Ecatonfilea/Ecatonfilea

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Ecatonfilea

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ECATONFILEA


Parmi officio di pietà e di umanità, ove io in una e un’altra di voi, bellissime fanciulle, veggo più segni d’animo oppresso da gravissime cure amatorie, ivi con quanto in me sia arte e ingegno renderle a voi facili e leggere. E testé vedendo parte di voi, figliuole mie dolcissime, sostenersi la fronte con mano e le tempie, parte compriemersi le braccia al petto, parte sospirando aggiugnersi le palme al viso, parte qui e quivi per tutto questo teatro avere gli occhi solliciti come a riconoscere fra la moltitudine quello uno amato quale voi aspettate e molto desiderate vedere, qui non posso io non avere pietate di chi così conosco essere in quelle pene in quale io tempo fu men dotta ad amare languendo vivea. E benché in voi sia ottimo ingegno e singulare prudenza a ben reggersi amando, non però dubitate, giovinette ornatissime meno di me in questo esperte, che da me udirete cose quali vi sarà gratissimo e utilissimo avermi ascoltato. Niuno si truova ottimo medico quanto colui il quale si ricorda giacere in quella infermità quale ora vuole levare ad altri. Io per insino a qui tra i miei e altrui amori già mi truovo avere senza pentimento alcuno saziato il desiderio mio con uno più che cento amanti, tale che a ogni autunno poss’io annoverare due amori. Onde per questo e’ litterati uomini, quali sopra gli altri sempre a me piacquono, me fra’ loro privati e amorosi ragionamenti appellano Ecatonfilea. Dicono vuole dire cento quali io con mie compagne abbiamo goduti amori. E ora in me aspetto sopra cento il secondo triunfo nei solazzi e dolcezza dello amore. Pertanto, anime mie, vezzi miei, mentre che i mimmi e personaggi soprastanno a venire qui in teatro, [p. 200 modifica]ascoltate, quanto fate, con diligenza e molta attenzione me in questa arte ottima maestra e cupida di rendervi molto erudite, e imparerete finire i vostri amori con infinito piacere e lietissimo contentamento, senza timore o dolervi di sinistro alcuno caso quale nello amare possa seguirvi.

In tutti i miei amori propii, quali sino a qui sono stati non più che tre, e in quelli ove io inframisi mia opra e industria, mai se non del primo ebbi per mia imprudenza troppo da dolermi o da pentirmi di cosa alcuna. Fu il primo amore mio in quella età giovinetta, quando io troppo stimava ogni mia bellezza, e più pregiava vincere mie garuzze e prove che aggiugnere a quella una cosa, per quale sola me io adornava e molto studiava mostrarmi bella e dilicata. Ma di questo sempre poi molto rendetti grazia a te Venere, a te Cupido, che in quello primo amore mio, in que’ miei giovenili errori desti a me amante prudente, modesto, vertuoso, pietoso, sofferente, e in ogni laude ornatissimo, dal quale io imparai quello che troppo giova, amare copertissimo e sanza alterizia, di dì in dì emendando e’ miei errori e sempre più conoscendo cose ad amare perfettissime certo e necessarie, persino a recitare prolisse istorie con gli occhi solo e cogli sguardi. Felice amata qualunque che così si truova fortunata d’uno simile fedelissimo e amantissimo amico. Dolce amore, dolce spasso, dolce quel primo ardore, el quale porga a chi ama piacere insieme e dottrina a molto contentarsi. Mai cade dell’animo uno primo vero e bene apreso amore. Né si può dire quanta suavità e quanto gaudio sia da infinite parte in qualunque vero amore. Ma certo nel primo troppo sono smisurate le dolcezze e letizie nostre, se già, quanto spesso interviene, non le perturba che noi femine, quale era io leggera e giovinetta, troppo siamo sdegnose, e troppo stimiamo ogni minima nostra gara. Stolte noi! Quante voluttà maravigliose perdiamo in pruova, e quanto dipoi sole e in palese piangiamo la nostra durezza! Né prima, nostro difetto, in noi mancano i nostri continui dolori se non quando con nostre molte lagrime rendiamo maturo e trattabile el duro animo nostro e acerbo. Giova adunque sapere senza alterigia e sdegno amare. Ma raro accade potere senza acerbità continuare i principiati [p. 201 modifica]amori, se con prudenza prima non eleggiamo a noi atto e condegno amatore. Ascoltate adunque, fanciulle vezzosissime, e imparate da me vivere liete amando con pace e glorioso riposo.

Io qui prima v’insegnerò eleggere ottimo amante. Poi vi farò maestre in che modi, con che arti possiate prenderli e nutrirli di molta grazia e benivolenza. Ultimo udirete quanto facile e sicuro vi mostrerò lungo tempo triunfare in vostre amorose espettazioni. E quale poi, quale per questo a me renderete fra voi grazia? Dio buono! Quale grazia renderete a me, fanciulle amorose, quando proverete quanto i miei precetti a voi prestino grandissima utilità? Ma da voi nulla altro aspetto, nulla chieggo se non che, uditi con molta attenzione i miei ditti e precetti, molto amiate quell’uno da chi voi molto vi sentite amate. E certo affermo questo: qual di voi amando non osserva miei ricordi e ammonimenti, costei non aspetti mai satisfarsi sanza grandissime perturbazioni, né mai stimi poter vivere amando non molto carca e oppressa d’infinito merore e doglia. State adunque attente ad imparare quanto vi gioverà sapere, ove troppo vi nuoce non sapere amare.

Abbiamo qui prima a dire quali sieno da eleggere amanti. Principio v’ammonisco, carissime figliuole, eleggete amante né vecchio d’età né troppo giovinetto. Niuna età più si truova a felice amare atta, quanto quella de’ già fermi e robusti uomini. Sono e’ vecchi omai sazi e inetti a’ dolci spassi d’amore, e stimate voi quanto sia tormento amare chi voi non molto ami. Vero, questi giovinetti sul primo fiorire della loro virilità sono dolcissimi d’aspetto e alle lunghe vigilie forse meno che gli altri deboli. Ma per Dio pregovi, ponete qui animo meco a riconoscere quanti incommodi questi seco apportino. Non sono esperti, e ogni piccola cosa loro all’animo fa grande ombra. Sono frettolosi e per questo male sofferenti, aventati, precipitosi, e perché poco conoscono, imprudenti; d’ogni cosa sospettosi, subito si sdegnano. E vedereteli mai sanza suo qualche seguace amico con chi e’ recita ogni sua amatoria istoria, e piaceli fingendo con quello che sia vero aggiugnere e vantarsi del falso, onde chi ode referisce agli altri, né mai si può dire di noi femine cosa sì falsa che non sia da [p. 202 modifica]qualche buono creduta. E così prima siamo per questi giovinetti in voce e favole della plebe che noi sappiamo il nome di chi ci ama. E interviene, quando bene ogni sinistra fama di noi tacesse, come si dice che la leonza fanciulletta seguendo il cervo treppa e scherza con lui, non il piglia. E quanto io, così accadendo, più a me piacerebbe accettare uno vecchio amante che uno così giovane. Sarà el vecchio saputo, desto e presto a conoscere e adoperare i tempi, luoghi, e ogni occasione. El giovinetto né bene conoscerà queste quanto sieno utili, e conoscendole saprà né ardire né fruttarsele. Vedrai il vecchio amante tacito, sofferente, coperto, modesto, guardingo, quando il giovinetto tutto il dì s’avolgerà intorno all’uscio tuo, quale come solo cerchi fare qualunque passi testimone del vostro amore. Né se non per grandissima cagione il vecchio amante lascerà la impresa: amerà te una sola, e restando amarti non però t’inimicherà, né sarà verso di te in parole o in fatti duro o molesto. El giovinetto, il quale come chi nuovo viene al pubblico mercato, in ogni luogo bada, d’ogni cosa si maraviglia, ciò che vede vorrebbe, ogni piccolo sguardo il volge altrove. E niuna si truova miseria a chi vero ami maggiore, che amare chi non abbi seco dedicato il suo petto e animo insieme a servire tutto a uno solo amore. Poi ancora questi medesimi giovinetti per qual sia minima cagione lasciano d’amare, e par loro virilità e gagliardia ancora e dovuto aversi a noi quasi come a capitali inimici. Misere noi, se così amando giovinetti lievi per età, superbi d’ingegno, vani di consiglio, viviamo in continua paura e dolore! In una cera tenera e molle facile s’impronta e facile si spegne qualunque forma: così in quella prima virilità tenera e delicata molto più, credete a me, si spegne presto l’amore che non si accende. E a chi pure ivi piacessi straccarsi sotto uno quello amoroso sollazzo, rammentisi quanto non sia meno la rugiada che cade in una intera astate, che la gragnuola qual sì in uno e un altro dì ruina.

Sono adunque, quanto vedete, fanciulle gentilissime, i vecchi ad amare non in tutto attissimi, e sono i giovinetti pericolosi molto e da fuggirli. Ma quelli che fioriscono in età ferma e matura, possono quello a che i vecchi sono deboli, e sanno quello in che sono i giovinetti imperiti e rozzi. Un pome maturo e sodo [p. 203 modifica]più sarà odorifero e soave che quando era acerbo, ma questo troppo maturo sarà vacuo, vincido e frollo. Così l’amore de’ giovinetti sta pieno d’acerbità e asprezza. Aggiugni che in amare sono altre infinite non minori dolcezze troppo maravigliose più molto che sedersi soli due in su una sponda. Ecci il motteggiare festivo; ecci scoprire suoi dolori raccontando l’antiche passate molestie; ecci il palesare ogni sospetto, emendando e con dolci accuse riprendendo l’uno l’altro, e così godere susurrando più ore, parte ridendo, parte dolce lacrimando. Niuna cosa si trova tanto soave a chi vero ami, quanto sulle gote sue e in sul petto suo sentire unite le lacrime tue con quelle di chi t’ami. E quale mele d’Iblea, qual cinnamo d’Arabia, qual nettar apparecchiato alli Dii, figliuole mie leggiadrissime, qual si può imaginare cosa tanto soave quanto una sola lagrimetta di chi tu ami? Cosa inestimabile! Dolcezza maravigliosa! Nulla tanto si truova in amare preziosissimo e da molto stimarlo. Non tutte le gemme appresso degli Indi, non tutto l’oro in fra’ Persi, non tutti gl’imperi de’ Latini tanto sono preziosissimi, o figliuole mie ornatissime, quanto una sola lagrimetta di chi tu ami. O felice fanciulla, o fortunata amata, o beato amore quale in quegli occhi tanto da te amati vederai insieme amore, fede, pietate e dolore! E così a simili e molti altri divini piaceri e diletti, quali per più rispetti e per brevità qui non racconto, sono accomodatissimi non e’ garzonetti né in tutto anche i vecchi, ma solo i già fermi e maturi petti.

Sino a qui avete di che età siano gli ottimi amanti. Restano altre cose utilissime circa a eleggere amanti, quali reciterò brevissime.

Mai a me parse atto ad amare uomo troppo ricco, però che questi pecuniosi comperano gli amori, non cambiano la benivolenza, e possendo da molte sadisfarsi non servano fede a uno vero amore. E parmi durissima cosa amare uomo troppo bello, però che da molte chiesto, da noi troppo amato, mai possiamo di lui vivere sanza grandissimo sospetto. E parmi pericoloso amare uomo supremo di stato e molta fortuna, però che non possono darsi ad amare sanza più domestici e strani testimoni. Escono mai sanza moltitudine di suoi servi e amici, e sempre da tutti più che gli [p. 204 modifica]altri notati e tenuti a mente. E sono questi medesimi d’animo superbo e mente altiera, e spesso più cose vogliono per forza che per amore. E parmi poca prudenza amare questi oziosi e inerti, e’ quali per disagio di faccende fanno l’amore suo quasi essercizio e arte, e con sue perucchine, frastagli, ricamuzzi e livree, segni della loro leggerezza, vagoli e frascheggiosi per tutto discorrono. Fuggiteli questi, figliuole mie, fuggiteli, però che questi non amano, ma così logorano passeggiando il dì non seguendo voi ma fuggendo tedio. E quello che dicono a te, simile dicono a quante l’incontrano. E quello che dell’altre dicono a te, non dubitare, simile dicono di te, o vero o falso che sia. E parmi biasimo, qual forse fanno alcune, darsi a contadini, vetturali o servi, però che queste così fanno sé serve di persone vili e villane. Estimano questi infimi e mercenari uomini ivi nobilitarsi ove pubblico divulghino sé essere accetti a qualche gentile e magnifica madonna. E sotto ombra di religione amare chi pe’ pulpiti palese abbaiando sgridi e biasmi quello di che in occulto te prieghi, a me pare non biasmo solo ma infortunio. Questi adunque quali raccontai, troppo ricchi, troppo belli, troppo fortunati, troppo adornati, o troppo vili, sono a bello e bene amare non utili.

Ora investigheremo quali siano utilissimi amatori. Non dubitate, fanciulle molto leggiadrissime, che uno amante non povero né sozzo né disorrevole né vile sarà ottimo a cui fidiamo il nostro amore. Questo vero quando in lui sia prudenza, modestia, sofferenza e virtù. E fu natura e volontà mia sempre cupida ad amare persona quale io udissi studiosa di buone arti, litterata e ornata di molte virtù, simile a quel mio primo signore, da me più che me stessa troppo amato; lui di persona e d’aspetto bello, gentile, signorile, delicato e pieno di maravigliosa umanità; lui d’ingegno sopra tutti i mortali quasi divino; lui copiosissimo d’ogni virtù a qualsisia supremo principe dignissima; destro, robusto della persona, animoso, ardito, mansueto e riposato; tacito, modesto, motteggioso e giocoso quanto e dove bisognava; lui eloquente, dotto e liberale, amorevole, pietoso e vergognoso, astuto, pratico, e sopra tutto fidelissimo; lui in ogni gentilezza prestantissimo, schermire, cavalcare, lanciare, saettare, e a qual vuoi simile cosa [p. 205 modifica]adattissimo e destrissimo; lui in musica, in lettere, in pittura, in scultura, e in ogni buona e nobile arte peritissimo, e in queste anche e in molte altre lode a quale si sia primo era non secondo. Non potre’ qui raccontarvi la metà delle sue maravigliose virtù, per le quali il signor mio fra tutte le genti era famosissimo, amatissimo, celebratissimo. Né mi pare disonore appellare e riputar signore quello dolcissimo unico fedele amico, per cui niuna sarebbe sì difficile e laboriosa cosa quale io pronta non apprendessi per piacergli e ubbidirlo; e sarebbemi in luogo di carissimo dono dire, dare e fare qualunque cosa e’ mi comandasse. E chi, quanto e’ vole, da me può essere ubbidito, certo m’è signore. O signor mio! O fortunata me! ove così la mia fortuna mi die’ te amante, a cui mai si truovi né pari né simile virtuoso. Ma poi, infortunata me, che così mi truovo non avere potuto in que’ lunghi paesi ove tu, signor mio, dimori, con teco uno solo vivere in perpetuo e felicissimo amore. Ma emmi conforto poi che ancora dura la fede in me con la memoria di te, che ancora serbo e sempre serberò ogni tuo dono e ricordo della nostra dolcissima benivolenza. Simile, figliuole mie amatissime, simile amante, se alcuno mai più si troverà, vi consiglio eleggiate e molto amiate. Sempre ad amare preponete i litterati, virtuosi e modesti. Questi sono da cui riceverete amando infinito premio della vostra benivolenza e fede, e da cui arete mai a dubitare sinistro alcuno. Questi sono quelli quali fanno il nostro nome appresso de’ nipoti nostri essere immortale. Questi fanno le nostre bellezze splendidissime e divine. Ancora vive Lesbia, Corinna, Cinzia, e l’altre già mille anni passati amate da quelli dotti e litterati. Amate, fanciulle, adunque, i litterati virtuosi e modesti, e viverete liete, onorate in dolce e perpetuo amore.

Detto quali sieno da eleggere amanti, seguita mostrarvi prenderli e nutrirli amando.

E prima v’ammunisco, figliuole mie suavissime, che cosa niuna si truova presta e facile a voi fanciulle formosissime, quanto allettare chi vi perseguiti rimirando. Uno solo dolce sguardo, un presentarvi liete, uno vezzo amoroso incende qualunque si sia freddo e pigro animo a desiderarvi. E per questo non raro vidi alcune vane fanciulle molto errare, stimandosi amate da [p. 206 modifica]qualunque più che una volta le guardi, e a tutti fermano gli occhi e godono essere accerchiate da molti badeggiatori, e credono tanto essere belle quanto da molti sieno molestate. Non è lodo di bellezza, no, figliuole mie, avere grande essercito di chi v’assedi, ma sapere, ornata non meno di umanità e facilità che d’oro e di purpura, farvi amare e riverire. Un solo lume fa vera e intera ombra, quale più lumi attorno la guastano. Così non da molti, ma da un solo fermo e fedele amante segue intero e dolce amore. E interviene che ’l pollo quale continuo razzoli in tutte le polveruzze, poi la notte dorme mal satollo. Giovi adunque a chi ama spendere sua opera solo dove truovi da nutrire il suo amore. E quale poco prudente non considera quanti incommodi e danni stia al suo amore avere l’animo più che a uno solo affezionatissimo? Sappiate, fanciulle, el perfetto amore essere cosa immortale né potersi dividere, ché se ne facessi parte ad altri, quel che mancassi el renderebbe imperfetto e male intero; e chi così ne fa più parti, rompe l’amor, non ama; e chi non conserva amore, merita non essere amata; e felice quella fanciulla, quale amando uno solo, mai arà suo petto vacuo d’amoroso pensiero. Continuo amore, continuo sollazzo a chi sa amare. E quando ogni altra ragione qui fusse vana e falsa, pensi ora qui ciascuna di voi in tanta moltitudine di seguaci quanto mai possa perseverare amando, non dico tutti o più, ma pure un solo. Se tu presti occhi e fronte a tutti, questa opera t’è quasi infinita faccenda e servitù, ove se tu manchi più a uno che a un altro, subito fra loro nascono invidie, odi e nimistà; sentonsi dipoi attorno l’uscio tuo per te fatti strepiti, risse, zuffe; senne in biasimo del vulgo, mal grata a tutti, e disonorata. Poi appresso non manca chi, o per dare molestia al suo avversario, o per gloriarsi di te, quasi vendicandosi che meno l’accetti che a lui non pare da te meritare, falso afferma avere ricevuti tuoi doni e lettere e altre ancora più secrete amatorie cose. Credonsi, diconsi, odine richiami, vivine con sdegno e tristezza; e così dell’altrui inimicizie ogni vendetta torna pure in tuo danno. E quando ancora questi fossono modestissimi amanti, e da loro nulla alla tua fama e quieto vivere nocesse, ancora troverai a continuare amore questa moltitudine esserti troppo [p. 207 modifica]dannosa. Stanno or l’uno or l’altro come nimici spioni, né puoi a te fare utile tempo o luogo alcuno. Così ti senti assediata da continui vigilantissimi testimoni, e disturbata in ogni tua amorosa impresa. Pertanto vi conforto e ammunisco eleggiate di tutta la moltitudine non più che uno qual dissi amante, a cui vi porgerete ornate non meno d’amore che di gentilezze, né meno di gentilezze che d’abito o portamenti. Poi agli altri tutti sarete con vostri sguardi avare e rattenute, e così tutti in pochi dì, vedendosi non accetti, vi lasceranno godere quale ben nutrirete uno solo dolce amore. Niuno ama lunghi dì se non spera essere accetto. Se mostrerete non l’avere accetto, certo lascerà l’impresa. Né piaccia a voi l’oppinione di quelle vane giovinette, quali persuadono a se stessi ogni grazia e forza a farsi amare averla in loro ornamenti e apparati. Affermovi, figliuole mie, che né gemme, né auro, né nostre chiome o fronte, ma i gentilissimi costumi, la umanità, la facilità, la pietà, sono l’arme con che noi trionfiamo d’amore. Molte più vidi sozze, grate, liete e modeste essere amate che belle, altiere e superbe. Ingegno altiero può mai dolce amare. E qui pensate fra voi, o giovinette, qual cosa prima incese voi ad amare. Credo io fu non purpura, gemme o qual sia ornamento della fortuna, ma bene il costume, la virtù, la modestia e civiltà di chi vi serve. Simile quale a voi, così interviene a chi v’ama. Adunque porgetevi a uno solo virtuoso e modesto, non come alcune avventate e ardite, ma con dolce presenza, con dolce costume, con intera umanità, con semplice facilità, liete, festive, gioconde, e a quel modo, quanto vorrete, acquisterete grazia, benivolenza, e pronto servire da chi voi desiderate.

Così vedesti come conviensi eleggere uno solo amante quanto di sopra dissi virtuoso e modesto, di matura età e interi costumi, quale uno voglio vi disponiate tanto amare quanto da lui desiderate essere amate. Rammentami a questo proposito in quel mio primo amore più volte piangendo in grembo della mia carissima madre dolermi, ove a me non parea che il mio signore, quello uno, parte dell’anima mia, quello uno solo a cui io aveva tutta donata me stessi, fussi verso di me grato a ricambiare quanto da lui desiderava molto e apertissimo amore. E così troppo incesa [p. 208 modifica]d’amoroso desiderio, solo un conforto trovava al mio martire, quando potea con la mia madre piangendo raccontare i miei dolori, accusare quanto mi parea durezza del mio amatissimo signore. Se così poco a me giovava con lacrime e sospiri miei, svelti persino entro dal mio core, più volte pregarlo none sdegnassi né fuggissi me da cui vedesse manifesto sé essere amato, dipoi raccontavo le maturissime, quanto ora le conosco, ma in quella età acerbissime risposte quale a me facea il mio pietosissimo signore, con molta prudenza correggendo i miei errori. Io, che giovinetta e di troppe ardentissime fiamme incesa, tutto, qual fa chi ama, contra a me volgea sempre in piggiore parte, piangeva; e me stessi tutta ora stimolando ad amare più incendea, dolendomi amare e non essere amata. Quale una cocentissima cura fece che appresso di tutte le maghe e incantatrici rimase non erba, non versi, non unti, non cose alcune atte a immettere negli animi amorosi pensieri, quale io non raccogliessi per vincere ad amarmi quello uno per cui io periva amando. Ma di questo prima colla mia sapientissima madre con molte lagrime discoprendomi e consigliandomi, molto mi biasimò in simili parole: «Figliuola mia, gli occhi, figliuola mia, gli occhi sono guida dello amore. Niuna erba, niuno incanto, non quella Circes, non quel Merin, quali sé o altri corpi umani convertivano in vari mostri, tanto potrebbono a farsi amare con loro versi e incanti, quanto solo con mostrar d’amare. E chi vuole parere amante, ami, ami, figliuola mia, ami chi vuole parere amante. Niuno parrà musico se non suona o canta. Così niuno può parere vero amatore ove non ami. Vuolsi mostrare d’amare quanto più puoi, e ancora viepiù amare che tu non mostri; e così amando certo sarai amata. Mai fu amato che non amassi». Aggiugneva ella qui più molte cagioni, ma questa troppo a me sempre piacque. Disse: «Pruova in te, figliuola, che di niuno sarà a te riferito che ti biasimi o portiti odio, a cui tu subito non reponga pari entro a te animo inimico e odioso. Né dubitare che da natura più ciascuno s’inclina ad amare che a inimicare, però che l’amore in se tiene dolcezza, ove l’odio sta pieno d’acerbità. Pertanto, quanto dissi, niuno sentirà da te amatosi, a cui subito non stia necessità pari ad amarti. E lascia (disse la mia madre), lascia [p. 209 modifica]queste male arti a chi mal vive, e chi così vivendo merita odio non amore. Ama tu, e sarai amata. Porgiti lieta, gioconda, amorevole e tale che tu meriti essere amata, insieme e molto ama, così certo subito sentirai accese le fiamme amorose in chi tu ami. E reputa in buona parte, se chi tu desideri segue lento a discoprirsi amante, e giudica chi viene riposato ad amare, costui tardo in amare si stracca; e mai fu tardo amore non molto perpetuo ed eterno. Raro percuote o casca chi corre rattenuto, e qualunque arbore tardo cresce, tardi perisce».

O perfettissimi ammonimenti quali io provai poi essere verissimi! Quanti sdegni, quanti fastidi più a me che a lui dannosi, quante ingiurie, non se non per mio poco sapere amare, sofferse da me il mio signore. Mai però restò di molto amarmi, mai cominciò essermi in alcuna cosa molesto. E in lui provai quello a me diceva l’avola mia, donna in altre cose e in prima in amare espertissima, che uomo sofferente sempre fu taciturno e copertissimo. Mai il signor mio, benché per mie ingiurie adolorato, mai però con altri scoperse il suo dolore o mio alcuno errore. Adunque, fanciulle, sianvi a mente questi quali sino a qui raccontai ottimi precetti. Durate servendo e amando, così sarete amate. Via brevissima a farsi male volere sempre fu mostrare di mal volere: molto più brevissima ad acquistare amore sarà questa una sola, amare. Amate adunque e acquisterete amore.

Udisti sino a qui, fanciulle delicatissime, quali sieno da eleggere amanti virtuosi e modesti, come si prendano co’ buoni costumi e molto mostrare amarli. Resta quella ultima parte, in che modo si possa nutrire benivolenza e molto durare nei dolci spassi d’amore, qual cosa voglio non dubitiate essere molto necessaria. Dicesi fatica non minore serbare l’acquistato che di nuovo acquistarlo. Acquistando, a noi spesso giova la fortuna e caso; a conservarlo quasi solo la prudenza, diligenza e industria. E certo in amore sono i nostri beni non rarissimo turbati parte da’ tempi e corso delle cose, parte dalla ingiuria e iniquità de’ maligni e invidiosi, parte da molte altre cagioni e impeti della fortuna, parte per non sapere ben reggerci e guidarci amando. I tempi, fanciulle, e la fortuna conviensi ubidirli e sofferirla, e come chi aspetta di [p. 210 modifica]passare il fiume, tanto ivi soprastare che sia men torbido, così ne’ turbolenti impeti de’ venti non gittarsi a mezzo il pericolo, ma soprasedere, però che domane poi si potrà quello che forse oggi non si potrebbe, e via per lunga che sia pur si capita a chi non esce. Non uscite del corso d’amore; seguite amando, e così a’ mali passi soprastando, e arriverete in tempo a quanto desiderate. Poi l’invidia de’ maligni si fugge amando occulto e coperto, però che da ogni parte sta forte di infinite ottime scuse el coperto e occulto amore. Ma in tutti e’ casi avversi a noi amanti, quanto per pruova in me e in molti altri mi rammenta aver provato, conosco principio a’ nostri mali venire non altronde che da noi, ove con nostra poca costanza, con nostra troppa alterizia e sdegno, siamo a noi e a chi ci ama infeste e dure. E credete a me, cosa niuna tanto nuoce a dolce nutrire amore quanto el nostro, quale da natura abbiamo, d’ogni cosa prendere e seguire lunghissime ed eterne gare. Solo la nostra inezia, fanciulle, solo el nostro ostinato gareggiare fa noi così poi stare quanto di voi alcuna veggo trista e pentuta. E nasce questo vizio non tanto da imprudenza, ma in prima da superbia e alterizia. Però sempre me udiste dirvi che donna superba può mai felice amare. Mai fu amore sanza sospetto. Surge sospetto da non conoscere le cose e da poco fidarsi, e al sospetto seguita sdegno. Così sdegnate ingiuriamo chi ci ama, fuggianlo crucciose e schifianlo; onde, se rendono pari a noi quali in noi truovano fronte, femmine mai ci sentiamo sazie vincerli di soperchia ira e onte, e quinci seguita tra noi discordia e grave odio. Cosa iniquissima che del suo amore alcuno in premio riceva inimicizia. Ma qui la sdegnosa e superba lungo persevera sempre crescendo con ingiuria e nimico animo. Quella, vero, che sarà d’ingegno nobile e umano, d’animo dolce e mansueto, di costume gentile e vezzosa, per ogni umile preghiera e per ogni scusa o ragione si raffrenerà, e declinerassi a farsi amare, lascerà lo sdegno, tornerà allo amore, uscirà di doglia, riverrà a’ dolci amorosi spassi.

Pertanto, figliuole mie carissime, e voi così siate non superbe e altiere amando, ma facilissime e perdonatrici. E quale di voi amando non donassi a chi ella ama qual sia sua carissima cosa? Molto più dovete donarli e cederli una minima vostra oppinione [p. 211 modifica]e presa gara. E fate quale il mio pietosissimo signore nel mio primo amore a me insegnò così schifassi e diponessi tanta avversità. Piacemi, fanciulle leggiadrissime, in qualunque cosa io possa, lodarvi quello uno solo, quale io conosco in ogni virtù e buona arte e in questa una in prima essere unico e prestantissimo maestro; né a voi stimo sia fastidio, se io lodando quel mio primo signore, quale io tanto amai e sempre amerò, vi seguo scoprendo miei antichi errori, in quali voi forse o sete cadute per imprudenza, o potreste poco dotte amando cadervi. Io, figliuole mie vezzosissime, perché troppo, anzi troppo no, né si può troppo, no, amare chi v’ama, ma amava, giovinetta semplice, inesperta, altiera, per questo, trista a me, per ogni minima cosa sospettava e mi sdegnava. Era il mio signore bellissimo, eloquentissimo, virtuosissimo, da molte spesso chiesto e chiamato, lodato, amato. Ohimè, quali erano per questo i miei dolori! Ove io stimava qualunque lo mirasse subito se lo rapisse, mai era secura né di animo non pieno d’infinito sospetto se non quanto in mia presenza il vedea. E ivi ancora desiderava qualunque altra femmina più d’una volta il rimirassi, quella subito accecassi. Io mai me saziava molto fra me lodarlo, fiso tenendo sempre in lui miei occhi fermi e mente. Quando e’ rivenia a salutarmi, niuna più di me essere potea lieta; quando sen giva salutatomi, niuna più di me stare potea mesta e dolente. Né so come la mia troppa verso di lui fede me a me stessa facea essere sfidata. Seguì il nostro amore più tempo, benché da vano sospetto spesso molestato, pur voluttuosissimo e dolcissimo, onde me per questo reputava, quanto io certo era, fra l’altre felicissima, godeva, e quanto poteva, a me prendeva sollazzo e giuoco. Secondoronmi così più giorni pur lietissimi e pieni di maraviglioso gaudio, persino che, nostro infortunio, non so quale io vidi, non però indegna d’essere amata, porgersi al mio signore troppo, come allora giudicai, familiare e con parole amica. Subito, oi, oi, trista a me, come da mortale colpo percossa, caddi in tanto pallore nel viso mio e in tanta tristezza nel mio fronte, e nel mio animo in tanto dolore, che ’l signor mio presente, quasi vinto da pietà, - savio che ben conosceva dove questa piaga al nostro amore fussi pericolosa e mortale, - lacrimò e partissi addolorato. Io [p. 212 modifica]rimasi dolendomi, e dove fu luogo, piangendo appresso della mia carissima madre, la quale per mostrarsi molto astuta e a’ miei amori quanto era desta e operosa, subito mi confermò di tutto essersi avveduta, e maravigliarsi molto, mostrando meco prendere ad ingiuria que’ tutti detti e motteggi, co’ quali il mio signore, più per piacere a me che per sollazzare altrui, ivi a tutte sé avea porto grato e festivo. Stimai io questo ad ingiuria troppo grandissima, e in me ne presi odio occulto e maraviglioso sdegno, disponendomi al tutto nulla mai più voler amare, accusando me stessi che tanto fussi stata ad altri affettissima. E così me cominciai rinchiudere in solitudine con proposito di più mai mirare fronte a uomo. Erami in fastidio amore, in odio chi amava, e tedioso chi com’io non fussi addolorata e trista. Eh Iddio, sciocche noi amanti, sciocche femmine! E che non fec’io per durare in questo proposito? Diedimi a consumare ciascuno dì più e più ore appresso i sacerdoti, adorando e soprastando ne’ tempi, rinovando ogni ora più voti a ciascun santo, che mi tollesse dell’animo quell’uno per cui io e dormendo e vegghiando sempre me stessi sollecitava. E per non ragionar co’ vivi, dura e ostinata, mi bisbigliava con le dipinture. E volli dove fussi amore, ivi imporre a me religione, quasi come mi fussi licito superchiare e vincere quello che me avea già e tenea vinta e sommessa. Amore, figliuole mie, amore mi vietava sentire o ben servare alcuna durezza di religione. Così premuta da una molestia, aggiunsi sopra la seconda, credendo con quella levarmi la prima. Nondimeno in me amava, anzi ardea amando, e pure molto desiderava deponere lo ’ncarco amoroso. Né però volea perdere l’assiduo servire di chi mi piacea spesso rivederlo, ma tacevami e simulava o nulla dolere o essere a’ miei dolori altra cagione. Fuggia in solitudine, richiudevami in oscuro e tenebroso, piangea e me stessi tormentava. All’ultimo, combattuta e da mie leggerezze vinta, usciva, e desiderava il mio signore sempre non altrove essere che in quelli usati luoghi ov’io solea con tanto contentamento mai saziarmi di molto riguardarlo. E quando io certo sapea ivi lui fussi, poco il degnava, e godeva, per darli pena, s’avedessi io il fuggiva, ove poi per veder pur lui io più volte e in più luoghi andava e ritornava. E se scontrandolo [p. 213 modifica]e’ mi salutava, io poco mostrava pregiarlo. Se non mi si porgea quanto l’usato lieto e giocondo, io miserella adolorava, e così vivea a me stessa vie molto più che a lui grave e molesta. Né so onde tanta perturbazione me a me stessi tenea così orrida e austera. Mai il vedea che ogni mio spirito e sangue non si cambiasse e perturbassi. Spesso mi tremavano tutti e’ nervi, impalidiva, e cadeva in palese dolore e tristezza, tale che il signor mio pietosissimo, più volte vedendomi così cambiata nel viso e mesta, sentendo sé verso di me in cosa niuna avere errato, con molte lagrime mi pregava, se in cosa alcuna me da lui sentissi offesa, gliele palesassi. Questo per non seguirmi dispiacendo, e per emendare ogni suo errore. E se verso d’altri era qui il mio cruccio inteso, pregava non adoperassi in lui quelle armi quali io con mia ira così arrotava per vendicarmi. E aggiugneva essere merito d’amorosa fede discoprire gli animi nostri a chi ci ama, esser licito comandare a chi te ami, e dovuto ubidire a chi ama, doversi in fra gli amanti niuno amoroso pensiero essere occulto. E così con molte altre persuasioni lungo me pregava gli perdonassi. Io, com’è nostra consuetudine, femmine, che mai ci sentiamo sazie d’ingiuriare non meno e di vendicarci, parte godeva a me il signor mio si sottomettessi, parte mi dolea a torto darli dolore, parte mi dilettava così per me vederlo in dolore e affanno. Arei voluto indovinassi il mio sospetto. E se ragionando vi s’abatteva, con molta fronte e giuri gliele negava, diceva di nulla seco essermi crucciata, altronde essere in me gravi i miei pensieri. Poi pure mostrava non lo degnare, non li accedere, non amarlo. E quasi non avrei voluto fra noi mancassi questa o altra simile gara per bene straziarlo e soprastarlo, tanto era lieta, bench’io ardessi, con ostinato sdegno vincere sue lacrime e preghiere. E così di fuori col fronte e viso altera, dentro vero in me vinta e suggetta ad amore, vampava, né meno me che lui tormentava. Esso però mai a tante da me ricevute ingiurie verso di me si porgea se non pazientissimo e fedelissimo. Dolevami non poterlo con miei oltraggi e sdegni provocarlo ad ira. Arei voluto vincerlo crucciato, e per più renderlo calamitoso, io parte simulai, parte m’indussi ad amare uno e uno altro giovinetto, e in presenza del signore mio godeva mostrarmi a [p. 214 modifica]questi nuovi amanti tale che mi stimassi alienata da lui e trasferitami ad amare altri. Qui el signore mio, quale niuna prima ingiuria avea potuto movere a non molto servirmi e gradirmi, oi, oimè, qui cominciò a meno amarmi, e con poco presentarmisi mostrarmi quanto la mia alterizia gli fussi discara. Questo mi fu l’ultima morte. Questo mi fu inestimabile dolore. Nulla mai dissi, nulla feci, nulla tentai, nulla pensai per dispiacerli di che ora insieme troppo non mi pentissi. E quello che più me adolorava era ch’io giudicava questo testé pentirmi nulla mai potermi giovare; aspettava infinite vendette, tante erano le mie verso di chi me amava a torto fatte ingiurie. Mille volte il dì bramava e chiamava la morte. Così durò il mio e suo infinito dolore, mia cagione, più e più tempo. Infelicissima me! Né potrei dirvi quante lacrime e tormenti così vivendo fussino i miei. Erano le mie notti lunghe troppo e straccate da mille volgimenti e pentimenti e varie dolorose memorie. Era il giorno a me oscuro, pieno di tenebre e solitudine. Era il petto mio al continuo carco di gravissime cure. Era l’animo, la mente mia tuttora agitata e compremuta, ora da dolore, ora da pentirmi, ora da sdegno, ora da amore, ora da pietà di me stessi, e di chi me amava: voleva, non voleva, accusava, piangeva, e mai fra me restava di recitare più mie passate istorie: dolevami aver perduti i dolci tempi, dolevami vivere in pianti, dolevami avere, mia cagione, perduto ogni speranza a più mai recuperarli, spasimava, né se non bene spesso me gittava in sul letto sospirando, piangendo, abbracciando e baciando chi meco non era. Oh miseria mia! Oh vita infelicissima! Oh ingegno mio duro e stranissimo! Che io di tanta calamità mia mi fussi cagione, potessi con brieve rimedio finirla, e pure ostinata per soprastare di sdegno me stessa e chi mi amava consumassi. Erano le nostre gote in altro tempo fresche, piene e vivide; allora per troppo continuo dolore pallide, stenuate e smorte, tale che chi noi vedea potea in sé aver pietate e molto muoversi a compassione. Né solo tanto a me fu nociva questa certo stolta mia impresa, fanciulle, quanto che dipoi sarebbe lungo recitare come molte volte mi sia con infinito dispiacere e pentimento doluto avere così per mia ingiuria perduto quel tempo quale a noi poteva essere stato [p. 215 modifica]pieno di maraviglioso piacere e certissimo contentamento, e io, stolta, il feci essere quanto udisti pieno di lamenti, sospiri e lacrime. Pur poi piacque alla mia sino allora iniquissima fortuna ch’io certo intesi la nostra durezza essere al tutto ingiusta e la mia suspizione essere falsa. Pertanto io subito me rendetti al mio pazientissimo signore facile e quanto dovea subietta. Lui, come vero era d’animo gentile, e gentilezza mai serba sdegno, subito mi si porse, quanto solea, lieto e pietosissimo. Scopersigli il mio passato errore, e manifesto gli confessai così doversi amando, quanto lui spesso m’avea ricordato, che subito nascendo il sospetto, giova apalesarlo, però che come, o prudentissimo signor mio, tu a me dicevi, l’animo e cuore di chi ama sta tenerissimo, ma poi entrovi inchiuso sospetto o sdegno, fa come l’uovo, quanto più lo scaldi, più indurisce; così l’amante sospettoso, quanto più lo ’incendi con amoroso servire, tanto più dentro a se raddura. E provai io questo in me, quanto più il mio signore mi si dava umile e subietto, tanto più a me pareva avere di mio sdegno ragione; onde intervenne che perseverando in isdegno, quando io poteva, non volli sodisfare alle mie amorose espettazioni; poi quando io e voleva e desiderava, non mi fu licito satisfarmi, però che ’l mio signore, ingiuria de’ tempi, se trasferì a vivere lungi da me in istrani paesi. E così certo interviene, figliuole mie; ove possiamo, non vogliamo, e sempre vogliamo quello che ci è difficile potere. E segueci questo solo per prendere in noi sospetto, però che dal sospetto nasce lo sdegno, per li sdegni il vendicarsi, per vendicarsi le ingiurie, per le ingiurie il perdere i dolci spassi e sollazzi d’amore. Onde poi ci stanno all’animo infiniti dolori a noi e a chi noi amiamo, e il nostro dolce amore si converte in dolore e calamità, e i nostri risi in pianti, e nostri motteggi in bestemmie; cose odiosissime e da molto fuggirle, quali certo fuggiremo, se fuggiremo ogni sospetto.

Adunque vuolsi non fare come molte, le quali sempre sollicite cercano quello che poi elle si dolgono avere trovato, e da tutti investigano ogni atto e passo che facci chi elle amano. Dicovi, fanciulle, credete a me, amoroso piacere quale abbia chi voi ami altrove, può no a voi nuocere se non lo risapete: fuggite saperlo [p. 216 modifica]e non vi nocerà. E a chi non mancherà con voi darsi diletto, costui, credete a me, non cercherà altronde saziarsi. E ramentivi che uno ago sanza refe non cuce. Così qual sia spasso amoroso sanza amore non giova. E benché forse a uno ago siano due o più crune e seco tiri più fili, non però farà se non un foro, ma ben lega più forte il cucito. Così un animo da molte acceso, più fermo sé stesso lega d’amore a chi sappia farselo suo; e beata colei qual saprà essere prima a godersi quell’uno quale molte altre desiderano. E chi così sa essere prima, costei facile potrà sempre in quello amore essere sola e fortunata. Amate, fanciulle, amate chi voi ama, e state contente del vostro amore, né curate sapere quello che poi vi nuoce saperlo. Fuggite ogni sospetto, ogni sdegno e ogni altiero costume, e fidatevi di chi v’ama e di voi stessi, e stimate quanto amerete, tanto sarete amate, e quanto serberete fede, tanto a voi sarà serbata intera benivolenza e servizio. Né dubitate l’animo dell’uomo molto più che il nostro essere amando fermo e costante. Sono gli uomini, sì, meno che noi sospettosi, perché più prudenti e conoscenti; sono più che noi amando perseveranti, perché meno gareggiosi; non prendono quanto noi ogni cosa ad ingiuria perché di più virile e rilevato animo; non servano perpetuo sdegno, perché di più magnifico e generoso petto, non restano per ogni intoppo seguire sua amorosa impresa, perché di più costante e intera fermezza. Noi femmine, timide, d’ogni cosellina sospettiamo; sospettose d’ogni minimo altrui errore, ci sdegniamo e riputiamolo incomportabile; sdegnose per ogni piccola offesa ci vendichiamo, e vendicandoci mai sappiamo finire o porre modo alle nimicizie e ingiurie nostre, e viviamo con chi noi ama quasi come con uno capitale inimico. Ahimè, figliuole mie! Per Dio, fuggite questi sospetti, quali quanto udite e quanto in alcuna di voi scorgo a me pare proviate; sono dannosi e pestiferi a chi ama. E se pure sospetto alcuno vi s’offerisce, non però subito vi sdegnate, non v’indurate suso, non lo tenete occulto; anzi prestissimo il discoprite a chi v’ama. Sempre fu il sospetto veneno dell’amicizia. E, come diceva il signor mio, pruovasi il sospetto essere non dissimile alla talpa, quale uno animale sotto terra, in oscuro e profondo, in ogni parte per tutto penetrando, commuove e attrita qual sia duro e [p. 217 modifica]denso terreno, poi subito uscito in la luce perde ogni sua forza e nervo. Così il sospetto, in oscuro e ascoso dentro al petto, mai resta di commuovere l’animo in ogni perturbazione; subito vero fatto palese, perisce. E interviene che esponendo tuoi sospetti, chi te ama con ragione e scuse purga i suoi quali tu stimi errori; e per questa fede verso di te gli cresce amore molto ardentissimo, però che sente quanto, fidandoti di lui, a te il mantenere vostro amore sia a cuore; dipoi fugge in ogni simile cosa più esserti grave. E così, discoperto il sospetto, ne vivete in dolce e continua amicizia. Onde contrario, tenendo il sospetto occulto, insieme e mantenendo sdegni e gare, vi fo certe quanto vi seguirà, che chi voi ama più e più volte offeso e per molte ingiurie da più parte percosso, per una quale a voi forse parerà minima, all’ultimo si romperà ad ira, e fastidiravvi, e trasporrà il suo amore altrove. Voi ivi sole, deserte, piangerete e desidererete indarno quello che ora non, quanto dovete, degnate. Seguiravvi ancora che chi sapea i vostri amori, vi riputerà ingrata e villana, biasimeravvi ove arete per vostra durezza escluso chi tanto vi serviva; e quelli ai quali erano e’ vostri amori prima non conosciuti, ora molto maravigliandosi non quanto prima spesso vedere l’amante vostro in quelle ore e luoghi ove soleva salutarvi e onorarvi, qui stimerà o che sazio s’abandoni il contento amore, o che in voi sia natura troppo stranissima da non poterla comportare. Seguiravvi ancora che l’amante vostro, addolorato per vostre offese, dolendosi di vostre ingiurie, forse con qualche vostra infamia si vendicherà. Né sia chi stimi che chi per altrui durezza e impietà già sia condotto agli ultimi dolori e quasi presso alla morte, ora di lei o di suo onore abbia più che lei di lui compassione o riguardo. Così superbe, ingiuste, ingrate, perderete fama, amante e amoroso sollazzo, riceverete infamia, merore e tristezza, troveretevi sole, abbandonate, sanza amante, sanza chi vi servi o lodi, viverete con dolori, lacrime e sospiri. E dove prima il vostro sospetto era che il signore vostro amassi altri insieme con voi, ora certissime che più non ami voi, mai sarete senza gravissima e certa paura, sempre temendo che chi può, non si vendichi. Ogni ferma pazienza, figliuole mie, spesso offesa diventa furore. E se voi d’ogni minima ingiuria tanto [p. 218 modifica]v’indegnate, stimate che chi da voi più volte sia con grande ingiuria offeso, costui quando che sia si romperà a cruccio furioso e ad ira, né sarà più amore in chi voi spesso arete offeso, ma furore; e uno amante furioso più sarà da temere che qualsiasi rabbiosa fera o mostro. E aggiugnete a queste dette cose altri ancora da non poco stimarli incomodi, quali a voi seguitano de’ vostri sdegni, che vederete que’ luoghi, ove prima in questo e quell’altro dì solevi ridere e sollazzarvi, ora per vostra caparbità esserli solitari e senza quello uno che sì voi faceva con sua presenza e festività essere liete e contente. Ahimè meschine, piangerete, verrete a que’ tempî in quali prima era vostro uso darvi agli amorosi diletti e dolci giuochi e graziosissimi ragionamenti, ora non vi trovando chi per voi tanto prima vi si presentava, sollicito e pronto a farvi liete Ahimè! Ahimè! cattivelle, starete sole, strignendovi di tristizia e dolore; calamitose piangerete e viverete in infima miseria e ultima infelicità, abbandonate, schifate, odiate da chi tanto v’amava.

Pertanto, figliuole mie gentilissime, siate non altiere, non superbe, non ostinate, non sospettose, non gareggiose per vincere d’onta. Né si chiama vittoria ingiuriando perdere un fidelissimo amante. Vuolsi vincere e soperchiare d’amore e fede chi tu ami, non di sdegno. E sarà signoria amando farsi amare, molto più che straziando chi te ami, e tormentando se stessi farsi male volere a chi te una sola con ogni fede e diligenza serve. E in cosa niuna tanto si conosce uno animo signorile e nobile quanto nella umanità, facilità e pietà. Sdegno sempre sente di villania. Solo il villano animo serba sdegno, perché non sa né vendicarsi né perdonare. E serbare sdegno deriva da inumanità; perseverare in isdegno contra chi te ami, sarà impietà, crudelità. Adunque voi, per non cadere in tanto infortunio e biasimo, per non vivere in sì pessimo male, così fate quanto di sopra dissi, dandovi ad amare: eleggete qual dissi amante, modesto e virtuoso; prendetelo ad amarvi con molta mansuetudine e vezzoso costume, tanto amando quanto più potete. Così seguite nutrendo il dolce amore di pace e quiete; e ricordatevi che sempre tra voi sarà tranquillissimo riposo e pace, se subito cominciando i sospetti non persevererete [p. 219 modifica]stando gravi a voi e a chi v’ami, ma subito, prima che sdegno sussegua, discoprirete le vostre all’animo prese ombre; e così amando con interissima fede, prontissimo servire e graziosissimo accettare la benivolenzia di chi v’ama, seguite i vostri sollazzi amorosi, e fuggite cadere in tanta calamità quanta manifesto vedete seco queste gare apportino; né dubitate ogni gara essere ultimo sterminio dello amore. Amate, e sarete amate; servate in voi fede, e sarà mai vero amante che a voi rompa fede: ogni sdegno soffera chi ama, ogni oltraggio, ogni ingiuria, ogni dispetto; solo uno il fa rompere ad ira, inimistà e vendetta, questo certo quando e’ conosce in chi egli ama non essere fede. Vuolsi adunque solo amare uno quanto puoi, e a lui fare palese sempre ogni tuo amoroso pensiero. E così amando viverai lieta, felice e contentissima.

Vorrei, ove qui il tempo bastassi, insegnarvi più e più altre cose utilissime ad amare, ma veggo già lo spettacolo preparato, e qui cominciano intrare e’ travestiti e personati. Altro adunque tempo e luogo sarà da farvi in amorose astuzie più dotte. Voi intanto, figliuole mie soavissime, porgetevi liete a vostri amanti, né siate con questa tristezza a voi gravi e a chi v’ama; ma rattenete gli sguardi vostri in tanta moltitudine di testimoni; altrove in più atto solitario luogo cambierete fra voi risi e dolci amorosi gesti e sguardi. Ora disponetevi tanto amare quanto desiderate essere amate. Niuno incanto, niuna erba, niuna malìa più si truova possente a farvi amare quanto molto amare. Amate adunque, e fidatevi di chi v’ama, e chi voi amate serberà a voi pari fede e amore. Deponete sospetti, sdegni e gare, e così viverete, amando, felicissime e contentissime.