Il cappello del prete/Parte seconda/VIII

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VIII. - Il castigo

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VIII.


Il castigo.


Fu solamente verso la mattina che il barone potè chiudere un poco gli occhi; ma si svegliò prima delle sette. Per un istante non gli tornò alla mente la grande preoccupazione della notte, fin quando un dolore fisso al cuore lo ricondusse a riflettere sul suo male e si ricordò.

Alla luce del giorno la sua posizione gli parve ancora buona e senza pericoli. Non ci voleva che una fantasia vulcanica per vedere nella dolcissima citazione del cavaliere Martellini qualche cosa di più di un invito ad assaggiare delle ostriche alla «mayonnaise».

— Bell’originale costui!... — disse ridendo, quando ebbe riletta ancora una volta la lettera del cavaliere. — Se in vece mia potessi mandargli la principessa, sono sicuro che gli farei perdere la testa. Intanto stiamo attenti a non perderla noi....

Egli sentiva che tutta la sua vita era là, nella [p. 247 modifica]testa. Di là era venuta l’idea di ammazzare il prete, di là il principio che un uomo vale una lucertola, e che vivi e morti fermentano tutti dell’istesso lievito.

Di là finalmente erano venuti i consigli prudenti, i suggerimenti, le induzioni, le insidie e i piani di guerra.

Di là dunque doveva venire anche la difesa.

Già se la sentiva piena e armata come una fortezza questa povera testa, e quando vi portò la mano, gli parve di toccare un forno ardente.

Povera testa! Da un mese e mezzo, cioè dal giorno che il canonico del Sacro Monte delle Orfanelle gli aveva mandato a chiedere le quindicimila lire, non aveva avuto più un’ora di tregua e di riposo. Fin gli stessi sonni profondi, in cui cadeva di tanto in tanto, non erano che la conseguenza di una snervante fatica cerebrale.

Pazienza! era l’ultimo giorno. Fra cinque ore egli avrebbe potuto partire senza dar sospetto a nessuno....

Partire! che gioia quando fosse stato quattrocento leghe al di là del mare! Sarebbe andato in Ispagna. Perchè no? la Spagna è la patria dei «toreros» e delle andaluse.

Era un poco anche la patria della olimpica principessa di Palàndes.

E mentre pensava queste cose per dar riposo e svago alla testa, finì di vestirsi. Di rado la gente aveva veduto il barone di Santafusca più elegante: panciotto bianco, tuba lucida, guanti [p. 248 modifica]chiari e freschissimi, un colletto alto, un bastoncino di ebano con pomo di platino, e un profumo d’ireos su tutta la persona.

Per ingannare il tempo scrisse un biglietto dolce e profumato alla principessa per dirle che alle sei sarebbe andato a pranzo da lei.

«Devo farvi un lungo discorso, — le scriveva, — dal quale può dipendere tutta la sorte della mia vita futura».

Che discorso? non sapeva bene egli stesso: ma scriveva così per vivere in qualche maniera al di là di un’ora fastidiosa.

Credette di aver fatto molto tardi, e si accorse, quando fu in istrada, ch’erano appena le otto e mezzo. Aveva ancora un’ora e mezzo da aspettare.

Che doveva fare intanto? Entrò un momento da Compariello, dove non c’era che il padrone, e si fermò con lui a discorrere di corse e di cose vaghe, e a rotolare sigarette colle dita.

— Credevo che ella fosse in villa, barone, — disse Compariello.

— Perchè?

— Perchè l’«Omnibus» parla di una visita che il cronista ha fatto a vostra eccellenza nella sua magnifica villa di Santafusca.

— Dov’è questo «Omnibus»? Sarà stato quell’animale di Cecere. Ecco, proprio lui! — soggiunse scorrendo coll’occhio il giornale. — E così si scrive la storia, rubando un pranzo a un uomo di buona fede! [p. 249 modifica]

— E per vendere un numero di più. Si diceva che da questo cappello dovesse uscire un gran processo, ma pare che vada a finire in nulla.

— Son chiamato anch’io stamattina. Non so che cosa dirò, perchè coi preti non ho mai avuta troppo confidenza. Ma il cavaliere Martellini vuol farmi assaggiare certe ostriche....

— Io ho un Lipari, eccellenza, in cui le ostriche nuotano come se fossero vive.

Per quanto i discorsi succedessero ai discorsi, la lancetta dell’orologio non segnava che le nove.

Dio buono! ancora un’ora. I giornali gli facevano nausea. Stette un minuto a guardare di fuori, col viso appoggiato ai vetri della bottega, la gente che andava e tornava lesta per gli affari suoi, indifferente, inconsapevole.

Uscì e andò a caso, finchè il caso lo portò davanti alla chiesa dell’Ospedaletto dove prete Cirillo aveva sentita l’ultima sua messa.

Qui la sua attenzione fu attirata da una comitiva di povera gente, in parte pescatori e in parte operai, che portavano un bambino a battezzare: e siccome il barone non cercava che qualche occasione per ingannar il tempo e per lasciar riposare la testa in una esterna distrazione, così si lasciò tirar in chiesa dalla brigatella che era andata ingrossando di tutti i ragazzini che formicolano nei chiassuoli.

Quanta gioia splendeva negli occhi di quella gente sporca! [p. 250 modifica]

Una giovinetta, forse la sorella o la zietta del bambino, se lo teneva sulle braccia e se lo stringeva al petto con un amore di madre, mentre il babbo del neonato — che pareva un merciaiuolo, — andava girando e rigirando intorno a una colonna, facendo girar nelle mani il suo cappello. Era il suo primo maschio, e il babbo non sapeva come manifestare altrimenti la sua vergognosa contentezza.

Santafusca per la seconda volta invidiò un per uno tutta quella canaglia di miserabili, che avevano trovata la maniera di esser felici, e non avevano la radice di una idea in capo.

All’altar grande diceva messa un frate, con una pianeta rossa fiammante. Un vecchio prete curvo e prostrato nei banchi tossiva forte col capo dentro le mani.

Da un pezzo «u barone» non vedeva una chiesa, e sentì, nel girare gli occhi intorno e in alto, che quelle sacre pareti avrebbero potuto una volta circondarlo e difenderlo dal terribile mostro sociale che rumoreggiava nelle vie. V’erano anditi bui e segreti, ov’egli avrebbe fatto voto di rannicchiarsi tutta la vita, purchè la sua testa (quella povera testa) avesse potuto cessare una volta di pensare, di riflettere, di argomentare.

Forse molte antiche sensazioni religiose della prima età, coperte ma non soffocate dalle rovine della sua vita libertina, si agitavano al di sotto, e alcune immagini, sprigionandosi dalle più intime pieghe del sentimento, traversavano l’anima [p. 251 modifica]sua come un volo di colombe bianche sul campo brullo d’un deserto.

Nella sua vita, come dicemmo, egli aveva anche pensato una volta di farsi frate. A sedici anni, vergine ancora di anima e di corpo, e pieno del dolore d’aver perduta la mamma sua, s’era lasciato condurre da un pio monaco a Montecassino, dove stette tre giorni e tre notti a contemplare il cielo e la valle dalla finestruola di una cella.

Che pace, che riposo immenso in quella luminosa solitudine!... Se prima di sera egli avesse potuto giungere fin lassù, e, chiesta l’ospitalità in nome di Dio, avesse potuto nascondere il resto de’ suoi giorni in una cella sotterranea, da dove avesse potuto vedere un lembo del cielo.... pur di non pensare più!

In una nicchia sotto l’altare dell’Addolorata, posti a giacere sopra un mucchio confuso di stinchi e di rottami umani, guardavano al di fuori attraverso una piccola grata di ferro alcuni teschi, colle occhiaie nere e profonde, in una attitudine di eccitata curiosità.

Uno di quei teschi aveva un berretto da prete polveroso e rosicchiato esso pure dal tempo, da quel gran Tempo filosofo paziente, che, come l’infinito spazio, aggiusta molte cose. Nulla di strano, — pensò il barone, — che il caso portasse un giorno il teschio rotto di prete Cirillo a discorrere col suo duro teschio di peccatore in fondo a una nicchia dell’ossario di Santafusca. [p. 252 modifica]L’ossario è una cappelletta barocca che si trova sull’angolo di due viottole campestri, colle finestre rivolte a ponente, cioè verso il mare. Molte teste di vecchi contadini morti durante il contagio del 1630 guardano da duecentocinquant’anni la marina azzurra e il Vesuvio che fuma. La pioggia lava di tempo in tempo quelle fronti senza rughe, che si squagliano lentamente nei loro elementi, tra cui domina il fosfato di calce.

«U barone» pensava a questo tempo della sua lenta consunzione chimica coll’istessa dolcezza con cui poco fa, scrivendo alla principessa, sognava un colloquio al di là d’ogni paura, un colloquio d’amore, e chi sa? forse una notte d’amore.

Un gran bisbiglio e un fitto scalpiccio scosse il meschino da una contemplazione e da una meditazione che lo teneva immobile e quasi incatenato ne’ suoi giri. La gente si affollava verso la porta, facendo cerchio a quel marmocchietto, che aveva avuta la malinconia di venire al mondo, forse per desiderare anche lui un giorno di essere morto da duecent’anni e di stare a guardare l’aria e il nulla dalla grata di un ossario.

Sentì suonare delle ore.

Erano le dieci.

Guardò l’orologio.

Aveva ancora cinque minuti di tempo.

Doveva proprio andare dal giudice o correre invece alla stazione, saltare nel primo treno in partenza, prendere il largo? Se non era la cella, [p. 253 modifica]poteva salvarlo il bosco. Frate o brigante, per conto suo era tutt’uno, purchè non gli mettessero le mani addosso....

Così pensava, ancora tra sè, bilanciando il pro e il contro, la vita e la morte, il tutto e il nulla, mentre era già in vista del palazzo di giustizia. Vi erano quasi due forze operanti in lui, una razionale che lavorava nel vuoto, senza addentellati, un’altra istintiva e sofferente che lo sospingeva. Così proviamo tutti quando andiamo a farci strappare un dente che ci fa soffrire le pene dell’inferno: la volontà ha paura, ma il dolore ci tirerebbe il capo sotto la mannaia.

Sul punto di porre il piede sulla soglia di quel tribunale, dove da una settimana si erano occupati de’ fatti suoi, «u barone» sentì sprofondarsi in un gran buio. Fu una breve vertigine, contro la quale reagì, puntando il bastone a una delle colonne presso il portone e appoggiandovisi un momento col petto. Se egli avesse avuto occhio per vedere le cose del mondo, avrebbe notato nella corte e sotto i portici un gruppo di persone che al suo comparire si mossero e si agitarono, susurrando il suo nome mentre egli passava davanti.

Erano costoro le persone che avevano avuta una grande o una piccola parte nel processo detto del cappello, e che tornavano ancora, forse per l’ultima volta, a mettersi a disposizione del signor giudice istruttore.

C’era Filippino il cappellaio, vestito come un [p. 254 modifica]principe, nella sua giacca di panno a grandi scacchi. C’era donna Chiarina sua moglie in una mantiglia di seta con una frangia di pizzo e un ventaglio a colori vivi. Dai capelli usciva un alto pettine di tartaruga che il marito aveva pagato duecentocinquanta lire.

C’era anche don Ciccio Scuoto, l’anima dannata del processo, co’ suoi calzoni chiari tirati su, corti e ballanti sull’imboccatura delle scarpe, e col solito cappello bianco ispido e corrucciato.

C’era don Nunziante dal naso grosso e spugnoso, citato da don Ciccio per un apprezzamento legale; e Gennariello, il nipote del prete, povero in canna, coi capelli lunghi, pallido di fame per le lunghe sedute al tribunale che gl’impedivano d’andare attorno a ventolare l’appetito colle belle canzonette; e con costoro c’era finalmente anche quel Giorgio, l’oste della Falda, da un giorno uscito di prigione, e che Filippino aveva ospitato in casa sua per un sentimento non dirò di gratitudine (non è merito il non ammazzare) ma di riguardo verso il prete benefattore. Giorgio non riconobbe nell’elegante cavaliere colla barba tagliata alla «derby» il famoso cacciatore dalla lunga barba nera ch’era stato lassù, alla Falda, un giorno in cerca del cappello.

Il più mortificato di tutti costoro era don Ciccio, il focoso «paglietta», che vedeva il suo gran processo squagliarsi come un tortello di neve che altri butti dentro a una caldaia d’olio bollente. L’asinità dei giudici questa volta, a [p. 255 modifica]parer suo, era stata piramidale, ed egli stava appunto ripetendo e declamando per la decima volta il suo opuscolo sulle «Magagne ecc.», quando la vista del barone nel modo improvviso e balzano con cui comparve nel vano del portone, fece, io non so perchè, trasalire il suo sangue.

Don Ciccio Scuoto, per quanto abile e zelante avvocato, non era nè un uomo superiore ai tempi suoi, nè un uomo migliore de’ suoi simili. Alla fascinazione, al mal occhio, alle impressioni credeva sì e no, secondo i casi, come si crede tutti un poco ai sogni e magari anche alla cabala del lotto. Egli non conosceva il barone di Santafusca che per averlo veduto un paio di volte di passaggio: ma non per nulla un uomo si fa l’occhio medico e filosofico. Voglio dire che dal modo con cui il barone arrivò davanti alla porta, dal modo con cui puntò il bastone alla colonna, con cui prese d’assalto lo scalone, dall’eleganza esagerata del suo vestito, dal passo legato, sconvolto, da un non so che insomma d’indecifrabile, e forse anche di irragionevole che urtò i suoi nervi, il famoso «paglietta» fu tratto a seguire quell’uomo, come si segue un lumicino che spunti improvvisamente nel fitto d’una boscaglia, dove ci si raggiri da cinque o sei ore senza bussola e con disperazione.

Non è il caso di credere troppo a segreti istinti e nemmeno a misteriose leggi fisiologiche; basta per noi ammettere in queste circostanze un fino istinto delle cose e delle condizioni loro per [p. 256 modifica]spiegare come don Ciccio potesse seguire il barone di Santafusca fin quasi all’uscio del giudice istruttore.

«U barone» col fare insolente d’un bravaccio fe’ trasalire un vecchio portiere che pisolava in anticamera.

— Che cosa comanda? — chiese costui, alzandosi con dolore delle sue giunture.

— Annunciate al cavaliere Martellini che il barone di Santafusca è a sua disposizione.

E, alzando il bastone, indicò egli stesso al portiere la strada che doveva tenere.

Rimase mezzo minuto a passeggiare con passo soldatesco, e anche questo esercizio aiutò a rinfrancare i suoi nervi. In quel momento egli non pensava nulla. Come lo scolaro che sul punto di andare all’esame sente di aver dimenticato ogni cosa e gli pare di avere la testa piena di stoppa, così il barone non arrivava più a ricordare le espressioni principali delle sue idee; ma non se ne spaventò. Bastava che egli rispondesse a quella razza balorda di avvocati una frase sola: «Non so nulla». È vero che suo avo Nicolò avrebbe risposto in un modo più spiccio, ma.... pazienza! Il cavaliere Martellini fortunatamente ne sapeva meno di lui.

— Vorrei aver tre giorni di regno! — brontolò. — Scribi e farisei!

— Vostra eccellenza è puntuale come un re, — esclamò il grazioso cavaliere, cacciando fuori la testa calva e lucente dallo spiraglio dell’uscio. [p. 257 modifica]

Era costui un uomo tondo, un poco tozzo di spalle, ma ben nutrito, bianco di pelle, con due favoriti neri e una bella fronte nitida come una palla da biliardo. Le sue maniere affabili e confidenziali rivelavano l’uomo abituato a vivere nel mondo elegante, e specialmente fra le signore, alle quali soleva regalare dei complimentucci sempre in due versi rimati.

— Come state, barone? non avete condotto con voi la vostra bella prigioniera? È vero che il prigioniero siete voi.... Ah! ah! — il signor giudice rideva a pieni polmoni. — Dev’essere una gran bella prigione, affè di Dio!

— Che cosa?

— La principessa. Basta, voi giocate a partita doppia. Vincete alle corse, correndo, e vincete in amore, arrivando a tempo.

Coll’abbandono dell’uomo abituato a vivere nei salotti, il cavaliere prese sotto il braccio il testimonio, e fermandosi tre o quattro volte in cinque minuti, mentre lo faceva passare in un tetro corridoio, gli disse sottovoce coll’aria di chi fa una delicata confidenza:

Inter nos, io vi avrei risparmiata anche questa seccatura, visto e considerato che questa sciocchezza del cappello è una cosa senza sale. Ma anche noi, poveri giudici, siamo vittime del pubblico e specialmente dei giornalisti. C’è poi quel povero don Ciccio.... conoscete don Ciccio?...

— No.

— È il più ridicolo uomo del mondo, un [p. 258 modifica]«paglietta» stizzoso, insistente, noioso come una zanzara. È lui che fa fuoco e fiamme perchè io scopra questo prete. Ha trovato un babbeo che spende volentieri, e intanto spilla la botte con la scusa delle carte bollate. Don Ciccio vuole che io gli trovi ad ogni costo il prete o vivo o morto, e meglio morto che vivo, per la réclame della bottega, capite? Insiste, minaccia fin degli opuscoli, e voi non avete idea che cosa è un avvocato che scrive degli opuscoli. Vi confesso che vien quasi voglia di ammazzare un prete per contentarlo.... ah! ah!

La risata squillante del piccolo magistrato risonò nelle vôlte buie del corridoio.

— Dunque, caro barone, bisogna ch’io mostri almeno la buona intenzione e che interroghi, se è necessario, anche le capre e i cani di Santafusca. Interrogato il cane, non rispose.

— Che cane!? — esclamò ad un tratto «u barone», che metteva troppi pensieri suoi in mezzo alle allegre parole del giudice per poter pigliare al volo una facezia.

— Ai cani si può mettere la museruola: ma non si può metterla ai giornalisti ed agli avvocati.

In questi discorsi arrivarono ad una stanzaccia nuda, dov’erano alcune poche sedie, un tavolo nel mezzo, e per tutto ornamento un ritratto del re.

In giro molti usci. Sopra l’uno era scritto: «Sala del Procuratore del re». Sopra l’altro: [p. 259 modifica]«Cancelleria». Sopra un terzo: «Carceri». Più in là: «Reali carabinieri».

Un puzzo di chiuso, di polvere e di vecchio inchiostro rendeva ancora più triste quella stanzaccia, al di là della quale il barone di Santafusca sentiva la forza armata, il terrore, la vendetta sociale in agguato, carica di catene e di chiavi.

— Ora, eccellenza, abbiate la bontà d’aspettare due minuti. Poi vi farò chiamare, ed in quattro parole vi sbrigo. Per mezzogiorno ho già ordinato le ostriche.... Sentirete!

Il barone, sentendosi le gambe rotte come chi esce da una gran febbre, sedette: posò il cilindro sulla tavola polverosa, e si asciugò la fronte col fazzoletto.

Per quanto avesse imparato a non credere alle sensazioni, quel trovarsi ad uscio ad uscio colla giustizia umana lo faceva un poco tremare.

Tuttavia il suo piano era infallibile.... non so nulla! Un uomo che tace non può dire degli spropositi.

Era l’ultima scaramuccia. Una volta che avesse portato fuori i piedi da quel tetro palazzotto, pensava di andare sei mesi in qualche paesello della Svizzera, in alto, in alto, in qualche valle romita, e di stare le lunghe giornate sdraiato sull’erba a rinnovare le forze fisiche e intellettuali. Poi.... avrebbe fatto del bene! Ancora una volta sentiva che non si offendono senza strazio e senza pericolo le vecchie leggi della natura. [p. 260 modifica]Ma aveva bisogno prima di riposare in mezzo al verde. Poi avrebbe fatto del bene, sì.... Il bene è necessario alla vita quasi come l’olio alla macchina.

Volgeva l’occhio da una visione tutta verde, e lo fissava sopra uno degli usci che aveva davanti.

Il mostro sociale era lì, ed egli doveva affrontarlo col sorriso sulle labbra, col sorriso stesso con cui soleva andare incontro alla principessa; doveva carezzare la criniera a quel mostro; placarlo con qualche facezia; ridere dei suoi rabbiosi ruggiti.

L’uscio, sul quale il poveretto versava questi ultimi suoi pensieri, si aprì dopo un aspro scricchiolìo e ne uscirono due carabinieri dalle spalle quadre, dalle braccia grosse e tonde, che stringevano tra le anche un ragazzotto imberbe, un di quei «guappi» color della terra che pullulano nei fangosi vicoli del porto, coi polsi legati, vestito di una sola giacca senza colore e d’un paio di brache sconnesse ch’egli cercava di tener su, aiutandosi colle mani in croce.

Dopo che i due soldati l’ebbero palpato in tutte le parti del corpo, fin sul nudo, lo cacciarono innanzi verso l’uscio dei «carcerieri», l’aprirono.... e crac, l’uscio si chiuse con un piccolo scatto.

Il barone Carlo Coriolano di Santafusca pensò che per un orologio o per una gallina rubata un cristiano va a finire così. Egli si sarebbe prima abbruciato dieci volte le cervella. [p. 261 modifica]

Un improvviso sgomento gli fece vedere un grande abisso spalancato sotto i piedi. Chi l’aveva sospinto a poco a poco fin sulla soglia della prigione? Gli parve ancora di sentire sulla schiena la mano invisibile che lo urtava bel bello, e si voltò rapidamente.

Si vergognò della sua viltà. Rifece rapidamente il sunto delle mille idee ch’egli aveva raccolte in quei dì sull’infinità dello spazio e del tempo e sul pio riposo della morte.

Non era da uomo pazzo il soffrir tanto per una sì meschina contingenza?

— Vostra eccellenza è pregata a entrare.

Queste parole furono pronunciate con un tono di umile ossequio da un vecchio usciere, magro come un merluzzo, dal capo sottile e bianco, vestito d’una sciupata toga nera.

«U barone» stette come incantato a guardare quell’uomo dalla testa piccina vestito anche lui come un prete.

— Si accomodi, per di qua, eccellenza.

Santafusca fece ancora uno sforzo sopra sè stesso, e si spinse avanti. Il vecchio usciere, vedendo che stava per infilare un uscio falso, gli pose gentilmente una mano sulla schiena e balbettò:

— Scusi, per di qua. [p. 262 modifica]


*


Entrò in una sala grande, ben arredata e ben rischiarata. Innanzi a un tavolino, ingombro di carte, sedeva il cavaliere Martellini, sprofondato nella sua poltrona fra due cordoni di campanelli che si allacciavano sulle sue ginocchia. Il suo cranio lucido e bianco faceva un gran spicco nel colore sanguigno dell’ampio schienale. Ai due capi della tavola stavano due signori, curvi sulle carte a scrivere, che il testimonio vide in ombra.

Il barone sentì per una specie di corrente magnetica che il vecchio usciere vestito da prete s’era fermato in fondo alla sala accanto all’uscio.

— Si accomodi, eccellenza, — disse con un tono più sostenuto l’amabile cavaliere, a cui l’alta poltrona imprimeva un carattere più serio ed ufficiale.

Il barone andò diritto e svelto verso la poltrona che gli fu indicata, e sedette con un poco di furia e di dispetto.

— Poichè siamo quasi in famiglia, presenterò il signor cancelliere, cavalier Tinca, e il dottor Macelli, mio collega.

Le due ombre sedute ai lati della tavola si mossero un poco. Il barone cercò di fare altrettanto. [p. 263 modifica]

— Portate le robe, Quaglia, — disse il cavaliere.

L’ombra secca e nera si distaccò dal muro e portò sul tavolo dei giudici una cesta coperta da un panno verde.

— Il nostro colloquio sarà molto spiccio, signor barone, perchè vedo che fui già prevenuto.

— Di che? — esclamò molto forte il testimonio.

— Un briccone può esser sicuro di salvarsi dalle mani del giudice, ma non un galantuomo da quelle del giornalista. Scusi, eccellenza, la mia indiscrezione. Che cosa c’è di verosimile nel colloquio che l’«Omnibus» ha stampato ieri in questo numero?...

— Ah! — esclamò ridendo il barone, a cui l’esordio del giudice aveva un poco stretto il cuore. — C’è di vero: primo che il giornalista non fu mai a Santafusca; secondo, che le bugie si vendono a buon mercato.

— Ella però ha avuto veramente un colloquio con questo signore che firma Cecere?

— Un colloquio sì.... voglio dire delle ciarle al caffè. Mi ha chiesto una mia opinione e gliel’ho detta. Del resto non so nulla.

— Ella dunque crede.... o inclina a credere che esista veramente un cacciatore.

— Come ho detto.... non so nulla.

— Un nulla relativo, si sa. Non si è padroni di una villa che si chiama Santafusca, senza [p. 264 modifica]interessarsi un poco alle questioni di casa e alla sorte del proprio nome. Il cappello fu trovato nella villa, anzi ella ha protestato già per violazione di domicilio.... Conosceva ella prete Cirillo?

— No!

Il Quaglia, abituato a sonnecchiare sui lunghi interrogatorii, rilevò col suo orecchio fino ed educato a tutti i toni della verità e della bugia, un tono falso in questo «no» duro, sgarbato, che il barone di Santafusca gettò come un cencio in viso al signor giudice.

— E di Salvatore, che cosa ci può dire?

— Un sant’uomo, Salvatore, un buon vecchio, Salvatore. Lasciamolo stare, per carità; e per la voglia di trovare un delitto, non facciamo torto ai poveri morti, per carità.

Il barone pronunciò queste parole tutte d’un fiato e con un sentimento di pietosa tenerezza.

Salvatore non poteva desiderare un maggior elogio in bocca al suo padrone, che parlò proprio col cuore amoroso e caldo.

Salvatore e Maddalena, lo abbiam detto, s’eran pigliata a tempo la parte migliore di quel cuore pieno di passioni e di fantasmi.

— E come spiega allora, eccellenza, che Salvatore fosse in possesso del cappello di prete Cirillo?

— Io non so nulla, caro....

— Ella avrebbe detto al giornalista che il cappello può essere stato gettato nel giardino.... [p. 265 modifica]

— Sì.

— Ci dia un’idea della casa e del giardino. C’è un muro di cinta?

— Sì.

— Molto alto?

— Così....

— Ma un testimonio dice che il cappello non fu trovato in giardino.

— Dove fu trovato? — chiese con più animo il barone.

— In casa.

— Dove? — insistè sua eccellenza con un tono quasi insolente.

— Abbia pazienza, capisco, è noioso. Ma è questione di cinque minuti.

Il barone si era fermato al suo dove? come davanti a una porta chiusa. Non era meno curioso degli altri di sapere in qual maniera il prete aveva perduto il suo cappello.

Successe una piccola pausa intanto che il signor cancelliere e l’altro signore dagli occhiali sul naso frugavano in mezzo a un mucchio di carte, susurrando tra loro parole confuse e cabalistiche.

Non sai nulla! — disse ancora una volta una voce, che usciva dagli strati più fondi del suo pensiero.

Era un ultimo avvertimento a un uomo, che si accorgeva di lasciarsi troppo ingannare dalle sensazioni.

Si abbandonò, si accomodò nella poltrona e [p. 266 modifica]cominciò a guardare diritto avanti a sè coll’occhio fisso nella luce chiara della finestra, colle gambe accavallate, col suo splendido cilindro in mano. Agitò il bastone, si guardò la punta dei guanti....

Non sai nulla! — tornò a dire la voce prudente e segreta.

Il giudice perdette un po’ di tempo a cercare una carta tra le carte; poi, col tono uniforme di una campana, cominciò:

— Il suo nome?... Scusi, sono le solite formalità.

— Carlo Coriolano barone di Santafusca, — rispose il barone con enfasi.

— Figlio?

— Di Nicolò.

— Età?

— Quarantacinque.... credo.... però...

«U barone» sorrise un poco.

Sorrise un poco anche il giudice.

— Abitante?... lo sappiamo.... non importa.

Il giudice mormorò alcune parole al vicino che alzò il naso armato di due grandi occhiali.

Il vecchio usciere cominciò a dondolare come un pendolo dietro le spalle del testimonio.

«U barone» che lo vedeva colla coda dell’occhio non potè resistere alla voglia di voltare il capo e di guardare ancora una volta quella secca figura di merluzzo vestita di nero.

Era un gran mistero per lui come avesse potuto credere di distruggere il corpo del delitto, [p. 267 modifica]gettando in fondo al mare un cappello, che adesso era nelle mani dei giudici.

Fisso in questo problema non intese l’ultima dimanda del giudice, e ciò produsse un piccolo imbarazzo in tutti.

— Non crede che possa essere stato gettato in mare? — chiese con una naturale diversione l’amabile cavaliere Martellini, che non perdeva di vista l’orologio, come per dire all’illustre amico: Abbia pazienza, ho quasi finito.

— È difatti la mia opinione....

— Che cosa fu gettato in mare? — chiese il cancelliere, che stava scrivendo le risposte nel processo verbale.

— Il cappello.

— Il prete.

Queste due parole risonarono insieme, la prima per la bocca del barone che era trascinato dalla forza della verità, l’altra per la bocca del giudice, che seguiva invece i naturali indizi del processo.

L’urto di queste due parole fu una prima scossa dell’edificio che il barone aveva innalzato per sua difesa. Temette di essere già caduto in contraddizione, e si affrettò a dire con grande vivacità:

— Dico il cappello.... il cappello.

— Questo non è possibile, — soggiunse il signor giudice, — perchè il cappello è nelle nostre mani. Anzi, se lo vuol vedere.... Quaglia, togliete il panno. [p. 268 modifica]

L’usciere si avvicinò alla cesta con passo lento e vacillante e la scoprì.

Il cavaliere Martellini si alzò e disse:

— Favorisca, eccellenza.

Il barone, che sedeva più basso, non poteva arrivare cogli occhi fin sopra la cesta. All’invito replicato del giudice fece per muoversi, ma non potè subito per una specie di paralisi nervosa.

— Scusi, se non le rincresce incomodarsi....

«U barone» sentì che non poteva rimanere lì, duro duro, incantato. Si spaventò di questa sua fisica incapacità, molto più che gli parve di scorgere in viso al cavaliere un senso di meraviglia; si riprese, e con uno di quegli sforzi supremi con cui soleva pigliarsi quasi per i capelli, andò diritto fino al banco e guardò.

Il cappello del prete, nella sua eleganza di cappello nuovo, spiccava sul fondo rossiccio di una sacca o carniere da cacciatore.

Il cavaliere continuò:

— Ecco il famigerato cappello: lo osservi, eccellenza. La giustizia sa di sicuro che questo cappello fu venduto a prete Cirillo la mattina del giorno quattro di aprile. Don Antonio l’avrebbe trovato nella stanza di Salvatore, che forse l’avrà raccolto in giardino. Per scrupolo di coscienza fu inviato in una scatola a Filippino Mantica. In questo intervallo prete Cirillo scomparve e non si sa più nulla dei fatti suoi. Il cappello porta qualche ammaccatura leggiera qua e là, qualche macchia di calce.... osservi, vede? [p. 269 modifica]

«U barone» non vedeva nulla, tranne un gran nero. Tutta la sua vita era raccolta nell’afferrare le dimostrazioni e le dimande del giudice. Al suo fianco vedeva una figura nera che si agitava, e che cacciava le mani nella cesta quasi per fargli dispetto, e cominciò a fissarla con un occhio sanguigno e cattivo.

La toga nera e sciupata del vecchio usciere faceva spiccare il bianco del suo piccolo capo e di un bavaglino di tela conficcato nel collare. Il Quaglia, che teneva il cappello del prete in mano, lo mosse due o tre volte, segnando col dito ossuto le macchie e le ammaccature qua e là, gonfiando un poco un paio d’occhi color madreperla.

Il barone non poteva torcere gli occhi da quegli occhi gonfi, che lo guardavano con una mezz’aria d’ironia.

— In quanto all’opinione che accusa un cacciatore, — continuò il giudice, — sarebbe in parte confermata dalla scoperta di questo carniere.

— Ah! — fece il barone con un’esclamazione quasi di trionfo, come se volesse dire: «E non avevo ragione io di credere in questo cacciatore?».

— Questo carniere fu trovato in una barca presso alcuni scogli.

— Precisamente! — ribattè il colpevole, senz’accorgersi di dire troppo, ma credendo con ciò di distruggere meglio l’effetto di una contraddizione in cui fosse caduto poco prima. [p. 270 modifica]

Ormai nel suo turbamento e nel conflitto in cui trovavasi tra la verità, la coscienza e il giudice, non sempre aveva presente ciò che gli conveniva di dire e ciò ch’era meglio tacere.

— Scusi, barone, ella forse si sente male.... — balbettò l’egregio funzionario, impallidendo un poco.

— No, no, sto benissimo, che cosa dice? — rispose «u barone» balzando con una scossa del corpo come se cadesse da un gradino non visto, nel buio. — Volevo soltanto far notare — soggiunse ridendo — che la mia opinione era fondata su una presunzione, e che non avevo torto di dire «cherchez le chasseur». Non mi sento male, tutt’altro, anzi ho quasi appetito.... — Trasse e guardò l’orologio. — È naturale, è quasi mezzodì. Pareva che lor signori avessero voglia di trovarmi in contraddizione; ma qui c’è la prova parlante che un cacciatore esiste. Ecco il triste connubio dell’assassino e della sua vittima!

La voce del barone di Santafusca erasi fatta così oscura e profonda, il modo con cui andava squadrando il vecchio usciere era così pieno di ferocia e di spavento, che il cavaliere Martellini e gli altri, allibiti, si guardarono in viso.

Il buon giudice istruttore finse di cercare alcune carte, ma le sue mani tremavano come se avesse indosso la terzana fredda.

— C’è don Ciccio Scuoto? — chiese al Quaglia.

— È di fuori.

— Fatelo pure entrare. [p. 271 modifica]

Il barone, la testa del quale navigava già in un mare torbido e burrascoso, tornò a fissar l’occhio bianco e cristallino sulla finestra.

— Scusi, eccellenza, si accomodi pure, — riprese a dire il giudice con voce più composta.

— Anche noi non abbiamo mai messo in dubbio l’esistenza di un cacciatore.... Si accomodi.

Il barone andò a sedersi sopra una scranna che portò egli stesso nel mezzo della sala, e cominciò a far dei calcoli e dei confronti tra il suo orologio e il quadrante appeso alla parete. Si sarebbe detto che il processo non lo toccasse più.

— Dunque vediamo d’orientarci, caro barone, per venire a una conclusione, — cominciò a dire colla amabilità solita il signor giudice: anzi, infilando egli stesso il racconto con una di quelle astuzie inquisitorie che non sbagliavano quasi mai, entrò nell’animo del testimonio e cercò di tirarlo a sè: — Un cacciatore dunque fu veduto alla Falda, all’osteria del «Vesuvio»; poi fu veduto da un cantoniere della strada ferrata, e finalmente pare che abbia preso il largo in una barchetta da pesca che trovò presso alcuni scogli. Va bene?

— Precisamente, — tornò a dire Santafusca col tono semplice e naturale di chi ha veduto e quasi toccate le cose che afferma.

Il cavaliere Martellini tornò a rimestare nelle carte, per dar tempo all’animo di ricomporsi. Gli altri due signori che sedevano ai capi della [p. 272 modifica]tavola si lanciarono un’occhiata piena di spavento dietro le carte e i protocolli.

Più che il contegno irritato, più che l’occhio stravolto, fece colpo sull’animo dei giudici la sicurezza, la prontezza, il candore quasi con cui il testimonio confermava e ribadiva i semplici indizi della procedura.

In quel mentre entrò don Ciccio, a cui il Quaglia aveva susurrato nell’orecchio alcune paroline. L’acuto «paglietta» gettò uno sguardo su quell’uomo torbido che sedeva nel mezzo della sala, più appoggiato alle ginocchia che alla sedia, e si arrestò di scatto. Aveva egli trovato più di quanto cercava?

Fisso, estasiato di quel suo trionfo, l’avvocato dei preti andava girando la manica sul pelo del suo cilindro bianco, che non era mai stato così liscio.

Dopo aver ricomposta la persona sulla poltrona, il cavaliere Martellini ritornò a dire colla solita piacevolezza:

— Ancora una parola, eccellenza, e poi la lascierò in libertà. Ormai non è più il giudice che interroga, ma l’amico che discorre di un caso curioso. Noi magistrati siamo spesse volte affetti di miopia curialesca, e più aguzziamo l’occhio e meno vediamo le cose che cerchiamo. Un uomo di mondo invece ha l’occhio sano. Voi avete detto benissimo, caro barone.... — soggiunse il giudice ripigliando un grazioso tono di confidenza, — noi abbiamo davanti il turpe [p. 273 modifica]connubio dell’assassino e della sua vittima; ma, secondo voi, quale interesse poteva avere l’assassino di uccidere il povero prete?

— Il prete era ricco, — disse il barone alzando burberamente le spalle.

— E voi credete, caro barone, che il cacciatore abbia agito per conto proprio o invece per mandato di qualche persona potente?

— Per conto proprio, diavolo!

— Dunque — continuò il giudice con un tono più eccitato e squillante — questo cacciatore o falso cacciatore avrebbe procurato di tirare il prete fuori di Napoli....

Il barone si alzò con aria tragica e accompagnò la sua affermazione con un gesto vigoroso, stendendo il braccio e l’indice verso un punto della parete.

— Precisamente, e lo gettò in mare.

— Il prete? — gridò il giudice.

— Il prete.... — rispose il barone che adesso non parlava più che per una specie di meccanismo interno.

— Prego il signor cancelliere di mettere a processo verbale che il testimonio crede che il prete sia stato gettato in mare.

Il tono ruvido e autorevole con cui il signor giudice pronunciò queste parole, e i colpi del dito sulla carta con cui accompagnò l’ordine, diedero una seconda e terribile scossa ad un uomo che parlava come un addormentato. «U barone» trasalì, e ripetendo a sè stesso l’ultima risposta, si [p. 274 modifica]spaventò di essere caduto così presto in contraddizione. Prima aveva detto che il cacciatore aveva gettato in mare il cappello e non il prete: ora diceva che il prete era stato gettato in mare. Di questa contraddizione la sua mente non era più in grado di valutare l’importanza e il pericolo: e tanto meno essa era in grado di conciliare la prima risposta colla seconda: ma il colpevole sentì confusamente che l’edificio della sua difesa diroccava da tutte le parti, e che da questo momento aveva nel cavaliere Martellini un terribile nemico.

Procurò di rettificare la deposizione di prima: ma ormai gli mancavano gli argomenti, gli mancava la voce, il tempo; e le parole gli si aggrovigliavano in bocca. Gli veniva meno la forza di tener separato nettamente il cacciatore da sè, di non attribuire all’uno pensieri ed atti che appartenevano, pur troppo! soltanto all’altro. Non sapeva più discernere il fatto da’ suoi particolari, e, per la foga di conciliare il prete col suo cappello e di voler credere troppo nel cacciatore, non si accorgeva che a poco a poco andava esponendo e accusando sè stesso. La sua testa era una fornace. I mille fantasmi cacciati, respinti, costretti, flagellati dalla sua scienza e dalla sua logica, uscivano sbucando ora tutt’insieme dai tenebrosi spechi della coscienza, invadevano la sua ragione e lo spavento s’impadroniva di quell’uomo che da circa un mese aveva lanciata una terribile sfida alla natura e a Dio. [p. 275 modifica]

Questa povera anima, che aveva resistito agli urti del rimorso e della disperazione, fatta solida da uno smalto artificiale di convinzioni scientifiche, si screpolava da sè per la inferiorità della sua stessa vernice.

La mente non connetteva più, si spezzavano le formole logiche, e la pazzia, la furia vendicatrice della superba ragione, scendeva a rompere la testa del barone di Santafusca, come egli aveva spezzata, con una sbarra di ferro, la piccola testa di prete Cirillo.

Ciò che seguì da questo momento non fu più interrogatorio nelle forme, ma la lotta estrema di una ragione contro un rimorso.


*


Il barone in piedi, nel mezzo della sala, gesticolando con forza, col suo bastoncino in mano, cominciò a dire:

— Mi meraviglio che si voglia ancora trovarmi in contraddizione. È chiara, per Dio! Prego a non farmi dire cose che non penso. Che ne so io di questa faccenda? Io dico che il cacciatore aveva tutto l’interesse a far scomparire le traccie del prete, cioè il suo cappello. L’uno valeva l’altro; anzi l’uno più dell’altro, perchè l’uomo si spegne come a soffiare sopra un moccolo, ma [p. 276 modifica]la materia (gridò contorcendo nelle mani il bastone) la materia è dura, resistente, indistruttibile, ha filamenti eterni, immortali. Avete letto, signori, il «Trattato delle cose» del celebre dottor Panterre? Devo io citare a questi signori Buchner, Moleschott, Hartmann, per dimostrare questo principio fondamentale che nulla si può distruggere di ciò che esiste? Quando voi pensate che una palla di cannone impiega più d’un milione d’anni a cadere dal centro del sole al centro della terra, e che il sole è un tuorlo d’uovo in confronto delle nebulose e degli asteroidi e dell’infinito spazio, io son persuaso che riderete anche voi con me di queste sciocchezze, come rideva poco fa quel teschio di prete coi denti appoggiati alla grata. Nè quel prete, nè quell’altro, non cantano più l’epistola....

«U barone» sorrise in modo sinistro e, facendo tre o quattro passi veloci nella sala, continuò, rinfocolandosi, spezzando in due il bel bastoncino e buttandone in aria i frantumi:

— Ecco perchè il cacciatore cercò di far scomparire il cappello del prete, gettandolo in mare. Per averlo in mano, quel cappello, era andato fino alla Falda perchè sapeva che Giorgio della Falda l’avea preso con altre robe nella stanza di Salvatore. Per questo io dicevo che il cappello fu gettato in mare, e non c’è nessuna contraddizione, caro cavaliere Martellini. Se il cacciatore avesse affogato il prete, come potrebbe il prete essere sepolto a Santafusca? Non [p. 277 modifica]vorrete supporre che lo abbia ammazzato Salvatore. O per l’anima mia! io devo difendere la memoria di un uomo che mi ha portato sulle braccia, e, dovessi dar tutto il mio sangue, non permetterò mai che l’ombra del più piccolo sospetto funesti una tomba pura e modesta! Vigliacco è chi lo pensa, vigliacco chi lo dice. Perchè avete trovato il cappello nella sua stanza, voi correte a calunniare un poveretto morto che non può difendersi. E chi vi dice che il cappello non sia stato portato in camera di Salvatore dal suo cane?... Interrogato il cane non rispose, ha detto ironicamente il cavaliere Martellini; ma se quel cane parlasse, signori miei, vi direbbe, come ha detto a me, che il prete non fu gettato in mare, ma fu ammazzato dal cacciatore e sepolto da lui nella villa....

— Dal cacciatore? — soggiunse con voce rotta da un singulto il giudice, che si aggrappava ai bracci della poltrona quasi per resistere allo spavento di quella scena non mai veduta.

Gli altri ufficiali, l’usciere, don Ciccio, irrigiditi da quello spettacolo, non davano quasi più segno di vita.

— Dal cacciatore, dall’anticristo.... — gridò «u barone».

— Che.... che tirò il prete a Santafusca con un pretesto.... l’uccise e lo seppellì in giardino.... eh? eh? — Il giudice pareva che volesse arrampicarsi sullo schienale del seggiolone.

— Non in giardino, — esclamò «u barone» [p. 278 modifica]ridendo come se l’amabile cavaliere avesse detto una facezia. — In fondo alle scuderie, sotto quel mucchio....

Il barone non parlò più. L’occhio fisso sul cappello del prete, dopo aver raccontato del cacciatore ciò che da un mese aveva troppe volte raccontato a sè, si sprofondò nella contemplazione estatica del suo delitto come se ancora avesse sotto gli occhi quel maledetto mucchio di calce e di mattoni. Ed era uno spettacolo veramente tragico e solenne assistere alla confessione di un uomo che accusava l’ombra sua.

— Barone di Santafusca, — gridò finalmente il giudice, alzandosi ritto su tutta la persona che parve diventata più grande, — voi siete mio prigioniero.

Il barone a queste parole si scosse da quella specie di sonno magnetico in cui l’aveva tratto la fissazione della sua mente; fece un mezzo giro su sè stesso, si guardò intorno con occhio scemo e torvo, parve ancora una volta riconoscere l’orrore della sua condizione, mandò un urlo, alzò le braccia, e, spinta la sedia in terra, cercò farsi strada verso la porta.

Era troppo tardi. Vi stava già la forza.

— No, — gridò colla bava alla bocca, — v’ingannate. Posso dare altre prove. Sono malato, vedete, è la testa. Sentite la mia testa. Per Cristo santo, ho la febbre! Sono innocente. Volete che io vi conduca sul luogo del delitto? Vi farò vedere e toccar con mano. Signori, voi avete [p. 279 modifica]davanti un barone di Santafusca, che non si lascia arrestare come un guappo.

Così dicendo, si chinò, afferrò la sedia colle due mani, e alzandola colla vigoria dei suoi muscoli furibondi, cercò di farsi ancora una strada verso la libertà.

Successe una scena indescrivibile.

I giudici si alzarono spaventati e si ritrassero verso la parete di fondo, scompaginando nella fuga sedie, carte e libri. Il vecchio usciere per poco rimaneva massacrato dalla sedia che l’assassino gli scaraventò sulla testa; guai a lui, se non si abbassava a tempo!

Seguì una lotta fiera a corpo a corpo, tra l’assassino inferocito e i due soldati dalle braccia robuste, che lo avvinghiarono come un orso feroce. L’assassino rotolò in terra ai piedi della tavola, trascinando con sè uno dei carabinieri che tentò di mordere al viso. Finalmente, coll’aiuto d’altri secondini accorsi, fu domato, legato...., ma la giustizia umana non ebbe nelle mani che un povero pazzo.

Il barone era stato tradito e punito dalla sua stessa coscienza.