplicità del suo scudiere, e gli dichiarò che potea lamentarsi a suo grado, e comunque gli tornasse in acconcio, non avendo letto negli ordini di cavalleria proibizione alcuna sopra di ciò. Sancio avvertì il padrone che si avvicinava l’ora di pranzo, ed esso gli rispose che non n’avea voglia per allora, ma che mangiasse pure a suo grado. Ottenuta questa licenza, Sancio s’accomodò il meglio che potè sopra il suo giumento, e cavando dalle bisacce la provvisione di cui le avea riempite, andava dietro al suo padrone camminando e mangiando molto posatamente; e di tanto in tanto attaccava la borraccia alla bocca con soddisfazione sì grande da mettere invidia anche nel meglio provveduto oste di Malaga: e così bevendo a quel modo erangli uscite di mente le promesse del suo padrone, nè gli pareva più faticosa professione, ma piuttosto una spezie di passatempo l’andare cercando avventure, per quanto pericolose si fossero.

In fine passarono quella notte in mezzo agli alberi, da uno dei quali staccò don Chisciotte un ramo secco, che gli potea in qualche modo servire di lancia, appiccandovi il ferro di quella spezzata che gli era rimasto. Non dormì in tutta la notte un momento solo, tenendo sempre il pensiere alla sua signora Dulcinea per non iscostarsi un puntino da ciò che avea letto ne’ libri suoi, che i cavalieri passavano le notti vegliando nelle foreste e nei deserti, trattenendosi colla memoria delle loro signore. Non la passò a questo modo Sancio Panza, che avendo lo stomaco pieno, e non già d’acqua di cicoria, consumò la notte intera in un sonno solo, e se il suo padrone non lo avesse chiamato, non lo avrebbero potuto svegliare i raggi del sole che lo ferivano nel viso, nè il canto dei molti uccelli che giocondamente salutavano il nascere del nuovo giorno. Nell’alzarsi stese la mano alla sua borraccia, e trovandola assai più leggiera di prima se ne afflisse molto, sembrandogli che la strada allora battuta non dovesse condurlo sì tosto dove poter di nuovo riempirla. Don Chisciotte non volle [p. 69 modifica] assaggiar nulla, perchè, come s’è detto, erasi già pasciuto delle dolci rimembranze della sua diva.

Ripigliarono quindi la strada di Porto Lapice, ed alle ventitre ore lo scoprirono. “Qui, disse don Chisciotte nello scorgerlo, qui, Sancio Panza, fratello mio, possiamo attenderci venture a dovizia e di ogni nostra soddisfazione; ma sta bene avvertito che per quanto tu mi vegga in pericolo, non dèi metter mano alla spada in mia difesa, salvo se vedessi chiaramente che fosse canaglia o gente vile quella che mi assalisse; in tal caso tu puoi darmi ajuto; ma se fossero cavalieri non ti è lecito nè concesso a verun patto immischiarti, vietandolo le leggi della cavalleria, sino a tanto che tu pure non sarai armato cavaliere. — Si assicuri, signore, rispose Sancio, che in questo ella sarà obbedita esattamente, e tanto più quanto che sono pacifico di natura mia, e nimico di mettermi in romori e in contese: vero è bensì che trattandosi di difendere la mia persona, non farò gran caso di queste leggi, mentre e le divine e le umane permettono a ciascuno di contrastare a chi gli vuol nuocere. — Nè io ti contraddico, rispose don Chisciotte, ma in quanto al soccorrermi contro cavalieri devi tener in freno la tua naturale impetuosità. — Ed io replico, soggiunse Sancio, che obbedirò a questo precetto con tanta fedeltà ed esattezza come a quello della domenica.

Stando in questi ragionamenti videro in lontananza due frati dell’Ordine di san Benedetto a cavallo di due dromedari; chè così si potevano chiamare le mule da essi cavalcate. Avevano gli occhiali da viaggio, ed i lor parasoli, ed erano seguiti da un cocchio, con l’accompagnamento di quattro o cinque persone a cavallo, e di due mulattieri a piedi. Stava nel cocchio (come poi si venne a sapere) una signora biscaina diretta a Siviglia, dove trovavasi suo marito in procinto di passare alle Indie con molta mercanzia; i frati però non erano della comitiva, benchè viaggiassero molto a lei da vicino. Non li vide appena don Chisciotte che disse al suo scudiere: “O ch’io m’inganno, o debb’essere questa la più famosa avventura che siasi giammai veduta; perchè da quel gruppo o mucchio nero che là si scorge, io arguisco che debbon essere incantatori i quali ne menano prigioniera qualche principessa in quel cocchio; ed io devo ad ogni modo impedire così gran torto. — Quest’è ben peggio che i mulini da vento, disse Sancio: guardi bene, signore, quelli sono frati dell’Ordine di san Benedetto, e che sarà una carrozza di gente che viaggia al solito: badi bene a quello che dico, e stia avvertita su ciò che vuol fare, nè si lasci accecare dal diavolo. — Te l’ho già detto, rispose don Chisciotte, che tu non t’intendi di avventure: ciò ch’io dico è vero, e te lo proverà or ora l’effetto. Intanto [p. 70 modifica]fattosi innanzi si mise nel mezzo della strada ove i frati dovevano passare, e condottosi al punto da poter essere da loro inteso, sclamò con voce sonante: “Genti diaboliche e scomunicate, lasciate andar libere sull’istante le alte principesse che ne menate a forza prigioniere in quel cocchio, altrimenti preparatevi a ricevere subita morte per giusto castigo delle malvagie vostre opere„. Tirarono i frati la briglia alle mule, e si fermarono, colti dal più grande stupore, sì per la strana figura di don Chisciotte, come per le cose che diceva; poi gli risposero: “Signor cavaliere, noi non siamo gente nè diabolica nè scomunicata, ma due religiosi dell’Ordine di san Benedetto che andiamo pe’ fatti nostri; nè ci è noto che in questa carrozza ci siano o no principesse rapite. — A me, replicò don Chisciotte, non la darete ad intendere colle vostre melliflue parole, chè io ben vi conosco, malaugurata canaglia„, poi senz’attendere altra risposta, abbassata la lancia, spronò Ronzinante, e con sì gran furia andò incontro al frate più vicino, che se non si lasciava cader dalla mula, l’avrebbe fatto stramazzar in terra, o morto, o bruttamente ferito. Il secondo religioso, che vide il mal giuoco fatto al compagno, battè furiosamente la mula, e si diede a fuggire per la campagna colla rapidità del vento. Quando Sancio Panza vide il frate disteso in terra, smontò con prestezza dall’asino, e cominciò di botto a spogliarlo. Sopraggiunsero in questo punto due servitori dei frati, e domandandogli perchè gli rubasse i vestiti, Sancio rispose che quello era uno spoglio che se gli apparteneva legittimamente come bottino della vittoria guadagnata dal suo padrone don Chisciotte. I servitori che non sapevano di siffate burle, nè s’intendevano di bottini o di [p. 71 modifica] vittorie, vedendo don Chisciotte impegnato a parole con quelli che seguitavano il cocchio, diedero tante percosse a Sancio, che stramazzatolo in terra fuori di sentimento, non gli lasciarono pelo sul mento; e senz’aspettare un istante fecero rizzare il frate tutto tremante e avvilito e senza colore in viso; il quale, come si vide rimesso a cavallo, s’indirizzò alla volta del suo compagno che molto da lontano stava osservando e attendendo come dovesse finire tanta battaglia. E senz’altro indugio seguitarono il loro viaggio facendosi tanti segni di croce che se il demonio stesso li avesse inseguiti sarebbero stati ancor troppi. Stava don Chisciotte, come s’è detto, ragionando con la signora del cocchio, e le diceva: “La vostra bellezza, signora mia, può oramai disporre di sè medesima a suo senno, poichè la superbia di questi vostri assassini giace abbattuta al suolo mercè il valore del mio braccio; e perchè non abbiate a penar per sapere il nome del vostro liberatore siavi noto ch’io mi chiamo don Chisciotte della Mancia, cavaliere errante, venturiere e prigioniere della vezzosa senza pari Dulcinea del Toboso. In guiderdone del benefizio che avete ricevuto da me altro da voi non chieggo, se non che ve n’andiate al Toboso, e presentandovi per parte mia dinanzi a questa signora, le diate contezza di quanto ho operato per ridonarvi la libertà„. Uno scudiero tra quelli che seguitavano il cocchio, e ch’era biscaino, stava ascoltando tutto ciò che dicea don Chisciotte, e vedendo ch’egli non permetteva alla carrozza di proseguire pel suo cammino, ma l’obbligava a dar volta verso il Toboso, afferratagli la lancia, si fece a dirgli in cattivo castigliano e peggior biscaino: “Va, cavaliere, col tuo malanno: ti giuro per chi m’ha messo al mondo che se tu non lasci andar questo cocchio ti ammazzo da biscaino che sono„. Comprese benissimo don Chisciotte quant’egli avea detto, e con molta gravità gli rispose: “Se tu fossi cavaliere, che nol sei, vilissima creatura, il tuo temerario ardimento avrebbe a quest’ora trovato il meritato castigo„. Al che replicò il Biscaino: “Io non sono cavaliere? Giuro a Dio che tu menti come cristiano. Se porti lancia e cingi spada vedrai quanto presto il gatto te la graffierà via! biscaino in terra, idalgo in mare, idalgo pel diavolo! e mente chi porta altra opinione. — Or la vedremo, rispose don Chisciotte; e gittando la lancia in terra sfoderò la spada, imbracciò la rotella ed assalì il Biscaino con animo determinato a privarlo di vita. Il Biscaino che sel vide venire addosso a quel modo, avrebbe voluto smontar dalla mula (chè per essere delle più triste non potea fidarsene troppo) ma non riuscendo, cominciò ad adoperare la spada. Volle la sorte che trovandosi assai presso al cocchio ebbe opportunità di dare di piglio a un guanciale che gli servì di scudo, dopo di che vennero l’un [p. 72 modifica]contro l’altro a battaglia come due arrabbiati nemici. I circostanti facevano ogni potere per acchetarli, ma non vi riuscivano; perchè il Biscaino bestemmiando affermava che avrebbe ammazzato chiunque gli avesse impedita la zuffa, quand’anche fosse stata la sua padrona medesima. La signora del cocchio, maravigliata e impaurita per ciò che vedea, ordinò al cocchiere di scostarsi alquanto, e da lungi si pose ad osservare l’inviperito combattimento. Il Biscaino diede sì solenne fendente a don Chisciotte sopra una spalla, che se non lo avesse difeso la rotella lo partiva in due sino alla cintola. Il dolore di sì pericolosa ferita fece gettare uno strido a don Chisciotte, esclamando: “O Dulcinea, signora dell’anima mia, fiore della bellezza, date aita a questo vostro cavaliere, che per mostrarsi obbligato alla somma vostra bontà si trova in sì mortale cimento„. Il dir questo, lo stringere la spada, il coprirsi con la rotella, l’assaltare di nuovo il Biscaino fu un punto solo; ed erasi risoluto di azzardare un colpo affatto decisivo. Il Biscaino, che tutto previde e conobbe la determinazione di don Chisciotte oltremisura infuriato, pensò di fare lo stesso sopra di lui. Però fattosi scudo del suo guanciale, lo attese a piè fermo, non potendo indurre la mula a verun movimento; come quella che stracca e non avvezza a burle di questa sorte, non potea movere un passo. Erasi, come già s’è detto, mosso don Chisciotte contro l’accorto Biscaino con la spada alzata, divisando di partirlo per mezzo; e colla stessa risoluzione il Biscaino aveva alzata egli pure la spada difeso dal guanciale. I circostanti stavano impauriti ad attendere l’esito dei colpi terribili coi quali l’un l’altro si minacciavano; e la signora del cocchio e le le sue ancelle facevano mille voti e preghiere ai santi ed ai santuari tutti di Spagna affinchè Dio liberasse lo scudiere e loro stesse con lui, dal pericolo in cui si trovavano tutti. — Ma il male si è che l’autore della presente storia lasciò a questo punto [p. 73 modifica] sospeso il racconto, scusandosi col dire che intorno alle imprese di don Chisciotte non trovò scritto più di quello che sin qui è riportato. Vero è però che il secondo autore di quest’opera non volle credere che storia sì autorevole fosse caduta in oblio, nè si potè persuadere che vi fossero nella Mancia ingegni tanto da poco da non conservare negli archivi loro qualche foglio che trattasse dei fatti di un cavaliere cotanto illustre. Con questa persuasione pertanto non disperò di trovare il fine di sì piacevole storia; ed in fatti, col favore del cielo, la scoperse poi nella maniera che si dirà nel capitolo seguente.



Note

  1. Quest’avventura di Diego Perez de Varga soprannominato Machuca (noi traduciamo Schiaccia) accadde all’assedio di Xeres sotto Ferdinando, e fu argomento di molte romanze.
  2. Regola IX: “Che nessun cavaliere si lagni mai di ferita veruna„. Marques, Tesoro militar de cavalleria.