I capitoli/Della Ingratitudine

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Della Ingratitudine

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Di Fortuna Dell'Ambizione

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CAPITOLO

DELLA INGRATITUDINE

A GIOVANNI FOLCHI.


GIovanni Folchi, il viver mal contento,
     Pel dente dell’Invidia, che mi morde,
     3Mi darebbe più doglia, e più tormento;
Se non fusse che ancor le dolci corde
     D’una mia cetra, che soave suona,
     6Fanno le muse al mio cantar non sorde.
Non sì ch’io speri averne altra corona;
     Non sì ch’io creda, che per me s’aggiunga
     9Una gocciola d’acqua d'Elicona.
Io so ben quanto quella via sia lunga:
     Conosco non aver cotanta lena,
     12Che sopra il colle desiato giunga.
Per tutta volta un tal disio mi mena
     Che io credo forse andando poter corre
     15Qualche arbuscel, di che la piaggia è piena.
Cantando dunque cerco dal cuor torre,
     E frenar quel dolor de’ casi avversi,
     18Cui drieto il pensier mio furioso corre;
E come del servir gli anni sien persi,
     Come in fra rena si semini, ed acque,
     21Sarà or la materia de’ miei versi.

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Quando alle stelle, quando al Ciel dispiacque
     La gloria de’ viventi in lor dispetto;
     24Allor nel mondo Ingratitudin nacque.
Fu d’Avarizia figlia, e di Sospetto:
     Nutrita nelle braccia dell'Invidia;
     27De’ Principi, e de’ Re vive nel petto.
Quivi il suo seggio principal annidia;
     Di quindi il cor di tutta l’altra gente
     30Col venen tinge della sua perfidia.
Onde per tutto questo mal si sente,
     Perchè ogni cosa della sua nutrice
     33Trafigge, e morde l’arrabbiato dente.
E se alcun prima si chiama felice
     Pel Ciel benigno, e suoi lieti favori,
     36Non molto tempo di poi si ridice;
Come e’ vede il suo sangue, e suoi sudori,
     E che ’l suo viver ben sentendo stanco
     39Con ingiuria, e calunnia si ristori;
Vien questa peste, e mai non vengon manco,
     Chè dopo l’una poi l’altra rimette
     42Nella faretra, che l’ha sopra il fianco.
Di venen tinte tre crudel saette,
     Con le qual punto di ferir non cessa
     45Questo, e quell’altro, ove la mira mette,
La prima delle tre, che vien da essa,
     Fa, che sol l’uom il benefizio allega,
     48Ma senza premiarlo lo confessa,
E la seconda, che di poi si piega,
     Fa, che ’l ben ricevuto l’uom si scorda;
     51Ma senza ingiuriarlo solo il niega.
L’ultimo fa, che l’uom mai non ricorda,
     Nè premia il ben; ma che giusta sua possa
     54Il suo benefattor laceri, e morda.

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Questo colpo trapassa dentro all’ossa;
     Questa terza ferita è più mortale;
     57Questa saetta vien con maggior possa.
Mai non si spegne questo acerbo male;
     Mille volte rinasce, s’una muore;
     60Perchè suo padre, e sua madre è immortale;
E, come io dissi, trionfa nel cuore
     D’ogni potente, ma più si diletta
     63Nel cuor del popol, quando egli è signore.
Questo è ferito da ogni saetta
     Più crudelmente; perchè sempre avviene,
     66Che dove men si sa, più si sospetta.
E le sue genti d’ogni invidia piene
     Tengon desto il sospetto sempre, ed esso
     69Gli orecchi alle calunnie aperti tiene.
Di quì risulta, che si vede spesso
     Come un buon cittadino un frutto miete
     72Contrario al seme, che nel campo ha messo.
Era di pace priva, e di quiete
     L’Italia allor che il Punico coltello
     75Saziata avea la barbarica sete;
Quando già noto nel Romano ostello,
     Anzi dal Ciel mandato un uom divino,
     78Qual mai fu, nè mai fia simile a quello.
Questo ancor giovinetto in sul Tesino
     Suo padre col suo petto ricoperse;
     81Primo presagio al suo lieto destino;
E quando Canne tanti Roman perse
     Con un coltel in man feroce, e solo
     84D’abbandonar l’Italia non sofferse.
Poco dipoi nello Ispanico stuolo
     Volle il senato a far vendetta gisse
     87Del comun danno, e del privato duolo.

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Come in Africa ancor le insegne misse
     Prima Siface, e dipoi d’Anniballe
     90E la fortuna, e la sua patria afflisse.
Allor gli diè il gran barbaro le spalle;
     Allora il Roman sangue vendicò,
     93Sparso da quel per l’Italiche valle.
Di quivi in Asia col fratello andò,
     Dove per sua prudenzia, e sua bontà
     96D’Asia il trionfo a Roma riportò.
E tutte le provincie, e le Città,
     Dovunque e’ fu, lasciò piene d’esempi
     99Di pietà, di fortezza e castità.
Qual lingua fia, che tante laudi adempi?
     Qual occhio, che contempli tanta luce?
     102O felici Roman! felici tempi!
Da questo invitto, e glorioso duce
     Fu a ciascun dimostro quella via,
     105Ch’alla più alta gloria l’uomo conduce.
Nè mai negli uman cuor fu visto, o fia,
     Quantunque degni, gloriosi, e divi,
     108Tanto valore e tanta cortesia;
E tra que’ che son morti, e che son vivi,
     E tra le antiche, e le moderne genti,
     111Non si trova uom, che a Scipione arrivi.
Non però invidia di mostrargli i denti
     Temè della sua rabbia, e riguardarlo
     114Con le pupille de’ suoi occhi ardenti.
Costei fece nel popolo accusarlo,
     E volle un infinito benefizio
     117Con infinita ingiuria accompagnarlo.
Ma poichè vide questo comun vizio
     Armato contro a se, volse costui
     120Volontario lassar lo ’ngrato ospizio;

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E dette luogo al mal voler d’altrui,
     Tosto che vidde com’e’ bisognava
     123Roma perdesse o libertate o lui.
Nè l’almo suo d’altra vendetta armava;
     Solo a la patria sua lasciar non volse
     126Quell’ossa che d’aver non meritava.
E così il cerchio di sua vita volse
     Fuor del suo patrio nido; e così frutto
     129A la sementa sua contrario colse.
Nè fu già sola Roma ingrata al tutto:
     Riguarda Atene, dove Ingratitudo
     132Pose il suo nido più ch’altrove brutto.
Nè valse contro a lei prender lo scudo,
     Quando a l’incontro assai legge creolle,
     135Per reprimer tal vizio atroce e crudo.
E tanto più fu quella città folle,
     Quanto si vidde come con ragione
     138Conobbe il bene e seguitar nol volle.
Milziade, Aristide e Focione,
     Di Temistocle ancor la dura sorte
     141Furno del viver suo buon testimone.
Questi, per l’opre loro egregie e forte,
     Furno e’ trionfi ch’egli ebbon da quella:
     144Prigione, esilio, vilipendio e morte.
Perchè nel vulgo le vinte castella,
     Il sangue sparso e l’oneste ferite,
     147Di picciol fallo ogni infamia cancella.
Ma le triste calunnie e tanto ardite
     Contr’a’ buon cittadin, tal volta fanno
     150Tirannico uno ingegno umano e mite.
Spesso diventa un cittadin tiranno,
     E del viver civil trapassa il segno,
     153Per non sentir d’Ingratitudo il danno.

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A Cesare occupar fe’ questo il regno;
     E quel che Ingratitudo non concesse,
     156Li dette la iusta ira e ’l iusto sdegno.
Ma lasciamo ir del popul l’interesse:
     A’ Principi e moderni mi rivolto,
     159Dove anco ingrato cor natura messe.
Acomatto Bascià, non dopo molto
     Ch’egli ebbe dato il Regno a Baiasitte,
     162Morì col laccio intorno al collo avvolto.
Ha le parti di Puglia derelitte
     Consalvo, e al suo Re sospetto vive
     165In premio de le Galliche sconfitte.
Cerca del mondo tutte le sue rive;
     Troverai pochi Principi esser grati,
     168Se leggerai quel che di lor si scrive;
E vedrai come e’ mutator di stati
     E donator di regni sempre mai
     171Son con esilio o morte ristorati.
Perchè, quando uno stato mutar fai,
     Dubita chi tu hai principe fatto,
     174Tu non gli tolga quel che dato gli hai;
E non ti osserva poi fede nè patto,
     Perchè gli è più potente la paura
     177Ch’egli ha di te, che l’obligo contratto.
E tanto tempo questo timor dura,
     Quanto pena a veder tua stirpe spenta,
     180E di te e de’ tuoi la sepoltura.
Onde che spesso servendo si stenta
     E poi del ben servir se ne riporta
     183Misera vita e morte violenta.
Dunque, non sendo Ingratitudin morta
     Ciascun fuggir le Corti e’ stati debbe;
     186Che non c’è via che guidi l’uom più corta
A pianger quel che volle, poi che l’ebbe.