Feroniade/III

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Canto Terzo

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II


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CANTO TERZO


Contenuto: Giove mira dall’alto dell’Olimpo tutta la valle pontina mutata in orrendo mare e distrutte le città o sommerse, per opera di Giunone e di Vulcano; i quali, non contenti ancora, muovono per distruggere la sacra selva e il tempio che unico resta a Feronia (1-48). Ma Giove manda messaggiero alla dea Mercurio, annunziatore del divieto di distruggere il tempio e l’imagine di Feronia, perché (tale è il decreto de’ fati) grande sarà Italia e Roma (49-152). Già tutta arde la sacra selva; ma quando Giunone e Vulcano arrivano al tempio, trovano su la porta Mercurio (153-259): e l’uno fugge, l’altra sale crucciata al cielo (260-350). Feronia intanto, esule dal suo regno, è accolta in casa del pastore Lica, ove lamenta i suoi mali (351-502). Ma poi addormentatasi, ecco le appar Giove, che, per consolarla, le predice che il regno di lei un giorno risorgerà a novella e maggior gloria (503-579).


All’ardua cima del sereno Olimpo
     Risalía Giove intanto, e ad incontrarlo1
     Accorrean presti e riverenti i numi
     Su le porte del cielo. In mezzo a tutti,
     5In due schierati taciturne file,
     Maestoso egli passa, a quella guisa
     Che suol, calando al pallido Occidente,
     Passar tra i verecondi astri minori
     D’Iperione il luminoso figlio2,
     10Quando dall’arsa eclittica il gran carro
     Della luce ritira, e l’Ore ancelle3

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     Sciolgono dal timon bianco di spuma
     I fumanti cavalli. Ai sacri alberghi
     Dell’aurea reggia rispettosi i divi
     15Accompagnâr l’onnipotente4; e, giunti
     Al grande limitar, per sé medesme
     Si spalancâr sui cardini di bronzo
     Le porte d’oro5, che uno spirto move
     Intrinseco e possente; e tale intorno
     20Nell’aprirsi mandâr cupo un ruggito6,
     Che tutto ne tremò l’alto convesso7.
     Ivi in parte segreta, a cui nessuno
     Non ardisce appressar degli altri eterni
     (Fuor che le meste e querule Preghiere,
     25Che libere pel ciel scorrono, e al nume
     Portano8 i voti degli oppressi e il pianto),
     L’egioco9 padre in gran pensier s’assise
     Sovra il balzo d’Olimpo il piú sublime.
     Contemplava di là giusto e pietoso
     30De’ mortali gli affanni e le fatiche:
     Mirò d’Ausonia i campi e la pontina10
     Valle in orrendo pelago conversa;
     Mirò per tutto (miserabil vista!)
     Le sue tante cittadi, altre sommerse,
     35Altre per forza di tremuoto svelte
     Dalle ondeggianti rupi, e la catena11,
     Donde pendon la terra e il mar sospesi,
     Scuotersi ancora, ed oscillar commossa
     Dalla tremenda di Vulcan possanza.

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     40Ciò tutto contemplando in suo segreto,
     Non fu tardo a veder che tanto eccesso,
     Tanta rovina saría poco all’ira
     Della fiera consorte. In compagnia
     Del potente12 de’ fuochi egli la vide
     45Verso la sacra selva incamminarsi,
     Ove Feronia nel maggior suo tempio
     Di vittime, d’incensi e di ghirlande
     Dalle genti latine avea tributo.
     Di Giuno ei quindi antivedendo il nuovo
     50Scellerato disegno, a sé chiamato
     Di Maia il figlio13, esecutor veloce
     De’ suoi cenni, gli fe’ queste parole:
     Nuove furie gelose, o mio fedele,
     Hanno turbato alla mia sposa il petto:
     55E quai del suo rancor già sono usciti
     Senza misura lagrimosi effetti,
     Non t’è nascoso. Un simulacro avanza
     Dell’esule Feronia, un tempio solo
     Di tanti che già n’ebbe; e questo ancora
     60Vuole al suolo adeguar la furibonda.
     Or che consiglio è il suo? Stolta, che tenta?
     Se rispettar le nostre ire non sanno
     Le sante cose in terra, e i monumenti
     Dell’umana pietà, chi de’ mortali
     65Sarà che piú n’adori, e nella nostra
     Divina qualità piú ponga fede?
     Prendi adunque sul mar Tirreno il volo,
     T’appresenta a Giunon carco de’ miei
     Forti comandi. Con le fiamme assalga,
     70Se tanto è il suo disdegno, anco la selva
     (Ch’ella a ciò si prepara, e consentire
     Io le vo’ pur quest’ultima vendetta):
     Ma, se l’empia oserà stender la destra
     Alle sacre pareti, e vïolarne
     75Il fatal simulacro, alla superba
     Tu superbo farai queste parole:
     Fisso è nel mio volere (e per la stigia
     Onda lo giuro14) che l’achea contrada
     Lasciar debbano i numi, e nell’opima

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     80Itala terra stabilir piú fermo,
     Piú temuto il lor seggio. Io le catene
     Del mio padre Saturno ho già disciolte,
     E l’offesa obbliai che mi costrinse
     A sbandirlo dal ciel15. L’ospite suolo,
     85Che ramingo l’accolse e ascoso il tenne,
     Sacro esser debbe, né aver dato asilo
     Di Giove al genitor senza mercede.
     Dopo il beato Olimpo, in avvenire
     Sia dunque Italia degli dèi la stanza;
     90E di là parta un dí quanto valore
     Della mente e del braccio in pace e in guerra
     Farà suggetto il mondo, e quanta insieme
     Civiltà, sapïenza e gentilezza
     Renderanno l’umana compagnia
     95Dalle belve divisa e minor poco
     Della divina. A secondar l’eccelso
     Proponimento mio già nello speco16
     Della rupe cumea mugge d’Apollo
     La delfica cortina, ed esso il dio,
     100Dimenticata la materna Delo17,
     Ai dipinti Agatirsi18 ama preporre
     Del Soratte gli scalzi sacerdoti19.
     Già la sorella sua di Cinto i gioghi
     Lieta abbandona, e le gargafie fonti20,
     105Del nemorense lago innamorata.
     Alle sorti di Licia21 han tolto il grido

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     Le prenestine, e di Laurento i boschi22
     Tacer già fanno le parlanti querce
     Della vinta Dodona23. In su la spiaggia
     110D’Anzio diletta Venere24 trasporta
     D’Amatunta25 i canestri; e Bacco e Vesta
     E Cerere e Minerva e il re dell’onde
     Son già numi latini. E alle latine
     D’Elide26 l’are già posposi io stesso,
     115E sul Tarpeo27 recai dell’Ida i tuoni
     E le procelle. Perocché maturo
     Già s’agita nell’urna il gran destino,
     Che glorïosa dee fondar sul Tebro
     La reina del mondo. Al sol bisbiglio
     120Che di lei fanno i tripodi cumani
     Tutta trema la terra28: e già s’appressa
     D’Anchise il pio figliuol, seco adducendo
     D’Ilio i Penati, che faran nel Lazio
     La vendetta di Troia29, e spezzeranno
     125D’Agamennon lo scettro in Campidoglio30.
     Cotal de’ Fati è il giro; e disvïarlo
     Tenta indarno Giunon: da Samo indarno
     Porta alla sua Cartago il cocchio e l’asta
     E l’argolico scudo31, armi che un giorno
     130Fian concedute con miglior fortuna
     Di Dardano ai nepoti, allor che Giuno32
     Per quella stessa regïon, su cui

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     Tanta mole di flutti ora sospinse,
     Placata scorrerà del Lazio i lidi.
     135Ivi su l’ara Sospita33 le genti
     L’invocheranno; ed ella, il fianco adorna
     Delle pelli caprine e dentro il fumo
     De’ lanuvini sacrificii avvolta,
     Tutti a mensa accorrà d’Ausonia i numi
     140Cortesemente, e porgerà di pace
     A Feronia l’amplesso; onde già fatte
     Entrambe amiche, toccheran le tazze
     Propinando a vicenda, e in larghi sorsi
     L’obblío berran delle passate cose.
     145Va dunque, e sí le parla. Il suo pensiero
     Volga in meglio l’altera, e alle sue stanze
     Rieda in Olimpo; ché l’andar vagando
     Piú lungamente in terra io le divieto.
     E se niega obbedir, tu le rammenta
     150Le incudi un giorno al suo calcagno appese34;
     E dille che la man che ve le avvinse,
     Non ha perduta la possanza antica.
Disse; e Mercurio ad eseguir del padre
     Il precetto s’accinse. E pria l’alato
     155Petaso35 al capo adatta, ed alle piante
     I bei talari, ond’ei vola sublime
     Su la terra e sul mare, e la rattezza
     Passa de’ venti. Impugna indi l’avvinta
     Verga di serpi, prezïoso dono
     160Del fatidico Apollo il dí che a lui
     L’argicida fratel36 cesse la lira:
     Con questa verga, tutta d’oro, in vita
     Ei richiama le morte alme, ed a Pluto

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     Mena le vive, ed or sopore infonde
     165Nell’umane pupille, ed or ne ’l toglie.
     Sí guernito, e con tal d’ali remeggio37
     Spiccasi a volo. Occhio mortal non puote
     Seguitarne la foga; in men che il lampo
     Guizza e trapassa, egli è già sceso, e preme
     170Il campano terreno, un dí nomato
     Campo flegrèo38, famosa sepoltura
     De’ percossi Giganti. Intorno tutta
     Manda globi di fumo la pianura,
     Ed ogni globo dal gran petto esala
     175D’un fulminato. A fronte alza il Vesevo
     Brullo il colmigno, ed al suo piè la dolce
     Lagrima di Lieo39 stillan le viti.
     Lieve lieve radendo il folgorato
     Terren di Maia il figlio e la marina
     180Sorvolando, levossi all’erte cime
     Della balza circèa, che di Feronia
     Signoreggia la selva. Ivi fermossi,
     Qual uom che tempo al suo disegno aspetta40;
     E, di là dechinando il guardo attento
     185Al piano che s’avvalla spazïoso
     Fra l’ánsure dirupo ed il circèo,
     E tutto copre di Feronia il bosco,
     A quella volta acceleranti il passo
     Vide Giuno e Vulcano, armati entrambi
     190D’orrende faci, ed anelanti a nuova
     Nefanda offesa. All’appressar di quelle
     Vampe nemiche un lungo mise e cupo
     Gemito la foresta: augelli e fiere,
     A cui Natura, piú che all’uom cortese,
     195Presentimento diè quasi divino,
     Da subito terror compresi, i dolci
     Nidi e i covili abbandonâr stridendo
     E ululando smarriti e senza legge

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     D’ogni parte fuggendo. I primi incendi
     200Eran già desti; e già di Giuno al cenno,
     Già la sua fida messaggera e ancella41
     Verso Eolia42 battea preste le penne,
     Con prego ai venti di soffiar gagliardi
     Dentro le fiamme, e promettendo pingui
     205In nome della dea vittime e doni:
     Come il dí che d’Achille ai caldi voti43,
     Del morto amico44 gli avvampâr la pira.
Già stendendo venía l’umida notte
     Sul volto della terra il negro velo,
     210E in grembo al suo pastor Cinzia dormía45;
     Quando i figli d’Astreo46 con gran fracasso
     Dall’ëolie spelonche sprigionati
     S’avventâr su l’incendio, e per la selva
     Senza freno lo sparsero. La vampa
     215Esagitata rugge, e dalla quercia
     Si devolve su l’olmo e su l’abete:
     Crepita il lauro; e le loquaci47 chiome
     Stridono in capo al berecinzio48 pino,
     A sfidar nato su gli equorei campi
     220D’Africo e d’Euro i tempestosi assalti.
     Già tutta la gran selva è un mar di foco
     E di terribil luce, a cui la notte
     Spavento accresce, e orribilmente splende
     Per lungo tratto la circèa marina;
     225Simigliante al Sigeo49, quando gli eletti
     Guerrier di Grecia del cavallo usciti
     In faville mandâr d’Ilio le torri50,
     E atterrita la frigia onda si fea
     Specchio al rogo di Troia, miserando
     230Di tanti eroi sepolcro e di tant’ire.
All’orrendo spettacolo il feroce
     Cor di Giuno esultava; e impazïente
     Di vendicarsi al tutto (ché suprema
     Voluttà de’ potenti è la vendetta),
     235Un divampante tizzo alto agitando

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     E furïando, vola al gran delubro
     Ch’unico avanza della sua nemica
     Ferma in cor d’atterrarlo, incenerirlo,
     E spegnere con esso ogni vestigio
     240Dell’abborrito culto. Armato ei pure
     D’empia face, Vulcan seguía non tardo51
     La fiera madre; e già le sacre soglie
     Calcano entrambi: dai commossi altari
     Già fugge la pietà, fugge smarrita
     245La Fede avvolta nel suo bianco velo52:
     Con vivo senso di terrore anch’esso
     Si commosse il tuo santo simulacro,
     O misera Feronia, e un doloroso
     Gemito mise (meraviglia a dirsi!53),
     250Quasi accusando d’empietade il cielo.
     Ma del figliuol di Maia, a ciò spedito,
     Non fu tarda l’aita in tanto estremo:
     E, come stella54 che alle notti estive
     Precipite labendo55 il cielo fende
     255Di momentaneo solco, e va sí ratta,
     Che l’occhio appena nel passar l’avvisa;
     Non altrimenti il dio stretto nell’ali
     Il sereno trascorse, e rilucente
     Sul vestibolo sacro appresentossi.
     260All’improvvisa sua comparsa il passo
     Stupefatti arrestâr Vulcano e Giuno,
     E si turbâr vedendosi di fronte
     Starsi ritto Mercurio, e imperïoso
     Contra il lor petto le temute serpi
     265Chinar dell’aurea verga56, e cosí dire:
     Férmati, o diva; portator son io
     Di severa ambasciata. A te comanda
     L’onnipossente tuo consorte e sire,
     Di gettar quelle faci, e invïolata
     270Quest’effigie lasciar e queste mura.
     Riedi alle stanze dell’Olimpo, e tosto:
     Ché ti si vieta andar piú lungamente

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     Vagando in terra, e funestar di stragi
     Le contrade latine, a cui l’impero
     275Promettono del mondo il fato e Giove.
     E di Giove e del fato a mano a mano
     Qui le aperse i voleri, e il tempo e il modo
     De’ futuri successi: e non diè fine
     All’austero parlar, che ricordolle57
     280Le incudi un giorno al suo calcagno appese,
     E il braccio punitor, che non avea
     Perduta ancora la possanza antica.
Cadde il tizzo di mano a quegli accenti
     Al dio di Lenno58; e tra le vampe e il fumo
     285Si dileguò; né disse addio, né parve
     Aver mal fermo a pronta fuga il piede.
     Ma con torvo sembiante e disdegnoso
     Si ristette Giunon, ché rabbia e tema
     Le stringono la mente; e par tra’ ferri
     290La generosa belva che gli orrendi
     Occhi travolve, e il correttor flagello
     Fa tremar nella man del suo custode.
     Senza dir motto alfin volse le spalle,
     E rotando in partir la face in alto
     295Con quanta piú poteo forza la spinse:
     Vola il ramo infiammato, e di sanguigna
     Luce un grand’arco con immensa riga
     Segna per l’etra taciturno e scuro.
     Il sidicino montanar59 v’affisse
     300Stupido il guardo, e sbigottissi; e un gelo
     Corse per l’ossa al pescator d’Amsanto60,
     Quando sul capo ruinar sel vide
     E cader sibilando nella valle;
     Ove suona rumor di fama antica,
     305Che del puzzo mortal che ancor v’esala,
     L’aria e l’onde corruppe, ed un orrendo
     Spiraglio aperse che conduce a Dite.
Come allor che su i nostri occhi Morfeo
     Sparger ricusa la letea rugiada61,

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     310D’ogni parte la mente va veloce,
     E fugge e torna e slanciasi in un punto
     Dall’aurora all’occaso, e dalla terra
     Alla sfera di Giove e di Saturno62;
     Con tal prestezza si sospinse al cielo
     315La ritrosa Giunon. L’Ore custodi
     Delle soglie d’empiro63 incontanente
     Alla reina degli dei le porte
     Spalancâr dell’Olimpo, e la bionda Ebe,
     Ilare il volto e l’abito succinta,
     320Le corse incontro con la tazza in mano
     Del nèttare celeste64; ed ella un sorso
     Né pur gustò dell’immortal bevanda;
     Ché troppo d’amarezza e di rammarco
     Avea l’anima piena. Onde, con gli occhi
     325In giú rivolti e d’allegrezza privi,
     Né a verun degli dei, che surti in piedi
     Erano al suo passar fatto un saluto,
     Il passo accelerò verso i recessi
     Del talamo divino; ed ivi entrata,
     330Serrò le porte rilucenti, e tutte
     Ne furo escluse le fedeli ancelle.
     Poiché sola rimase, al suo dispetto
     Abbandonossi; lacerò le bende;
     Ruppe armille e monili, e gettò lunge
     335La clamide regal che di sua mano
     Tessé Minerva e d’auree frange il lembo
     Circondato n’avea. Né tu sicura
     Da’ suoi furori andar potesti, o sacra65
     Alla beltade inaccessibil66 ara,
     340Che non hai nome in cielo, e tra’ mortali
     Da barbarico accento lo traesti
     Cui le Muse abborrîr. Cieca di sdegno
     Ti riversò la dea: cadde e si franse
     Con diverso fragor l’ampio cristallo67,
     345Che in mezzo dell’altar sorgea sovrano
     Maestoso e superbo; e in un confusi
     N’andâr sossopra i vasi d’oro e l’urne

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     Degli aromi celesti e de’ profumi,
     Onde tal si diffuse una fragranza,
     350Che tutta empiea la casa e il vasto Olimpo68.
Mentre cosí l’ire gelose in cielo
     Disacerba Giunon, quai sono in terra
     Di Feronia le lagrime, i sospiri?
     Ditelo, d’Elicona alme fanciulle,
     355Voi che l’opere tutte e i pensier anco
     De’ mortali sapete e degli dei.
     Poi che si vide l’infelice in bando
     Cacciata dal natío dolce terreno,
     D’are priva e d’onori, e dallo stesso
     360(Ahi sconoscenza!), dallo stesso Giove
     Lasciata in abbandono; ella dolente
     Verso i boschi di Trivia69 incamminossi,
     E ad or ad or volgea lo sguardo indietro
     E sospirava. Sul piè stanco alfine
     365Mal si reggendo, e dalla lunga via
     E piú dal duolo abbattuta e cadente70,
     Sotto un’elce s’assise: ivi facendo
     Al volto letto d’ambedue le palme,
     Tutta con esse si coprí la fronte,
     370E nascose le lagrime, che mute
     Le bagnavan le gote, e le sapea71
     Solo il terren, che le bevea pietoso.
     In quel misero stato la ravvolse
     Dell’ombre sue la notte; e in sul mattino
     375Il Sol la ritrovò sparsa le chiome72,
     E di gelo grondante e di pruina;
     Perocché per dolor posta in non cale
     La sua celeste dignitade avea,
     Onde al corpo divin l’aure notturne
     380Ingiurïose e irriverenti furo,
     Siccome a membra di mortal natura.
     Lica intanto, di povero terreno
     Piú povero cultor, dal letticciuolo
     Era surto con l’alba, e del suo campo
     385Visitando venía le orrende piaghe
     Che fatte avean la pioggia, il ghiaccio, il vento
     Agli arboscelli, ai solchi ed alle viti.
     Lungo il calle passando ove la diva

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     In quell’atto sedea, da meraviglia
     390Tocco e piú da pietà, che fra le selve73
     Meglio che in mezzo alle cittadi alberga,
     S’appressò palpitando, e la giacente
     Non conoscendo (ché a mortal pupilla
     Difficil cosa è il ravvisar gli dei),
     395Ma in lei della contrada argomentando
     Una ninfa smarrita: O tu, chi sei74,
     Chi sei (le disse), che sí care e belle
     Hai le sembianze e dolor tanto in volto?
     Per chi son queste lagrime? t’ha forse
     400Priva il ciel della madre, o del fratello,
     O dell’amato sposo? ché son questi
     Certo i primi de’ mali, onde sovente
     Giove n’affligge. Ma, del tuo cordoglio
     Qual si sia la cagion, prendi conforto,
     405E pazïenza opponi alle sventure
     Che ne mandano i numi: essi nemici
     Nostri non son; ma col rigor talvolta
     Correggono i piú cari. Alzati, o donna;
     Vieni, e t’adagia nella mia capanna
     410Che non è lungi; e le forze languenti
     Ivi di qualche cibo e di riposo
     Ristorerai. La mia consorte poscia
     Di tutto l’uopo ti sarà cortese,
     Ch’ella è prudente e degli afflitti amica;
     415E qual figlia ambedue cara t’avremo.
Alle parole del villan pietoso
     S’intenerí la diva, e in cor sentissi
     La doglia mitigar, tanta fra’ boschi
     Gentilezza trovando e cortesia.
     420Levossi in piedi; ed ei le resse il fianco,
     E la sostenne con la man callosa.
     Nell’appressarsi, nel toccar ch’ei fece
     Il divin vestimento, un brividío,
     Un palpito lo prese, un cotal misto
     425Di rispetto, d’affetto e di paura,
     Che parve uscir dei sensi, e su le labbra
     La voce gli morí. Quindi il sentiero
     Prese in ver la capanna, e il fido cane
     Nel mezzo del cortil gli corse incontro:

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     430 Volea latrar; ma sollevando il muso,
     E attonite rizzando ambe le orecchie,
     Guardolla, e muto su l’impressa arena
     Ne fiutò le vestigia. In questo mentre
     Alla cara sua moglie Teletusa
     435Il buon Lica dicea: Presto sul desco
     Spiega un candido lino, e passe ulive
     Recavi e pomi e grappoli, che salvi
     Dal morso abbiam dell’aspro verno, e un nappo
     Di soave lambrusca, e s’altro in serbo
     440Tieni di meglio; ché mostrarci è d’uopo
     Come piú puossi liberali a questa
     Peregrina infelice. Allor spedita
     Teletusa si mosse, e in un momento
     Di cibo rustical coperse il desco,
     445Ed invitò la Dea, la quale assisa75
     Sul limitar si stava, e immota e grave
     L’infinito suo duol premea nel petto;
     Né già tenne l’invito, ché mortale
     Corruttibil vivanda non confassi
     450A palato immortal; ma ben di trito
     Odoroso puleggio76 e di farina
     D’acqua commisti una bevanda chiese77,
     Grata al labbro de’ numi, e l’ebbe in conto
     Di sacra libagion. Forte di questo
     455Meravigliossi Teletusa, e fiso
     Di Feronia il sembiante esaminando
     (Poiché al sesso minor diero gli dèi
     Curiose pupille, e accorgimento
     Quasi divin), sospetto alto la prese,
     460Che si tenesse in quelle forme occulta
     Cosa piú che terrena. Onde in disparte
     Tratto il marito, il suo timor gli espose,
     E creduta ne fu; ché facilmente
     Cuor semplice ed onesto è persuaso.
     465Allor Lica narrò quel che poc’anzi

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     Assalito l’avea strano tumulto,
     Quando a sorgere in piè le porse aita
     E con la mano le soffolse78 il fianco.
     Poi, seguendo, di Bauci e Filemone79
     470Rammentâr l’avventura, e quel che udito
     Da’ vecchi padri avean, siccome ascoso80
     Fra lor nelle capanne e nelle selve
     Stette a lungo Saturno, e nol conobbe
     Altri che Giano. In cotal dubbio errando,
     475Si ritrassero entrambi, e lasciâr sola
     La taciturna diva. Ella dal seggio
     Si tolse allora; e due e tre volte scórse
     Pensierosa la stanza, e poi di nuovo
     Sospirando s’assise, e in questi accenti
     480Al suo fiero dolor le porte aperse:
     Donde prima degg’io, Giove crudele,
     Il mio lamento incominciar? Già tempo
     Fu che, superba del tuo amor, chiamarmi
     Potei felice ed onorata e diva.
     485Or eccomi deserta; e non mi resta
     Che questo sol di non poter morire
     Privilegio infelice. E fino a quando
     Alla fierezza della tua consorte
     Esporrai questa fronte? Il premio è questo
     490De’ concessi imenei? Questi gli onori
     E le tante in Ausonia are promesse,
     Onde speme mi desti che la prima
     Mi sarei stata delle dee latine?
     Tu m’ingannasti: l’ultima son io
     495Degl’immortali, ahi lassa!; e non mi fêro
     Illustre e chiara che le mie sventure.
     Rendimi, ingrato, rendimi alla morte,
     Alla qual mi togliesti. Entro quell’onde
     Concedimi perir, che la tua Giuno
     500Sul mio regno sospinse, o ch’io ritrovi
     Agli arsi boschi in mezzo e alle ruine
     De’ miei templi abbattuti il mio sepolcro.
Cosí la Diva lamentossi, e tacque.
     Era la notte, e d’ogni parte i venti
     505E l’onde e gli animanti81 avean riposo,
     Fuorché l’insetto82 che ne’ rozzi alberghi

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     A canto al focolar molce con lungo
     Sonnifero stridor l’ombra notturna;
     E Filomena nella siepe ascosa
     510Va iterando le sue dolci querele83.
     In quel silenzio universale anch’essa
     Adagiossi la Dea vinta dal sonno,
     Che dopo il lagrimar sempre sugli occhi
     Dolcissimo discende, e la sua verga
     515Le pupille celesti anco sommette84.
     Quando il gran padre degli dei, che udito
     Dell’amica dolente il pianto avea,
     A lei tacito venne; e, poi che stette
     Del letto alquanto su la sponda assiso,
     520Di quel volto sí caro addormentato
     La beltà contemplando, alfin la mano
     Leggermente le scosse, e nell’orecchio
     Bisbigliando soave: O mia diletta,
     Svégliati, disse, svégliati; son io
     525Che ti chiamo; son Giove. A questa voce
     Il sonno l’abbandona; apre le luci,
     E stupefatta si ritrova in braccio
     Del gran figliuolo di Saturno. Ed egli
     Riconfortala in pria con un sorriso
     530Che di dolcezza avría spetrati i monti85,
     Ed acchetato il mar quando è in fortuna;
     Poscia in tal modo a ragionar le prese:
     Calma il duolo, Feronia: immoti e saldi
     Stanno i tuoi fati e le promesse mie86;
     535Né ingannator son io, né si cancella
     Mai sillaba di Giove87. Ma profonde
     Sono le vie del mio pensiero, e aperta
     A me solo de’ fati è la cortina.
     Non lagrimar sul tuo perduto impero:
     540Tempo verrà che largamente reso
     Tel vedrai, non temerne, e i muti altari
     E le cittadi e i campi e le pianure
     Dai ruderi e dall’onde e dalla polve

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     Sorger piú belle e numerose e cólte.
     545D’Italia in questo i piú lodati eroi
     Porran l’opra e l’ingegno. Io non ti nomo
     Che i piú famosi; e in prima Appio, che in mezzo
     Spingerà delle torbide Pontine
     Delle vie la regina88. Indi Cetego89:
     550Indi il possente fortunato Augusto90
     Esecutor della paterna idea;
     Al cui tempo felice un Venosino
     Cantor sublime ne’ tuoi fonti il volto91
     Laverassi e le mani; e tu di questo
     555Orgogliosa n’andrai piú che l’Anfriso92
     Già lavacro d’Apollo. Ecco venirne
     Poscia il lume de’ regi, il pio Traiano93
     Che, domata con l’armi Asia ed Europa,
     Col senno domerà la tua palude;
     560E le partiche spade e le tedesche
     In vomeri cangiate impiagheranno94,
     Meglio d’assai che de’ Romani il petto,
     Le glebe pometine. E qui trecento
     Giri ti volve d’abbondanza il sole
     565E di placido regno, infin che il goto
     Furor d’Italia guasterà la faccia.

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     Da boreal tempesta95 la ruina
     Scenderà de’ tuoi campi; ma del pari
     Un’alma boreal, calda e ripiena
     570Del valor d’occidente, al tuo bel regno
     Porterà la salute. E poi di nuovo
     (Ché tal de’ fati è il corso) alto squallore
     Lo coprirà: né zelo96, arte o possanza
     Di sommi sacerdoti all’onor primo
     575Interamente il renderan, ché l’opra
     Immortal, glorïosa ed infinita
     Ad un piú grande eroe serba il destino.
     Lo diran Pio le genti, e di quel nome
     Sesto sarà.   .   .   .   .   .   .   .   
     580.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   

  1. Risalía: cfr. Omero Iliad. VIII, 438 e segg.
  2. D’Iperïone ecc.: il sole, figlio, secondo alcuni, del Titano Iperione e di Tia.
  3. e l’Ore ecc.: cfr. la nota a’ vr. 225, p. 105 e 80, p. 212.
  4. Ai sacri ecc.: Anche in Virgilio Giove è accompagnato dagli dei quando, sciolto il loro concilio, se ne torna alle sue stanze. Cfr. Virgilio En. X, 116.
  5. per sé medesme ecc.: cfr. la nota al v. 38, p. 84 e al v. 53, p. 188.
  6. mandar cnpo un ruggito: cfr. Dante Pur. IX, 133 e segg. e Lucano Fars. III, 154.
  7. l’alto convesso: quello del cielo. Cfr. Virgilio En. VI, 241.
  8. Portano ecc.: cfr. la nota al v. 50, p. 73.
  9. egioco: cfr. la nota al v. 145, p. 102.
  10. e la pontina ecc.: Molti scrittori antichi fanno memoria delle Paludi Pontine, ma non cosí chiaramente, da togliere a’ moderni ogni dubbio su la loro origine e il loro ingrandimento.
  11. la catena ecc.: «Il poeta si è giovato d’una sublime immagine di Milton, in fine del libro secondo del Paradiso perduto, ove Satanno all’uscire dell’inferno vede «L’empireo cielo in circuito d’ampia E non determinata estensione... (Sua già nativa sede) e quivi presso Da una catena d’or pendente questo Sospeso mondo». (Trad. del Rolli). Ambidue poi i poeti ebbero cotale immagine da Omero (Il. lib. VIII, v. 19 del testo) quand’egli fa dire a Giove: «... Alla vetta deil’immoto Olimpo Annoderò la gran catena, ed alto Tutte da quella penderan le cose». Ed in questa catena omerica Platone, sul principio del Teeteto, credeva indicato il sole: «Perocché, fintanto che il giro del sole durerà, sussisteranno ed avranno vita tutte le cose si degli dei che degli uomini; ma se questo in certa maniera dovesse stare legato, sciorrebbesi tosto ogni cosa, e il tutto andrebbe, come suol dirsi, sossopra». Qualche newtoniano poi potrebbe piú acconciamente con Pope vedervi simbologgiato il gran sistema delle due forze ceutripeta e centrifuga; sistema che non potrà esser disciolto che da quello che volle un tempo ordinarlo». Mg.
  12. potente: signore, dio.
  13. Di Maia il figlio: Mercurio.
  14. e per la stigia ecc.: Per la tremenda palude infernale giuravano solennemente e temevano di giurare gli dei. Cfr. Omero Iliad. II, 755 e Odiss. V, 185; Ovidio Metam. I, 187 e 737; II, 45: III, 391; Stazio Teb. VIII, 30 ecc.
  15. E l’offesa ecc.: Saturno, geloso del gran figlio, vincitore de’ Titani, gli tese insidie: ma Giove lo esiliò dal cielo. Cfr. la nota al v. 73, p. 99.
  16. nello speco ecc.: Nell’antro di Cuma dava, com’è noto, oracoli Apollo, per mezzo della vecchia Sibilla Cumea, magnam cui mentem animumque Delius inspirat vates aperitque futura. Virgilio En. VI. 11 e seg. Cfr. anche III. 441 e segg.
  17. Dimenticata ecc.: Virgilio En. IV, 143: Qualis, ubi hibernam Lyciam Xantique fluenta Deserit, ac Delum maternam invisit Apollo, Instauratque choros, mixgtique altaria circum Cretesque Dryopesque fremunt pictique Agatyrsi, ecc. Cfr. anche Parini Od. XVI, 61 e segg.
  18. Agatirsi: erano popoli della Scizia, che adoravano Apollo Iperboreo, detti dipinti, o perché si dipingessero il volto e le membra, o perché, secondo Servio (Ad. Aen. loc. cit.), avevano la capigliatura d’un bel colore di viola.
  19. Del Soratte ecc.: Ad illustrare l’allusioue del poeta giova riferire questo parole di Plinio (St. N. VII, 2): «Poco lontano da Roma nel territorio de’ Falisci havvi alcune famiglie le quali chiamansi Irpie, che, nell’annuo sacrifizio che fassi ad Apollo presso il monte Soratte, camminano, senza bruciarsi, sopra un mucchio di legna ridotta in brage. E perciò ottennero per decreto del senato d’essere perfettamente esenti dalla milizia e da tutti gli altri carichi». Cfr. anche Virgilio En. XI, 785.
  20. le gargafie fonti: cfr. la nota al v. 88, c. II.
  21. Alle sorti: ecc.: «Apollo aveva un famoso tempio in Pataro città della Licia, provincia dell’Asia MinorE, ove gli oracoli erano dati per mezzo delle sorti, e però si chiamavano Lyciae Sortes. (Vedi Virgilio En. IV, 3-16 e Pomponio Mela, lib. I, cap. 15). Fra i Latini poi era celeberrimo il tempio della Fortuna in Preneste, a cagione delle Sorti, le quali erano state ritrovate in mezzo d’una pietra. Cicerone racconta il modo della scoperta nel lib. II De Divinatione, cap. 41... Coteste sorti si cavavano da un fanciullo fuori d’un’arca fatta col legno d’un olivo che aveva stillato prodigiosamente olio, e credevasi di riceverle dalle mani stesse della Fortuna. Essa era ivi rappresentata sedente e tenendosi in grembo Giove e Giunone lattanti. Cicerone medesimo (ib. cap. 33) ne fa sapere ciò che propriamente si deve intendere per Sorti: Sortes eae quae ducuntur, non illae quae vaticinatione funduntur, quae Oracula verius dicimus». Mg.
  22. Di Laurento i boschi erano celebri per gli oracoli di Fauno, cui i sacerdoti pronunziavano in versi Saturnii.
  23. le parlanti ecc.: cfr. la nota al v. 417, c. I.
  24. D’Anzio ecc.: cfr. la nota al v. 776, c. I.
  25. Amatunta: città dell’isola di Cipro, sacra a Venere, dove nei giorni solenni fanciulle dette Canefore portavano gli arredi sacri in canestri di fiori.
  26. Elide: regione della Grecia posta tra l’Arcadia occidentale e il mare Ionio: aveva nel mezzo la pianura d’Olimpia ove sorgeva il gran tempio in cui era venerato Giove scolpito da Fidia.
  27. Tarpeo: da questo monte, che fu poi detto Campidoglio (Varrone De ling. lat. V, 41-2), Giove tonante ebbe il soprannome di Tarpeo o di Capitolino. Properzio IV, i, 7: Tarpeiusqiie pater nuda de rupe tonabat. Cfr. anche Lucano I, 195 e Virgilio En. VIII, 351.
  28. trema la terra: Virgilio En. VII, 722: tremit excita tellus. Cfr. anche Geor. I, 330.
  29. che faran ecc.: che prenderanno su’ Greci la rivincita della distruzione di Troia, assoggettando il popolo del vincitore Agamennone.
  30. e spezzeranno ecc.: Virgilio En. I, 283: Veniet lustris labentibus aetas, Quum domus Assaraci Phtiam clarasque Mycenas Servitio premet ac victis dominabitur Argis.
  31. da Samo ecc.: Cfr. Virgilio En. I, 15.
  32. allor che ecc.: Virgilio En. 1, 279: quin aspera Iuno, Quae mare nunc terrasque metu coelumque fatigat, Consilia in melius referet, mecumque fovebit Romanos rerum domitos gentemque togatam.
  33. Sospita: «Giunone Lanuvina (cosí chiamata da Lanuvio, città o municipio del Lazio dov’ella era particolarmente venerata), la quale è detta anche Sospita o Sispita, cioè Salvatrice, viene rappresentata in diverse medaglie ed in una statua del Museo Pio clementino (descritta ed illustrata nel tom. II, tav. XXI, colla sua maravigliosa erudizione da E. Q. Visconti) colla testa coperta da una pelle di capra, le cui zampe davanti le si allacciano sul petto ed il rimanente discende intorno al busto fino ad essere legato sui fianchi da una larga cintura». Mg. Cfr. anche Cicerone De Nat. D. I, 29.
  34. tu le rammenta ecc.: In Omero (Iliad. XV, 23: trad. M.) Giove dice a Giunone: «E non rammenti il dí ch’ambe le mani D’aureo nodo infrangibile t’avvinsi, E alla celeste volta con due gravi Incudi al piede penzolon t’appesi?» Questo soggetto dipinse il Correggio nel monastero di S. Paolo in Parma.
  35. Petaso: specie di cappello, munito di ali. — ed alle piante ecc.: Omero (Odiss. V, 55; trad. Pindemonte) «Al piede S’avvinse i talar belli, aurei, immortali, Che sul mare il portavano, e su i campi Della terra infiniti a par del vento. Poi l’aurea verga nelle man recossi, Onde i mortali dolcemente assonna, Quanti gli piace, e li dissonna ancora». Cfr. anche XXIV, 1 e Virgilio En. IV, 238.
  36. L’argicida fratel: Mercurio stesso, uccisore d’Argo, — lira: cfr. la nota al v. 282, p. 107.
  37. con tal d’ali remeggio: cfr. la nota al v. 194, p. 59.
  38. Campo flegrèo: «Flegrèi si chiamarono alcuni campi della Campania, ov’era il Foro di Vulcano, presso Pozzuoli e la palude Acherusia: de’ quali fanno menzione Plinio (H. N. III, 5), Silio Italico (VIII, 540 e XII, 143), Strabone (lib. V e VI). L’abbondare dello zolfo e del fuoco in questi campi si è poi la cagiono per cui i poeti collocano in essi il teatro della pugna de’ Giganti cogli dei. Flegra però, il famoso campo ove Giove sconfisse i Titani, è nella Macedonia» Mg. Cfr. Properzio I, xx, 9.
  39. la dolce ecc.: «Il Redi nel Ditirambo chiamò questo vino il sangue che lacrima il Vesuvio; ed a questo passo fa la seguente annotazione: «Parla di quei vini rossi di Napoli, cho sono chiamati Lacrime, tra le quali stimatissime son quelle di Somma e di Galitte ecc.»
  40. Qual uom ecc.: Petrarca P. I, son. 2: «Come uom ch’a nuocer luogo e tempo aspetta».
  41. la sua fida ecc.: Iride. Cfr. Virgilio En. I, 51.
  42. Eolia: regno de’ Venti presso la Sicilia. Cfr. Virgilio En. I, 52 o X. 38.
  43. Come il dì ecc.: Cfr. Omero Iliad. XXIII, 194 e segg.
  44. Del morto amico: di Patroclo.
  45. E in grembo ecc.: cfr. la nota al v. 175, p. 103.
  46. i figli d’Astreo: i Venti, figli, secondo Esiodo, del gigante Astreo e dell’Aurora. Ovidio Metam. XIV, 515: Aeraque et tumidum subitis concursibus aequor Astraci turbant et eunt in praelia fratres.
  47. loquaci: rumorose.
  48. berecinzio: sacro a Cibele, detta Berecinzia dal monte della Frigia ove nacque.
  49. Sigeo: Virgilio En. II, 312: Sigea igni freta lata relucent.
  50. Ilio: la rocca di Troia.
  51. non tardo: sollecito. Solita litote attica. Cfr. la nota al v. 3, p. 2.
  52. La fede ecc.: Orazio Od. I, xxxv, 21: Te Spes, et albo rara Fides colit Velata panno. La Fede s’immaginava vestita di bianco, o perché, come dice Servio (Ad. Aen. 1, 292), si trova ne’ candidi uomini, o perché le si facevan sacrifizi con mano fasciata di bianco panno, a significare che la fede dev’esser segreta.
  53. meraviglia ecc. Virgilio Geor. II, 30: mirabile dictu!
  54. come stella ecc.: Similitudine derivata da un’altra di Virgilio: cfr. En. II, 693 e segg. Cfr. anche Dante Purg. v, 37 e Par. xv, 13.
  55. labendo: scorrendo Latinismo, che usò anche il Parini Mezz., 277: «Lieve lieve per l’aere labendo, A la terra s’appressa».
  56. dell’aurea verga: del caduceo.
  57. ricordolle ecc.: Richiama, con grande efficacia, i vv. 119 o segg. Per simil uso cfr., p. e., Tasso, 1,12 e 16.
  58. Al dio di Lenno: a Vulcano. Cfr.il v. 322, e. II.
  59. Il sidicino montanar: I monti Sidiclni erano presso a quelli di Sessa Aurunca.
  60. e un gelo: ecc.: «Il poeta immagina aperto dal cadere dell’infiammata verga lanciatavi da Giunone il famoso spiraglio d’Amsanto, da cui esala ancora un’aria mefitica. Cicerone (De divinatione, 1, 36) o Plinio (H. N. II, 93) fanno menzione di questo spiraglio. Virgilio canta di esso nel settimo dell’Eneide (v. 563)». Mg.
  61. la letea rugiada: il sonno, che per poco ci fa dimenticare della vita.
  62. Alla sfera di ecc.: Secondo il sistema tolemaico erano la sesta e settima sfera.
  63. L’Ore custodi ecc.: cfr. la nota al v. 225, p. 105.
  64. con la tazza ecc.: cfr. Omero Iliad. IV, 2. — clamide: manto.
  65. o sacra ecc.: Il Parini (Mezz. 43) dice la toletta «l’ara tutelar di sua (della dama) beltade».
  66. inaccessibil: Che l’abbigliatoio di Giunone fosse inaccessibilo dice anche Omero (Iliad. XIV, 166).
  67. l’ampio cristallo: Di specchi gli antichi n’ebbero di diverse specie; i piú d’oro, d’argento, di bronzo, di stagno e di altri tali metalli; qualcuno anche di vetro. Cfr. Plinio St. Nat. XXXVI, 26.
  68. Che tutta ecc.: cfr. Omero Iliad. XIV, 173.
  69. di Trivia: di Diana Nemorense.
  70. E più dal duolo ecc: Verso imitativo della stanchezza morale e materiale di Feronia.
  71. le sapea: le conosceva.
  72. sparsa le chiome: cfr. la nota al v. 26, p. 3.
  73. che fra le selve ecc.: cfr. i vv. 22 o segg. p. 47.
  74. O tu, chi sei... che... hai dolor tanto ecc.: Dante Inf. xxiii, 97: «Ma voi chi siete, a cui tanto distilla, Quant’io veggio, dolor giú per le guance?»
  75. assisa: «Lo starsi assiso sul limitare della casa ospitale era proprio de’ supplichevoli e degli infelici profondamente oppressi dalla disgrazia. In questa situazione è rappresentata Cerere dall’autore dell’Inno attribuito ad Omero. Ed Ulisse, rientrato nelle sue case sotto le sembianze di un mendico, siede nel vestibolo: e quivi avviene il famoso combattimento tra lui ed il pezzento Iro. Vedi l’Odissea, lib. XVIII, in principio». Mg.
  76. puleggio: pianticella simile alla menta.
  77. «Quest’è la bevanda domandata da Cerere a Metanira (come si ba nell’Inno citato più sopra alla nota al v. 445) dopo ch’ella ebbe rifiutato «Di dolcissimo vin colma una tazza», dicendo «... Non per lei Il rubicondo vino esser bevanda». (Trad. di Luigi Lamberti). Ivi pure è detto che la dea ebbe cotesta mistura in conto di sacra libazione». Mg.
  78. le soffolse: le sostenne.
  79. Bauci e Filemone diedero ospitalità nella loro capanna a Giove e Mercurio. Cfr. Ovidio Metam. VIII, 631 e segg.
  80. ascoso ecc.: cfr. la nota al v. 73, p. 99.
  81. animanti: cfr. la nota al v. 98, p. 13.
  82. l’insetto ecc.: «il grillo domestico, che si annida nelle case presso il focolare». Pierg.
  83. E Filomena ecc.: cfr. la nota al v. 67, p. 211.
  84. e la sua verga ecc.: Perciò Omero
    Iliad. XIV, 284: trad. M.) chiama il sonno «re de’ mortali e degli dei».
  85. Che di dolcezza ecc.: • Cosí Virgilio (En. I, 254): Olli subridens hominum sator atque deorum Valla quo coelum tempestatesque serenat Oscula libavit natae. E prima di lui Ennio: Iuppiter hic risit, tempestatesque serenae Riserunt omnes risu Iovis omnipotentis». Mt.
  86. Calma ecc.: Virgilio En., 257: Parce metu, Cytherea; manent immota tuorum Fata tibi.
  87. né si cancella ecc.: Virgilio En. I, 260: neque me sententia vertit. Cfr. il v. 42, p. 38.
  88. e in prima ecc.: «Il poeta seguita l’opinione registrata dal Corradini nel suo Vetus Latium, lib. II, cap. 16 (tom. II, p. 130), che Appio Claudio, soprannominato per la perdita della vista il Cieco, abbia il primo tentato di restituire alla cultura il territorio pontino occupato dalla palude, nell’occasione che, essendo censore, concepí la grandiosa idea di una strada che doveva condurre da Roma a Brindisi, e la spinse per ben 142 miglia fino a Capua. Il disegno di Appio Claudio fu poi condotto al suo compimento in tempi posteriori;... e Stazio scrive di essa (Sylv. lib. II, ii, V. 12): Appia longarum teritur regina viarum». Mg.
  89. Indi Cetego ecc.: «Disputano alcuni eruditi se questo Cetego sia Publio Cornelio che fu console con M. Bebio Tanfilo nell’anno di Roma 569, ovvero Marco Cornelio che nel 590 ebbe a collega L. Anicio Gallo. Il Corradini però ed il Volpi, appoggiati all’autore dell’epitome di Tito Livio, lib. XLVI, credono che sia il secondo, cioè Marco. Quello ch’è certo si è, che verso gli anni soprannominati, trovandosi il territorio pontino allagato dalle acque che ne impedivano la coltivazione, un Cornelio Cetego pensò a liberarnelo, e lo liberò di fatto». Mg.
  90. Indi il possente ecc.: «Le acque avevano di nuovo impaludato il territorio pontino ai tempi di Giulio Cesare, ed egli pensava di ricuperarlo nuovamente alla coltura, allorché venne tolto di vita. Di ciò fanno menzione, nella Vita di Cesare. Svetonio e Plutarco, Dione Cassio nel libro XLIV delle sue Storie, Cicerone nella terza filippica, ecc. Il Corradini (lib. II, cap. 16) ed altri, a’ quali consente il poeta, vogliono che Augusto abbia dato effetto a questo pensiero del suo padre adottivo, appoggiati ai versi 65-66 della Poetica di Orazio». Mg.
  91. il volto ecc.: «Ciò racconta di aver fatto Orazio nel suo viaggio da Roma a Brindisi (lib. I, sat. V, v. 24): Ora manusque tua lavimus, Feronia, lympha». Mg.
  92. Anfriso: Apollo, esule dal cielo, pascolò presso il lene Anfriso (Ovidio Metam. I, 580), fiume in Tessaglia, il gregge dell’ospite suo re Admeto, Cfr. Tibullo II, iii, 11 e III, iv, 67.
  93. il pio ecc.: «Traiano, per metter riparo ai guasti cagionati alla via Appia dalle acque della palude Pontina, fece eseguire alcune opere che giovarono eziandio ad asciugare il territorio adiacente». Mg. Cfr. Corradini Vetus Latium II, 16.
  94. Impiagheranno: fenderanno. Cfr. v. 13 e segg., p. 47.
  95. Da boreal tempesta ecc.: «Era naturale che per lo irruzioni de’ Barbari, che posero a soqquadro ogni cosa dell’Impero romano, anche i campi pontini restassero nuovamente sommersi dall’acque. Però, essendo re d’Italia Teodorico, di nazione ostrogoto, un illustre discendente dai Decii, per nome Cecilio Mauro Basilio Decio (di cui altri legge i due primi nomi così Cecina Mavortio o Massimo), si offerse a lui d’asciugare quei terreni e di ridonarli alla coltivazione. L’offerta venne accolta coll’onore che meritava; e l’opera fu condotta a termine in ogni sua parte perfettamente. Vedi Vetus Latium lib. II, cap. 16». Mg.
  96. né zelo ecc.: «Quanto durasse il bonificamento delle terre pontine procurate da Decio sotto gli auspicii di Teodorico, non è noto. Le acquo però tornarono quando che fosse a impadronirsi di que’ luoghi, che mai non poterono esserne liberati daddovero, per quanto vi rivolgessero le loro cure Bonifazio VIII, Martino V, Eugenio IV ed i suoi successori fino ad Alessandro VI, Leone X, Sisto V, Innocenzo XII, Clemente XI, Clemente XIII, ecc.: ognuno dei quali, sia col mandare ad effetto alcuni lavori, sia col farne soggetto di serie considerazioni, o tentò o desiderò almeno di tentare la difficilissima impresa. Niuno però dei pontefici andò in essa piú oltre di Pio VI, il quale non lasciò intatto alcun mezzo per ridurre a termine un’opera in cui riponeva una dello maggiori glorie del suo principato». Mg.