Il cappello del prete/Parte prima/II

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II. - La trappola

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II.


La trappola.


Il barone di Santafusca pensava al modo di trarre qualche profitto dall’avarizia di prete Cirillo, come prete Cirillo aveva saputo fare colla sua miseria.

Molti progetti gli ronzavano in capo, ma uno era nero in mezzo ai bigi.

Dapprima lo cacciò via, ma tornato un’altra volta lo guardò in faccia. Era un’idea vestita di nero, color del prete.

Che cosa aveva detto prete Cirillo?

Che voleva partire, anzi fuggire da Napoli in gran segretezza: che giovedì, giorno 4, sarebbe venuto alla villa col denaro in tasca per stringere il contratto davanti al notaio: che non sarebbe tornato più in Napoli, perchè c’era della gente che minacciava continuamente la sua vita per avere i numeri.

Questo aveva detto il prete.

Una banda di camorristi un giorno si era [p. 17 modifica]impadronita della sua persona, e l’uomo di Dio sarebbe stato realmente ucciso, se Dio e il divino Spirito non l’aiutavano in quel momento.

Con questi elementi c’era da mettere insieme un magnifico progetto, purchè non si guardasse troppo agli scrupoli e ai pregiudizi.

«U barone» sentì il bisogno di raccogliere i suoi pensieri e corse a casa tutto caldo di speranze e di fantasia.

Egli abitava da alcuni anni un quartierino di poche stanze in una casa di via Speranzella e non aveva con sè che una vecchia donna, la quale era già stata sua istitutrice nei giorni che i Santafusca contavano per qualche cosa.

Venuti i tempi della rovina, donna Maddalena si teneva attaccata a quest’ultimo rudere di una gloriosa famiglia coll’ansia di chi s’avvinghia a un duro scoglio per non affogare. Per quanto su un nudo scoglio non resti che di morire di fame, pure si preferisce soffrire un giorno di più al morir subito.

Il barone non aveva avuto il coraggio di disfarsi di questa povera donna che gli teneva la casa, e di Salvatore, l’ultimo castaldo della sua villa, vecchio di settant’anni, malato di gambe, mezzo sconquassato dall’età e dagli acciacchi.

Donna Maddalena e Salvatore erano tutto quanto rimaneva dell’antico fasto: il resto era tutto venduto o ipotecato. Nè l’una, nè l’altro pigliavano stipendio, ma vivevano entrambi [p. 18 modifica]meschinamente dei detriti della casa che si sfasciava sulla loro testa.

Donna Maddalena, colla sua devota bontà, aveva messi tutti i suoi risparmi in mano a Don Coriolano, che giocò in una notte tutto ciò che la povera istitutrice aveva messo in disparte in quarant’anni di vita semplice e di economia. Ora essa non aveva più nulla e doveva ogni giorno supplicare il suo signore e padrone perchè non la lasciasse morire di fame. Erano preghiere senza rimproveri, voci rispettose e sommesse, una devozione ’e un amore insomma di madre tenera verso un caro figliuolo viziato. Tutto ciò che veniva da Don Coriolano era per l’umile istitutrice bello, grande, degno di lode o di perdono.

Giustizia vuole che si dica che anche il barone conservava per la vecchia maestra un sentimento che il tempo e gli stravizi non avevano mai potuto distruggere.

La voce piangente di Maddalena aveva ancora la virtù di turbare la coscienza indurita di un uomo, che ormai l’aveva chiusa a ogni altro affetto. Un’eco dolce e pietosa era rimasta nascosta nell’edificio vecchio e scadente della sua coscienza e Maddalena sapeva di non parlare mai inutilmente.

Non era egli un tristo, degno della forca, — (si dimandava spesso) — di rubare a quella povera creatura il suo denaro, di lasciarla morire in casa di fame e di solitudine? [p. 19 modifica]

Tornato a casa dal colloquio col prete, egli confrontava questa povera vittima, che viveva di sospiri, col prete che aveva il pagliericcio pieno di denaro.

L’una da quarant’anni divideva il destino di una antichissima casa, cadendo anch’essa a brani a brani insieme ai muri, non lamentandosi mai se non quando la fame era più forte della pazienza, sollevando alta la bandiera dell’onore fin che c’era fiato; e l’altro, il prete, insidiava, minava fin le stesse rovine e cercava di pigliare un Santafusca per la gola.

Maddalena aveva chiusi gli occhi della sua povera mamma — pensava sempre l’uomo salendo le scale di casa — ed egli non poteva fare più nulla per lei. Se fosse andato in prigione, la povera donna sarebbe morta di fame sulla via.

I Santafusca avevano nelle vene sangue di re normanni, diceva la cronaca. L’ultimo dei baroni poteva ben morire in odore di brigante con una palla nella gola: ma era vergognoso che si lasciasse succhiare il sangue da un pipistrello.

Man mano che il suo pensiero girava su questo fuso, l’animo del barone si rinfocolava e pigliava coraggio.

Che cosa era un vil pretuzzo in suo confronto?

Il prete sarebbe venuto alla villa con molti denari e forse colla nota di tutti i suoi tesori nascosti nel pagliericcio.

La villa era deserta, Salvatore mezzo sordo e imbecille. [p. 20 modifica]

Per la domenica doveva restituire il denaro al Sacro Monte, se no, marche, in prigione.

Maddalena moriva di fame.

In tutto il mondo non c’era che un cuore che gli volesse un bene sincero e disinteressato, questo cuore di Maddalena.

La villa era in un luogo solitario e da dieci anni non vi entrava quasi più nessuno.

Erano sempre mancati i denari per restaurarla e ora se la godevano i topi e le capre, che Salvatore allevava nell’antico giardino.

A Santafusca prete Cirillo non era conosciuto da nessuno.

Nessuno si sarebbe accorto in città della sua partenza: dunque, dunque....

— Se gli togli il denaro, che cos’è questo scheletro umano vestito da prete? Egli non è un uomo, ma una somma, un sacchetto. Io salvo l’onore dei miei padri, salvo me dalla prigione, salvo Maddalena dalla fame, pago i miei debiti, rendo il pane a tanti bisognosi, fo elemosine, ristabilisco la giustizia, compio una legge di natura.

Io non so dire quante volte «u barone» pensò e ripensò queste cose durante i pochi giorni che lo dividevano dal lunedì al fatale giovedì 4 di aprile.

Il tempo non passava mai, molto più ch’egli stette quasi sempre in casa, nel piccolo studio, nel silenzio d’una casa morta, sempre curvo a tessere questa lurida tela. [p. 21 modifica]


*


Ogni giorno, ogni ora, quasi ogni minuto si persuadeva che non gli restava altro rimedio, e che una forza superiore lo incalzava verso un grande avvenimento, voglio dire (ormai si capisce) tirare il prete in trappola e....

La difficoltà consisteva nel far la cosa senza passione, con istudio, con freddezza di cuore.

Egli era un uomo superiore ai pregiudizi. Se avesse creduto coll’ammazzare un uomo di commettere un delitto contro la natura o contro un padrone suo superiore diretto od immediato, non l’avrebbe fatto, non fosse per altro che per il quieto vivere e per un certo senso di proprietà e di cortesia.

Ma egli era profondamente persuaso che l’uomo è un pugno di terra, che la terra ritorna alla terra e s’impasta colla terra. La coscienza — aveva scritto il dottor Panterre — è un geroglifico scritto col gesso sopra una tavola nera. Si cancella così presto, come si fa. La coscienza è il lusso, l’eleganza dell’uomo felice. E Dio? Dio una capocchia di spillo puntato nel cuscino del cielo....

Da questo lato della coscienza «u barone» era tranquillissimo. [p. 22 modifica]

Se avesse creduto di dover fare la parte di Macbetto o di dover perdere i sonni come il vecchio Aristodemo, non si sarebbe mosso; ma non aveva nessuna voglia di rubare il mestiere a Rossi e a Salvini.

Non c’era che un pericolo in questa faccenda — cioè di metterci troppa precipitazione e di compromettersi in faccia al carabiniere. La società è come le donne. Non si offende d’essere tradita se non quando lo sa. Se la lasci nella sua ignoranza, la donna ti vorrà bene come prima.

Bisognava operare con prudenza, in modo che prete Cirillo scomparisse senza far rumore, come un sasso che tu abbandoni a fior d’acqua e che precipita morbidamente al centro di gravità.


*


Passarono in questi pensieri il lunedì, il martedì e parte del mercoledì. Il barone cominciò allora a soffrire per la troppa speculazione e si accorse di non essere troppo quieto in Napoli. Più d’una volta sorprese sè stesso in istrada a gesticolare, o con due dita aperte a un dilemma mentale che gli inchiodava il cervello, o con una smania rabbiosa nelle gambe che lo faceva correre senza scopo in mezzo alla gente. Cominciò quasi a temere che la gente avesse a legger [p. 23 modifica]il suo pensiero attraverso alle rughe. Impaziente, agitato, colla febbre addosso, il mercoledì mattina prese la penna e buttò sulla carta queste parole:


«Caro mio Don Cirillo,

«Son partito oggi per dare qualche ordine alla Villa. È partito con me anche Don Nunziante, che è già informato del contratto e trova che voi fate un affare stupendo. Pazienza, io sconto i miei peccati. Non si è parlato del parco che abbraccia più di venti moggia. Io vi cederei anche questo se avete denaro. Ma mi occorrono subito, perchè il mio diavolo mi ha fatto perdere anche ieri sera. Vi aspetto domani.

«La corsa parte a 12,20 e voi sarete per il tocco alla Villa.

«Dalla stazione pigliate il gran viale degli ulivi e vi farò trovare aperto il cancello. Alla Villa c’è da dormire comodamente.

«A rivederci».


Alle dieci mise alla posta la lettera, volendo quasi affidare alla sorte un poco di responsabilità, e colla corsa delle 12,20 partì solo per Santafusca. [p. 24 modifica]


*


Prete Cirillo non perdette il suo tempo.

Molte cose doveva prevedere e stabilire anche lui per sottrarsi senza dar sospetto alle persecuzioni che oggi non poteva più sopportare.

Trovato Cruschello, liquidò molti conti, lasciandogli guadagnare più che non meritasse; ma dovette mostrarsi largo di mano per invogliarlo a pagare e far presto.

Poi passò alla Cassa di Risparmio del Banco di San Giacomo e ritirò molte cartelle di rendita al portatore che aveva depositate per maggior sicurezza. Erano i frutti di una vecchia eredità e delle sue segrete speculazioni.

Poi scrisse un biglietto al suo padrone di casa, in cui gli diceva che per urgenti affari di famiglia doveva allontanarsi improvvisamente da Napoli. Nell’incertezza s’ei sarebbe tornato, consegnava i denari della pigione e la chiave dell’uscio a Gennariello il ciabattino, suo nipote, che avrebbe ritirata la roba secondo le sue istruzioni.

Poi corse al Sacro Monte a perorare la causa del povero barone. Trovò il segretario e gli dimostrò colle lagrime agli occhi come il libertino fosse sull’orlo di un abisso. Non bisognava, col [p. 25 modifica]mostrarsi troppo duri e inesorabili, spingere un povero cristiano alla disperazione. Egli era venuto per incarico suo a cercare una mezza conciliazione. Uno scandalo non avrebbe fatto che nuocere alla buona riputazione dell’istituto.

Prete Cirillo disse tanto, che persuase il Consiglio ad accettare ottomila lire una volta per sempre e a cancellare il debito del barone di Santafusca. Pagò, ritirò la quietanza per quindicimila e se ne tornò lieto e trionfante.

Il primo affaruccio non era andato male.

Il giorno dopo andò in curia e fece cantare il prete cancelliere sulle intenzioni della mensa arcivescovile e sulla somma che sua eminenza era disposta a spendere per l’acquisto dei nuovi stabili.

E rimasero d’accordo così: don Cirillo entro la settimana avrebbe scritto proponendo un eccellente affare, che egli aveva già quasi nella manica. Trattandosi del bene della Chiesa e della religione, non sarebbe stato a lesinare sul quattrino. Non volle dire pel momento nè il luogo, nè il padrone del sito, e se ne andò per definire col marchese Vico Spiano la vertenza dell’ipoteca. Non trovò il marchese in casa e lasciò una lettera. La sera stessa riceveva una risposta dall’amministrazione di casa Spiano che prometteva possibili accordi.

In tutte queste faccende il tempo passò per prete Cirillo molto più presto che non per il barone di Santafusca; e il buon servo di Dio [p. 26 modifica]si trovò alla mattina del giovedì, 4 aprile, quasi senza accorgersene.

Di solito usciva di casa verso le nove per recarsi a dire la messa alla chiesa di Porto Salvo.

Quel dì uscì all’alba, quando la gente è più occupata di sè nei preparativi della giornata. Uscì dai quartieri popolari e col suo grosso volume di San Tomaso sotto il braccio, pieno di valori, andò verso la Marina dove sperava di non essere conosciuto. Non volendo mostrarsi al pubblico, non disse per quel dì la solita messa e andò invece a prendere una tazza di cioccolata in un caffeuccio remoto verso la Dogana.


*


Quando Gennariello ebbe aperto il suo bugigattolo, prete Cirillo gli consegnò la chiave e la lettera dicendo:

— Terrai la chiave fino al mio ritorno e porterai questa lettera a don Ciccio Scuotto, il «paglietta», che abita presso la chiesa di San Giovanni a Mare. Io devo accompagnare un gran morto, un senatore, fino al cimitero di Miano, dove lo portano a seppellire nella tomba di famiglia, e non voglio portare la chiave in tasca.

— Volete che vi pulisca le scarpe, zio Cirillo?

— Sì, per rispetto al morto. [p. 27 modifica]

— Vi darò anche qualche punto, se avete tempo.

— Ho tempo e le scarpe ridono troppo per un funerale....

Lo zio prete rise anche lui della sua idea e lasciò che Gennariello rattoppasse qualche buco.

— Io applicherò qualche intenzione in suffragio della tua povera mamma, Gennariello.

— Se voi mi deste due numeri buoni! Li date agli altri, e lasciate indietro il vostro sangue.

— Non sappiamo nemmeno noi quel che si fa e che si dice, Gennariello. È un’ispirazione che suggerisce.

— Oh se venisse l’ispirazione anche per me....

— Prova a giocare il 23 e il 40....

— Ditene un altro, uomo benedetto, e che sia benedetta la Santa Trinità.

— Mettici anche il 66. Ma non caricar troppo la posta, perchè i numeri hanno l’ombra del Capricorno.

Gennariello ringraziò col cuore pieno di fede e rese le scarpe del vecchio negromante belle e lucide come specchi.

Prete Cirillo raccolse i lembi del suo mantello, strinse col braccio il volume di San Tomaso e uscì. Il vento di mare gonfiava il mantello dietro la schiena come una vela. Non sapendo come ingannare il tempo, che non si lascia sempre ingannare come gli uomini, entrò a sentire una messa nella chiesa dell’Ospedaletto.

Poca gente stava raccolta intorno all’altare ad [p. 28 modifica]ascoltare una messa da morto che un frate magro e spaurito recitava con voce cavernosa, leggendo in un libro magro orlato di nero.

La luce che batteva sulle tende giallastre riempiva la nave della chiesa di un’aria morta, in cui scintillavano i candelieri, le lampade, le cornici dei quadri.

Una gran pace dormiva negli angoli fondi e ciechi delle cappelle, dove le immagini dei santi alzano le mani al cielo, dove sonnecchiano le statue polverose, dove si appiattano i vecchi sepolcri.

— «Et lux perpetua luceat ei....» — diceva il frate spaurito, che nel voltarsi indietro a benedire fissò l’occhio bianco e infossato sopra don Cirillo.

Accosciata ai piedi del balaustro di marmo, una donna, forse la vedova del defunto, singhiozzava rompendo il silenzio della cupola. A lei rispondeva con un singhiozzo rauco una lampada a cui mancava alimento, a destra, dove una scaletta menava all’ossario dei giustiziati.

Prete Cirillo sentì una pesante tristezza invadere l’anima e venir meno le forze dell’egoismo. Egli era forse troppo attaccato ai beni della terra e poco tempo aveva consacrato alla edificazione delle anime e alla morale perfezione. Un giorno Dio gli avrebbe dimandato conto del talento affidatogli e Dio non si paga con titoli di Stato o con cambiali a scadenza.

Dio vuol essere pagato coll’oro delle buone azioni. [p. 29 modifica]

Quando pensava egli un momento alla morte e alla vita eterna?

Prete Cirillo giurò con fervida fede che questo sarebbe stato l’ultimo giorno della sua vita usuraia. Una volta entrato in possesso della villa, e una volta conchiuso il contratto colla Curia, egli non avrebbe pensato che alla salute de’ suoi fratelli e allo studio delle eterne verità. Molte limosine egli avrebbe potuto fare colla rendita de’ suoi risparmi e avrebbe poi fatto un testamento a favore dei poveri e delle orfanelle. Nella quiete della campagna, sotto l’ombra degli olivi, in mezzo al lieto frastuono delle cicale, colla vista dei monti e del mare lontano, in una cameretta bianca, prete Cirillo sognava un tramonto d’oro, il tramonto luminoso del giusto.

— «Et libera nos a malo», — disse facendo un segno di croce molto grande e preciso.

Si mosse e, per confondere ancora di più le traccie dei curiosi, uscì da una porta segreta che dava in un vicoletto. Se ne andava tutto raccolto nella sua compunzione, quando sentì chiamare:

— Don Cirillo, don Cirillo, per carità.

— Chi è? che cosa volete?

— Son Filippino il cappellaio, non mi conoscete?

— Volete ricordarmi che ho un debituccio? Uh, il diffidente....

— Possa morire se ho pensato a questo. Sono un povero uomo disperato davvero. Ieri è stato [p. 30 modifica]in casa l’usciere e minacciò il sequestro della roba. Ho la moglie malata di risipola e quattro figliuoli che muoiono di fame.

— E che ci posso fare io?

— Una carità, don Cirillo. Almeno non morir di fame.

— Sono un poveretto, Filippino, e ora non posso.

— Sentite, io avrei un bel cappello nuovo che avevo messo in disparte per voi. L’avevo fatto per monsignor vicario, ma gli è tornato troppo stretto. Pigliatelo, don Cirillo, prima che l’usciere se lo porti via col resto e datemi da comperare le medicine alla mia Chiarina.

Prete Cirillo pensò che non dovendo più tornare a Napoli, un cappello nuovo non sarebbe stato inutile. In cuore gli parlava ancora un poco la voce di compunzione, e poichè la bottega di Filippino era sull’angolo della vicina piazzetta, vi andò e pose sul banco alcune lire.

— Datemi almeno dodici lire, don Cirillo. È un cappello nuovo coi nistrini di seta, bello, leggiero come una foglia.

— Non vi do di più, benedetto.

— Voi avete anche un debituccio.

Prete Cirillo pensò che veramente non era onesto lasciar indietro dei debiti e soggiunse:

— Vi do undici lire e pace. Per il debito vecchio li volete tre numeri buoni?

— Se voi li date proprio buoni.

— Mi pare di avere l’inspirazione. Passano [p. 31 modifica]oggi nel segno del Capricorno. Notateli che io li credo veri veri.

— Fosse il signore del cielo che v’ispira! — esclamò Filippino, prendendo in mano la penna.

— Scrivete il 4. (Questo era il giorno di sua felice partenza). Il 30 (cioè il prezzo della villa). E finalmente il 90, che vuol dire tutta la fortuna per voi e per la vostra Chiarina. Filippino, addio, vado a portare un morto a Miano. Addio.

E col suo bellissimo cappello nuovo «u prevete» coll’animo più leggiero, dopo qualche giravolta nei vicoli, arrivava alla stazione che sonava giusto mezzodì.

Venti minuti dopo egli rannicchiavasi in un vagone di terza classe, stringendo col braccio San Tomaso e tutta la sua scienza. Nessuno l’aveva veduto partire e tutti pensavano che egli andasse a Miano a portare un morto. Il morto l’aveva bene sotto la mantellina, ma era un morto che fa risuscitare i vivi.

— Addio, sta lì città dell’invidia, della camorra, dell’ignoranza, — esclamò in cuor suo quando il treno si mosse, e in fondo alla memoria si mosse anche un versetto latino, che egli aveva studiato da ragazzo e che dice: «Beatus ille qui procul negotiis....»

La giornata era bella, serena, fresca, una vera giornata allegra di aprile. Ma «u prevete» non era buon astrologo questa volta.