Gl'ingannati/Nota

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Note

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Atto V
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AVVERTENZE GENERALI

Per tutte le illustrazioni relative alle commedie che si raccolgono in questo e in altri successivi volumi rimando alla parte già pubblicata della mia storia della Commedia italiana (Milano, Vallardi, 1911). Qui occorre solo avvertire che furono esclusi dalla presente raccolta tutti quegli scrittori (ad es. l’Ariosto e il Machiavelli) di cui dovranno ristamparsi le opere complete e quegli altri scrittori (ad es. il Cecchi e il Della Porta) la cui operosità drammatica fu cosi vasta e complessa da esigere una nuova edizione di tutto il loro teatro. La mia scelta si restringe a quei commediografi (o notissimi, come il cardinal da Bibbiena, o’del tutto ignoti, come Niccolò Secchi) che non avrebbero potuto entrare per altra via, mentre di entrarvi avevano pur essi diritto, nella grande collezione degli Scrittori d’Italia. E, in tale scelta, mi sono attenuto a un doppio ordine di criteri: storici ed estetici. Ho badato, cioè, non solo all’intima bellezza delle commedie, ma anche a certe loro speciali caratteristiche o ai loro stretti rapporti con la vita e i costumi del Cinquecento o alla varietà delle tendenze che, pur senza uscire dalla tradizione classicheggiante, si manifestano in esse. Dalla Calandria del Bibbiena, composta in sugli inizi del secolo xvi, alla Donna costante del Borghini, venuta in luce al declinar del secolo stesso, v’è gran differenza di spiriti, se non di forme: ridanciana, quella, e giocosa, spensierata e cinica; questa, invece, seria, accigliata, lugubre, quasi preannunziatrice dei molto posteriori drames larmoyants. Per ciò, a rappresentare, in qualche modo, lo svolgimento storico del nostro teatro comico cinquecentesco, ho disposto le commedie che qui si pubblicano in ordine approssimativamente cronologico: solo [p. 402 modifica]approssimativamente, pur troppo, giacché di molte fra esse ignoriamo, fin ora, il preciso anno della composizione.

La punteggiatura, quanto mai arbitraria ed irrazionale nelle stampe del Cinquecento, ho rinnovato interamente. Del sistema ortografico nulla ho da dire perché è quel medesimo che fu adottato per tutti i volumi degli Scrittori. Piuttosto è necessario che io renda conto del come mi son comportato rispetto alle parti spagnuole o dialettali che si trovano assai di frequente nelle nostre commedie. Per questo lato (mi limito a discorrere dello spagnuolo, intendendosi che tutto ciò che dico di esso valga, benché in minor proporzione, anche per i vari dialetti italici), le stampe del Cinquecento ci offrono lo spettacolo di una scapigliata anarchia. Troviamo «io» e «yo»; «estoi» e «estoy»; «ablar» e «hablar»; «che» e «que» ; «debaxo» e «debascio» e «debajo» ; «magnana» e «mañana» ; «engannar» e «engagnar» e «engañar» ; «acer» e «hacer» e «azer» e «hazer» e «fazer» ; «vieio» e «viejo» ; «mui» e «muy» ; «nocce» e «noche» ; «alla» e «agliá» ; «a» e «á» ; «á chi» e «á qui» e «a qui» e «aqui» e «aqui» ; «por que» e «porque»; «tan bien» e «tambien»; e cosí via discorrendo. Di fronte a tale moltiplicita di espressioni grafiche che cosa dovevo fare? Dovevo ridurle, tutte ad un’espressione unica e corretta e scrivere, per es., in tutti i casi, «yo», «hablar», «que» , «mañana» , «hacer» , «muy» , «noche» , «allá»? oppure dovevo mantenere questo strano ma pur significativo disordine? Mi parve, in principio, che fosse miglior partito attenersi al primo sistema; poi, dopo avere assai dubitato e riflettuto, ho finito coll’appigliarmi al secondo. E le ragioni son queste. Innanzi tutto, le molte incertezze ortografiche possono esser proprie non tanto del tipografo quanto dello stesso autore e indicare la sua maggiore o minor conoscenza e la sua piú o meno esatta pronunzia dello spagnuolo; né è male, anzi è bene, che di questa sua conoscenza e pronunzia restino, anche nella nostra edizione, le tracce. In secondo luogo, può ben darsi che l’autore abbia inteso di usare promiscuamente parole italiane (per es. «io», «engannar») e parole spagnuole (per es. «yo», «engagnar» o «engañar»): sicché, quando si adoperasse una sola grafia, potremmo correre il rischio di allontanarci involontariamente dal suo stesso pensiero. Il Piccolomini, infatti, dichiara nelle sue Annotazioni alla Poetica d’Aristotele di avere «interposto», nell’Amor costante e nell’Alessandro, «qualche scena in lingua spagnuola italianata, accioché [p. 403 modifica]manco paresse straniera»1. Il quale italianizzamento dello spagnuolo, oltre che giovare a render piú intelligibile il discorso, era anche naturalmente suggerito dalla realtá; come possiam rilevare dalla seguente preziosa testimonianza del Bandello: «E queste parole ella disse mezze spagnuole e mezze italiane, parlando come costumano gli oltramontani quando vogliono parlar italiano»2. Ciò spiega, non pur le oscillazioni ortografiche di cui ho discorso fin ora, ma anche la presenza di scorrette forme grammaticali; che sarebbe, evidentemente, errore il voler correggere. Insomma, per questa parte, io ho creduto di dovere essere, quanto piú mi fosse possibile, conservatore: conservatore, dico, dell’anarchia.

Ciò non di meno, qualche modificazione o correzione è stata pur necessaria. Non potevano, per es., nella scena 3 dell’atto 11 degl’Ingannati rimanere un «lamas hermosas mozas» e un «ellacca ob alcatieta» che sono stati rispettivamente ridotti a «la mas hermosa moza» e «vellacca alcahueta». E cosi, nell’uso degli accenti e del «h» iniziale, se ho rispettato di regola le antiche stampe da me poste a fondamento di questa nuova edizione, e se ho scritto indifferentemente «a» e «a», «hacer» e «acer» ecc., me ne son però allontanato ogni qual volta la mancanza dell’accento o del «h» potesse ingenerare confusioni ed equivoci. Per es., un «alla» o un «alti», che sembrano preposizioni articolate italiane mentre sono avverbi spagnuoli, ho creduto bene di accentarli («alla, alti»); un «resucitare» o un «andare» o un «ire», che possono prendersi per infiniti mentre non sono che la prima persona singolare del futuro, li ho pure accentati («resucitare, andare, iré») e ho fatto precedere dal «h» un «e» che, invece d’essere la nostra congiunzione copulativa, sia la prima persona singolare del presente indicativo del verbo spagnuolo «haber» («he»); e altre simili modificazioni ho introdotte quando mi sia parso opportuno. Ma ciò non infirma punto il general criterio di conservazione al quale, come piú sopra dissi, mi sono, nel maggior numero dei casi, rigorosamente attenuto.

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IV

GL’INGANNATI

Questa commedia ebbe nel Cinquecento, precisamente come la Calandrici, una ventina di edizioni; due altre ne ebbe sul principio del Seicento; poi non fu piú mai ristampata3, Eppure, anche nel rispetto artistico, essa può sicuramente annoverarsi fra le migliori del sec. xvi; e godè, ad ogni modo, di una cosí grande fortuna da esser conosciuta e imitata, non pure in Italia, ma anche in Francia, in Spagna ed in Inghilterra. Io pongo a fondamento della presente edizione la prima stampa veneziana del 1537: Comedia del Sacri/i- ciò de gli Intronati da Siena MDXXXVII. In Vinegia per Curtio Navo et fratelli e al termine dell’ultimo atto: II fine della Comedia de gli Inganna- ti In Vinegia Per Curtio Navo, & Fratelli. MDXXXVIII Precede un’avvertenza di «Curzio alli lettori» che incomincia cosi: «Eccovi finalmente, o lettori, la tanto aspettata e desiderata comedia de gli Intronati, che io vi porgo: degna, per la invenzione, per la puritá della lingua e per l’arte con che è tessuta, d’esser da voi apprezzata e avuta cara forte tanto quanto altra che fino a questo di ne abbiate veduta». Segue all’avvertenza il testo poetico della festa cosí detta del «Sacrificio » (donde l’erroneo titolo stampato sul frontespizio e perpetuatosi, fino ad alcuni anni addietro, nei libri di bibliografia e di storia) che gli accademici Intronati di Siena celebrarono nel carnevale del 1531; viene poi la commedia, che fu rappresentata, come apparisce dal prologo, qualche giorno dopo la festa suddetta e che sola qui si ristampa; e, in ultimo, chiude il volumetto la Canzon nella morte d’una civetta «Gentil augello che dal mondo errante»4. [p. 410 modifica]Oltre a questa edizione, mi valgo, specialmente per le parti spagnuole, di quella compresa nella giá citata raccolta ruscelliana delle Comedie elette ove essa reca il seguente titolo: Il Sacrificio | de gí’Introitati, celebrato ne i giuochi d’un carnevale in Siena. Et | GV Ingannati, comedia dei medesimi. In Venetia per Plinio Pietrasanta, MDLIIII. — La stampa del 1537 ha quasi sempre «dinanci», «innanci» ecc.; ma anche, talvolta: «da hora innanzi» (a. 1, se. 3); «entrami innanzi» (ivi); «anzi l’ho in odio» (a. 11, se. 7); «vòimiti levar dinanzi?» (a. iv, se. 1); «non vi ci fui mai dinanzi» (ivi). Io adotto, in tutti i casi, questa seconda forma. — A. 1, se. 5: «È ben vero che pregano Dio e’l diavolo» (ediz.: «È ben che pregano...» — NelPa. iv, se. 6, verso la fine, Pasquella minaccia lo spagnuolo di bagnarlo se non si decide ad andarsene; e Giglio, secondo l’edizione del 1537, risponde: «Testate l’agua, el fuogo porrò io a está puerta» precisamente cosí anche l’ediz. di Venezia, Giolito, 1560 e quella del 1538 che, all’in fuori dell’anno, è priva di ogni altra nota tipografica. L’edizione, invece, del 1554 curata dal Ruscelli legge: «Heccia de l’agua, el fuego ponerò yo a está puerta». Ma né il «testate l’agua» ’né il «heccia de l’agua» danno senso alcuno. Si avrá qui, come io penso, una forma del verbo «echar». Per ciò, sopprimo il «h» di «heccia»; e, riunendo il «de» aV«eccia», scrivo: «ecciade (italianizzamento di «echad») l’agua» = «gettate l’acqua». Per il rimanente, seguo, com’è naturale, l’edizione del 1537. — Al termine della commedia aggiungo l’indicazione «Scena Vili» sopra le parole «Stragualcia a li spettatori».




  1. Annotazioni di M. Alessandro PiccoLomini, nel Libro della Poetica d’Aristotele; con la traduttione del medesimo Libro, iti Lingua Volgare. Con privilegio. In Vinegia, presso Giovanni Guarisco, e Compagni in fine l’anno: m.d.lxxv, p. 29.
  2. Le novelle a cura di G. Brognoligo, i (Bari, Laterza, 1910), 242 (nov. 1, .16)
  3. Vedi Allacci, Drammaturgia, col. 448; Brunet, Manuel, m, 454; Graesse, Trèsor, II, 236 e HI, 427. Dico «una ventina di edizioni» senza determinarne il numero preciso perché non sempre le indicazioni dei bibliografi sono esatte; e l’inesattezza deriva, non di rado, da una doppia data che le antiche stampe recano: com’è appunto il caso di quella da me riprodotta che ha, in principio, il 1537 e, in fine, il 1538.
  4. Dell’esistenza della stampa veneziana del Navo dubitò a torto C. Lozzi, Edizione del 1538 sconosciuta o non bene descritta d’una festa e comedia «degV ’Intronati » sanesi in La bibliofilia, a. vii, disp. 1-2, pp. 33 sgg.; e a torto, per conseguenza, suppose che possa considerarsi come prima edizione quella, da lui descritta, del 1538 senza luogo di stampa né nome di stampatore.