Il cappello del prete/Parte prima/V

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V. - Dopo il delitto. - Sensazioni

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V.


Dopo il delitto. - Sensazioni.


Una gran pace calda riposava sulle cose. Sui fiori svolazzavano farfalle e libellule dalle ali trasparenti. Un bel sole di lieto aprile scaldava la terra e accendeva il verde contrastante dei lauri, dei sicomori e degli ulivi. La natura era quieta, a posto, come se prete Cirillo non fosse mai morto. Il peso della terra non era diminuito per questo.

Il barone pensò che tutto ciò poteva essere un sogno: ma non era un sogno il grosso ch’ei sentiva sotto la mano: questi erano denari, la salvezza, l’onore, la libertà, la vita, il tutto in luogo del nulla.

Rimase due minuti coi piedi sprofondati nella terra molle, come se un gran peso lo tirasse in giù, poi sentì il bisogno di rompere l’incantesimo e di non lasciarsi prendere dai brividi.

— Sono sensazioni! — disse a voce chiara, rispondendo a una domanda interiore. [p. 55 modifica]

Voleva dire a sè stesso che le sensazioni passano e i fatti restano.

Tutto era riuscito benissimo. Nessuno aveva veduto il prete partire da Napoli, nessuno lo aveva veduto arrivare alla villa, nessuno sapeva perchè egli fosse partito, e dove riposasse. La villa ora si richiudeva per altri trent’anni, e se non parlano le lucertole, chi doveva andare senza il permesso del padrone a smuovere un mucchio di sassi e di sabbia per cercare un uomo che nessuno desiderava? Non rimaneva che Salvatore, ma il povero vecchio scemo era così poco curioso!

Un grande ed allegro scampanìo risvegliò di balzo il barone dalle sue contemplazioni. Era Martino che sonava a festa per la prossima domenica in albis. La festosa musica riempiva il cielo e le colline di una gioia, sto per dire fanciullesca, come se le campane giocassero a rincorrersi nell’aria.

Sua eccellenza il barone di Santafusca, richiamato al pensiero dei casi suoi, non resistendo all’enorme fatica di aspettare Salvatore fino alla sera, chiuse le stanze della villa, chiuse il cancello verso i platani, e, passando per il cancello delle scuderie, alzò gli occhi rapidamente allo scrimolo del muro che cingeva il cortiletto. Li alzò per istinto, non perchè egli si aspettasse di vedere la faccia giallognola del prete guardare di sopra le tegole.

Chiuse anche questo cancello. Così prete Cirillo non fuggiva più. Per non dare sospetto alla [p. 56 modifica]gente prese la via dei campi e tagliando il colle per un sentieruolo di traverso, ch’ei conosceva molto bene, andò a porsi sul passo di Salvatore che aveva presa comodamente la lunga.

Sedette sopra un muricciolo e accese un avana, come un buon villeggiante, che riposa lo spirito dopo un gran lavoro. Dal luogo ove si fermò, l’occhio stendevasi su tutta la città e sul magnifico golfo, lembo di paradiso in terra, chiuso fra due conche azzurre, quella del cielo e quella del mare.

In fondo il Vesuvio mandava fuori un ciuffo di fumo, e l’anfiteatro della città e dei paesi distesi al suo piede biancheggiava alla luce tersa dell’aria piena di caldi effluvi.

A sinistra, dietro una folta macchia di lauri, usciva la cornice grigia della villa rattristita dall’ombra d’una nuvoletta passeggera.

— Sono sensazioni! — disse ancora la voce di prima, come se in lui parlasse lo spirito di un freddo anatomista; lo sguardo corrucciato si sprofondava verso l’orizzonte.

Accese ancora il suo buon avana e provò a soffiare il fumo verso il cielo colla beata noncuranza di chi esce dalla sala da pranzo in un giardino a digerire.

La natura era bella, soave, lucida, tranquilla, come se nulla fosse accaduto.

Martino sonava a festa, allegramente, pazzamente, e al suono della sua musica danzavano gli echi lontani. [p. 57 modifica]

— E le sensazioni passano, ma i fatti restano! — Tornava a ripetere la voce rinchiusa, mentre il braccio scendeva un poco a stringere l’altro morto che faceva gonfia la tasca dell’abito. Quanti denari aveva con sè quel prete? Egli non aveva avuto il tempo di fare il conto, ma così a occhio e croce aveva veduto un mucchio, un tesoro, che ora si sentiva addosso, e che non osava di guardare per paura che si rompesse il sogno, e svegliandosi, egli avesse a trovarsi al giorno del pagamento e col carabiniere alla porta.

Salvatore, che camminava trascinando i piedi sulla riva sassosa, spuntò dallo svolto della stradicciuola e giunse quasi sopra al suo padrone prima di accorgersi di lui. Sarebbe anche passato oltre così, se il barone non lo avesse toccato nel gomito.

Il vecchio si svegliò dalla sua pensosa sonnolenza e aprì la bocca a un oh! senza meraviglia.

— Devo partire subito e t’ho portato la chiave del cancello. Ho chiuso dapertutto. Se venisse qualcuno per visitare la villa colla scusa che c’è chi la vuol comprare, di’ apertamente che la villa non si vende, anzi di’ addirittura che è già venduta, e che hai l’ordine di non aprire a nessuno. Hai capito?

Il barone parlava tanto chiaro e Salvatore stava tanto attento, che era difficile non capire. Il servo mise una mano sul petto e disse: [p. 58 modifica]

— Non entrerà nessuno, eccellenza, padron mio.

In quel suo contegno umile e sommesso si poteva vedere l’antico vassallo pronto a dare la vita per il feudatario. Il barone sentì che da questa parte poteva dormire tranquillamente e soggiunse:

— Restituiscimi la lettera: manderò io stesso la risposta per mezzo della posta e torna pure a casa, Salvatore, che sei vecchio ed hai bisogno di riposare.

— Oh, eccellenza!...

— Ti manderò qualche danaro, perchè tu possa campare una vita meno da cane.

— Oh, illustrissimo!...

Il barone nel pronunciare queste poche parole di pietà sentì un sentimento tenero e caldo avvolgere tutto il suo cuore. Salvatore e Maddalena l’avevano portato in braccio e possedevano nel loro cuore la parte migliore del padroncino, che non era morta in loro, ma che il padroncino aveva finito di uccidere in sè.

Stette a osservare il povero vecchio, che ritornava docilmente sopra i suoi passi verso la villa a far compagnia all’altro, e un velo di nebbia oscurò per un istante la sua pupilla. La nebbia si sciolse, «u barone» si sentì gli occhi pregni di pianto.

Martino riprese l’allegro scampanare.

— Sono sensazioni! — disse ancora una volta la voce del segreto anatomista, che il barone riconobbe uguale a quella del dottor Panterre, il [p. 59 modifica]famoso nichilista. Vedendo che il sole volgeva al suo tramonto, si alzò, scosse la testa come il leone fa colla giubba, quando si toglie dal covile, e guardò l’orologio. Erano le quattro.

Il prete era arrivato al tocco.

Quante cose erano già accadute in queste poche ore!

Il barone sentiva di aver vissuto dieci anni almeno della sua vita.

Alle quattro e trentacinque ripassava il treno per Napoli. Prese un altro viottolo di traverso, ed evitando di passare per Santafusca, si portò sulla strada provinciale. Volse prima un poco verso il mare, girò dietro un cascinale per risalire ancora sulla provinciale, sempre di buon passo, come un uomo molto occupato, che va per la sua strada, finchè il fischio della locomotiva avvertì che il treno stava per entrare in stazione.

Aspettò ancora un poco per consumare tutto il tempo di più e, presa la rincorsa, arrivò in stazione nel momento giusto di prendere il treno per la coda. Mostrò il suo biglietto di ritorno al conduttore e si cacciò nell’ultimo scompartimento che trovò ancora aperto.

Nel vagone non c’erano che due giovani sposi svizzeri o tedeschi, che probabilmente scendevano a passare la luna di miele in braccio alla sirena del mare. Si tenevano vicini e abbracciati, in mezzo a una montagna di valigette, di canestrini, di scialli, di ombrelli, colla spalla [p. 60 modifica]appoggiata alla spalla, le mani in mano, gli occhi perduti nell’infinito splendore del mare, abbagliati da quella luce che si rinforzava nel crepuscolo, mormorando paroline in cui si sentiva tutta la dolcezza del germanico «Liebe».

Essa era bionda, colle guancie soffuse di rosa, gli occhi azzurri, pieni d’innocenza e di verginità. L’anima di quella romantica creatura non aveva una macchia, e Dio vi si specchiava come in un cristallo.

«U barone» buttando un mozzicone dallo sportello, volse le spalle alla coppia felice e sputò sulla terra. Si attaccò colle due mani alla finestrella del vagone, vi appoggiò la faccia, sorreggendosi come un uomo stracco stracco, mentre gli occhi vuoti e gonfi guardavano di fuori senza vedere altro che un grande bagliore di colori fuggenti.

Finchè il treno in ritardo sforzò la sua corsa, il rombo, le scosse, il fischio, la fuga delle cose, l’affanno stesso della corsa fatta per arrivare a tempo, il battimento dei polsi, il palpito precipitoso del cuore già affetto d’ipertrofia, non gli lasciarono il tempo di riflettere. Anzi per un quarto d’ora si obliò perfettamente, quasi assorbito dalle sue stesse emozioni fisiche. Man mano che il treno rallentava, egli cominciò a ricuperarsi, e trovò tutto sè stesso, entrando in stazione. E si meravigliò di sentirsi così sicuro e quieto. Scese e s’incamminò verso la città col passo di un uomo «convinto». Man mano che [p. 61 modifica]rivedeva le case, le botteghe, la gente, i soliti amici, andava ricuperando anche il senso della sua vita solita.


*


Prima di andare a casa, abbottonato bene l’abito fino al collo, volle fermarsi da Compariello, il liquorista frequentato dagli eleganti buontemponi in via Toledo, a bere un vermutte col seltz in ghiaccio.

Rimase un pezzo ad ascoltare le allegre cicalate del marchesino d’Usilli, direttore del veloce-club, grande maestro di barzellette.

L’Usilli, sapendo che il club della Fenice aveva pubblicato il nome del barone, lo trasse in disparte e gli disse sottovoce:

— Mi rincresce, Santa, che siano venuti a questo eccesso. Io ti ho difeso, ma hai avuto ventitrè palle nere contro dodici bianche. Vuoi un po’ di denaro per ritentare la sorte? fino a ventimila potrei trovartele e con poco interesse.

— Ecco gli animali! tutti mi offrono denaro, quando non ne ho più bisogno, — gridò Santafusca.

— Tu non avrai scoperta una miniera: so che ti trovi in seri imbarazzi, Santa. Abbi confidenza con un amico. È vero quel che si dice di te?

— Che cosa? — domandò «u barone» con voce alterata. [p. 62 modifica]

— Che non puoi restituire quindicimila lire al Sacro Monte delle Orfanelle?

— Spero di ottenere una dilazione.... — mormorò il barone, chinando gli occhi. — Ma parliamo di Marinella. Che fa questa scellerata? dopo che la fortuna mi ha voltate le spalle, dice ch’io sono un brutto peloso. E Lellina è ancora fedele a di Spiano? O di Spiano paga e tu....

— Che cosa dici, Santa? Non farei un peccato di desiderio per Lellina.... Bevi un assenzio?

— Marinella mi vuol bene! — esclamò il barone, mentre ingoiava d’un fiato un bicchiere di assenzio verde come lo smeraldo, che riscaldò la sua voce. — Marinella non odia che la mia sfortuna. Ma voglio fare un patto col diavolo come il vecchio Faust. L’anima mia gliela cedo tutta per un buon asso di picche, su cui abbia puntato centomila per tre volte. Ti pare che faccia pagare troppo cara l’anima di un peccatore di spirito? Vuoi provare intanto chi di noi due deve pagare l’assenzio? Aspetta, lasciami invocare il mio diavolo protettore.

I due signori si accostarono alla piccola roletta posta sul banco.

Il marchesino d’Usilli mosse la roletta e fece tre.

«U barone» fece diecimila.

— Vedi se non ho il diavolo con me?

— È un caso, si sa. Ecco, vedrai ora che il mio angelo custode mi dà.... [p. 63 modifica]

Una grande risata tenne dietro a queste parole.

Usilli fece uno.

Santafusca toccò col mignolo e fece centomila!

— Ciò avviene sempre quando si giuoca per baia. Ma se tu avessi cento lire in tasca, Santafusca, vedresti che il tuo diavolo te le ruba tosto.

— Chi mi dà cento lire sulle corna del mio diavolo? — chiese «u barone», guardandosi intorno.

— Io te le do, Santa, giuoca, — disse il marchese di Spiano, che, entrato in quella, aveva assistito al giuoco.

— Bravo, Vico. Giuochiamo queste cento lire.

Usilli fece tre.

«U barone» fece cinquecentomila.

Nuove risa e nuovi clamori.

— Non voglio il tuo denaro adesso, — disse il fortunato vincitore. — Ma promettimi di giocare almeno una volta per cento lire stasera, in una partita di picchetto o a scopa.

Usilli si tenne obbligato per la sera. Santafusca bevve ancora una volta, e animato dalle ciarle, dal liquore, dalla fortuna, ritrovava al di sotto delle macerie le grazie del suo vecchio spirito di gentiluomo. E si stordì tanto bene che, uscendo e scendendo per Toledo in mezzo al via-vai delle carrozzelle e della gente, riuscì quasi a dimenticare il suo prete.

Non fu che rientrando in casa che riprovò un [p. 64 modifica]senso di pena. Era quasi notte quando la Maddalena venne ad aprire.

— O eccellenza, ben tornato. Quale fortuna?

— Porta il lume nella mia stanza, — brontolò il padrone.

E mentre la Maddalena correva ad accendere il lume, egli rimase un istante ad ascoltare le sue sensazioni, che si dibattevano coi fantasmi dell’alcool.

— Bestia! — esclamò a fior di labbro, forse contro l’Usilli; ma non era certo.

— Il lume è acceso.

Maddalena dalla faccia del padrone arguì che anche questa volta egli aveva perduto, e andò a rannicchiarsi nella sua seggiola di legno, dove per ore ed ore sedeva a ingannare il tempo e la fame, guardando le case e sonnecchiando a intervalli.

«U barone» chiuse colle spalle le portine della sua stanza e girò anche la chiavetta.

Era solo, al sicuro, e poteva finalmente mettere le mani sul tesoro. Ma ebbe bisogno di raccogliere ancora un poco di forza. Gli pareva di tornare da un lunghissimo viaggio, al di là dei mari, dopo tre o quattro anni di assenza, e non erano trascorse che ventiquattro o trenta ore dalla sua partenza. Lasciò che passassero anche queste sensazioni, e, acceso un sigaro, si abbandonò nelle braccia di una poltrona, dopo aver posto sulla scrivanìa il fascio delle sue carte.

Era tempo — pensava — ch’egli si facesse una ragione. [p. 65 modifica]

Se avesse creduto di ritrovare, tornando in casa, il fantasma del morto seduto su una sedia, non avrebbe accettato quella brutta speculazione. Ma era soltanto un uomo che il caso aveva trascinato ad una violenza. Gli rincresceva per il povero diavolo che ci aveva lasciata la vita: ma d’altra parte, pelle contro pelle, anche la Sua valeva qualche cosa.

Era naturale ch’egli provasse nei primi giorni qualche spavento. Non si ammazza un uomo senza che il sangue non dia un tuffo. La natura, vuol la sua parte, ma non più che una parte, cioè una certa nausea che il barone era pronto a sopportare, finchè fosse passata a poco a poco da sè.

Prete Cirillo era una carcassa già sacra alla morte. Il tempo avrebbe distrutto a poco a poco ciò che la forza di un uomo distrusse subito. Era dunque questione di mesi e di giorni, che scompariscono in un numero grande di anni e sono un nulla nel tempo senza fine.

— Se al di là vi fosse veramente un Dio, — pensava a suo dispetto il barone, — il quale dal suo trono di cartone d’oro giudicasse di queste faccende, capisco ch’io starei fresco il giorno del giudizio; e non avrei gusto di veder risorgere il mio prete dalla sua cisterna. Ma poichè io sono convinto che al di là non c’è nulla e che il cielo non è che una soffitta dove collochiamo le idee che non usiamo più, di chi, di che avrò [p. 66 modifica]paura? delle ombre? dei sogni? del diavolo? delle baie dei preti? Dunque, da questa parte possiamo vivere in pace. Prete Cirillo non ha fatto che pagare un poco prima del tempo il suo debito alla natura, e se lo meritava un poco, perchè egli era avaro, una sanguisuga dei poveri e in fondo non cercava che di strozzar me, pigliandomi per la gola nelle strette del bisogno.

«U barone» aveva bisogno di ripetere queste cose per inchiodarsele indosso.

— Tra me e lui si è combattuta la grande lotta per la vita. La vittoria, come sempre, fu del più forte, vedi Carlo Darwin.

«U barone» voltava la testa e pensava ancora:

— Il pericolo, la paura, lo spavento terribile, il castigo eterno è che la faccenda caschi nelle mani della Polizia. La società ha troppo interesse nel rispetto del diritto, perchè non perseguiti con accanimento coloro che lo violano. Nel rispetto dei diritti e delle leggi ogni debole trova la sua difesa e la sua protezione, e l’egoismo di ciascuno viene a creare questo grande egoismo sociale che si chiama la legge.

Ed egli cercava di inchiodarsi addosso anche questo:

— È un morto pericoloso. Ma tu, — pensava soffiando il fumo verso il soffitto, — tu hai provveduto con tutti i riguardi, e il signor commissario, i signori giornalisti, i signori gendarmi e il signor pubblico non saranno disturbati da te. [p. 67 modifica]La società è come le donne tradite, «occhio non vede, cuore non duole».

E mentre la sua mente girava in questo circolo, sentiva a poco a poco il sangue scorrere più regolarmente, il cuore battere con maggior pace e le idee diventare sempre più lucide e precise.

Quante altre paure e superstizioni non meno vane e inutili avevano turbata la sua infanzia, quando la Maddalena gli contava le storie dei maghi, dei folletti e dei morti che ballano nel cimitero!

Noi siamo sempre un po’ bambini sulle ginocchia della superstizione.

— Animo! Vediamo il nostro conto.

Scosse la testa, scosse la persona, si fregò la fronte ed incominciò a sciogliere il pacco dei denari.

Il prete aveva portato, oltre al denaro per il contratto (circa quarantamila lire), molti titoli di rendita, e una lunga lista di numeri e d’indicazioni d’altre cartelle al portatore rappresentate da una polizza. — «U barone» non aveva che a presentarsi allo sportello del Banco, gettare la polizza e ritirare i titoli.

Trovò insieme ai valori anche la ricevuta lasciata dal presidente del Sacro Monte a don Cirillo per saldo delle quindicimila lire che Santafusca doveva all’istituto.

Il prete gli aveva anche risparmiato l’incomodo di recarsi egli stesso dagli amministratori e, [p. 68 modifica]più che l’incomodo, il fastidio di dover giustificare l’origine del denaro.

Trovò anche una lettera di Vico Spiano che diceva:


«Il mio amministratore mi ha parlato ieri della S. V., la quale sarebbe pronta a rilevare una ipoteca di lire diecimila che vanto sulla villa di Santafusca. Per conto mio non ho difficoltà a concederlo, ma ne parli col signor barone e col ragioniere Omboni....»


Il barone pensò che questa circostanza poteva dar luogo a qualche indagine. Il marchese di Spiano era un uomo troppo distratto per occuparsi di affari, ma non doveva essere contrario a pigliare dei denari pronti e sicuri contro una ipoteca che non rendeva nulla. Se il prete gli aveva parlato dell’ipoteca e del suo desiderio di comperare la villa, nulla di più naturale e di più semplice che il marchese cercasse un giorno o l’altro di questo don Cirillo. Non trovandolo in Napoli (sulla lettera c’era l’indirizzo del prete) avrebbe potuto pensare che Santafusca ne sapesse egli qualche cosa, e quindi gliene parlasse alla prima occasione. Era un forellino che bisognava otturare per rendere l’edificio della sua difesa più solido e più sicuro. Come doveva fare?

Due colpi secchi, che risonarono nell’uscio, lo fecero tutto a un tratto trasalire.

— Chi è? — gridò con voce strozzata, stendendo le mani istintivamente sulle carte. [p. 69 modifica]

— Volevo dire, eccellenza, che mezz’ora fa è stato a cercare di vossignoria un prete.

Così la voce flebile e tremante di Maddalena dietro l’uscio.

— Che prete? io non conosco preti.... — gridò esagerando la voce «u barone».

— Ha detto che tornerà.

Successe a queste parole un gran silenzio. Maddalena si allontanò, strascinando le pianelle. Il barone era rimasto irrigidito colle dieci dita aperte e curve sul denaro.

Chiuse le cartelle e i denari in un cassetto della scrivania, tranne qualche centinaio di lire che prese con sè per tentare la fortuna. Si vestì con pazienza, come soleva fare nelle grandi occasioni, avendo la cura di chiudere gli abiti da viaggio in un cassettone, dal quale levò la chiave. Chiuse l’uscio della camera, e mettendosi la chiave in tasca, disse a Maddalena:

— Stanotte non torno a casa.

— Non sprechi la sua salute, eccellenza, — disse la buona vecchietta colla sua voce piagnucolosa.

— Lascia fare a me. Domani ti porterò del denaro.

E soffermatosi sulla soglia, dopo un istante di silenzio, soggiunse:

— Non ti ha detto che cosa voleva quel prete?

— Nulla mi ha detto.

Il barone uscì. [p. 70 modifica]


*


Erano le sette quando egli si accorse ancora di aver fame. Non aveva toccato cibo tutto il giorno, e ora si sentiva quasi le vertigini, le gambe e le braccia stracche.... le braccia specialmente.

Pensò di pranzare al caffè dell’Europa.

Dieci minuti dopo un cameriere, lindo e lucido come un lord, attendeva i suoi comandi in una bella sala piena di specchi e rilucente di oro. Molti stranieri e qualche diplomatico finivano di pranzare a una tavola comune. In un vicino salotto i due sposini tedeschi susurravano parole dolci a una melarancia che stavano sbucciando, toccandosi fronte a fronte. L’assassino entrò con passo risoluto, coll’occhio altiero dell’uomo abituato a vincere, e andò a sedersi a un tavolino, accolto con rispettosa premura dal cameriere, azzimato anche lui come uno sposino.

Il barone era conosciuto anche all’Europa come un uomo sempre più splendido coi camerieri, quanto più era grosso il debito ch’egli aveva col padrone. Scorse la lista dei piatti, segnò tre o quattro cose colla punta del coltello e disse solamente:

— Vino! [p. 71 modifica]

L’aria calda, pregna di succhi odoranti, la bellezza del luogo, il bagliore dei cristalli e i primi fumi di un eccellente Médoc, finirono col trasportare «u barone» lontano dal suo prete. I pensieri cominciavano a uscire dalla loro fissazione e la «faccenda» si annebbiava nella memoria, come un sogno confuso all’entrare del mattino chiaro nella stanza.

Alle dieci, dopo aver data un’occhiata al San Carlo, dove si rappresentava una discreta «Aida», si ricordò che l’Usilli l’attendeva al club.

Fu ricevuto freddamente e quasi sdegnosamente dai pochi che sedevano ai tavolini; ma l’Usilli, che l’aveva preso sotto la sua protezione, disse a voce alta:

— Amici, Santafusca è uomo onesto ed è venuto per vincere cento lire a me e per tentare ancora una volta la fortuna. Dice che ha il diavolo dalla sua....

— Un diavolino.... l’ultimo, — disse il barone ridendo con isforzo, e suscitando l’ilarità di chi vinceva.

Alle undici egli vinceva già diecimila lire.

L’Usilli stuzzicato, caldo di smania, puntava come un matto e perdeva sempre.

Davvero, c’era da credere alla leggenda del vecchio Faust.

A un’ora dopo mezzanotte «u barone» giocava ancora.... e vinceva.