Il podere (Tozzi)/X

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Al Banco di Roma, dove si fece portare da Giangio, gli tremavano le mani prendendo il denaro; poi, si sentì contento. E, tornato subito alla Casuccia, fece i conti, e pagò tutti gli assalariati. Il giorno dopo, pagò anche il carraio, il fabbro e il droghiere; e disse al Pollastri, dopo aver combinato quando doveva esser fatto l’inventario, che non aveva bisogno di pigliare a prestito i denari del suo amico.

Incaricò il Neretti di chiamare allo studio la matrigna; e s’ordinò un vestito nero. Quello che aveva addosso lo portava già da due anni, e anche le scarpe cominciavano a sfondarsi. Egli aveva un aspetto triste e affaticato; e, quasi da una settimana, non s’era fatto la barba; allo specchietto legato su la finestra di camera.

Era scontento che tutti gli parlassero dell’eredità e se ne occupassero con un interesse tanto vivo, con una confidenzialità che lo stupiva. L’opinione che avevano di lui [p. 71 modifica]gli metteva nell’animo un senso di stanchezza taciturna, una voglia desolata di andarsene; e, si ritrovava sempre a faccia con gli stessi discorsi e le stesse persone, come in un ozio logorante e ambiguo. Chi lo credeva troppo povero e chi troppo ricco: qualche persona che aveva conosciuto Giacomo, lo domandava addirittura a lui, riportandogli anche i pettegolezzi che gli altri ci facevano. Molti volevano sapere anche quanto suo padre aveva lasciato a Giulia, e doveva convincerli che era morto senza far testamento. Ma si sentiva rispondere:

— Tutti credono che abbia fatto testamento! Per tutta Siena si dice che anche quella ragazza è stata erede! Lo sanno anche i mattoni delle case! Lei vuol fare il furbo, e non vuol dire niente a nessuno.

— Ma no! Io dico la verità. Chi dovrebbe saperlo meglio di me?

Una volta, dovette fin quasi letigare.

Almeno, alla Casuccia, poteva stare lunghe ore in silenzio! La curiosità degli altri gli ripugnava, come se gli mettessero nell’anima un cencio sporco. E, credendo di poterla combattere, non avvicinava quasi nessuno. Aveva in mente di non togliere subito anche gli altri debiti, per vendere prima le vacche; e, secondo il consiglio di Picciòlo, comprare almeno due vitelli appena che ci fosse stata la fiera. Con il [p. 72 modifica]guadagno che ne avrebbe fatto, contava di viverci qualche mese; finchè non avesse venduto i fieni e poi il grano. La raccolta del vino era troppo piccola, e appena bastava per lui e per la matrigna; ma, come aveva fatto suo padre, così egli sperava altrettanto, e forse meglio. Anche i maiali perchè non c’erano? Ma, a settembre, fatto fare il castro, o dietro casa o al muro della capanna, ne avrebbe presi un branco. Quel trogolo di legno era piuttosto da galline e da bruciare! I pagliai bisognava farli più distanti, perchè aveva paura dei fulmini, e magari, qualche birbaccione poteva bruciarli. C’era anche da assicurarsi, anzi, contro l’incendio! Alla capanna, troppo umida, bisognava rifare l’impiantito! Eppoi, attraverso quelle finestrucce, tappate soltanto con la paglia, pioveva lo stesso come fuori! La parata stava per cadere. E quanto era sudicia! Dentro, il concio e un mucchio di attrezzi vecchi, da buttarsi via; ma a venderne il ferro c’era da mettere in tasca, sì e no, tre lire!

La stagione era buona, e non era piovuto su la semente nè troppo nè poco. Egli, vedendo dalla finestra della sua camera, la più bella pendice della Casuccia, fin giù dove faceva da argine, con una svoltata rotonda, alla Tressa, sognò di cavarsi presto e bene da tutti gli impicci.