Il Circolo Pickwick/Capitolo 45

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Il quale descrive un commovente colloquio tra il signor Samuele Weller ed una parte della famiglia. Il signor Pickwick fa un giro del piccolo mondo da lui abitato, e risolve di mescolarvisi il meno possibile per l'avvenire

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Charles Dickens - Il circolo Pickwick (1836)
Traduzione dall'inglese di Federigo Verdinois (1904)
Il quale descrive un commovente colloquio tra il signor Samuele Weller ed una parte della famiglia. Il signor Pickwick fa un giro del piccolo mondo da lui abitato, e risolve di mescolarvisi il meno possibile per l'avvenire
Capitolo 44 Capitolo 46

Pochi giorni dopo il suo arresto, il signor Samuele Weller, rassettata che ebbe con ogni cura la camera del padrone, e vedutolo comodamente seduto davanti ai suoi libri e alle sue carte, si ritirò per occupare un par d’ore il meglio che potesse. Era una bella giornata, e Sam pensò che una pinta di birra all’aria aperta sarebbe stato un mezzo piuttosto discreto per ammazzare un buon quarto d’ora.

Giunto a questa conclusione, se n’andò al banco, e comprata la birra e ottenuto anche il giornale di due giorni avanti, riparò al cortile del volano e sedutosi sopra una panca di pietra, si diè a godersela tranquillamente e metodicamente.

Prima di tutto bevve un sorso refrigerante di birra, e poi guardò su ad una finestra e lanciò un’occhiata platonica ad una signorina che stava lì a sbucciar patate. Spiegò quindi il giornale, e lo piegò in maniera da lasciar fuori le informazioni politiche, la quale operazione essendo non poco difficile e noiosa quando tira un po’ di vento, bevve un secondo sorso di birra quando l’ebbe compiuta. Lesse poi due righe del giornale, e si arrestò ad un tratto per osservare due che giocavano al volano; gridò loro: bravo! e guardò intorno agli spettatori per accertarsi se i sentimenti loro coincidessero coi propri. Ciò portava la necessità di voltarsi in su verso la finestra; e siccome la signorina stava sempre lì, egli era atto della più elementare cortesia di strizzar di nuovo un occhio, e di bere alla salute di lei un altro sorso di birra, come appunto fece Sam; ed avendo poi fatto una cera terribile ad un ragazzo che avea notato quest’ultimo atto con tanto d’occhi sbarrati, accavalcò una gamba all’altra, e tenendo il giornale con ambo le mani incominciò a leggere sul serio.

Si era appena composto nel necessario stato di astrazione quando gli parve di sentire il suo nome pronunciato in qualche lontano corridoio. Nè s’ingannava, perchè in effetto il nome passò di bocca in bocca fino a che l’aria echeggiò di grida che ripetevano: Weller, Weller!

— Qua, qua! — gridò Sam con voce stentorea. — Che c’è? chi mi vuole? È arrivato qualche espresso per annunziare che il mio palazzo è in fiamme?

— C’è qualcuno che vi domanda nella sala grande, — disse un uomo lì accanto.

— Datemi un occhio qua al giornale e alla brocca, volete? — disse Sam. — Vengo, vengo. Perbacco, che se mi chiamassero in tribunale, non farebbero più chiasso di questo.

Accompagnando queste parole con un grazioso scappellotto al ragazzo testè accennato, il quale, ignaro della sua prossimità alla persona che si cercava, strillava Weller con quanta n’aveva in gola, Sam traversò il cortile e corse su per le scale nella sala grande. Qui, il primo oggetto che lo colpì fu il suo amato genitore seduto sopra uno scalino, col cappello in mano, e gridando Weller nella sua chiave più alta, di mezzo minuto in mezzo minuto.

— Perchè diamine vi sgolate a cotesto modo, — gridò Sam con impeto quando il vecchio ebbe dato via ad un altro Weller, — facendovi rosso come un tacchino? Che è successo?

— Aha! — rispose il vecchio. — Cominciavo ad aver paura, Sam, che ve ne foste andato a fare una giratina al Regency Park.

— Via, via, lasciamo andare! Non vi basta il danno che ci dovete aggiungere le beffe contro la vittima della vostra avarizia. Alzatevi. Che fate costì sullo scalino? Non abito mica lì.

— Se sapeste, Sam, se sapeste! — disse il signor Weller alzandosi.

— Un momento, siete tutto bianco di dietro.

— Bravo, Sam, pulitemi, — disse il signor Weller mentre il figlio lo spazzolava. — Qui si potrebbe pigliare per una offesa personale, se uno andasse attorno col vestito imbiancato di calce, eh, Sam?

Siccome il signor Weller dava a questo punto dei segni non equivoci di un prossimo accesso di soffocamento, Sam lo interruppe.

— State sodo, via! — disse, — che non mi abbiate a scoppiare come una vescica. Che diamine vi piglia mo?

— Sam, — rispose il padre asciugandosi la fronte, — io ho paura che uno di questi giorni mi farò venire un colpo dal gran ridere, bambino mio.

— E perchè dunque lo fate? Orsù, sentiamo quel che m’avete a dire.

— Indovinate un po’, Sam, chi è venuto qui con me? — disse il signor Weller, dando uno o due passi indietro, sporgendo le labbra ed alzando le sopracciglia.

— Chi? Pell? — disse Sam.

Il signor Weller scosse il capo, e le guance rosse gli si gonfiarono dalla risata che si sforzava di trovare una via.

— Quel cotale dai foruncoli, forse?

Il signor Weller tornò a scuotere il capo.

— E chi dunque?

— Vostra matrigna, — disse il signor Weller; e fu fortuna che lo dicesse, perchè altrimenti le gote gli sarebbero scoppiate dal troppo gonfiarsi. — Vostra matrigna, Sam, e l’uomo dal naso rosso, bambino mio. Oh! oh! Oh!

E il signor Weller fu preso da una convulsione d’ilarità mentre Sam lo guardava stupito con un suo risolino che a poco a poco gli rischiarava tutta la faccia.

— Son venuti per discorrere un po’ sul serio con voi, Sam, — riprese il signor Weller asciugandosi gli occhi. — Non vi fate scappar nulla a proposito del creditore spietato.

— Come! non lo sanno chi è?

— Nemmeno per ombra.

— Dove stanno?

— Al caffè. Chi me lo coglie l’uomo dal naso rosso dove non si vendono liquori, è bravo davvero, Sam. Un bel viaggetto abbiamo fatto stamani dal Marchese fin qua. Ho messa la vecchia pica nel calesse, e ci ho aggiustato sopra una poltrona pel vicepastore. E voglio essere appiccato, Sam, — aggiunse il signor Weller con uno sguardo di profondo disprezzo, — se proprio non gli hanno portato uno sgabello davanti la porta per farlo montare a tutto suo comodo.

— Andiamo, via!

— Parola d’onore, Sam! e vi avrei voluto lì per farvi vedere come s’attaccava di qua e di là con le mani per paura di fare un capitombolo e di ridursi in frantumi. Alla fine arrivò a insaccarsi nella sua poltrona, e via. E io credo, Sam... io credo che s’ha dovuto sentire un po’ sballottato tutte le volte che si svoltava una cantonata.

— Mi figuro che vi sarà capitato di arrotare più di una volta, eh?

— Ho paura, — rispose il signor Weller ammiccando, — ho paura davvero di esserci capitato un par di volte, Sam; mi scappava fuori dalla poltrona a tutti i momenti.

Qui il vecchio scosse il capo di qua e di là, e fu preso internamente da un certo gorgoglio rauco accompagnato da un violento gonfiarsi delle gote, sintomi che impensierirono un poco il figliuolo.

— Niente paura, Sam, niente paura, — disse il vecchio, quando dopo grandi sforzi e uno sbattere convulsivo del piede a terra, fu riuscito a ricuperar la voce. — Mi provo soltanto di arrivare a una risatina tranquilla, che non mi faccia male.

— Bè, se la è così, meglio è che non vi proviate, perchè la cosa mi pare pericolosa alquanto.

— Non vi piace, Sam?

— Niente affatto.

— Eppure, — disse il signor Weller con le lagrime che ancora gli rigavano la faccia, — sarebbe stato un gran bene per me se ci fossi riuscito, e ci avrebbe risparmiato un mondo di parole tra la signora matrigna e me. Ma ho paura, Sam, ho paura che abbiate ragione; c’è troppo pericolo di farmi venire un colpo, troppo pericolo.

Così parlando arrivarono al caffè, e Sam vi entrò, dopo aver dato un’occhiata di sopra alla spalla al venerato progenitore che gli veniva di dietro.

— Signora matrigna, — disse Sam, salutando gentilmente, — obbligatissimo a voi per questa visita. Come state, pastore?

— Oh Samuele! — esclamò la signora Weller. — È una cosa terribile.

— Nemmeno per ombra, signora mia. Non è così, pastore?

Il signor Stiggins alzò le mani e voltò gli occhi al cielo fino a mostrare il bianco — o piuttosto il giallo, — ma non rispose verbo.

— Si sente qualche male questo signore? — disse Sam volgendosi alla matrigna per una spiegazione.

— Il brav’uomo si affligge di vedervi qui, Samuele, — rispose la signora Weller.

— Ah, questo è tutto? Io mi figuravo dai suoi modi, che avesse dimenticato di mettere il pepe sull’ultimo cocomero che s’è mangiato. Accomodatevi, signore, prego. Si paga lo stesso, come disse il re ai ministri quando li mandò via.

— Giovinotto, — disse con enfasi il signor Stiggins, — temo che la prigionia non v’abbia ammollito il cuore.

— Scusate, signore, — rispose Sam, — che cosa mi avete fatto l’onore di osservare?

— Dico, giovinotto, che il vostro carattere non è mica divenuto più buono pel castigo inflittovi dal cielo, — disse il signor Stiggins a voce alta.

— Siete troppo gentile, signore, — rispose Sam. — Spero bene di non essere divenuto troppo buono. Grazie a voi per la buona opinione che avete di me.

A questo punto della conversazione, un suono, che aveva una indecorosa somiglianza con una risata si udì dalla sedia sulla quale stava seduto il signor Weller; al che la signora Weller, risolvendosi lì per lì, considerò suo stretto dovere di diventare gradatamente isterica.

— Weller, — disse la signora Weller (il vecchio stava seduto in un angolo) — Weller, fatevi avanti!

— Obbligatissimo, cara mia, — rispose il signor Weller; — sto benissimo dove mi trovo.

A questo la signora Weller scoppiò in lagrime.

— Ch’è stato, signora? — domandò Sam.

— Oh Samuele! — rispose la signora Weller, — vostro padre mi rende la più disgraziata delle donne. Non ci sarà nulla, proprio nulla che lo accomodi?

— Lo sentite? — disse Sam. — La signora vuol sapere se c’è nulla che vi possa accomodare.

— Obbligatissimo alla signora Weller per la sua finezza, — rispose il vecchio. — Credo che una pipa mi accomoderebbe assai. Ne potrei avere una, Sam?

Qui la signora Weller lasciò cadere alcune lagrime, e il signor Stiggins mise un gemito.

— Ohe! ecco il povero signore che gli vien male da capo, — disse Sam voltandosi. — Dov’è che ve lo sentite adesso?

— Allo stesso posto, giovinotto, allo stesso posto.

— O dove? — domandò Sam con grande ingenuità.

— Nel seno, giovinotto, — rispose il signor Stiggins, accennando col pomo dell’ombrello alla sottoveste.

A questa risposta commovente, la signora Weller, a dirittura incapace di contenere i propri sentimenti, singhiozzò forte e dichiarò che l’uomo dal naso rosso era un santo.

— Temo, signora, — disse Sam, — che questo signore, con le smorfie che fa, abbia un po’ di sete davanti a questo spettacolo malinconico. Non vi pare, signora?

La degna signora guardò al signor Stiggins per averne una risposta, e questi, con un gran girar di occhi, si afferrò la gola con la mano destra, e fece l’atto d’ingoiare, per dare a vedere che appunto aveva sete.

— Temo, Samuele, che la sua sensibilità gli abbia fatto questo effetto, — disse in tono dolente la signora Weller.

— Che bevanda pigliate pel solito? — domandò Sam.

— Oh, mio caro e giovane amico! — rispose il signor Stiggins, — tutte le bevande sono vanità.

— Verissimo, verissimo, — disse la signora Weller gemendo e crollando il capo.

— Sta bene, — disse Sam, — chiamiamole pure vanità. Ma qual’è la vostra vanità particolare? Qual’è la vanità che preferite?

— Oh, mio caro e giovane amico, io le disprezzo tutte. Se mai ce n’è una meno odiosa delle altre, questa è il liquore che chiamano rum... caldo, mio giovane amico, caldo, con tre pezzetti di zucchero per bicchiere.

— Mi dispiace assai di farvi sapere, mio egregio signore, che in questo stabilimento qui non è permesso di vendere questa specie di vanità.

— Oh, durezza di cuore di questi sciagurati! oh, maledetta crudeltà di questi spietati persecutori!

Con queste parole il signor Stiggins alzò di nuovo gli occhi e si percosse il petto col pomo dell’ombrello; e la sua indignazione — per rendergli giustizia — era veramente schietta e profonda.

Dopo che la signora Weller e il degno uomo dal naso rosso si furono vivamente lamentati di quest’uso disumano ed ebbero scagliato una varietà di pie e sante esecrazioni contro gli autori di esso, il reverendo raccomandò una bottiglia di vino di Porto, mescolato con acqua calda, spezie e zucchero, come bevanda gratissima allo stomaco e che meno di tutte le altre sentiva di vanità. La si ordinò subito, e in tanto così il vicepastore come la signora Weller si misero a contemplare il signor Weller seniore e gemettero.

— Ebbene, Sam, — disse questi, — spero che vi sentiate un po’ meglio dopo questa graziosa visita. Una conversazione bella ed allegra, eh, Sam?

— Voi siete un reprobo, — rispose Sam, — e desidero che di coteste screanzate osservazioni non me ne rivolgiate altrimenti.

Lungi dal far suo pro di questa meritata risposta, il signor Weller seniore allargò la bocca in una smorfia di compiacenza; la quale condotta incorreggibile avendo per effetto di far chiudere gli occhi alla signora Weller e al signor Stiggins e di farli agitare sulle loro seggiole come se avessero il mal di ventre, ei si abbandonò ad una vivace pantomima intesa ad esprimere un suo desiderio di sfondare i mezzanini e tirare il naso al sullodato Stiggins. Poco mancò ad un certo punto che non fosse scoperto; perchè il signor Stiggins essendosi scosso all’arrivo del vino caldo, si trovò a dar di capo contro il pugno chiuso col quale il signor Weller andava descrivendo in aria certi suoi fuochi lavorati immaginari alla distanza di due pollici dall’orecchio del reverendo.

— Che furia è la vostra di afferrare il bicchiere a cotesto modo? — esclamò Sam con gran prontezza di spirito. — Non vedete che avete fatto male al signore?

— Non l’ho mica fatto a posta, Sam, — rispose il signor Weller un po’ mortificato dall’inatteso incidente.

— Provate un’applicazione interna, — disse Sam vedendo che il signor Stiggins si strofinava la parte offesa con un certo malumore. — Che vi pare di cotesta vanità calda, eh?

Il signor Stiggins non rispose a parole. Assaggiò il contenuto del bicchiere che Sam gli aveva offerto, posò l’ombrello a terra, e tornò ad assaggiare passandosi una o due volte la mano sullo stomaco, vuotò alla fine tutto d’un fiato il bicchiere, e facendo schioccar le labbra, lo porse per averlo di nuovo riempito.

Nè fu seconda la signora Weller nel rendere giustizia alla grata bevanda. La buona signora incominciò dal protestare che non ne poteva nemmeno assaggiare una goccia — quindi ne prese una piccola goccia — poi una goccia più grossa — e finalmente una gran quantità di goccie; ed essendo la sua sensibilità come quelle sostanze che subito si sciolgono nello spirito di vino, ella versò una lagrima per ogni goccia di vino caldo, e seguitò così a sciogliere i suoi sentimenti fino a che non fu arrivata ad un grado conveniente di patetica afflizione.

Il signor Weller seniore se ne stava ad osservare questi segni con molte rnanifestazioni di disgusto, e quando, dopo una seconda brocca della medesima bevanda, il signor Stiggins si diè a sospirare come un mantice, egli espresse senza ambagi la sua disapprovazione per quanto accadeva con un suo frasario confuso, nel quale si arrivava soltanto a distinguere la ripetizione stizzosa delle parole imbroglione e ipocrisia.

— Vi dirò io come sta il fatto, Sam! — bisbigliò il vecchio nell’orecchio del figlio, dopo una contemplazione lunga e sostenuta della sua signora e dell’amico Stiggins; — io credo che la signora matrigna e il naso rosso abbiano ad avere qualche male in corpo.

— Come sarebbe a dire?

— Sarebbe a dire, Sam, che tutto quel che bevono non li nutrisce niente affatto; si muta tutto in acqua tiepida e vien loro fuori dagli occhi. Giurateci, Sam, l’ha ad essere una infermità costituzionale.

Il signor Weller emise questa sua opinione scientifica con molti cenni approvativi del capo e smorfie del viso; il che notando la signora Weller e figurandosi che si riferissero a lei o al signor Stiggins o a tutti e due, stette lì lì per farsi venir male più di prima. Ma qui il signor Stiggins, alzandosi e reggendosi alla meglio sulle gambe, incominciò a spifferare un discorso edificante a beneficio della compagnia e specialmente del signor Samuele, ch’ei scongiurò con parole commoventi di star bene in guardia in quella sentina d’iniquità nella quale era precipitato; di tenersi lontano da ogni ipocrisia ed orgoglio di cuore; e di prendere in tutto e per tutto esempio e norma da lui (Stiggins), nel qual caso ei potea calcolare di venir presto o tardi alla conclusione consolante che, come lui, egli era un carattere stimabilissimo e senza macchia, e che tutti i suoi conoscenti ed amici erano altrettanti sciagurati senza speranza di salvazione, la qual cosa, ei diceva, non poteva non procurargli la più viva soddisfazione. Lo scongiurò inoltre ad evitare, sopra ogni cosa, il vizio dell’ubbriachezza, più vile e spregevole delle sozze abitudini del porco, e simile in tutto per gli effetti suoi a quelle droghe velenose la cui masticazione offende e cancella la nobile facoltà della memoria. A questo punto del discorso il reverendo dal naso rosso divenne singolarmente incoerente, e sbattendo di qua e di là nella foga della sua eloquenza, fu appena in tempo di afferrarsi alla spalliera di una seggiola per conservare la sua perpendicolare.

Non disse già il signor Stiggins ai suoi ascoltatori che si guardassero da quei falsi profeti, da quei disgraziati trafficatori di religione, i quali, destituiti di ogni capacità per bandirne le dottrine fondamentali e di ogni sentimento per apprezzarne i principii, sono nel consorzio civile più pericolosi membri che non siano i comuni malfattori; da coloro che per necessità dell’ufficio loro e del carattere esercitano la loro azione sulle nature più deboli ed informi; che spargono l’onta e il disprezzo sulle cose più sacre; che diffamano vaste corporazioni di gente, esemplari per virtù, appartenenti a varie e rispettabili sette e confessioni. Non disse nulla di tutto questo; ma siccome stette un bel pezzo appoggiato alla spalliera della seggiola, e chiudendo un occhio batteva senza posa la palpebra dell’altro, c’è da presumere ch’ei lo pensasse e se lo tenesse per sè.

Durante questa commovente orazione, la signora Weller, singhiozzò e pianse alla fine di ogni periodo, mentre Sam, seduto a cavalcioni di una seggiola con le braccia appoggiate alla spalliera, guardava l’oratore con grande soavità e compunzione, dando di tratto in tratto un’occhiata d’intelligenza al vecchio genitore, che sul principio stette a sentire con gran diletto e a metà discorso pigliò sonno.

— Bravo! bellissimo! — gridò Sam, quando il reverendo, compiuta la sua orazione, si mise i suoi guanti scuciti facendo uscir dalle punte i polpastrelli e le nocche delle dita. — Bellissimo!

— Spero che vi farà del bene, caro Samuele, — disse solennemente la signora Weller.

— Credo che me lo farà, — rispose Sam.

— Vorrei tanto sperare che anche a vostro padre facesse un po’ di bene.

— Grazie, cara, — rispose il signor Weller. — Come vi sentite voi adesso, amore mio?

— Empio! — esclamò la signora Weller.

— Peccatore ostinato! — disse il reverendo Stiggins.

— Se non avrò per farmi luce che cotesto vostro meschino chiaro di luna, bambina mia, — rispose il signor Weller, — è assai probabile che seguiterò a viaggiar di notte fino alla fine del mondo. Ora, badate a me, se la pica rimane ancora dell’altro alla stalla, non ci sarà chi la possà tenere quando torneremo a casa, ed è anche possibile che quella cosiffatta poltrona abbia a schizzare di sopra a qualche siepe con tutto il vicepastore.

A questa supposizione, il reverendo Stiggins si affrettò a raccattare cappello ed ombrello e propose alla signora Weller di partire senz’altro indugio. La signora Weller consentì e Sam, accompagnatili fino al cancello, tolse da loro rispettoso commiato.

— Addio, Sam, — disse il vecchio.

— Addio, vecchio snaturato.

— Sam, — bisbigliò il signor Weller, cautamente guardandosi intorno; — i miei doveri al vostro padrone, e domandategli se mai, a proposito di questa faccendaccia, non gli sembri ben fatto di comunicare con me. Io e l’ebanista abbiamo fatto un certo piano per tirarlo di qua. Un piano, Sam, un piano!

E il signor Weller, battendo col dorso della mano sul petto del figliuolo, indietreggiò di uno o due passi.

— O che piano è il vostro?

— Un piano... forte, Sam... ch’ei può pigliare a nolo, capite, e che non suona, Sam, non suona.

— E poi?

— E poi, capite, egli manda dal mio amico l’ebanista perchè se lo venga a prendere. M’avete afferrato adesso?

— No.

— Non c’è l’anima di dentro, ecco. Ei ci starà a tutto suo comodo col cappello e gli stivali, e potrà respirare pei piedi che son vuoti. Trova un posto bell’e preso per l’America. Il governo americano non se lo lascia mica scappar di mano, quando viene a sapere che egli ha del danaro da spendere. Ei si ferma laggiù fino a che non muore la signora Bardell o i signori Dodson e Fogg non sono appiccati; il quale evento, Sam, non dovrebbe tardar di molto, mi pare; e allora se ne torna qua e scrive un libro sugli americani che gli ripagherà tutte le spese e qualche cosa per giunta, se li pettina a dovere.

Il signor Weller diè fuori a bassa voce ma con forza questo schizzo astratto del suo piano di evasione, e quindi, quasi temendo d’indebolire con altre parole la tremenda comunicazione, salutò e disparve.

Non ancora avea Sam ricuperato la sua naturale compostezza e tranquillità, non poco disturbata dalla comunicazione del rispettabile genitore, quando il signor Pickwick gli si avvicinò.

— Sam?

— Signore!

— Vorrei fare una giratina per la prigione e non mi dispiacerebbe la vostra compagnia. Vedo venire da questa parte un prigioniero di nostra conoscenza, — aggiunse sorridendo il signor Pickwick.

— Quale? quel signore dai capelli arruffati o il prigioniero con le calze turchine?

— No, Sam. È un vostro vecchio amico.

— Mio?

— Scommetto che ve ne ricordate benissimo, per smemorato che possiate essere. Zitto! nemmeno una parola, Sam, nemmeno una sillaba. Eccolo.

Mentre il signor Pickwick parlava, il signor Jingle veniva avanti. Aveva l’aspetto meno miserabile, con indosso un vestito non affatto logoro che, con l’aiuto del signor Pickwick, era stato spegnato. Portava anche della biancheria pulita e s’avea fatto tagliare i capelli. Era nondimeno pallidissimo e magro; e mentre s’avanzava lentamente appoggiato ad un bastone, si vedeva chiaro che la miseria e la malattia lo aveano molto travagliato e indebolito. Si cavò il cappello rispondendo al saluto del signor Pickwick, e parve molto umiliato e mortificato alla vista di Sam Weller.

Attaccato alle sue calcagna veniva dietro Job Trotter, fra i vizi del quale, in tutti i modi, non ci poteva esser posto per poca fede ed attaccamento al suo compagno. Era sempre sudicio e cencioso, ma pure meno sparuto in viso della prima volta. Cavandosi anch’egli il cappello per salutare il nostro vecchio amico, mormorò alcune frasi smozzicate di gratitudine a proposito dell’essere stato salvato dal morir di fame.

— Via, via, — disse il signor Pickwick interrompendolo con impazienza, — andate con Sam, andate. Dovrei parlarvi, signor Jingle. Potete un po’ fare a meno della sua compagnia?

— Certamente, signore — prontissimo — piuttosto piano — gambe deboli — la testa attorno attorno — curiosa — una specie di terremoto — sicuro.

— Orsù, appoggiatevi al mio braccio, — disse il signor Pickwick.

— No, no, — mai — prego.

— Eh via, che sciocchezze! — esclamò il signor Pickwick; — appoggiatevi, lo voglio.

Vedendolo confuso ed agitato, il signor Pickwick pigliò senz’altro il braccio dell’invalido commediante, e senza aggiungere più parole riprese a camminare.

In questo mentre sulla fisonomia di Sam s’era dipinto il più profondo e straordinario stupore che si possa immaginare. Dopo avere in silenzio guardato da Job a Jingle e poi da Jingle a Job, ei pronunciò piano: "Impossibile, impossibile!"parole che ripetette almeno una ventina di volte, rimanendo poi affatto mutolo e tornando a guardare tutto perplesso e smarrito ora l’uno ora l’altro.

— Sam? — chiamò il signor Pickwick, voltandosi.

— Vengo, signore, — rispose Sam, seguendo macchinalmente il padrone, e sempre tenendo gli occhi inchiodati su Job che in silenzio gli camminava accanto.

Job stette un pezzo con gli occhi a terra e Sam fissando Job urtava contro la gente che andava attorno, cadeva sui bambini, inciampava in uno scalino o in una ringhiera, senza punto punto darsene per inteso, fino a che Job, alzando timidamente gli occhi, domandò:

— Come state, signor Weller?

— È lui! — esclamò Sam; ed avendo così stabilita fuor di ogni dubbio l’identità di Job, si diè un colpo sulla coscia e sfogò in un lungo sibilo la piena dei suoi sentimenti.

— Le cose si sono un po’ mutate, — disse Job.

— Così mi parrebbe, — esclamò il signor Weller, esaminando con profonda maraviglia i cenci del suo compagno. — Sono un po’ mutate in peggio, caro signor Trotter, come disse quel signore quando dopo aver barattata la mezza corona, si trovò di avere in tasca due scellini e sei pence di cattiva lega.

— Altro che in peggio, — rispose Job, crollando il capo. — Non c’è inganno ora, signor Weller. Le lagrime, — aggiunse Job con un’occhiata di momentanea astuzia, — le lagrime non sono le sole prove della disgrazia nè le migliori.

— No davvero, — rispose Sam con espressione.

— Le si possono fingere, signor Weller, apparecchiarle, — disse Job.

— Lo so per prova, — disse Sam; — c’è di quelli che le tengono sempre pronte, e non hanno che da aprire il rubinetto per farle scorrere a volontà.

— Sì, — rispose Job; — ma queste cose qui non le si fingono così di leggieri, signor Weller, e costa assai più fatica l’apparecchiarle.

Così dicendo, accennò alle sue guance sparute, e rimboccando la manica del soprabito, mise in mostra un braccio che pareva come se l’osso si potesse spezzare con un colpo, così era secco e fragile di sotto alla sottilissima superficie di carne.

— O che diamine vi siete fatto? — domandò Sam rabbrividendo.

— Nulla.

— Come nulla?

— Non ho fatto nulla per molte settimane di fila, non ho nemmeno mangiato e bevuto.

Sam non diè che un’occhiata sola a quel viso emaciato e a quell’abito logoro, e quindi afferrando Job pel braccio se lo tirò dietro con gran furia.

— Dove andate, dove andate, signor Weller? — disse Job, dibattendosi invano nella stretta potente del suo vecchio nemico.

— Venite, — rispose Sam, — venite.

Nè volle rispondere altro fino a che non furono giunti al caffè, dove ordinò una brocca di birra, che fu subito servita.

— Orsù, vuotatemi questa fino all’ultima goccia, e poi voltatela sottosopra per farmi vedere che avete ingollato la medicina.

— Ma, mio caro signor Weller...

— Giù, andiamo!

A un comando così assoluto, il signor Trotter si accostò il recipiente alle labbra, e a grado a grado ne alzò il fondo in aria. Una volta sola si fermò, per pigliar fiato, ma senza levar la faccia dalla brocca, che qualche momento dopo, distendendo il braccio, capovolse. Non ne caddero a terra che alcune gocciole di spuma, che lentamente si staccarono dall’orlo.

— Bravissimo! — disse Sam. — Come vi sentite adesso?

— Meglio, oh meglio!

— Si capisce. Gli è come il gas nel pallone. Io vi vedo ingrassare a occhio nudo. Che direste di un altro sorsettino delle stesse dimensioni?

— No, grazie; grazie davvero, signor Weller.

— Qualche cosa di solido, allora?

— Grazie al vostro degno padrone, abbiamo per le tre meno un quarto un bel pezzo di montone al forno con letto di patate.

— Come! il padrone ha anche pensato al desinare?

— E non è tutto, signor Weller, non è tutto. Quando il mio padrone è stato male, ei ci ha procurato una camera. Prima si stava in un canile. E l’ha anche pagata; e se ne veniva di sera a trovarci, quando nessuno lo vedeva. Ah, signor Weller, — aggiunse Job con lagrime vere negli occhi, — io lo servirei quell’uomo fino a cadergli morto davanti.

— Dico eh, amico, lasciamo andare cotesti discorsi! — disse Sam.

Job Trotter lo guardò tutto sorpreso.

— Lasciamo andare, dico, — ripetette Sam con fermezza. — Nessuno lo serve fuori che io. E poichè siamo a questo vi metterò anche a parte di un altro segreto. Io non ho mai inteso parlare, nè ho letto nei libri di storia, nè veduto nelle pitture che ci siano degli angeli in calzoni ed uosa e nemmeno con gli occhiali, per quanto me ne ricordi; ma tenete bene a mente le mie parole, Job Trotter, quello lì il padrone, è un angelo da capo a piedi; e trovatemi voi chi si permette di dire di averne conosciuto un altro migliore.

Lanciata questa sfida, il signor Weller pagò la birra, si abbottonò il resto nella tasca della sottoveste, e con molti gesti e cenni del capo che confermavano il sentimento espresso, si mosse in cerca del soggetto del suo discorso.

Trovarono il signor Pickwick in compagnia di Jingle, che parlavano con molto calore senza volgere neppure un’occhiata ai vari gruppi sparsi pel cortile: gruppi strani e singolari nondimeno, degni di essere osservati, non fosse che per sola curiosità.

— Ebbene, — disse il signor Pickwick, mentre Sam e Job si avvicinavano, — vedrete intanto come andate in salute, e ci penserete. Mettetemi la cosa per iscritto quando vi sentirete di poterlo fare, e ne parleremo insieme, quando io avrò considerata la cosa. Tornate ora in camera vostra. Voi siete stanco e non potete star fuori troppo a lungo.

Il signor Alfredo Jingle, senza una sola scintilla della sua antica vivacità, senza nemmeno un’ombra della triste gaiezza che aveva assunta nel suo primo incontro col signor Pickwick, s’inchinò profondamente senza parlare e facendo segno a Job di non seguirlo ancora, a passo lento e faticoso si allontanò.

— Curiosa scena questa, non è vero, Sam? — disse il signor Pickwick guardando tutt’intorno di buon umore.

— Proprio curiosa, signore, — rispose Sam. Poi, parlando da sè a sè, aggiunse: — Non son mica finiti i miracoli. Scommetto la testa che anche cotesto Jingle si è dato al mestiere delle pompe.

L’area chiusa dal muro, in quella parte della prigione dove trovavasi il signor Pickwick, era appunto larga abbastanza per giocare al volano, essendo uno dei lati formato, naturalmente, dallo stesso muro, e l’altro da quel lato della prigione che guardava (o piuttosto avrebbe guardato se non ci fosse stato il muro) alla Cattedrale di San Paolo. Parte seduti, parte gironzando, in ogni possibile atteggiamento di ozio irrequieto, vedevansi molti debitori, la maggior parte dei quali aspettavano lì il giorno risolutivo che gli avrebbe tratti davanti la Corte degli Insolvibili, mentre altri, rimandati a vari termini, ammazzavano l’indugio il meglio che sapevano. Alcuni erano laceri, altri ricercati, sudici molti, puliti pochissimi; ma tutti se ne stavano lì vagando, oziando, trascinandosi, con la indifferenza stupida ed incosciente delle bestie in un serraglio.

Alcuni altri se ne stavano alle finestre che davano su questa specie di passeggiata; e chi chiacchierava rumorosamente dall’alto in basso con qualche suo conoscente; e chi giuocava alla palla con qualche giocatore di fuori; e chi finalmente guardava ai giocatori di volano e ai ragazzi che gridavano il gioco. Passavano e ripassavano delle donne in ciabatte verso un angolo del cortile dov’era la cucina: in un altro, dei ragazzi strillavano, si bisticciavano, facevano il chiasso; il rimbalzar della palla e le grida dei giocatori si mescolavano senza posa a questi e a cento altri rumori: e tutto era strepito e tumulto, — meno sotto una breve tettoia poco discosta, dove giaceva, bianco e tranquillo, il corpo del prigioniero della Cancelleria, morto la notte innanzi, e che aspettava lì la solita commedia dell’inchiesta. Il corpo! È questo il termine legale per indicare quella massa turbinosa di cure, di ansietà, di affetti, di speranze, di dolori, che costituiscono tutt’insieme l’uomo vivo. La legge ne possedeva ora il corpo, il quale giaceva lì avvolto nel lenzuolo funebre, testimone terribile delle materne cure di quella.

— Vorreste vedere una bottega canterina? — domandò Job Trotter al signor Pickwick.

— Una che? — domandò questi a sua volta.

— Una bottega di canterina, di richiami, via, — spiegò il signor Weller.

— Cioè a dire, Sam? una bottega d’uccelli?

— No, benedetto voi, — rispose Job, — la bottega canterina è il posto dove vendono i liquori.

E Job Trotter brevemente spiegò, che essendo a tutti sotto pene gravissime proibito d’introdurre liquori nelle prigioni di debitori, ed essendo quelli molto apprezzati dai signori e dalle signore ivi dimoranti, era sembrato opportuno a qualche speculativo carceriere, per certi riguardi lucrativi, di chiudere un occhio e di tollerare che due o tre prigionieri vendessero alla minuta e a proprio profitto quell’articolo così favorito.

— E questo sistema, — conchiuse Job, — è stato a poco a poco introdotto in tutte le prigioni per debiti.

— Ed ha questo gran vantaggio, — osservò Sam, — che i carcerieri stanno attentissimi ad acchiappare i contravventori, che non li pagano, e quando questo succede, i giornali lodano la loro vigilanza; due piccioni ad una fava: si fanno merito ed impediscono agli altri di fare la speculazione.

— Proprio così, — disse Job.

— Ma, — obbiettò il signor Pickwick, — non si visitano mai coteste camere per vedere se vi si nascondono dei liquori?

— Sicuro che si visitano; ma i carcerieri lo sanno prima e ne danno l’avviso. L’ispettore arriva, fruga, e se ne va di dove è venuto.

Mentre Sam dava queste spiegazioni, Job bussò ad un uscio che fu subito aperto da un signore mal pettinato, che immediatamente lo rinchiuse col chiavistello, non appena la brigata fu dentro, e sorrise. A questo Job si mise a ridere anch’egli, e Sam fece come Job; e il signor Pickwick, figurandosi che da lui si aspettasse lo stesso, assunse un viso sorridente per tutta la durata della visita.

Il signore mal pettinato capì all’istante questa mimica simpatica. Tirò di sotto al letto un orciuolo di creta, che potea contenere un par di pinte, e riempì di ginepro tre bicchieri, che Job e Sam abilmente vuotarono.

— Ne volete dell’altro? — domandò quegli dall’orciuolo.

— No, grazie, — rispose Job.

Il signor Pickwick pagò, la porta fu riaperta, e trovandosi in quel punto a passar di là il signor Roker, il signore mal pettinato lo salutò amichevolmente con un cenno del capo.

Uscendo di là, il signor Pickwick se n’andò vagando su e giù per le scale e lungo gli androni, e poi rifece da capo il giro della casa.

Ad ogni passo, in ogni persona che incontrava, gli sembrava vedere Mivins e Smangle, e l’ecclesiastico, e il macellaio, dacchè tutta quella popolazione paresse composta d’individui di una sola specie. Erano sempre lo stesso sudiciume, lo stesso tumulto, la stessa confusione, gli stessi sintomi caratteristici in tutti gli angoli della prigione, nei migliori e nei peggiori. C’era dappertutto non so che di turbolento e di inquieto, e vedevansi ogni sorta di gente riunirsi e separarsi, come vedonsi passar delle ombre in un sogno febbrile.

— Ne ho veduto abbastanza, — disse il signor Pickwick gettandosi sopra una seggiola nella sua cameretta. — Mi duole il capo, e il cuore anche. Da oggi in poi sarò prigioniero nella mia propria camera.

E mantenne la parola. Per tre mesi di fila se ne stette rinchiuso tutto il giorno, uscendo soltanto a tarda sera per pigliare una boccata d’aria, quando la maggior parte dei prigionieri erano a letto od a cena. La sua salute cominciava a soffrire dalla reclusione rigorosa, ma nè le suppliche insistenti dei suoi amici e di Perker, nè le frequenti ammonizioni di Sam, valsero a scrollar di un pollice la sua risoluzione inflessibile.