Guerino detto il Meschino/Capitolo XII

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Capitolo XII

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CAPITOLO XII.


Viaggio da Tigliafa agli Alberi del Sole.


EE
ssi per molte giornate passarono il regno Tigliafa, e giunsero al fiume Doras. Passata la città, dove il fiume Doras entra nel mare, giunsero alla città detta Igonoa, la quale è sopra il mare detto Pelago Daman, da loro detto fiume Doras, e partiti dalla città Igonoa, andarono a una città detta Picchione, ed avendo passato il gran fiume detto Scapio, fu loro detto, mentre camminavano, come quello vien alla Tartaria chiamato regno di Orbia, ed ha origine dalle gran montagne dette Semarsus, dove comincia la signoria del gran Can di Tartaria, che dappertutto veniva loro grandemente esaltata. Questo dicevano gli Indiani, perch’eglino lo sanno meglio che l’altra gente di Levante, e la cagione è questa, che per l’altre regioni le genti cristiane non possono andar per i paesi liberamente, ed essi per tutto son franchi; e dicevasi che la signoria del gran Cane comincia a queste montagne dette Semarsus, gira per tutta l’India, e la signoreggia sino al mare Caspio, e infino alla Tana, e più altre parti del mondo; e i gran Cani sono più volte [p. 112 modifica]passati in Persia, e l’hanno presa tutta; ma che i Persiani non mancano di far ogni sforzo per racquistar il loro reame. Domandò il Meschino s’essi venivano in India; e’ disser di sì, ma che non vi ponno vivere per i gran caldi. Domandò di più se erano Macabei, sicchè mangiassero carne cruda, e disser di no, perchè i Macabei son selvatici, e non hanno legge; laddove coloro hanno molte città, e le maggiori del mondo, tra le quali nominò Sipibus, Zimariani, Pasenetas, Salatas, Anelimarto, Archimora, e in quella Archimora stava il più bel tempo il gran Cane.

Poi andarono verso la gran montagna detta Masarpi, dove esce il gran fiume detto Cancer, e son queste città Ottolan, Choca, Stambo, Toccare, Desiccare, la gran città detta Sarapali, e queste regioni de’ Tartari son chiamate Metropoli. Videro ancora molte altre città, fra le quali Alipadan, Almetra e Vorava. Queste son l’ultime sotto la tramontana e le più fredde, tutte signoreggiate dal gran Cane. Facendo ragionamento giunsero a una città chiamata Aman. Questa città ha un bel porto, ed è ricchissima perchè vi nascono i più fini cotoni del mondo e buona cannella. In questa città ebbe il Meschino co’ suoi compagni per otto giorni la febbre, e guarì in quel giorno che finivano tre mesi da che giunse a Tigliafa, ed in quella malattia fu molto visitato da quelli di Aman. Queste genti son negre, ed hanno grosse labbra, occhi rossi, largo naso e schiacciato, e denti bianchi. Poichè il Meschino e la sua gente furono guariti, partiti andarono a un’altra città detta Caucan, e qui si fornirono di quello che loro faceva di mestiere, e tolsero molti porci vivi a molta maraviglia del Meschino, cui Cariscopo disse: «Senza questi non ci possiam aiutare». Partiti da Caucan entrarono per le selve e pei deserti di Rampa, ultima città della terra abitata verso levante, dove ebbero a soffrir gran fatica per gli animali selvatici che s’incontrarono.

Ben disse il Meschino: «Senza la compagnia che ho avuta, giammai non giungeva in questo luogo a salvamento, e mai non vedeva il padre mio!» imperocchè mentre per questo deserto e selve se ne andava, la terza mattina nel far del giorno furono assaliti da gran quantità d’elefanti selvatici, i quali fecero gran danno alle sue genti, e peggio avrebbero fatto, se Cariscopo messo non avesse cinquanta elefanti tra loro, armati con lancie e saette, i quali [p. 113 modifica]uccisero e ferirono gran parte di tali elefanti selvatici, e non avessero avuto la sorte di trovare quei porci vivi, i quali facevano gridare come fanno quando il beccaio li ammazza, sicchè per queste grida gli elefanti cominciarono a fuggire, tornandosi nel bosco. Di lì a poco trovarono molti serpenti, dragoni e tigri molto velenosi, e ne uccisero molti. Questi per il veleno avrebbero fatto gran male, perocchè erano molti insieme venuti al fiume all’ora di terza per bere. Ma Cariscopo disse: «Contra questa verminaglia è buon di far stridere i porci;» e cominciarono a stuzzicarli e farli gridare, ed a fare in tal modo la lor battaglia. Ond’è che si videro poi morti più di mille di que’ vermi velenosi, ma rimasero uccisi di que’ porci più di ottocento, dopo aver fatta battaglia coi serpenti, e quelli che non morirono in battaglia, andavano morendo per la via per essere avvelenati.

Passati questi vermini, la sera sul tardi volendosi alloggiare, trovarono un animale molto smisurato di grandezza, il quale divorò due Indiani. Il rumore si levò, e furono mandati contra lui gli elefanti. L’animale ne ferì cinque, dando loro nel collo e nel petto del dente lungo come quello del cinghiale, e buttò dieci elefanti per terra, ma alla fine fu trucidato dal Meschino che gli lanciò addosso due lancie. Ad ognuno faceva maraviglia quel collo lungo e spesso che appena lasciava veder la testa, accogliendosi il collo tra il petto infra le spalle. In que’ paesi questa bestia è chiamata Cenarocoper, e propriamente è fatta come fu detto da Lasagas, capitolo cinquantotto.

L’altra mattina avendo il Meschino sentito che erano appresso ad una città che era l’ultima della terra abitata pei cristiani, pregò Cariscopo che gli consentisse d’andarvi. Cariscopo drizzossi alla fine verso questa città, già detta di sopra Rampa. Appena uscirono dalla selva, che trovarono de’ gran serpenti, e gran quantità di uccelli, ma poco mal loro facevano. Non così le fiere, una delle quali chiamata Cavalles dagli Indiani, combattè con loro. Era tanto destra che pareva che avesse ali colle quali volasse, e spesso si fermava a guardarli, parendo che la fosse vaga di vedere il viso dell’uomo. A questo modo seguitolli tutto un dì, senza però offenderli; ma presso la città di [p. 114 modifica]Rampa mezza giornata, cominciò assalirli ed uccise dieci Indiani, e ben trenta altri ne ferì innanzi che fosse ammazzata. Questo animale era grande come un cavallo, aveva la testa come il cinghiale, pelo e zampe leonine, con denti che una spanna uscivano fuori di bocca, più grossi, più acuti, e più taglienti che quelli del cinghiale, e con due corna in testa lunghe tre cubiti, dritte e dure che parevano d’acciaio.

Non stettero gran tempo, che giunsero alla città di Rampa, ove trovarono genti negre e basse, che vivono bestialmente, e colà fornironsi delle cose di cui avevano bisogno. Al partirsi di là lagrimò il Meschino, e disse: «O vero Iddio, quando tornerò in ponente, che sono all’ultima parte d’oriente, e per giungervi ho sostenute tante battaglie che non saprei narrarle? Pure conviene proseguire il viaggio. Sia fatta la sua volontà!» Camminarono per sei giorni continui, e tornando verso l’India giunsero sul pelago di Aman verso il monte, sopra il quale sono gli Alberi del Sole. Questo monte è sopra il mare d’India all’ultima parte del mare verso levante, dove per temenza delle fiere montarono più su quattro miglia, e scampati a questo modo, presero quivi un riposo di due giorni, e per avere iscoperte molte vene di acqua vi si ristorarono.

Il Meschino per compire il suo viaggio, la terza mattina che giunse al monte, chiamò Cariscopo e dissegli: «Proviamo di montar sul monte». E così decisero di fare un barone grande e gentiluomo di Tigliafa, un sacerdote cristiano, e due sacerdoti di Apollo pagani. Ma il Meschino avanti che si partisse dal campo, si confessò. Il confessore pregollo che egli non andasse a tal impresa, perchè sono cose false e vane, e perchè quegli alberi erano idoli de’ Pagani, e gli disse come il demonio dava ad intendere tali falsità per ingannare la natura umana, e se pur volesse andarvi, egli non li adorasse, ma solo scongiurasseli. Così promise di fare, e tolta ciascun di loro la vettovaglia opportuna, il Meschino col compagno portarono quello che gli pareva far mestieri per suo bisogno, e tolse alcuna quantità di tesoro, e non più che la sua spada. Eglino dovevano tornare in quattro dì; nondimeno pareva loro che la cima del monte fosse appiccata al ciclo; per lo che il [p. 115 modifica]Meschino ordinò all’oste e ad un franc’uomo d’arme, che se nel termine di sette giorni non tornavasene, ritornassero pure a Tigliafa per terra. Indi presero la via difficile della montagna.

Stettero un dì e mezzo a montare il monte, e andarono due volte intorno al poggio, donde il Meschino vedeva il mar d’India ch’era appresso le bandiere del suo campo. Per quel mare d’India avvi ogni dieci anni il perdono a quegli Alberi del Sole, come a Roma è il Giubileo, e vanno con maggior riverenza a quel perdono che non fanno i Cristiani a Roma, e al Santo Sepolcro di Gerusalemme. Quanto più andavano in alto, andavano con maggior pericolo per greppi aspri e grandi, dove non si può andare se non per un sentiero piccolo, e chi precipitasse di là, si ridurrebbe in polvere. Quindi per sicurezza si va a piedi.

Il secondo dì trovarono un piano con tre porte di monti attorno, l’uno verso levante, l’altro verso ponente, e l’ultimo dalla parte australe. E verso le parti fredde di tramontana era un tempio di pietre vive, di lunghezza trenta braccia, largo quindici, ed alto venti, e murato di piccoli sassi come fossero ghiaia di fiume. Innanzi all’entrata era una piccola piazza con un gran piano. Ed il tempio era situato in un bosco d’alberi. Allora ricordossi il Meschino delle antiche istorie dei nobili virtuosi incoronati di lauro, e perchè Apollo fu chiamato Dio della Sapienza, cui dissero i poeti essere stato trasformato in Lauro dalla bella vergine Penifa figliuola di Peneo, per la caccia di Febo cioè del Sole chiamato Apollo. Quando eglino vollero entrare in questo praticello, venne loro un uomo alto incontro, vestito di grossi panni e discalzo senza niente in piedi nè in capo, ma aveva bene molta capigliatura. Questo uomo domandò quello che essi andavano cercando. Gli risposero i sacerdoti pagani, dicendogli quel che cercavano. Allora quell’uomo li fece tutti inginocchiare, e disse loro se erano casti di tre dì, che entrassero nella piazza sacra; se non erano poi casti, non entrassero e non toccassero gli Alberi, chè essi erano sacrati al Sole e ad Apollo loro Dio. Disse allora il Meschino fra sè: «O vana fede di questi falsi sacerdoti che si lasciano ingannare da’ [p. 116 modifica]demonii: benedetto sii tu, Daniel profeta, che questi sacerdoti conoscesti!» E con tutto ch’egli avesse volontà di trovare il padre, si fece fra sè beffe di lui facendo vista di fare il suo comandamento. Così pure fece il sacerdote cristiano che era con lui. Il sacerdote d’Apollo menatili fin al limitare, feceli discendere ed entrare nel tempio. Indi s’inginocchiò e mise il viso a terra dicendo: Rendete laude al Dio Apollo. Così fecero il Meschino ed i compagni suoi. Quel sacerdote mostrò loro un’immagine grande con due saette in mano, l’una d’oro, l’altra di piombo, una corona, ovver ghirlanda d’oro che aveva in capo, e così anche la cintura. Era un’immagine d’aspetto giovine, con la faccia rossa come fuoco. Dopo questa mostrò loro un’altra immagine d’una vecchia con due corone in capo, dicendo: «Questa è l’immagine di Diana la vergine, cioè la Luna». Li menò quindi ad una grande spelonca, che era sotto uno di quei tre monti molto grandi, e qui erano degli altri sacerdoti peggio in ordine di quello che era venuto con loro. Stettero con que’ sacerdoti tutta quella notte, i quali avendo domandato dove erano i buoi da sagrificare al dio Apollo, il Meschino promise di dar loro in vece molto tesoro, perocchè non avevano potuto condur bestiame per la mala via. Fattili perciò levare furono condotti nel tempio, ove si fece sacrificio ai numi, ed il Meschino offerta una brancata di monete d’oro, come era dovere con simil gente, inginocchiossi per adorare Apollo e la vergine Diana, secondo che il sacerdote dicevagli, acciocchè gli facessero la grazia che desiderava. Il Meschino si mise a pregare in tal modo:

«Io ti scongiuro per la virtù della somma Trinità, del Padre, Figliuolo e Spirito Santo, che sono tre in una sostanza, vero Dio fattore del cielo e della terra, e signore di tutte le cose visibili ed invisibili, il quale per sua grazia e misericordia dimostrò le cose che aveva in sè, fece il firmamento, creò il cielo e la terra, partì la terra dall’acqua, separò le tenebre dalla luce, fece le stelle ed i pianeti in cielo, gli animali in terra, ed i pesci in acqua, e comandò che moltiplicassero ciascuno il suo seme e la sua generazione, e la terra producesse frutto; il quale fece Adamo di terra, d’aere e di fuoco, che [p. 117 modifica]fu nostro primo padre, e fece Eva nostra prima madre, e pose l’uomo sopra tutte le cose; il quale finalmente te, maledetto spirito ingannatore dell’umana natura, cacciò dal cielo, che facesti peccare il primo uomo, e per cui, per la misericordia che Dio ebbe dell’umana natura, mandò il suo unico figliuolo a ricuperare l’umana generazione. Per tutto questo ti scongiuro, e per l’Incarnazione del Nostro Signore Gesù Cristo nel ventre di Maria Vergine, innanzi il parto e dopo il parto vergine, e per la sua passione, e per i sacri Evanigeli, e per i Santi Apostoli, e per il giusto giudizio del Signore Dio; che tu rispondi alla domanda, la quale io farò agli Alberi, senza alcuna frode e bugia, cioè che sappia in qual paese io debba trovare il padre mio e la mia sanguinità».

Fatta questa scongiurazione uscirono dal tempio. Il Meschino fu menato tre volte in un orto di grandezza di duecento braccia per ogni verso. Nel mezzo di quest’orto erano due grandi alberi di cipresso, le cui cime erano pari a quelle di tre monti. I sacerdoti dissero loro che si mettessero ginocchioni, ed adorassero gli Alberi del Sole e della Luna. Il Meschino veduto che ebbe quegli Alberi, e ciò udito, si fece beffe di quelle favole non che della scienza d’Apollo. Nulladimeno fece sacrificio sopra un altare di pietra marmorea, che era fra questi due alberi, e fece il medesimo sacrificio agli alberi che aveva fatto agl’idoli nel tempio. Intanto il sole si levò, e appena toccava la cima, che quel sacerdote disse a lui di domandare la sua grazia. Il Meschino, che già l’aveva scongiurato, dimandò allora la sua grazia, ed una voce uscì dall’Albero, che disse:

— Dimmi come tu hai nome?

Egli: — Il Meschino.

Rispose la voce: — Non è vero: imperocchè tu hai nome Guerino, e sei battezzato due volte. Tu sei figliuolo d’un barone cristiano e di schiatta regale».

Dette queste parole non volle più rispondere. Disse il sacerdote che convenivagli aspettare insino alla notte, chè allora dimanderebbe agli Alberi della Luna. Giunta la notte, il Meschino scongiurò con quel medesimo modo l’Albero della Luna. Come la Luna toccò la cima, il demonio, che quel sacerdote [p. 118 modifica]aveva incantato, rispose: — Va in ponente che troverai la tua schiatta», e non ebbe altra risposta. Per questo intese, che quei sacrificii erano per ingannare e perdere molte anime, onde per disperazione gli venne volontà di uccidere quel sacerdote e tagliare gli Alberi, se non fosse che Cariscopo dissegli di non fare, perocchè tutti i cristiani di levante sarebbero stati distrutti e morti. Per questa cagione non lo fece, quantunque molto adirato, e disceso giù maledicendo a quei sacerdoti ed ai loro idoli, tornò alla sua gente, la quale fece gran festa.

Non si poteva dar pace il Meschino delle beffe che gli pareva d’avere ricevute da questi Alberi, pensando al gran cammino che egli aveva fatto, e perchè in Grecia v’era moltitudine di alberi più belli che quelli, e molto più valenti di scienza. La mattina dopo, che erano partiti dal monte, trovarono tre navi di Persia, d’Arabia e del mar Rosso, che avevano condotto pellegrini saraceni, che andavano agli Alberi del Sole per divozione. Il Meschino noleggiò una nave, che voleva partire, per cinque persone e cinque cavalli, e, ordinato un capitano alla sua gente che partivan per terra, egli, Cariscopo ed i tre sacerdoti si partirono per mare. Navigando nel mare Indo vide molte parti d’India, fra le quali vide un’isola chiamata India Arginarca, che ha di lunghezza duecento miglia, ed è larga cinquanta. Disse il marinaio ch’essa era più larga verso levante che per ponente, e che quivi nascevano molti cotoni e spezierie. L’India Arginarca signoreggia un’altra isola per nome Elobanam, pure assai ricca. Appresso questa, a mano sinistra, vide ancora molte isole, tra le quali alcune erano abitate da’ serpenti e dragoni, i quali si vedevano assai volte nuotare quel mare d’India, e di notte si vedevano assai volte a gittar fuoco, chiamati Sabbastiba Intropogos. Poi cominciò il Meschino a ragionare con quei sacerdoti pagani, dicendo che gli pareva cosa vana adorar le cose, ch’erano state mortali, che un solo Dio si deve adorare, il quale era fattore e non le cose fatte, e parevagli cosa bestiale adorare quegli alberi, imperocchè ne erano pieni i boschi così in Grecia come in ponente, e sono chiamati tutti cipressi. Il sacerdote cristiano ridevasene e confermava il detto del Meschino, per cui i sacerdoti pagani si [p. 119 modifica]adirarono, ed i marinai ebbero ardimento di dire che se non era per Cariscopo, l’avrebbero gettato in mare lui ed il sacerdote di Tigliafa. Allora il Meschino venne in tant’ira, che se Cariscopo non gli avesse detto: — Non fare, che noi periremo in mare», egli avrebbeli tutti morti. Per qnesto, per sette dì e sette notti che navigò, non fece più altre parole.

Arrivati ad un gran fiume chiamato Phatach, dove smontarono il Meschino con Cariscopo ed i tre sacerdoti, e pagata la nave, la quale prese suo viaggio verso Persia, montarono a cavallo, percorrendo la riva di questo fiume. Dopo non gran tempo giunsero a Tigliafa, dove molti della città gli vennero incontro, conciossiachè i Persiani l’avessero fatto sapere alla città. Dappoi a dieci giorni tornò la gente che avevano lasciata sul monte Nettupero, e ne si fece una festa grandissima.