Il Circolo Pickwick/Capitolo 42

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Che serve ad illustrare, come il precedente, il vecchio adagio che l'avversità ci procura degli strani compagni di letto, e contiene inoltre l'annunzio straordinario e sorprendente fatto dal signor Pickwick al signor Samuele Weller

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Charles Dickens - Il circolo Pickwick (1836)
Traduzione dall'inglese di Federigo Verdinois (1904)
Che serve ad illustrare, come il precedente, il vecchio adagio che l'avversità ci procura degli strani compagni di letto, e contiene inoltre l'annunzio straordinario e sorprendente fatto dal signor Pickwick al signor Samuele Weller
Capitolo 41 Capitolo 43

Destatosi il giorno appresso, il primo oggetto sul quale gli occhi del signor Pickwick si fermarono fu Samuele Weller, seduto sopra una piccola valigia nera e guardando fisamente come astratto la figura imponente del signor Smangle, mentre questi, vestito a mezzo, se ne stava seduto sulla sponda del letto e faceva sforzi disperati per mettere in soggezione il signor Weller. Diciamo sforzi disperati, perchè Sam con uno sguardo complessivo, che abbracciava in un punto solo il berretto, i piedi, la testa, il viso, le gambe e le basette del signor Smangle, seguitava a guardarlo fisamente coi segni della più viva soddisfazione, ma senza maggior riguardo pei sentimenti personali dell’egregio gentiluomo, di quanto ne avrebbe avuto al cospetto di un fantoccio di legno o di un Guy Faux impagliato.

— Sicchè? vi pare di avermi conosciuto abbastanza? — esclamò aggrottando le ciglia il signor Smangle.

— Giurerei di riconoscervi dappertutto, mio caro signore, — rispose Sam allegramente.

— Prego, signore, meno impertinenza con un gentiluomo mio pari.

— Nemmeno per ombra, vi pare! Se mi dite quando si sveglia, lo tratterò con due paia di guanti!

Questa osservazione, avendo una remota tendenza a far supporre che il signor Smangle non era un gentiluomo, ne accese in certo modo la stizza.

— Mivins! — chiamò il signor Smangle con fuoco.

— Che c’è? — rispose questi di sotto alle lenzuola

— Chi diavolo è costui?

— L’avreste a saper voi, mi pare. Che ha da fare qui?

— Niente.

— E allora fategli ruzzolar le scale, e ditegli che non si permetta di tornar su se prima non vengo io a pigliarlo a calci, — disse il signor Mivins; e con questo avviso il bravo uomo si riaddormentò saporitamente.

La conversazione pigliava così una piega troppo personale, e il signor Pickwick credette bene di interporsi.

— Sam; — chiamò.

— Signore! — rispose Sam.

— È accaduto niente di nuovo da iersera in qua?

— Niente di particolare, signore, — rispose Sam, dando un’occhiata alle basette del signor Smangle, — l’ultima umidità dell’atmosfera è stata piuttosto favorevole allo sviluppo dell’erbe salvatiche e rossigne; ma con questa eccezione, le cose son quiete abbastanza.

— Orsù, alziamoci, — disse il signor Pickwick, — datemi un po’ di biancheria pulita.

Per ostili che fossero le intenzioni del signor Smangle, i pensieri di lui furono subito distratti dall’aprirsi della valigia; il contenuto della quale, a quanto sembrò, gli ebbe ad inspirare una favorevole opinione non solo del signor Pickwick ma anche di Sam, che era — ei dichiarò subito in modo da essere udito, — un perfetto originale, epperò il vero tipo che gli andava a genio. In quanto al signor Pickwick, l’affetto che il signor Smangle avea concepito per lui non conosceva più limiti

— Posso far qualche cosa per voi? — domandò Smangle.

— Niente che io sappia, obbligatissimo, — rispose il signor Pickwick.

— Della biancheria da mandare alla lavandaia? Conosco una lavandaia numero uno, che vien qui a prendere la mia roba due volte la settimana, e per Giove! — vedete che fortunata combinazione! — proprio oggi è la sua giornata. Volete che metta un po’ dei vostri effetti coi miei? Niente fastidio, vi pare! Diavolo! se un gentiluomo che si trova in cattive acque non ha da scomodarsi di un dito per aiutare un suo collega nelle medesime condizioni, io domando e dico che cosa è più la natura umana?

E così dicendo, il signor Smangle si andava accostando alla valigia, raggiando dagli occhi la più ardente e disinteressata amicizia.

— Non avreste per caso da mandar fuori qualche cosa da far spazzolare al vostro domestico?

— Proprio niente, caro lei, — rispose Sam per conto proprio. — Forse se uno di noi si avesse da spazzolare senza scomodare il domestico, sarebbe più piacevole per le due parti che se la vedessero da per loro, come diceva il maestro di scuola quando gli scolari non volevano essere frustati dal bidello.

— E non avete proprio nulla da poter mandare nella mia cassettina della lavandaia, eh? — domandò ancora il signor Smangle voltandosi un po’ mortificato da Sam al signor Pickwick.

— Assolutamente niente, — rispose Sam. — Temo che la cassettina s’abbia a spaccare dalla gran roba che ci avete messa dentro.

Furono accompagnate queste parole da una occhiata così espressiva a quella parte di vestito del signor Smangle dalla quale generalmente si valuta l’abilità delle lavandaie, ch’ei dovette girar sui talloni e rinunziare, almeno pel momento, ad ogni disegno sulla borsa e sulla guardaroba del signor Pickwick. Se n’andò dunque un po’ ingrognato a passeggiar nel cortile del volano, dove fece una colazione sana e leggiera con un par di sigari avanzati dalla sera innanzi.

Il signor Mivins, che non era fumatore, e la cui noticina per piccoli articoli commestibili era già arrivata in fondo alla lavagna e si chiudeva col suo bravo riporto, rimase a letto e, secondo la sua stessa espressione, se la pigliò in sonno.

Dopo aver preso un boccone in un camerino attiguo al caffè, fregiato del titolo pomposo di Ristoratore e fatto in maniera che il temporaneo occupante di esso, in considerazione di una piccola aggiunzione al conto, avesse l’ineffabile vantaggio di udire tutta la conversazione che si faceva nell’anzidetto caffè; e dopo aver spedito Sam per certe commissioncelle, il signor Pickwick se n’andò dal signor Roker per consultarlo sulla questione dell’alloggio.

— Ah, ah, l’alloggio? — disse il signor Roker sfogliando un suo libraccio. — Quanti ne volete, signor Pickwick. Il vostro biglietto di camerata è al ventisette, terzo piano.

— Ah! Il mio che, avete detto?

— Il vostro biglietto di camerata. Ci siete?

— Non troppo, — rispose sorridendo il signor Pickwick.

— Diamine, gli è chiara come due e due fanno quattro. Avrete un biglietto di camerata al numero ventisette del terzo piano, e gli inquilini attuali del ventisette saranno precisamente i vostri camerati.

— Ce ne son di molti?

— Tre.

Il signor Pickwick tossì.

— Uno è un parroco, — disse il signor Roker, scrivendo intanto sopra un pezzettino di foglio; — un altro è macellaio.

— Eh? — esclamò il signor Pickwick.

— Macellaio, — ripetette il signor Roker battendo sul tavolino la punta della penna per raddrizzarla. — Che bell’umore, perbacco, e che qualità di gaudente, quel Tom Martin! Ve ne ricordate, Neddy?

Questa domanda era rivolta ad un altro uomo lì presente occupato a scrostar la mota dai suoi stivali con un temperino a venticinque lame.

— Altro se me ne ricordo io! — rispose questi con un’enfasi spiccata sul pronome personale.

— Povero me! — esclamò il signor Roker, crollando lentamente il capo e guardando astrattamente fuori della finestra che gli stava di faccia, quasi richiamandosi alla mente qualche scena tranquilla della sua prima giovinezza; — mi par d’ieri ch’egli accoppò il carbonaio, laggiù verso lo scaricatoio. Mi par di vederlo ancora venirsene tra le due guardie su per lo Strand, un po’ domato dalle ammaccature, con un empiastro di carta sugante inzuppato nell’aceto sull’occhio dritto, e con quel grazioso mastino alle calcagna, che si mangiò poi il ragazzo. Che strana cosa è il tempo, eh, Neddy?

L’uomo cui erano dirette queste osservazioni, dotato di un carattere taciturno e pensieroso, non fece che ripetere per conto suo la domanda; e il signor Roker, scacciando da sè quei pensieri poetici e malinconici cui s’era lasciato andare per un momento, ridiscese nella volgare realtà della vita e riprese la penna.

— E sapete chi è il terzo? — domandò il signor Pickwick non troppo soddisfatto dalla descrizione dei suoi futuri compagni.

— Che cosa è quel Simpson, Neddy? — domandò il signor Roker voltandosi al compagno.

— Che Simpson?

— Quello del ventisette, al terzo piano, dove deve andare questo signore.

— Ah, sicuro! Non è nulla. Era una volta sensale di cavalli; adesso è scrocchino.

— Lo diceva io, — disse il signor Roker, chiudendo il libro e mettendo il pezzettino di foglio in mano al signor Pickwick. — Eccovi il biglietto.

Non poco perplesso a questa sommaria disposizione della propria persona, il signor Pickwick se ne tornò alla sua prigione, pensando e ruminando sul miglior partito da prendere. Convinto però, che prima di dare altri passi, era prudente di vedere i tre signori coi quali era destinato ad alloggiare e di parlarci un poco, si avviò di buon passo al terzo piano.

Dopo aver errato per la sala grande, studiandosi di decifrare in quel buio i numeri scritti sui vari usci, si rivolse finalmente ad un garzone del caffè che andava attorno raccogliendo le brocche e le tazze.

— Dov’è il ventisette, giovanotto? — domandò il signor Pickwick.

— Cinque porte più in là, — rispose il garzone. — C’è il ritratto di un appiccato che fuma la pipa disegnato col gesso sulla porta.

Guidato da questa indicazione, il signor Pickwick andò avanti fino a che non ebbe incontrato il ritratto del signor appiccato, sulla faccia del quale ei picchiò colle nocche delle dita, — sulle prime con delicatezza, poi più forte e più forte. Dopo aver ripetuto molte volte questo processo, spinse a dirittura la porta e cacciò dentro il capo.

C’era nella camera un uomo solo, il quale si spenzolava con mezzo il corpo fuori della finestra sforzandosi con ostinata perseveranza di sputare sul cappello di un amico personale che stava nel cortile di sotto. Siccome nè il parlare, nè il tossire, nè lo starnutire, nè il bussare, nè alcun altro modo conveniente di richiamar l’attenzione facevano accorto cotesto signore della presenza di un forestiero, il signor Pickwick, dopo un poco, si avvicinò alla finestra e delicatamente lo tirò per la falda del soprabito. L’altro trasse subito dentro il capo e le spalle, e squadrando il signor Pickwick da capo a piedi, domandò di mala grazia che diamine volesse.

— Credo, — disse il signor Pickwick consultando il suo biglietto, — credo che il ventisette al terzo piano sia qui.

— Ebbene!

— Son venuto qui per questo biglietto che mi hanno dato.

— Date qua, vediamo.

Il signor Pickwick obbedì.

— Quell’asino di Roker avrebbe potuto ficcarvi in un’altra camera, — disse il signor Simpson (perchè era appunto lo scrocchino), dopo una pausa di malumore.

Il signor Pickwick pensava precisamente lo stesso, ma, per amor di cortesia, non volle aprir bocca.

Per un poco l’altro stette a pensare; quindi, affacciandosi alla finestra, dette un sibilo acuto e gridò parecchie volte una parola, che al signor Pickwick non riuscì di afferrare, ma che gli parve potesse essere un nomignolo del signor Martin, visto che molti del cortile incominciarono a gridare "Macellaio, macellaio!"con quello stesso tono di voce con cui i membri di questa utilissima classe della società sogliono quotidianamente annunziare la presenza loro alle inferriate de’ pianterreni.

Altri incidenti confermarono in questo sospetto il signor Pickwick. Di lì a qualche minuto, un uomo di prematura pinguedine, con un camiciotto turchino e stivali a punte tonde, entrò in camera quasi sfiatato, e fu subito seguito da un altro signore in abito nero e logoro e berretto di pelle. Questi, che se ne veniva abbottonandosi il soprabito fin sotto il mento ora con uno spillo ora con un bottone, aveva una faccia tonda e rossa, e somigliava a capello un cappellano ubbriaco, come era in effetto.

Letto che ebbero ciascuno alla sua volta il biglietto del signor Pickwick, uno dei due espresse la sua opinione che gli era "un malanno"e l’altro la sua convinzione che si trattasse di una "canzonella". Manifestati così limpidamente i sentimenti loro, si guardarono insieme e guardarono poi il signor Pickwick in un silenzio imbarazzante.

— È una cosa dispiacevole, visto che abbiamo dei letti così angusti, — disse il cappellano, guardando a tre sudici materassi avvolto ciascuno in una coperta, che occupavano durante il giorno un angolo della camera formando una specie di lavamani con sopra una catinella fessa, un piatto pel sapone e una brocca di creta gialla con un fiore turchino; — è veramente una cosa dispiacevole.

Il signor Martin espresse la medesima opinione in termini di una certa energia; il signor Simpson, dopo avere sguinzagliati sulla società una quantità svariatissima di aggettivi, senza un solo sostantivo per accompagnarli, si rimboccò le maniche e si diè a lavare la verdura pel desinare.

Mentre queste cose accadevano, il signor Pickwick avea data un’occhiata alla camera, che era sudicia ed unta e sentiva orribilmente il chiuso. Non c’erano vestigia di tappeti, cortine e tendine. Non c’era nemmeno uno stipetto. Vero è che, se pure uno ce ne fosse stato, le cose da riporvi non erano molte; ma, per poche che fossero o piccole, è certo che un miscuglio di residui di pane, croste, formaggio, tovaglie umide, pezzi di carne, vestiti, scodelle rotte, soffietti senza maniche, forchette senza denti, presentano uno spettacolo piuttosto stomachevole sparsi sull’impiantito di una camera che serve da salotto e da camera da letto a tre uomini oziosi.

— Credo che la cosa si possa accomodare, — disse il macellaio dopo un silenzio piuttosto lungo. — Quanto volete per uscire?

— Domando scusa, — rispose il signor Pickwick. — Che avete detto? non vi capisco.

— Quanto volete per andar via di qua? Il prezzo di regola è di due scellini e sei pence. Facciamo tre, cifra tonda.

— ...E la giunta, — suggerì il cappellano.

— Bè, sia pure; due altri pence a testa, — disse il signor Martin. — Che ne dite? Vi diamo per l’alloggio tre scellini e sei pence la settimana. Su, da bravo!

— E ci facciamo anche venire un gallone di birra, — aggiunse il signor Simpson. — Ecco fatto.

— E lo beviamo seduta stante, — conchiuse il cappellano.

— Davvero, signori miei, son così nuovo alle regole di qua, — rispose il signor Pickwick, — che non riesco ancora ad intendervi. Posso alloggiare altrove? Io credo di no.

A questa domanda il signor Martin guardò con faccia stupita ai due amici suoi, e quindi tutti e tre col pollice della mano destra accennarono di sopra alla spalla sinistra. Questo gesto, che nessuna frase potrebbe efficacemente tradurre, quando sia fatto da un certo numero di persone abituate ad agire all’unisono, ha un effetto veramente grazioso ed aereo ed esprime un sarcasmo sottile e pungente.

— Se potete! — esclamò il signor Martin con un sorriso di compassione.

— Affemia, — disse l’ecclesiastico, — che se conoscessi così poco la vita, mi mangerei il mio cappello con tutta la fibbia.

— Ed io pure, — aggiunse solennemente il macellaio.

Dopo questa introduzione, i tre compagni informarono il signor Pickwick, che il danaro, nella prigione della Fleet, era precisamente quel che era fuori della prigione; che gli avrebbe procurato all’istante quel che più gli piacesse; e che, supposto ch’ei ne avesse e non volesse lesinare, non dovea che aprir bocca per avere una camera a sè, mobiliata e acconciata in meno di mezz’ora.

Dopo di ciò, le parti si separarono con piena soddisfazione di tutti. Il signor Pickwick se ne tornò dal custode, e i tre compagni se ne andarono difilato al caffè per spendervi i cinque scellini che il cappellano, con mirabile prudenza e preveggenza, gli avea tolto in prestito.

— Lo sapevo io! — esclamò il signor Roker, quando il signor Pickwick gli ebbe spiegato il motivo del ritorno. — Non ve l’avevo detto, Neddy?

Il filosofico possessore del temperino a venticinque lame grugnì un’affermativa.

— Io lo sapevo, benedetto voi, che vi ci voleva una camera privata! — disse il signor Roker. — Vediamo un po’. Vi bisogna della mobilia, naturalmente. Spero che la prenderete a nolo da me, non vi pare?

— Volentierissimo, — rispose il signor Pickwick.

— C’è una camera stupenda sulla scala del caffè, che appartiene ad un prigioniero della Cancelleria, — disse il signor Roker. — Vi costerà appena una sterlina per settimana. Suppongo che non ci badiate a questo?

— Nemmeno per ombra, — rispose il signor Pickwick.

— Venite con me, — disse Roker prendendo tutto sollecito il cappello. — In cinque minuti tutto è fatto. Signore Iddio! perchè non me l’avete detto prima che vi piaceva di accomodarvi per benino?

La cosa, come il custode avea predetto, fu subito aggiustata. Il prigioniero della Cancelleria stava lì dentro da un pezzo, sicchè avendo perduto amici, fortuna, casa, felicità, aveva acquistato il diritto di occupare una camera da sè. Siccome però si trovava spesso nella noiosa condizione di aver bisogno di un tozzo di pane, accolse molto bene la proposta che il signor Pickwick gli faceva di affittar la sua camera; e subito consentì di cedergliene il possesso assoluto ed indisturbato contro una retribuzione settimanale di venti scellini; dal qual fondo ei si obbligò inoltre di pagare il fitto per qualunque altra persona fosse destinata a compagno del medesimo signor Pickwick.

Nel conchiudere il contratto, il signor Pickwick lo osservò con penoso interesse. Era un uomo alto, magro, cadaverico, con due buche nelle guance ed occhi stralunati. Portava un vecchio soprabitone ed era in pantofole. Avea le labbra bianche e le ossa sporgenti. I denti ferrei dell’isolamento e della privazione le avevano per venti anni di fila limate!

— E dove andrete a star voi! — esclamò il signor Pickwick nel porre sulla tavola zoppa la rata anticipata della prima settimana.

L’uomo lungo raccolse con mano tremante il danaro e rispose di non saperlo ancora. Avrebbe cercato dove poter trasportare il suo letto.

— Temo, signore, — disse il signor Pickwick posandogli in atto gentile e compassionevole una mano sul braccio, — temo che vi toccherà a stare in qualche posto troppo affollato e rumoroso. Vi prego, via, considerate come vostra questa camera quando sentite il bisogno della tranquillità o quando qualcuno dei vostri amici viene a trovarvi.

— Amici! — esclamò l’uomo con voce che gli gorgogliò nella strozza. — Se giacessi morto in fondo alla miniera più profonda della terra, legato e inchiodato nella mia cassa, mangiato dalla sozza putredine che scorre sotto le fondamenta di questo carcere, non potrei essere più dimenticato di quel che sono. Io son morto; morto alla società, senza il conforto pietoso che gli uomini largiscono a coloro le cui anime son già volate al cospetto del giudice eterno. Amici che vengano a trovarmi! Dio onnipotente! Qui, fra queste mura, ho consumata la mia giovinezza, qui sono invecchiato, e non c’è uno al mondo che leverà la mano sul mio letto di morte, non c’è uno che dirà: "Meglio così, ha cessato di soffrire!"

L’eccitamento che gli aveva accesa la faccia si calmò ad un tratto, ed ei strinse insieme le mani aggrinzite ed uscì strascicando dalla camera.

— Anche la vecchiaia s’inalbera, — osservò sorridendo il signor Roker. — Ah! sono come gli elefanti, tale e quale; di tanto in tanto si risentono e s’inferociscono.

Fatta questa gentile osservazione, il signor Roker si diè attorno con tanta sollecitudine che di lì a poco la camera venne fornita di un tappeto, sei seggiole, una tavola, un letto canapè, un ramino pel tè, e vari altri articoli più o meno utili, il tutto dato a nolo al prezzo discretissimo di ventisette scellini e sei pence la settimana.

— Volete altro? — domandò il signor Roker guardando attorno con grande soddisfazione e facendosi suonare in mano allegramente la rata della prima settimana.

— Ma sì, — rispose il signor Pickwick, ch’era rimasto pensoso un bel pezzo. — Ci avete qui della gente da poter mandare per commissioni?

— Fuori di qua, volete dire?

— Sì, che possano uscire. Non già prigionieri.

— Altro se ce n’abbiamo. C’è un povero diavolo che ha un amico nella sezione dei poveri, e che si presta molto volentieri per coteste cose. Fa questo mestiere dell’andar su e giù almeno da due mesi. Volete che ve lo mandi?

— Sì, mi fareste piacere... Un momento, no. Avete detto’ la sezione dei poveri. Vorrei proprio vederla. Andrò io da lui.

La sezione dei poveri nella prigione per debiti è quella, come dice lo stesso nome, dove son confinati i debitori più abbietti e miserabili. Un prigioniero che dichiara di volere appartenere a quella sezione non paga fitto di alcuna sorta. I diritti a suo carico, entrando in prigione ed uscendone, son ridotti in buona parte, e gli tocca inoltre un po’ di cibo, al che provvedono alcune persone caritatevoli, le quali di tanto in tanto fanno dei piccoli legati nei loro testamenti. Molti lettori nostri ricorderanno che fino a pochi anni fa c’era davanti alla prigione della Fleet una specie di gabbia ferrata nella quale vedevasi appostato un uomo dal viso emaciato, che ad ogni momento faceva suonare un bossolo e diceva con una sua cantilena lamentevole: "Ricordatevi dei poveri debitori, ricordatevi dei poveri debitori!"Il contenuto del bossolo, quando ce n’era, veniva ripartito fra i prigionieri poveri; e quelli che appartenevano alla sezione si davano la muta in questo ufficio degradante.

Benchè questo costume sia in oggi abolito e la gabbia sia stata rimossa, non son punto mutate le condizioni disgraziatissime di questa classe di prigionieri. Noi non permettiamo più ch’essi vengano ad accattare sulla porta della prigione; ma nelle pagine della nostra legislazione abbiamo voluto serbare alla reverenza ed all’ammirazione dei nostri nepoti la giusta e provvida legge per la quale il sozzo malfattore dev’esser nudrito e vestito e il misero debitore lasciato morir di freddo e di fame. Nè questa è finzione poetica. Non passa settimana che nell’una o nell’altra delle nostre prigioni per debiti, qualcuno di questi disgraziati non morrebbe fatalmente fra le strette del bisogno, se non lo soccorressero i compagni di pena.

Rivolgendo queste cose nella mente nel salir le scale appiè delle quali Roker lo aveva lasciato, il signor Pickwick si andò a poco a poco scaldando ed eccitando, tanto che si trovò nella camera cui era stato diretto prima ancora di ricordarsi così del luogo dove trovavasi come dell’oggetto della sua visita.

L’aspetto del luogo lo fece tornare in sè. Ma non ebbe appena fermati gli occhi sulla figura di un uomo che se ne stava chino e tutto pensoso sopra un fuoco semispento, che, lasciandosi scappar di mano il cappello, restò immobile ed inchiodato al suolo dallo stupore.

Sì, era desso. Senza soprabito, in calzoni laceri, con la camicia ingiallita ed in lembi, coi capelli pendenti sul viso, coi lineamenti assottigliati dalla sofferenza e dalla fame, presso quel mucchio di cenere sedeva il signor Alfredo Jingle. Appoggiava il capo ad una mano, avea gli occhi fissi nel fuoco, e in tutta la persona rivelava l’abbiezione e la miseria!

Gli stava accanto, appoggiato al muro, un robusto campagnuolo, che con una frusta consumata andava battendo lo stivalone del piede dritto, avendo al piede sinistro una pantofola. I cavalli, i cani, i liquori, un po’ per uno, lo avevano menato lì dentro. All’unico stivalone era ancora attaccato uno sprone arrugginito, col quale di tratto in tratto ei dava un colpo nel vuoto battendo nel tempo stesso il gambale di cuoio e stimolando con la voce una cavalcatura immaginaria. Si figurava forse di fare una corsa disperata. Povero infelice! il più rapido cavallo delle sue costose scuderie non gli avea mai fatto fare una corsa più vertiginosa di quella che lo avea menato diritto fra le mura della prigione.

All’altro capo della camera un vecchio stava a sedere sopra una cassetta di legno, con gli occhi fissi a terra e sulla faccia i segni della più profonda disperazione. Una ragazza — la sua nipotina — gli veniva dintorno studiandosi con mille malizie fanciullesche di richiamare l’attenzione di lui; ma il vecchio nè la vedeva nè la udiva. La voce che già un tempo era stata per lui una musica, gli occhi che gli erano stati luce ed allegrezza, non ne destavano più i sensi. Gli tremavano le membra dal ribrezzo della febbre e la paralisi gli gelava il cervello.

C’erano due o tre altri uomini nella camera, raccolti in un gruppo e discorrendo insieme rumorosamente. C’era anche una donna sottile e malaticcia — la moglie di un prigioniero — la quale con grande sollecitudine inaffiava lo sterpo brullo di una pianta seccata, che certo non avrebbe messo mai più una sola foglia verde; emblema troppo fedele, forse, dell’ufficio ch’ella era venuta a compiere.

Tali erano gli oggetti che si presentarono agli occhi del signor Pickwick nel guardar che fece intorno con dolorosa maraviglia. Lo destò ad un tratto il rumore di qualcuno che entrava in fretta. Voltandosi verso la porta, scorse il nuovo venuto; ed in lui, ad onta dei cenci, del sudiciume e della miseria, riconobbe subito le note fattezze del signor Job Trotter.

— Signor Pickwick! — gridò Job.

— Eh? — fece Jingle balzando da sedere.

— Signor...! Proprio lui — curioso posto qui — scherzi della sorte — mi sta il dovere, sicuro.

E così dicendo, il signor Jingle si cacciò le mani dove erano un tempo le tasche dei calzoni, e abbassando il capo ricadde a sedere.

Il signor Pickwick era commosso, tanto miserabile era l’aspetto dei due uomini. L’occhiata bramosa che Jingle involontariamente avea gettata sopra un pezzetto di montone crudo che Job avea portato, diceva molto più che due ore di spiegazione non avrebbero fatto.

— Vorrei parlarvi a quattr’occhi, — disse a Jingle il signor Pickwick, guardandolo con dolcezza. — Verreste fuori un momento?

— Volentieri, — rispose Jingle alzandosi in fretta. — Non c’è da camminare molto — punto pericolo di stancarsi — parco con punte di ferro — bei terreni — romantici ma poco estesi — aperti al pubblico — la famiglia sempre in città — molta cura della donna di casa — molta.

— Avete dimenticato il soprabito, — disse il signor Pickwick, nell’uscir che fecero sulle scale e nel tirarsi dietro la porta.

—Ah? — fece Jingle. — Al sicuro — dallo zio — non c’era rimedio — bisogna mangiare, sapete. Bisogni di natura e simili.

— Che intendete dire?

— Sparito, mio caro signore — ultimo soprabito — non c’è che fare. Mangiato sopra un paio di stivali — quindici giorni. Un ombrello di seta — manico d’avorio — una settimana — fatto — parola d’onore — domandate a Job — sa tutto.

— Vi siete nutrito per tre settimane con un par di stivali e un ombrello di seta col manico d’avorio! — esclamò il signor Pickwick, che di questi casi ne avea letto soltanto in qualche relazione di naufraghi.

— Proprio, — rispose Jingle crollando il capo. — Agenzia — tutte polizze — piccole somme — niente — strozzini.

— Ah capisco ora! Avete messo in pegno la vostra guardaroba.

— Ogni cosa — anche Job — tutte le camice sparite — non importa — economia di lavatura. — Tra breve nient’altro — a letto — fame — morte — inchiesta — povero prigioniero — non se ne parli più — i signori del giurì — chetata la cosa — morte naturale — esequie di poveri — gli sta il dovere — ecco fatto — spettacolo finito — calate il sipario.

Jingle spifferò questo strano sommario del suo avvenire con l’usata volubilità e con varie smorfie che volevano esser sorrisi. Il signor Pickwick si avvide subito che quella noncuranza era affettata, e fissandolo bene in viso, ma senza asprezza, gli vide gli occhi bagnati di lagrime.

— Brav’uomo, buon cuore, — disse Jingle stringendogli la mano e voltando il capo in là. — Cane d’un ingrato — ragazzata il piangere — non posso far di meno — febbre maligna — debolezza — fame. Tutto meritato — ma ho sofferto molto — molto.

E non potendo più oltre infingersi e forse per lo sforzo durato sentendosi più male, il povero commediante cadde a sedere sulle scale, e nascondendosi la faccia fra le mani, singhiozzò come un bambino.

— Via, via, — disse il signor Pickwick molto commosso — vedremo che si potrà fare quando avrò saputo come sta la cosa. Qui, Job; dov’è Job?

— Eccomi, signore, — rispose Job presentandosi sulla scala. In altri tempi lo abbiamo conosciuto con gli occhi profondamente incavati; ora, dalla miseria e dal bisogno, pareva a dirittura che non ci fossero più.

— Eccomi, signore, — disse Job.

— Venite qua, — disse il signor Pickwick, cercando di parer rigido e severo, mentre quattro lagrimoni gli scorrevano sulla sottoveste. — Prendete questo.

Che cosa? Nello stretto significato della parola avrebbe dovuto essere un pugno, bene e cordialmente assestato. Il signor Pickwick era stato ingannato, truffato, oltraggiato dallo sciagurato che trovavasi ora affatto in suo potere. Dobbiamo dir la verità? Fu qualche cosa che uscì dal taschino del signor Pickwick e suonò nella mano di Job; e quest’atto mise come una scintilla negli occhi del nostro eccellente amico; mentre toglievasi di là, e gli gonfiò il cuore di una triste dolcezza.

Sam era tornato quando il signor Pickwick entrò in camera, e andava osservando intorno le disposizioni prese pel maggior comodo del padrone, con una specie di soddisfazione arcigna molto curiosa a vedere. Animato da una viva ripugnanza a vederlo lì, il signor Weller sembrava considerare come suo stretto dovere di mostrarsi non troppo compiaciuto di qualunque cosa fosse stata, detta, suggerita o proposta.

— Ebbene, Sam? — disse il signor Pickwick.

— Ebbene, signore, — rispose il signor Weller.

— Stiamo benino ora, eh, Sam?

— Benino parecchio, si vede.

— Avete veduto il signor Tupman e gli altri amici?

— Signor sì, e vengono domani, e sono stati molto sorpresi di non dover venir oggi.

— Avete portato le cose che v’ho detto?

Il signor Weller accennò a vari fagotti che aveva aggiustato alla meglio in un cantuccio della camera.

— Benissimo, Sam, — disse il signor Pickwick, dopo un po’ d’esitazione. — State a sentire quel che v’ho da dire, Sam.

— Certamente, signore. Fuoco alla macchina.

— Io ho capito alla prima, Sam, — disse il signor Pickwick con grande solennità, — che questo qui non è luogo che un giovane possa frequentare.

— E nemmeno un vecchio, signore, — osservò il signor Weller.

— Avete ragione, Sam; ma i vecchi possono capitar qui per troppa buona fede e per sbadataggine, e i giovani ci possono esser trascinati dall’egoismo dei loro padroni. Per questi giovani, sotto ogni riguardo, è molto meglio che non rimangano qui. Avete inteso, Sam?

— No davvero, che non ho inteso.

— Provatevi, Sam.

— Ebbene, signore... mi pare di aver afferrato l’astuzia e se l’ho afferrata bene, mi pare anche che la sia troppo forte, come disse il vetturino alla nevicata che lo pigliò in montagna.

— Vedo, Sam, che mi avete inteso, — disse il signor Pickwick. — Indipendentemente dal mio desiderio di non vedervi oziare per un luogo come questo qui, io sento tutta la mostruosa sconvenienza per un debitore in carcere di tenere ai suoi ordini un domestico. Sam, bisogna che per un po’ di tempo voi mi lasciate.

— Ah, per un po’ di tempo eh? — fece con tono di sarcasmo il signor Weller.

— Sì, per tutto il tempo che starò qui. Seguiterò a pagarvi il vostro salario. Qualunque dei miei tre amici sarà felice di prendervi con sè, non foss’altro che per riguardo alla mia persona. E se un giorno uscirò da queste mura, Sam, — aggiunse con affettata allegria il signor Pickwick, — vi do la mia parola che voi tornerete subito al mio servizio.

— Ora vi dico io, signore, quel che c’è di nuovo, — rispose il signor Weller con voce grave e solenne. — Cotesto è un affare che non va per nessun verso, sicchè non se ne parli più e buona notte.

— Io vi parlo sul serio, Sam, e sono deciso.

— Ah, sul serio, proprio sul serio? e siete deciso? Benissimo, signore, ed io pure.

Così dicendo, il signor Weller si calcò in capo il cappello e improvvisamente lasciò la camera.

— Sam, — gli gridò dietro il signor Pickwick, — Sam, dico, sentite qua.

Ma il suono dei passi si allontanò e si spense nell’ampia sala. Sam Weller era partito.