Gerusalemme liberata/Canto dodicesimo

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Canto Dodicesimo

../Canto undicesimo ../Canto tredicesimo IncludiIntestazione 14 maggio 2012 100% Poemi epici

Canto undicesimo Canto tredicesimo


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CLORINDA


ARGOMENTO.

     Prima, da un suo fedel, Clorinda ascolta
Del suo natal l’istoria, e poi sen viene
Ignota al campo, a grand’impresa volta.
Questa tragge ella a fine; indi s’avviene
In Tancredi, da cui l’alma l’è tolta;
Ma ben, anzi ’l morir, battesmo ottiene.
Piange l’estinta il Prence. Argante giura
Di dar a chi l’uccise aspra ventura.



CANTO DUODECIMO.


Era la notte, e non prendean ristoro
Col sonno ancor le faticose genti:
Ma quì, vegghiando, nel fabbril lavoro
4Stavano i Franchi alla custodia intenti:
E là i Pagani le difese loro
Gían rinforzando tremule e cadenti,
E reintegrando le già rotte mura:
8E de’ feriti era comun la cura.

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II.


     Curate alfin le piaghe, e già finita
Dell’opere notturne era qualch’una:
E rallentando l’altre, al sonno invita
12L’ombra omai fatta più tacita e bruna.
Pur non accheta la Guerriera ardita
L’alma d’onor famelica e digiuna,
E sollecita l’opre, ove altri cessa.
16Va seco Argante; e dice ella a se stessa:

III.


     Ben oggi il Re de’ Turchi, e ’l buon Argante
Fer maraviglie inusitate e strane:
Chè soli uscir fra tante schiere e tante,
20E vi spezzar le machine Cristiane.
Io (questo è il sommo pregio onde mi vante)
D’alto, rinchiusa, oprai l’armi lontane,
Sagittaria (nol nego) assai felice.
24Dunque sol tanto a donna, e più non lice?

IV.


     Quanto me’ fora in monte, od in foresta
Alle fere avventar dardi e quadrella;
Ch’ove il maschio valor si manifesta
28Mostrarmi quì tra’ cavalier donzella.
Chè non riprendo la femminea vesta,
S’io ne son degna, e non mi chiudo in cella?
Così parla tra se; pensa, e risolve
32Alfin gran cose, ed al guerrier si volve.

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V.


     Buona pezza è, Signor, che in se raggira
Un non so chè d’insolito e d’audace
La mia mente inquieta: o Dio l’inspira,
36O l’uom del suo voler suo Dio si face.
Fuor del vallo nemico accesi mira
I lumi: io là n’andrò con ferro e face,
E la torre arderò: vogl’io che questo
40Effetto segua, il Ciel poi curi il resto.

VI.


     Ma s’egli avverrà pur che mia ventura
Nel mio ritorno mi rinchiuda il passo;
D’uom, che in amor m’è padre, a te la cura
44E delle fide mie donzelle io lasso.
Tu nell’Egitto rimandar procura
Le donne sconsolate, e ’l vecchio lasso.
Fallo, per Dio, Signor; chè di pietate
48Ben è degno quel sesso, e quella etate.

VII.


     Stupisce Argante, e ripercosso il petto
Da stimoli di gloria acuti sente.
Tu là n’andrai, rispose, e me negletto
52Qui lascierai tra la volgare gente?
E da sicura parte avrò diletto
Mirar il fumo e la favilla ardente?
No, no, se fui nell’arme a te consorte,
56Esser vuò nella gloria e nella morte.

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VIII.


     Ho core anch’io che morte sprezza, e crede
Che ben si cambi con l’onor la vita.
Ben ne festi, diss’ella, eterna fede
60Con quella tua sì generosa uscita.
Pure io femmina sono, e nulla riede
Mia morte in danno alla Città smarrita.
Ma se tu cadi (tolga il Ciel gli augurj)
64Or chi sarà che più difenda i muri?

IX.


     Replicò il Cavaliero: indarno adduci
Al mio fermo voler fallaci scuse.
Seguirò l’orme tue, se mi conduci;
68Ma le precorrerò, se mi ricuse.
Concordi al Re ne vanno, il qual fra i duci
E fra i più saggj suoi gli accolse e chiuse.
E incominciò Clorinda: o Sire, attendi
72A ciò che dir voglianti, e in grado il prendi.

X.


     Argante quì (nè sarà vano il vanto)
Quella machina eccelsa arder promette.
Io sarò seco: ed aspettiam sol tanto
76Che stanchezza maggiore il sonno allette.
Sollevò il Re le palme, e un lieto pianto
Giù per le crespe guancie a lui cadette:
E, lodato sia tu, disse, ch’ai servi
80Tuoi volgi gli occhj, e ’l regno anco mi servi.

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XI.


     Nè già sì tosto caderà, se tali
Animi forti in sua difesa or sono.
Ma qual poss’io, coppia onorata, eguali
84Dar ai meriti vostri o laude o dono?
Laudi la fama voi con immortali
Voci di gloria, e ’l mondo empia del suono.
Premio v’è l’opra stessa, e premio in parte
88Vi fia del regno mio non poca parte.

XII.


     Sì parla il Re canuto; e si ristringe
Or questa or quel teneramente al seno.
Il Soldan ch’è presente, e non infinge
92La generosa invidia onde egli è pieno,
Disse: nè questa spada invan si cinge,
Verravvi a paro, o poco dietro almeno.
Ah, rispose Clorinda, andremo a questa
96Impresa tutti? e se tu vien, chi resta?

XIII.


     Così gli disse; e con rifiuto altero
Già s’apprestava a ricusarlo Argante:
Ma ’l Re il prevenne, e ragionò primiero
100A Soliman con placido sembiante:
Ben sempre tu, magnanimo guerriero,
Ne ti mostrasti a te stesso sembiante,
Cui nulla faccia di periglio unquanco
104Sgomentò, nè mai fosti in guerra stanco.

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XIV.


     E so che, fuori andando, opre faresti
Degne di te; ma sconvenevol parmi
Che tutti usciate, e dentro alcun non resti
108Di voi che sete i più famosi in armi.
Nemmen consentirei ch’andasser questi,
Chè degno è il sangue lor che si risparmi,
Se o men util tal opra, o mi paresse
112Che finita per altri esser potesse.

XV.


     Ma poichè la gran torre, in sua difesa,
D’ogn’intorno le guardie ha così folte;
Che da poche mie genti esser offesa
116Non puote, e inopportuno è uscir con molte;
La coppia che s’offerse all’alta impresa
E in simil rischio si trovò più volte,
Vada felice pur; ch’ella è ben tale,
120Che sola più che mille insieme vale.

XVI.


     Tu, come al regio onor più si conviene,
Con gli altri, prego, in su le porte attendi.
E quando poi (chè n’ho sicura spene)
124Ritornino essi, e desti abbian gl’incendj:
Se stuol nemico seguitando viene,
Lui risospingi, e lor salva e difendi.
Così l’un Re diceva; e l’altro cheto
128Rimaneva al suo dir, ma non già lieto.

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XVII.


     Soggiunse allora Ismeno: attender piaccia
A voi, ch’uscir dovete, ora più tarda;
Sinchè, di varie tempre, un misto i’ faccia
132Ch’alla machina ostil s’appigli e l’arda.
Forse allora avverrà che parte giaccia
Di quello stuol che la circonda e guarda.
Ciò fu concluso; e in sua magion ciascuno
136Aspetta il tempo al gran fatto opportuno.

XVIII.


     Depon Clorinda le sue spoglie inteste
D’argento, e l’elmo adorno, e l’armi altere:
E, senza piuma o fregio, altre ne veste
140(Infausto annunzio) rugginose e nere:
Perocchè stima agevolmente in queste
Occulta andar fra le nemiche schiere.
È quivi Arsete eunuco il qual, fanciulla,
144La nudrì dalle fasce e dalla culla.

XIX.


     E per l’orme di lei l’antico fianco
D’ogn’intorno traendo, or la seguia.
Vede costui l’arme cangiate, ed anco
148Del gran rischio s’accorge ove ella gía:
E se n’affligge: e per lo crin, che bianco
In lei servendo ha fatto, e per la pia
Memoria de’ suo’ uficj istando, prega
152Che dall’impresa cessi: ed ella il nega.

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XX.


     Onde ei le dice alfin: poichè ritrosa
Sì la tua mente nel suo mal s’indura,
Che nè la stanca età, nè la pietosa
156Voglia, i preghi miei, nè il pianto cura;
Ti spiegherò più oltre: e saprai cosa,
Di tua condizion, che t’era oscura:
Poi tuo desir ti guidi, o mio consiglio;
160Ei segue, ed ella innalza attenta il ciglio.

XXI.


     Resse già l’Etiopia, e forse regge
Senapo ancor, con fortunato impero:
Il qual del figlio di Maria la legge
164Osserva, e l’osserva anco il popol nero.
Quivi io Pagan fui servo, e fui tra gregge
D’ancelle avvolto in femminil mestiero,
Ministro fatto della regia moglie,
168Che bruna è sì, ma il bruno il bel non toglie.

XXII.


     N’arde il marito, e dell’amore al foco
Ben della gelosia s’agguaglia il gelo.
Si va in guisa avanzando appoco appoco
172Nel tormentoso petto il folle zelo,
Che da ogn’uom la nasconde; in chiuso loco
Vorria celarla ai tanti occhj del Cielo.
Ella, saggia ed umíl, di ciò che piace
176Al suo Signor, fa suo diletto e pace.

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XXIII.


     D’una pietosa istoria, e di devote
Figure la sua stanza era dipinta.
Vergine bianca il bel volto, e le gote
180Vermiglia, è quivi presso un drago avvinta.
Con l’asta il mostro un cavalier percuote:
Giace la fera nel suo sangue estinta.
Quivi sovente ella s’atterra, e spiega
184Le sue tacite colpe, e piange e prega.

XXIV.


     Ingravida frattanto, ed espon fuori
(e tu fosti colei) candida figlia.
Si turba; e degl’insoliti colori,
188Quasi d’un novo mostro, ha maraviglia.
Ma perchè il Re conosce e i suoi furori,
Celargli il parto alfin si riconsiglia:
Ch’egli avria dal candor, che in te si vede,
192Argomentato in lei non bianca fede.

XXV.


     Ed in tua vece una fanciulla nera
Pensa mostrargli, poco innanzi nata.
E perchè fu la torre, ove chius’era,
196Dalle donne e da me solo abitata;
A me, che le fui servo e con sincera
Mente l’amai, ti diè non battezzata.
Nè già poteva allor battesmo darti:
200Chè l’uso nol sostien di quelle parti.

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XXVI.


     Piangendo, a me ti porse, e mi commise
Ch’io lontana a nutrir ti conducessi.
Chi può dire il suo affanno, e in quante guise
204Lagnossi, e raddoppiò gli ultimi amplessi?
Bagnò i bacj di pianto, e fur divise
Le sue querele da i singulti spessi.
Levò alfin gli occhj, e disse: O Dio, che scerni
208L’opre più occulte, e nel mio cor t’interni:

XXVII.


     Se immaculato è questo cor, se intatte
Son queste membra e ’l marital mio letto;
Per me non prego, chè mille altre ho fatte
212Malvagità; son vile al tuo cospetto:
Salva il parto innocente, al quale il latte
Nega la madre del materno petto.
Viva, e sol d’onestate a me somigli:
216L’esempio di fortuna altronde pigli.

XXVIII.


     Tu, celeste guerrier, che la donzella
Togliesti del serpente agli empj morsi;
S’accesi ne’ tuo’ altari umil facella,
220S’auro o incenso odorato unqua ti porsi;
Tu per lei prega sì, che fida ancella
Possa in ogni fortuna a te raccorsi.
Quì tacque, e ’l cor le si rinchiuse e strinse,
224E di pallida morte si dipinse.

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XXIX.


     Io piangendo ti presi, e in breve cesta
Fuor ti portai tra fiori e frondi ascosa:
Ti celai da ciascun, chè nè di questa
228Diedi sospetto altrui, nè d’altra cosa.
Me n’andai sconosciuto, e per foresta
Camminando di piante orride ombrosa,
Vidi una tigre, che minacce ed ire
232Avea negli occhj, incontro a me venire.

XXX.


     Sovra un albero i’ salsi, e te su l’erba
Lasciai; tanta paura il cor mi prese!
Giunse l’orribil fera, e, la superba
236Testa volgendo, in te lo sguardo intese.
Mansuefece, e raddolcío l’acerba
Vista con atto placido e cortese.
Lenta poi s’avvicina, e ti fa vezzi
240Con la lingua: e tu ridi e l’accarezzi.

XXXI.


     Ed ischerzando seco, al fero muso
La pargoletta man sicura stendi.
Ti porge ella le mamme, e, come è l’uso
244Di nutrice, s’adatta, e tu le prendi.
Intanto io miro timido e confuso,
Come uom faria novi prodigj orrendi.
Poichè sazia ti vede omai la belva
248Del suo latte, si parte e si rinselva:

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XXXII.


     Ed io giù scendo e ti ricolgo, e torno
Là ’ve prima fur volti i passi miei:
E preso in picciol borgo alfin soggiorno,
252Celatamente ivi nutrir ti fei.
Vi stetti insin che ’l Sol, correndo intorno,
Portò a’ mortali e dieci mesi e sei.
Tu con lingua di latte anco snodavi
256Voci indistinte, e incerte orme segnavi.

XXXIII.


     Ma sendo io colà giunto ove dechina
L’etate omai cadente alla vecchiezza;
Ricco e sazio dell’or che la Regina,
260Nel partir, diemmi con regale ampiezza;
Da quella vita errante e peregrina
Nella patria ridurmi ebbi vaghezza:
E tra gli antichi amici in caro loco
264Viver, temprando il verno al proprio foco.

XXXIV.


     Partomi, e ver l’Egitto, ove son nato,
Te conducendo meco, il corso invio:
E giungo ad un torrente, e riserrato
268Quinci da i ladri son, quindi dal rio.
Che debbo far? te dolce peso amato
Lasciar non voglio, e di campar desio.
Mi getto a nuoto, ed una man ne viene
272Rompendo l’acqua, e te l’altra sostiene.

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XXXV.


     Rapidissimo è il corso, e in mezzo l’onda
In se medesma si ripiega e gira;
Ma giunto ove più volge e si profonda,
276In cerchio ella mi torce, e giù mi tira.
Ti lascio allor; ma t’alza e ti seconda
L’acqua, e secondo all’acqua il vento spira,
E t’espon salva in su la molle arena;
280Stanco anelando io poi vi giungo appena.

XXXVI.


     Lieto ti prendo: e poi la notte, quando
Tutte in alto silenzio eran le cose,
Vidi in sogno un guerrier che, minacciando,
284A me sul volto il ferro ignudo pose.
Imperioso disse: io ti comando
Ciò che la madre sua primier t’impose
Che battezzi l’infante; ella è diletta
288Del Cielo, e la sua cura a me s’aspetta.

XXXVII.


     Io la guardo e difendo: io spirto diedi
Di pietate alle fere, e mente all’acque.
Misero te, se al sogno tuo non credi
292Ch’è del Ciel messaggiero; e quì si tacque.
Svegliaimi e sorsi, e di là mossi i piedi,
Come del giorno il primo raggio nacque:
Ma perchè mia fe vera, e l’ombre false
296Stimai, di tuo battesmo a me non calse,

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XXXVIII.


     Nè de i preghi materni; onde nudrita
Pagana fosti, e ’l vero a te celai.
Crescesti, e, in arme valorosa e ardita,
300Vincesti il sesso e la natura assai:
Fama e terre acquistasti: e qual tua vita
Sia stata poscia, tu medesma il sai:
E sai non men che servo insieme e padre
304Io t’ho seguita fra guerriere squadre.

XXXIX.


     Jer poi su l’alba alla mia mente, oppressa
D’alta quiete e simile alla morte,
Nel sonno s’offerì l’imago stessa;
308Ma in più turbata vista, e in suon più forte,
Ecco (dicea) fellon, l’ora s’appressa
Che dee cangiar Clorinda e vita e sorte:
Mia sarà mal tuo grado, e tuo fia il duolo.
312Ciò disse, e poi n’andò per l’aria a volo.

XL.


     Or odi dunque tu, che ’l Ciel minaccia
A te, diletta mia, strani accidenti.
Io non so: forse a lui vien che dispiaccia
316Ch’altri impugni la fe de’ suoi parenti:
Forse è la vera fede. Ah giù ti piaccia
Depor quest’arme e questi spirti ardenti.
Quì tace e piagne: ed ella pensa e teme;
320Chè un altro simil sogno il cor le preme.

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XLI.


     Rasserenando il volto, alfin gli dice:
Quella fe seguirò che vera or parmi:
Che tu col latte già della nutrice
324Sugger mi festi, e che vuoi dubbia or farmi:
Nè per temenza lascerò (nè lice
A magnanimo cor) l’impresa e l’armi.
Non se la morte, nel più fer sembiante
328Che sgomenti i mortali, avessi innante.

XLII.


     Poscia il consola: e perchè il tempo giunge
Ch’ella deve ad effetto il vanto porre;
Parte, e con quel guerrier si ricongiunge
332Che si vuol seco al gran periglio esporre.
Con lor s’aduna Ismeno, e instiga e punge
Quella virtù che per se stessa corre:
E lor porge di zolfo e di bitumi
336Due palle, e in cavo rame ascosi lumi.

XLIII.


     Escon notturni, e piani, e per lo colle
Uniti vanno a passo lungo e spesso;
Tanto che a quella parte ove s’estolle
340La machina nemica omai son presso.
Lor s’infiamman gli spirti, e ’l cor ne bolle,
Nè può tutto capir dentro se stesso.
Gl’invita al foco, al sangue un fero sdegno.
344Grida la guardia, e lor dimanda il segno.

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XLIV.


     Essi van cheti innanzi; onde la guarda,
All’arme all’arme in alto suon raddoppia.
Ma più non si nasconde, e non è tarda
348Al corso allor la generosa coppia.
In quel modo che fulmine o bombarda,
Col lampeggiar, tuona in un punto e scoppia;
Muovere, ed arrivar, ferir lo stuolo,
352Aprirlo, e penetrar, fu un punto solo.

XLV.


     E forza è pur che, fra mill’arme e mille
Percosse, il lor disegno alfin riesca;
Scopriro i chiusi lumi, e le faville
356S’appreser tosto all’accensibil’ esca,
Ch’ai legni poi le avvolse, e compartille.
Chi può dir come serpa, e come cresca
Già da più lati il foco? e come folto
360Turbi il fumo alle stelle il puro volto?

XLVI.


     Vedi globi di fiamme oscure e miste,
Fra le rote del fumo, in Ciel girarsi.
Il vento soffia, e vigor fa ch’acquiste
364L’incendio, e in un raccolga i fochi sparsi.
Fere il gran lume con terror le viste
De’ Franchi, e tutti son presti ad armarsi.
La mole immensa e sì temuta in guerra,
368Cade; e breve ora opre sì lunghe atterra.

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XLVII.


     Due squadre de’ Cristiani intanto al loco
Dove sorge l’incendio accorron pronte.
Minaccia Argante: io spegnerò quel foco
372Col vostro sangue, e volge lor la fronte.
Pur ristretto a Clorinda appoco appoco
Cede, e raccoglie i passi a sommo il monte.
Cresce più che torrente a lunga pioggia
376La turba, e li rincalza, e con lor poggia.

XLVIII.


     Aperta è l’aurea porta, e quivi tratto
È il Re, ch’armato il popol suo circonda,
Per raccorre i guerrier da sì gran fatto,
380Quando al tornar fortuna abbian seconda.
Saltano i due sul limitare, e ratto
Diretro ad essi il Franco stuol v’inonda.
Ma l’urta e scaccia Solimano: e chiusa
384È poi la porta, e sol Clorinda esclusa.

XLIX.


     Sola esclusa ne fu, perchè in quell’ora
Ch’altri serrò le porte, ella si mosse:
E corse, ardente e incrudelita, fuora
388A punir Arimon che la percosse.
Punillo; e ’l fero Argante avvisto ancora
Non s’era ch’ella sì trascorsa fosse:
Chè la pugna e la calca e l’aer denso
392Ai cor togliea la cura, agli occhj il senso.

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L.


     Ma poi che intepidì la mente irata
Nel sangue del nemico, e in se rivenne,
Vide chiuse le porte, e intorniata
396Sè da’ nemici: e morta allor si tenne.
Pur veggendo ch’alcuno in lei non guata,
Nov’arte di salvarsi le sovvenne.
Di lor gente s’infinge, e fra gl’ignoti
400Cheta s’avvolge; e non è chi la noti.

LI.


     Poi, come lupo tacito s’imbosca
Dopo occulto misfatto, e si desvia:
Dalla confusion, dall’aura fosca
404Favorita e nascosa ella sen gía.
Solo Tancredi avvien che lei conosca.
Egli quivi è sorgiunto alquanto pria;
Vi giunse allor ch’essa Arimone uccise:
408Vide, e segnolla, e dietro a lei si mise.

LII.


     Vuol nell’armi provarla: un uom la stima
Degno, a cui sua virtù si paragone.
Va girando colei l’alpestre cima
412Verso altra porta, ove d’entrar dispone.
Segue egli impetuoso; onde assai prima
Che giunga, in guisa avvien che d’armi suone
Ch’ella si volge, e grida: o tu, chè porte,
416Chè corri sì? Risponde: guerra, e morte.

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LIII.


     Guerra e morte avrai, disse, io non rifiuto
Darlati, se la cerchi: e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
420Ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,
Ed aguzza l’orgoglio, e l’ire accende.
E vansi a ritrovar non altrimenti
424Che due tori gelosi, e d’ira ardenti.

LIV.


     Degne d’un chiaro Sol, degne d’un pieno
Teatro, opre sarian sì memorande.
Notte, che nel profondo oscuro seno
428Chiudesti e nell’oblio fatto sì grande,
Piacciati ch’io ne ’l tragga, e in bel sereno
Alle future età lo spieghi, e mande.
Viva la fama loro, e tra lor gloria
432Splenda del fosco tuo l’alta memoria.

LV.


     Non schivar, non parar, non ritirarsi
Voglion costor, nè quì destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
436Toglie l’ombra e ’l furor l’uso dell’arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
A mezzo il ferro; il piè d’orma non parte:
Sempre è il piè fermo, e la man sempre in moto:
440Nè scende taglio in van, nè punta a vuoto.

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LVI.


     L’onta irrita lo sdegno alla vendetta:
E la vendetta poi l’onta rinnova:
Onde sempre al ferir, sempre alla fretta
444Stimol novo s’aggiunge, e cagion nova.
D’or in or più si mesce, e più ristretta
Si fa la pugna, e spada oprar non giova:
Dansi co’ pomi, e, infelloniti e crudi,
448Cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.

LVII.


     Tre volte il Cavalier la donna stringe
Con le robuste braccia: ed altrettante
Da que’ nodi tenaci ella si scinge;
452Nodi di fier nemico, e non d’amante.
Tornano al ferro: e l’uno e l’altro il tinge
Con molte piaghe, e stanco ed anelante
E questi e quegli alfin pur si ritira,
456E dopo lungo faticar respira.

LVIII.


     L’un l’altro guarda, e del suo corpo esangue
Sul pomo della spada appoggia il peso.
Già dell’ultima stella il raggio langue
460Al primo albór ch’è in Oriente acceso.
Vede Tancredi in maggior copia il sangue
Del suo nemico, e sè non tanto offeso.
Ne gode, e superbisce. Oh nostra folle
464Mente, ch’ogni aura di fortuna estolle!

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LIX.


     Misero, di che godi? oh quanto mesti
Fiano i trionfi, ed infelice il vanto!
Gli occhj tuoi pagheran (se in vita resti)
468Di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.
Così tacendo e rimirando, questi
Sanguinosi guerrier cessaro alquanto.
Ruppe il silenzio alfin Tancredi, e disse,
472Perchè il suo nome a lui l’altro scoprisse:

LX.


     Nostra sventura è ben che quì s’impieghi
Tanto valor, dove silenzio il copra.
Ma poichè sorte rea vien che ci neghi
476E lode, e testimon degno dell’opra:
Pregoti (se fra l’arme han loco i preghi)
Che ’l tuo nome e ’l tuo stato a me tu scopra:
Acciocch’io sappia o vinto, o vincitore,
480Chi la mia morte, o la vittoria onore.

LXI.


     Risponde la feroce: indarno chiedi
Quel ch’ho per uso di non far palese.
Ma chiunque io mi sia, tu innanzi vedi
484Un di que’ due che la gran torre accese.
Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,
E, in mal punto il dicesti, indi riprese:
Il tuo dir e ’l tacer di par m’alletta,
488Barbaro discortese, alla vendetta.

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LXII.


     Torna l’ira ne’ cori, e gli trasporta,
Benchè debili, in guerra. Oh fera pugna;
U’ l’arte in bando, u’ già la forza è morta:
492Ove in vece d’entrambi il furor pugna!
Oh che sanguigna e spaziosa porta
Fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna
Nell’arme e nelle carni! e se la vita
496Non esce, sdegno tienla al petto unita.

LXIII.


     Qual l’alto Egeo, perchè Aquilone o Noto
Cessi, che tutto prima il volse e scosse,
Non s’accheta però; ma ’l suono e ’l moto
500Ritien dell’onde anco agitate e grosse;
Tal, sebben manca in lor col sangue voto
Quel vigor che le braccia ai colpi mosse;
Serbano ancor l’impeto primo, e vanno
504Da quel sospinti a giunger danno a danno.

LXIV.


     Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
Che ’l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta,
508Che vi s’immerge, e ’l sangue avido beve:
E la vesta, che d’or vago trapunta
Le mammelle stringea tenera e leve,
L’empie d’un caldo fiume: ella già sente
512Morirsi, e ’l piè le manca egro e languente.

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LXV.


     Segue egli la vittoria, e la trafitta
Vergine, minacciando, incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
516Movendo, disse le parole estreme:
Parole ch’a lei novo un spirto ditta;
Spirto di fe, di carità, di speme:
Virtù ch’or Dio le infonde: e se rubella
520In vita fu, la vuole in morte ancella.

LXVI.


     Amico hai vinto; io ti perdon: perdona
Tu ancora, al corpo no che nulla pave,
All’alma si: deh per lei prega, e dona
524Battesmo a me, ch’ogni mia colpa lave.
In queste voci languide risuona
Un non so che di flebile e soave
Ch’al cor gli scende, ed ogni sdegno ammorza,
528E gli occhj a lagrimar gli invoglia e sforza.

LXVII.


     Poco quindi lontan nel sen del monte
Scaturia, mormorando, un picciol rio.
Egli v’accorse, e l’elmo empiè nel fonte,
532E tornò mesto al grande uficio e pio.
Tremar sentì la man, mentre la fronte,
Non conosciuta ancor, sciolse e scoprío.
La vide, la conobbe; e restò senza
536E voce, e moto. Ahi vista, ahi conoscenza!

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LXVIII.


     Non morì già; chè sua virtute accolse
Tutta in quel punto, e in guardia al cor la mise:
E, premendo il suo affanno, a dar si volse
540Vita con l’acqua a chi col ferro uccise.
Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,
Colei di gioja trasmutossi, e rise:
E in atto di morir lieto e vivace
544Dir parea: s’apre il Cielo: io vado in pace.

LXIX.


     D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,
Come a’ giglj sarian miste viole:
E gli occhj al Cielo affisa, e in lei converso
548Sembra, per la pietate, il Cielo e ’l Sole:
E la man nuda e fredda alzando verso
Il cavaliero, in vece di parole,
Gli dà pegno di pace: in questa forma
552Passa la bella donna, e par che dorma.


....................In questa forma
Passa la bella donna, e par che dorma.



LXX.


     Come l’alma gentile uscita ei vede,
Rallenta quel vigor ch’avea raccolto:
E l’imperio di se libero cede
556Al duol già fatto impetuoso e stolto,
Ch’al cor si stringe, e, chiusa in breve sede
La vita, empie di morte i sensi e ’l volto.
Già simile all’estinto il vivo langue
560Al colore, al silenzio, agli atti, al sangue.

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LXXI.


     E ben la vita sua, sdegnosa e schiva
Spezzando a forza il suo ritegno frale,
La bella anima sciolta alfin seguiva,
564Che poco innanzi a lei spiegava l’ale;
Ma quivi stuol de’ Franchi a caso arriva,
Cui trae bisogno d’acqua, o d’altro tale;
E con la donna il cavalier ne porta,
568In se mal vivo, e morto in lei ch’è morta.

LXXII.


     Perocchè ’l Duce loro ancor discosto
Conosce all’arme il principe Cristiano.
Onde v’accorre, e poi ravvisa tosto
572La vaga estinta, e duolsi al caso strano.
E già lasciar non vuole ai lupi esposto
Il bel corpo che stima ancor Pagano.
Ma sovra l’altrui braccia ambi gli pone,
576E ne vien di Tancredi al padiglione.

LXXIII.


     Affatto ancor nel piano e lento moto
Non si risente il cavalier ferito:
Pur fievolmente geme, e quinci è noto
580Che ’l suo corso vital non è finito.
Ma l’altro corpo tacito ed immoto
Dimostra ben che n’è lo spirto uscito.
Così portati e l’uno e l’altro appresso,
584Ma in differente stanza alfine è messo.

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LXXIV.


     I pietosi scudier già sono intorno
Con varj ufizj al cavalier giacente:
E già sen riede ai languidi occhj il giorno,
588E le mediche mani e i detti ei sente.
Ma pur dubbiosa ancor del suo ritorno
Non s’assicura attonita la mente.
Stupido intorno ei guarda, e i servi e ’l loco
592Alfin conosce; e dice afflitto e fioco:

LXXV.


     Io vivo? io spiro ancora? e gli odiosi
Rai miro ancor di questo infausto die?
Dì testimon de’ miei misfatti ascosi,
596Che rimprovera a me le colpe mie.
Ahi man timida e lenta, or che non osi,
Tu che sai tutte del ferir le vie,
Tu ministra di morte empia ed infame,
600Di questa vita rea troncar lo stame?

LXXVI.


     Passa pur questo petto, e fieri scempj
Col ferro tuo crudel fà del mio core.
Ma forse, usata a’ fatti atroci ed empj,
604Stimi pietà dar morte al mio dolore.
Dunque i’ vivrò tra memorandi esempj
Misero mostro d’infelice amore:
Misero mostro, a cui sol pena è degna
608Dell’immensa empietà la vita indegna.

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LXXVII.


     Vivrò fra i miei tormenti, e fra le cure
Mie giuste furie, forsennato errante.
Paventerò l’ombre solinghe e scure
612Che ’l primo error mi recheranno innante;
E del Sol, che scoprì le mie sventure,
A schivo ed in orrore avrò il sembiante.
Temerò me medesmo, e da me stesso
616Sempre fuggendo, avrò me sempre appresso.

LXXVIII.


     Ma dove (oh lasso me!) dove restaro
Le reliquie del corpo e bello e casto?
Ciò ch’in lui sano i miei furor lasciaro,
620Dal furor delle fere è forse guasto.
Ahi troppo nobil preda! ahi dolce e caro
Troppo, e pur troppo prezioso pasto!
Ahi sfortunato! in cui l’ombre e le selve
624Irritaron me prima, e poi le belve.

LXXIX.


     Io pur verrò là dove sete, e voi
Meco avrò, s’anco sete, amate spoglie.
Ma s’egli avvien che i vaghi membri suoi
628Stati sian cibo di ferine voglie;
Vuò che la bocca stessa anco me ingoi,
E ’l ventre chiuda me che lor raccoglie.
Onorata per me tomba e felice,
632Ovunque sia, s’esser con lor mi lice.

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LXXX.


     Così parla quel misero; e gli è detto
Ch’ivi quel corpo avean per cui si duole.
Rischiarar parve il tenebroso aspetto,
636Qual le nubi un balen che passi e vole:
E da i riposi sollevò del letto
L’inferma delle membra e tarda mole:
E traendo a gran pena il fianco lasso,
640Colà rivolse, vacillando, il passo.

LXXXI.


     Ma come giunse, e vide in quel bel seno,
Opera di sua man, l’empia ferita:
E quasi un Ciel notturno anco sereno,
644Senza splendor la faccia scolorita;
Tremò così che ne cadea, se meno
Era vicina la fedele aita.
Poi disse: o viso, che puoi far la morte
648Dolce; ma raddolcir non puoi mia sorte;

LXXXII.


     O bella destra, che ’l soave pegno
D’amicizia e di pace a me porgesti;
Quali or, lasso, vi trovo? e qual ne vegno?
652E voi leggiadre membra, or non son questi
Del mio ferino e scellerato sdegno
Vestigj miserabili e funesti?
O, di par con la man, luci spietate!
656Essa le piaghe fè, voi le mirate.

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LXXXIII.


     Asciutte le mirate: or corra, dove
Nega d’andare il pianto, il sangue mio.
Quì tronca le parole; e come il move
660Suo disperato di morir desio,
Squarcia le fasce e le ferite; e piove
Dalle sue piaghe esacerbate un rio.
E s’uccidea; ma quella doglia acerba,
664Col trarlo di se stesso, in vita il serba.

LXXXIV.


     Posto è sul letto, e l’anima fugace
Fu richiamata agli odiosi uficj.
Ma la garrula fama omai non tace
668L’aspre sue angoscie e i suoi casi infelici.
Vi tragge il pio Goffredo, e la verace
Turba v’accorre de’ più degni amici.
Ma nè grave ammonir, nè parlar dolce
672L’ostinato dell’alma affanno molce.

LXXXV.


     Qual’in membro gentil piaga mortale
Tocca s’inaspra, e in lei cresce il dolore;
Tal da i dolci conforti, in sì gran male,
676Più inacerbisce medicato il core.
Ma il venerabil Piero, a cui ne cale
Come d’agnella inferma a buon pastore,
Con parole gravissime ripiglia
680Il vaneggiar suo lungo, e lui consiglia.

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LXXXVI.


     O Tancredi, Tancredi, o da te stesso
Troppo diverso e da i princípj tuoi;
Chi sì t’assorda? e qual nuvol sì spesso
684Di cecità fa che veder non puoi?
Questa sciagura tua del Cielo è un messo:
Non vedi lui? non odi i detti suoi?
Che ti sgrida, e richiama alla smarrita
688Strada che pria segnasti, e te l’addita?

LXXXVII.


     Agli atti del primiero uficio degno
Di cavalier di Cristo ei ti rappella:
Che lasciasti per farti (ahi cambio indegno!)
692Drudo d’una fanciulla a Dio rubella.
Seconda avversità, pietoso sdegno
Con leve sferza di là su flagella
Tua folle colpa, e fa di tua salute
696Te medesmo ministro; e tu’l rifiute?

LXXXVIII.


     Rifiuti dunque, ahi sconoscente, il dono
Del Ciel salubre, e ’ncontra lui t’adiri?
Misero, dove corri in abbandono
700A’ tuoi sfrenati e rapidi martírj
Sei giunto, e pendi già cadente e prono
Sul precipizio eterno: e tu nol miri?
Miralo, prego, e te raccogli, e frena
704Quel dolor ch’a morir doppio ti mena.

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LXXXIX.


     Tace: e in colui dell’un morir la tema
Potè dell’altro intepidir la voglia.
Nel cor dà loco a que’ conforti, e scema
708L’impeto interno dell’intensa doglia;
Ma non così, che ad or ad or non gema,
E che la lingua a lamentar non scioglia,
Ora seco parlando, or con la sciolta
712Anima, che dal Ciel forse l’ascolta.

XC.


     Lei nel partir, lei nel tornar del Sole
Chiama con voce stanca, e prega, e plora;
Come usignuol cui ’l villan duro invole
716Dal nido i figlj non pennuti ancora;
Che in miserabil canto, afflitte e sole
Piange le notti, e n’empie i boschi, e l’ora.
Alfin col novo dì rinchiude alquanto
720I lumi: e ’l sonno in lor serpe fra ’l pianto.

XCI.


     Ed ecco, in sogno, di stellata veste
Cinta gli appar la sospirata amica
Bella assai più; ma lo splendor celeste
724L’orna, e non toglie la notizia antica.
E, con dolce atto di pietà, le meste
Luci par che gli asciughi, e così dica:
Mira come son bella e come lieta,
728Fedel mio caro, e in me tuo duolo acqueta.

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XCII.


     Tale i’ son, tua mercè: tu me da i vivi
Del mortal mondo, per error, togliesti:
Tu in grembo a Dio fra gl’immortali e divi,
732Per pietà, di salir degna mi festi.
Quivi io beata amando godo, e quivi
Spero che per te loco anco s’appresti;
Ove al gran Sole e nell’eterno die
736Vagheggerai le sue bellezze e mie.

XCIII.


     Se tu medesmo non t’invídi il Cielo,
E non travii col vaneggiar de’ sensi,
Vivi, e sappi ch’io t’amo, e non te ’l celo,
740Quanto più creatura amar conviensi.
Così dicendo, fiammeggiò di zelo
Per gli occhj, fuor del mortal uso, accensi:
Poi nel profondo de’ suoi rai si chiuse
744E sparve, e novo in lui conforto infuse.

XCIV.


     Consolato ei si desta, e si rimette
De’ medicanti alla discreta aita.
E intanto seppellir fa le dilette
748Membra ch’informò già la nobil vita.
E se non fu di ricche pietre elette
La tomba, e da man Dedala scolpita;
Fu scelto almeno il sasso e chi gli diede
752Figura, quanto il tempo ivi concede.

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XCV.


     Quivi da faci, in lungo ordine accese,
Con nobil pompa accompagnar la feo.
E le sue arme, a un nudo pin sospese,
756Vi spiegò sovra in forma di trofeo.
Ma come prima alzar le membra offese
Nel dì seguente il cavalier poteo,
Di riverenza pieno e di pietate,
760Visitò le sepolte ossa onorate.

XCVI.


     Giunto alla tomba ove al suo spirto vivo
Dolorosa prigione il Ciel prescrisse;
Pallido, freddo, muto, e quasi privo
764Di movimento, al marmo gli occhj affisse.
Alfin sgorgando un lagrimoso rivo,
In un languido oimè proruppe, e disse:
O sasso amato ed onorato tanto
768Che dentro hai le mie fiamme, e fuori il pianto:

XCVII.


     Non di morte sei tu, ma di vivaci
Ceneri albergo, ove è riposto Amore:
E ben sento io da te le usate faci
772Men dolci si, ma non men calde al core.
Deh prendi i miei sospiri, e questi baci
Prendi ch’io bagno di doglioso umore:
E dagli tu, poich’io non posso, almeno
776Alle amate reliquie ch’hai nel seno.

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XCVIII.


     Dagli lor tu: chè se mai gli occhj gira
L’anima bella alle sue belle spoglie;
Tua pietate e mio ardir non avrà in ira,
780Chè odio o sdegno là su non si raccoglie.
Perdona ella il mio fallo: e sol respira
In questa speme il cor fra tante doglie.
Sa ch’empia è sol la mano: e non l’è noja,
784Che s’amando lei, vissi; amando moja.

XCIX.


     Ed amando morrò: felice giorno,
Quando che sia; ma più felice molto,
Se come errando or vado a te d’intorno,
788Allor sarò dentro al tuo grembo accolto.
Faccian l’anime amiche in Ciel soggiorno;
Sia l’un cenere e l’altro in un sepolto:
Ciò che ’l viver non ebbe, abbia la morte.
792Oh (se sperar ciò lice) altera sorte!

C.


     Confusamente si bisbiglia intanto
Del caso reo nella rinchiusa terra.
Poi s’accerta e divulga: e in ogni canto
796Della Città smarrita il romor erra
Misto di gridi, e di femmineo pianto:
Non altramente che se presa in guerra
Tutta ruini: e ’l foco, e i nemici empj
800Volino per le case, e per i tempj.

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CI.


     Ma tutti gli occhj Arsete in se rivolve,
Miserabil di gemito e d’aspetto.
Ei, come gli altri, in lagrime non solve
804Il duol, che troppo è d’indurato affetto;
Ma i bianchi crini suoi d’immonda polve
Si sparge e brutta, e fiede il volto e ’l petto.
Or mentre in lui volte le turbe sono,
808Va in mezzo Argante, e parla in cotal suono:

CII.


     Ben volev’io, quando primier m’accorsi
Che fuor si rimanea la donna forte,
Seguirla immantinente, e ratto corsi
812Per correr seco una medesma sorte.
Chè non feci, e non dissi? o quai non porsi
Preghiere al Re chè fesse aprir le porte?
Ei me, pregante e contendente invano,
816Con l’imperio affrenò che ha quì sovrano.

CIII.


     Ahi che s’io allora usciva, o dal periglio
Quì ricondotta la guerriera avrei,
O chiusi, ov’ella il terren fè vermiglio,
820Con memorabil fine i giorni miei.
Ma che poteva io più? Parve al consiglio
Degli uomini altramente, e degli Dei.
Ella morì di fatal morte, ed io
824Quant’or conviensi a me già non oblio.

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CIV.


     Odi, Gerusalem, ciò che prometta
Argante: odil tu Cielo: e se in ciò manco,
Fulmina sul mio capo: io la vendetta
828Giuro di far, nell’omicida Franco,
Che per la costei morte a me s’aspetta:
Nè questa spada mai depor dal fianco,
Insin ch’ella a Tancredi il cor non passi,
832E ’l cadavero infame ai corvi lassi.

CV.


     Così disse egli: e l’aure popolari
Con applauso seguir le voci estreme.
E immaginando sol, temprò gli amari
836L’aspettata vendetta in quel che geme.
O vani giuramenti! Ecco contrarj
Seguir tosto gli effetti all’alta speme:
E cader questi, in tenzon pari, estinto
840Sotto colui ch’ei fa già preso e vinto.