Il paradiso perduto/Libro decimo

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Libro decimo

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John Milton - Il paradiso perduto (1667)
Traduzione dall'inglese di Lazzaro Papi (1811)
Libro decimo
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Gli angeli che stavano a guardia del Paradiso, conosciuta la disubbidienza dell’uomo, abbandonano i loro posti e risalgono al cielo per giustificare la vigilanza loro. Il figlio di Dio, mandato a giudicare i nostri progenitori colpevoli, scende e pronunzia la loro sentenza; indi, tocco dalla pietà. li riveste ambedue e risale al cielo. La Colpa e la Morte che fino allora stavano alle porte dell’inferno, avvedutesi per una meravigliosa simpatia del buon successo di Satáno nel nuovo mondo, e del delitto ivi commesso dall’uomo, risolvono di non trattenersi più a lungo nell’abisso, ma di portarsi verso la dimora dell’uomo sulla traccia di Satáno. A render più facile il tragitto dall’inferno a questo mondo, fabbricano uno stupendo ponte a traverso del Caos. Mentre sono per discendere sulla terra incontrano Satáno che ritorna all’inferno, superbo del suo buon successo. Loro scambievoli rallegramenti; Satáno arriva al Pandemonio; racconta con orgoglio in piena assemblea la vittoria da lui riportata sull’uomo; e invece degli aspettati applausi ascolta un sibilo generale degli uditori suoi trasformati improvvisamente con essoseco in serpenti, secondo la sentenza data nel paradiso. Un bosco di alberi somiglianti all’albero vietato della Scienza sorge presso di loro, vi salgono su avidamente per averne le frutta, ma solo masticano polvere e ceneri amare. La Colpa e la Morte infettano la natura. Dio predice la finale vittoria del suo Figlio sopra di loro e il rinnovamento di tutte le cose; e intanto comanda agli angeli di far diverse mutazioni nel cielo e negli elementi. Adamo, scorgendo sempre più decaduto il suo stato, piange amaramente, e respinge da sé Eva che cerca di confortarlo. Ella persiste e finalmente lo calma; quindi per distornare la maledizione che doveva cadere sopra i loro figli, propone ad Adamo violenti mezzi, che da lui non sono approvati. Egli concepisce migliori speranze, le rammenta la promessa a loro ultimamente fatta, che la stirpe di lei prenderà vendetta del serpe, e la esorta a unirsi seco per placare col pentimento e colle preghiere l’offesa Divinità.


 
Di Satán l’opra dispettosa e nera,
Com’egli ascoso entro l’anguinea scorza
Sedotto avea la nostra madre antica,
E questa indi il consorte, a côrre il pomo
5Dell’arbore fatal, palese intanto
Era nel cielo. E chi di Dio lo sguardo
Evitar può che sovra il tutto è steso?
Chi sua mente ingannar, cui tutto è chiaro?
Ei giusto e saggio non vietò che all’uomo
10Satán movesse assalto, all’uomo armato
D’integre forze e libero volere,
E tutte d’un nemico aperto o ascoso
Atto a scoprire, atto a rispinger l’arti.
Di non gustare il mortal frutto a quella
15Coppia Dio stesso impose, e fisso ognora
Ella serbar l’alto comando in mente,
Qualunque fosse il tentator, dovea:
Pur trasgredillo, e quindi a dritto incorse
La pena inevitabile d’un fallo
20Che tenea tanti falli in sè raccolti.
Mesti per la cangiata umana sorte
Ch’è lor già nota, e taciturni al cielo
Rapidamente gli angeli saliro,
Meravigliando assai com’entro il vago
25Giardin furtivo penetrar potesse
Il perfido nemico. Appena giunta
La fatal nuova alle celesti porte,
A ognun increbbe, e dolorosa nube
Velò quel giorno le beate fronti,
30Sebben quel duol, misto a pietà, l’eterna
Gioia non violò. Trasse dintorno
Al testè giunto angelico drappello
L’eterea gente, per udir del tristo
Caso l’istoria, ma veloce questo
35Al divin s’affrettò supremo soglio
Del ben compiuto uffizio a render piena,
Agevole ragion, quando la voce
Dalla segreta nube, in cui si cela,
Il sommo eterno Padre, in mezzo al tuono
40Così disciolse: - Angeli accolti, e voi
Ch’or ritornate dall’infausto incarco,
Cagion di turbamento o di dolore
Quello che in terra avvenne, a voi non sia.
Tutte le vostre cure opposte invano
45Sariensi a ciò: ben lo predissi, quando
L’infernal golfo valicò da prima
Quel fello insidiator, che giunto ei fora
Ad ottener de’ rei disegni il fine;
Che l’uom sarìa sedotto, e, all’esca preso
50Di fallaci lusinghe, avida orecchia
Prestato avrebbe a menzogneri detti
Contra ’l suo Creatore. Alcun de’ miei
Decreti al suo cader parte non ebbe,
Nè del più lieve tocco io mossi il pieno
55Libero suo volere, in equa lance
A se stesso lasciato. Or ch’altro resta,
Poichè caduto egli è, se non che scenda
Sul fallo suo la meritata pena,
La morte che intimai? Già vana ei spera
60Quella minaccia mia perchè veloce
Non la compiè, qual si credea, l’effetto;
Ma ben vedrà, pria che si chiuda il giorno,
Ch’altro è l’indugio, altro il perdon; nè fia
Che, qual la mia bontà, schernita torni
65La mia giustizia. A giudicarli or dunque
Chi spedirò se te non mando, o Figlio,
Che in cielo, in terra e nel profondo abisso
A sostener mie veci eletto fosti?
Chiaro nella tua scelta è il mio disegno
70D’unir pietade alla giustizia: io mando
In te dell’uom l’intercessor, l’amico,
Il volontario redentore e ’l prezzo
Del suo riscatto insiem, te mando alfine
Uomo promesso, a giudicar l’uom reo. -
75Sì disse il Padre, e l’ampio fiume a destra
Spandendo de’ suoi rai, tutto il suo nume
Fe’ senza velo lampeggiar nel Figlio
Che manifeste in sè medesmo espresse
Le paterne sembianze, e con divina
80Voce soave. - A te conviensi, o Padre,
Il decretar, rispose, a me la tua
Suprema volontade in cielo e ’n terra
Sta l’eseguire, onde tu pago ognora
In me riposi tuo diletto figlio.
85Que’ delinquenti a giudicare io scendo;
Ma sopra me dee ricader, lo sai,
Qual ch’ella sia, la lor condanna un giorno
Al compiersi de’ tempi. A ciò m’offersi
Nel tuo cospetto, e, non pentito, adesso
90Io quella pena d’addolcire ottengo
Che poi su me si stenderà. Pur fia
La giustizia così da me temprata
Colla pietà che satisfatte entrambe
Risplenderan più belle, e appien placato
95Il tuo sdegno sarà. Di stuol seguace
Verun uopo io non ho; soli i due rei
Fiano presenti al mio giudicio: il terzo
Dal suo fuggir convinto e già ribelle
Ad ogni legge, condannato assente
100Meglio sarà: convincimento al serpe
Non è dovuto alcun. - Ciò detto, alzossi
Dal folgorante soglio ov’ei sedea
Del padre in compagnia. Virtù, dominj,
Ministre podestà, principi e troni
105Lo seguîr fino alle celesti soglie,
Donde l’Eden si scopre e tutte intorno
Sue belle piagge. In un sol punto sceso
È sulla terra; chè sebben sull’ale
De’ più ratti momenti il tempo vola,
110Non già di Dio la rapidezza adegua.
Già dal meriggio invêr l’occaso il sole
S’era abbassato, e le gentili aurette,
Foriere della sera, all’ora usata
Scotean lor vanni a rinfrescar la terra,
115Quando in suo sdegno mansueto e dolce
Egli venne dal ciel, giudice e insieme
Intercessore, a profferir sull’uomo
Il suo giudicio. La colpevol coppia
Udì la voce da leggiero vento
120Al su’ orecchio portata, udì la voce
Di Dio che i passi pel giardin movea,
E dalla sua presenza entro il più folto
Si celò delle piante. Allor più presso
Iddio si fece, ed appellò con alta
125Voce Adamo così: - Mi fuggi, Adamo?
Dove se’ tu che con tal gioia e festa,
Scorgendomi da lunge, in pria solevi
Venirmi incontro? Io non ti trovo, e intorno
Sol trista solitudine mi veggo
130Qui dove già, non ricercato ancora,
Tanto mi dimostravi affetto e zelo.
Qual io solea, non son? qual mai vicenda,
Qual caso or t’allontana o ti ritarda?
Vieni, ti mostra. - Ei viene, Eva lo segue;
135Ma tanto or più restìa, quanto più pronta
Al fallo già; confusi entrambi in volto,
Tremanti in cor. Ne’ loro sguardi amore
Nè vêr Dio, nè fra lor più non appare;
Ma sol colpa, terror, sdegno, vergogna,
140Rancor protervia e frode. Incerto Adamo
Tenta, nè può parlare; in brevi accenti
Alfin così risponde: - Io nel giardino
La tua voce ascoltai, ma tema n’ebbi
Perch’ero nudo e mi nascosi. - A lui
145Placido allora il Giudice soggiunge
Senza rampogna: - La mia voce spesso
Senza timore udisti, anzi con gioia;
E come sì terribile or divenne
Ella per te? Che tu se’ nudo, or donde
150Sapestil tu? Di quella pianta il frutto,
Ch’io toccar ti vietai, gustato hai forse? -
- Oimè! che fo? doglioso Adam soggiunge,
In dura stretta invero oggi dinanzi
Al mio Giudice sto: tutta m’è forza
155In me recar la colpa, ovver la dolce
Mia compagna accusar, della mia vita
L’altra metà. Di lei che fida sempre
Pur mi riman, non io celar l’errore
Anzi dovrei che a biasmo ed onta esporla
160Con le querele mie? Pur mi vi stringe
Mia dura sorte e ineluttabil fato,
Onde tutta su me l’orrida mole
Del fallo e del gastigo insiem non piombi.
E s’io tacessi ancor, qual cosa mai
165Fugge, o Signore, il guardo tuo? La donna
Che ti piacque formar per mio sostegno
E ricevei come il miglior tuo dono,
Egregio dono, convenevol, caro
E divino così ch’io mai sospetto
170D’alcun male non n’ebbi, ella che in tutte
L’opere sue, come di grazia, ancora
Di saggezza e virtù splender parea,
Ella il frutto mi porse ed io ’l gustai. -
- Fors’ella era il tuo Dio? (riprese allora
175La manifesta maestà del cielo)
Che la voce ascoltar di lei piuttosto
Dovessi tu che la mia voce? Forse
Arbitra e guida di tua vita ell’era,
O t’era almeno egual che l’alto e degno
180Viril tuo stato in sua balìa ponessi,
Quel nobil grado, in cui locato Iddio
T’avea sovr’essa che di te formata
E per te fu soltanto, e da te vinta
In ogni pregio più sublime e vero?
185Beltade e vezzi per piacerti ell’ebbe,
Non già per farti servo. A chi soggiace,
Non a chi regge eran que’ doni adatti
Ond’io la ornai. L’autorità, l’impero
A te si convenìa, se ben te stesso
190Riconoscer sapevi. - Indi rivolto
Ad Eva disse: - E tu che festi, o donna? -
Allor coperta di vergogna e mesta,
All’augusto suo giudice davanti
Tutta tremante e cogli sguardi a terra,
195Breve ella disse: - M’ha ingannata il serpe,
Ed il frutto gustai. - Ciò udito, Iddio
La sua condanna a profferir si volse
Senza indugio sul serpe. Ancor ch’ei solo
Dell’altrui fellonìa fusse strumento,
200Nè la colpa recar sul reo potesse,
Pur, come infetto e dal primier natio
Suo fin contaminato in opra iniqua,
Egli fu maledetto. Utile all’uomo,
Del resto ignaro, il più saper non era,
205Nè gli scemava il fallo. In voci arcane
Avvolger tuttavia piacque all’Eterno
Sul reo Satáno la sentenza, e in tali
Detti il serpe esecrò: - Perchè ciò festi,
Fra gli animali e fra le belve tutte
210Sei maledetto: andrai carpon la terra
Sul tuo petto strisciando e fia tuo cibo
Per tutti i giorni tuoi del suol la polve.
Fra la femmina e te perpetua guerra
E fra ’l suo seme e ’l tuo porrò: tu sempre
215Insidierai le sua calcagna, e ’l capo
Esso t’infrangerà. - Così predisse
L’oracol santo, e fu compiuto poi,
Quando Gesù dell’alma Vergin figlio,
Della nostra più pura Eva seconda,
220Mirò Satán, prence dell’aria, in guisa
Di rovinosa folgore, dal cielo
Precipitare; e dalla tomba quindi
Sorgendo, vinti principati e scettri,
In pompa trionfal lungi splendente
225Dietro si trasse i vincitor superbi
Incatenati per gli aerei campi
Che lungo tempo, qual suo regno, avea
Occupati Satán, Satán che sotto
A’ nostri piè conquiso e infranto alfine
230Per lui sarà che gliel predisse allora.
Ad Eva quindi si rivolse, e in questi
Detti il giudicio profferì: - Tue pene
Co’ tuoi concepimenti insieme, o donna,
Io multiplicherò; con duolo i figli
235Al dì darai; sarà soggetto a quello
Del tuo consorte il tuo volere, e impero
Egli avrà sopra te. Così dipoi
Adamo ei condannò: Perchè l’orecchio
Desti alla voce di tua donna e ’l frutto,
240Ch’io ti vietai, gustasti, è pel tuo fallo
Maledetta la terra, onde con stento
Per tutti i giorni di tua vita il cibo
Ne ritrarrai: di triboli e di spine
Ferace ella sarà; l’erbe del campo
245Ti daranno alimento, e pane avrai
Sol nel sudor della tua fronte infino
Che tu rieda alla terra, onde se’ tolto,
All’origine tua: chè polve fosti
E polve tornerai. - Cotal decreto,
250Giudice e salvator, sull’uomo ei rese
E allontanò dell’intimata morte
Il sovrastante colpo. Indi pietoso
Di lor che così nudi avea davanti
E all’aer esposti che cangiarsi or dee,
255Infin d’allora non sdegnò di servo
Prender sembianze, e, come poscia i piedi
Lavò de’ suoi discepoli, qual padre
Or questi figli suoi miseri e nudi
Con le pelli ammantò d’estinte belve,
260O con le spoglie che lor tolse, e, come
In angue, rinnovò; nè sol le membra
De’ suoi nemici rivestir degnossi
Ma quella ancor molto più turpe interna
Lor nudità, del sommo padre al guardo
265Di sua giustizia ricoprì col manto.
Rapido al ciel quindi risale, e in tutto
Il beante splendor del sen paterno
Egli rientra: al Genitor placato
Piena ragion del suo messaggio rende,
270Benchè quei nulla ignori, e per l’uom reo
Grazia e mercede d’implorar non cessa.
Prima del fallo e del giudicio intanto
Sulla terra avvenuti, entro le soglie
Del carcere infernale a fronte a fronte
275Colpa e Morte sedean, mentre lontano
Dentro il buio Caosse ignei torrenti
Vomitavan le porte spalancate,
Da che la Colpa aperte e il fier nemico
L’ebbe varcate. Ella rivolta a Morte:
280- O prole mia, perchè sediam qui, disse,
A riguardarci in faccia in ozio indegno,
Mentre il nostro gran padre in altri mondi
Inoltra i passi glorïosi, e a noi,
Suoi cari figli, miglior sede appresta?
285Propizia sorte lo accompagna al certo:
Ov’altro fosse, dal furor rispinto
Di que’ nemici suoi, fatto ritorno
Avrebbe omai quaggiù; chè adatto loco
Al suo gastigo ed alla lor vendetta
290Più di questo non v’ha. Sentir già parmi
Vigor novello in seno, ali mi sembra
Sentir crescere a tergo, e ch’io già spieghi
Verso ampio regno a me concesso il volo
Fuori di questo orror; sì mi trasporta
295Non so qual forza impetuosa, arcana,
Che le disgiunte ancor per tratto immenso
Conformi cose in amistà segreta
Congiunger può con ammirabil nodo.
Tu meco ne verrai, tu ch’ombra mia,
300E dal mio fianco indivisibil sei;
E perchè questo interminabil, cupo
Báratro il ritornar di lui non tardi,
Tentiamo in prima un’opra audace e dura,
Ma di noi degna e al tuo potere e al mio
305Non disegual. Sul vasto oceano orrendo
S’erga un sentier che dall’inferno arrivi
Fino a quel nuovo mondo, ov’or Satáno
È vincitore. Il monumento illustre
Dal grato infernal popolo con gioia
310Sempre ammirato fia; chè facil varco
Avran sovr’esso e quei ch’a far soggiorno
Là chiamerà la sorte, e quei che d’ambo
Le parti andranno e torneran messaggi.
Nè già smarrir poss’io la via: tal nuovo
315Impulso guidator colà mi tragge
E infallibile istinto. - A ciò risponde
Lo scarno spettro: - Ove ti guida il Fato
E ’l tuo possente genio, or vanne: addietro
Io non mi rimarrò, nè il dritto calle,
320Te duce, errar poss’io. D’immensa strage
Già respiro la preda, e quanto ha vita
In sulla terra, mi tramanda un grato
Sapor di morte. Al fianco tuo m’avrai
Nell’opra disegnata, e teco a prova
325Mie forze impiegherò. - Così dicendo,
Del feral tôsco, ond’or la terra è infetta
Fiuta il vapor con gioia, e qual da lungi
Un grande stormo di voraci augelli
Là stende il volo ove s’accampan due
330Pronte a battaglia pel venturo giorno
Osti nemiche, e già presente l’ampio
Di que’ vivi cadaveri macello,
Vittima della morte al nuovo sole
E grato pasto suo: così la torva
335Squallida imago da distanza tanta,
Le aperte nari invêr la terra alzando,
Per la caliginosa aria l’odore
Attrae della sua preda. Ambo escon quindi
Dalle tartaree soglie, e sul fremente
340Vasto regno del Caos, umido e nero,
Per diverso sentier slanciansi a volo:
Poi con robusta infaticabil lena
Su quell’acque librandosi, quant’ivi
O solido o viscoso a lor s’affaccia,
345Come in irato mar su e giù travolto,
In ampj mucchi ragunando vanno,
E d’ogni lato il cacciano d’Averno
In vêr la bocca. Tai due venti usciti
Da poli opposti, sovra il cronio mare
350Infurïando, smisurati monti
Accozzano di ghiaccio e chiudon oltre
Petzora il passo ai ricchi liti eoi
Del felice Cataio. Il vasto ammasso,
Con la pari a tridente, adusta e fredda
355Clava che un gelo impietrator tramanda,
Morte percosse e l’assodò, qual fissa
Un giorno fu la già natante Delo;
Poi col gorgoneo sguardo il tutto rese
Rigido, immoto. Già dalle profonde
360Radici dell’averno, insiem compatta
D’asfaltico bitume e larga al pari
Della soglia infernal, s’innalza e cresce
La ben fondata sponda: ecco s’incurva
Sullo spumante abisso in arco immenso
365La vasta mole, un portentoso ponte
Che altissimo, lunghissimo distendesi
Fin dentro al muro immobile di questo
Mondo or aperto e dato a Morte in preda.
Ampio e agevol cammin di là conduce
370Giù nell’inferno. Tal (se lice a grandi
Picciole cose assomigliar) bramoso
Di por la greca libertade in ceppi
Serse dall’alta sua mennonia reggia
Al mar sen venne, e ’l gran cammino imposto
375Sull’Ellesponto, Asia ed Europa unío
E flagellò con replicati colpi
L’onde sdegnose. Con mirabil arte
Così compiuto avean que’ fabbri inferni
L’alto lavoro e de’ pendenti massi
380L’enorme vôlta audacemente spinta
Sullo sconvolto báratro, lunghesso
La traccia di Satán fin dove appunto
Ei l’ali stanche ripiegò da prima
Fuor del Caosse, e posò salvo il piede
385Del nuovo mondo in sull’esterna faccia.
Stanghe e catene d’adamante alfine
Tutta assodano l’opra, e troppo, ahi! troppo
Stabil la fanno. Or là son giunti i mostri
Ove tre vie fan capo: inverso il cielo
390L’una conduce, a questo mondo l’altra;
E lunghissima a manca invêr l’averno
S’apre la terza. Già movean le due
Furie alla terra e al Paradiso, quando
Fra lo Scorpio e ’l Centauro ecco Satáno
395In forma di celeste angel lucente
Lor si presenta, che sublime il volo,
Allor che entrava in Arïéte il sole,
Da questo suolo avea spiegato. Il padre,
Benchè in forme non sue, da’ cari figli
400Ravvisato è bentosto. Ei, già sedotta
Eva, nel vicin bosco erasi ascoso,
E là sott’altro aspetto, intento a quello
Che poscia ne avverrìa, tratto nel fallo
Vide da lei, benchè di frode ignara,
405Adamo ancor; la lor vergogna vide
Cercare inutil vel: ma quando il Figlio
Scender di Dio per giudicarli ei scorse,
Spaventato fuggì, così sperando
Scampo non già, ma del divin presente
410Furor sottrarsi, a súbita tempesta.
A notte poscia ei fe’ ritorno, e dove
L’afflitta coppia ragionando insieme
E piangendo sedea, vôlto l’orecchio,
La sua propria sentenza indi raccolse,
415E ch’or non già, ma in avvenir dovea
Su lui caderne il colpo. Ei lieto quindi
De’ suoi trionfi, apportator tornava
D’alte nuove all’inferno, e là sul margo
Estremo del Caosse, appiè del nuovo
420Prodigioso lavor, ne’ due s’avvenne
Che incontro gli venian, diletti figli
Inaspettati. Gran letizia e festa
Fu quinci e quindi, e di Satán s’accrebbe
Anco la gioia alla stupenda vista
425Del fabbricato ponte. A lungo ei stette
Meravigliato a riguardarlo, quando
La colpa alfin, sua lusinghiera figlia,
Ruppe il silenzio e disse: - Ammira, o padre,
Della tua gloria un monumento illustre
430In quest’alta struttura; a te dovuta
Ell’è, se tu nol sai; tu primo autore
E artefice ne sei. Tal dolce e stretto
Legame di natura unisce e move
Con armonia segreta i nostri cori,
435Che delle tue vittorie, ond’or mi fanno
Certa gli sguardi tuoi, fin di laggiuso
Ebbi fausto presagio, e mi sentii,
Benchè divisa per frapposti mondi,
Spinta vêr te da irresistibil forza
440Con questo germe tuo; cotal per sempre
Noi tre congiunge ordin fatale! Omai
Più ritenerci non potè l’averno,
Nè quest’oscuro, innavigabil golfo
Nell’aperto da te nobil sentiero
445Ci contese il seguirti. A noi, finora
Chiusi in quel tetro carcere, tu piena
Libertà procacciasti, il nostro regno
Le ben munite sue frontiere ha steso
Per te tant’oltre, e per te frena e doma
450Questo ponte sublime il nero abisso.
Or questo mondo è tuo: quel ch’altri ha fatto
A te diè il tuo valor; più che dell’armi
Non ti tolse il destin, ricovrar seppe
L’alta tua mente e vendicare appieno
455I danni in ciel sofferti. Ampio qui regno,
Che aver lassù non ti fu dato, avrai.
Lascia che in ciel (così decise il Fato)
Quel vincitor sia donno, or ch’egli stesso
Volontario ti lascia in abbandono
460Questo novello mondo: egli di tutte
Cose divise dagli empirei fini
Teco parta l’impero: il quadro cielo
Ei s’abbia, e tu la mondïale spera;
O in te risurto un più che mai feroce
465Nemico ei vegga e pel suo soglio tremi. -
- Mia vaga figlia, e tu mio doppio germe
(Delle tenebre il re lieto risponde),.
Un’alta prova oggi mi deste invero
D’esser voi stirpe di Satán (superbo
470Di questo nome or vo che me rivale
Del re de’ cieli onnipossente esprime),
E ampiamente di me, dell’oste inferna
Mertato avete, che fin qui, sì presso
Delle celesti porte, a’ miei trionfi
475Con quest’eccelsa, glorïosa mole
Uniste i vostri, e con sì stabil varco
Fêste di questo mondo e dell’inferno
Un solo regno ed una patria stessa.
Or mentr’io dunque per lo buio a quelle
480Sozie possanze colaggiù discendo
Sul da voi fabbricato agevol calle
A dar contezza de’ successi miei
E divider con lor le gioie nostre,
Voi per quest’altra via, fra mezzo a queste,
485Or tutte vostre, numerose sfere
Dritto all’Eden scendete: ivi felici
Soggiornate e regnate; indi si stenda
Sulla terra e sull’aere il vostro impero,
E più sull’uom che dichiarato solo
490Sovrano fu del tutto; egli sia vostro
Schiavo primiero, e alfin tuo pasto, o Morte.
Io vi mando in mia vece, e ’n vostre mani
La piena, incomparabile mia possa
Tutta rimetto: in voi, ne’ vostri uniti
495Sforzi di questo mio novello regno
Sta il securo possesso e delle inferne
Cose la gloria. Ite felici e forti. -
A questi detti, tra le folte stelle
Precipitan color rapido il corso
500E di velen spargono il calle. Ogn’astro
Aduggiato scolorasi, dell’atra
Tartarea peste alla maligna forza
S’ecclissa e langue ogni pianeta. Intanto
Per l’altra e nuova via Satán scendea
505Alle porte d’inferno. Alto mugghiando
Il diviso Caosse a destra e a manca
Assal con rovinose onde sonanti
La sovrapposta fabbrica che a scherno
Prende il vano furor. Varca Satáno
510Le aperte soglie, da color lasciate
Che al nuov’orbe volaro, e tutto intorno
Trova deserto. Ritirata addentro
S’era l’oste infernale intorno a’ muri
Del Pandemonio ch’è cittade e reggia
515Dell’eccelso Lucifero (tal nome
Ebbe Satáno un dì dal fulgid’astro
Cui fu rassomigliato). In armi stava
Il campo tutto, e in general consesso
Sedeano i grandi della sorte incerti
520Del sommo duce ch’eseguiti appieno
Gli ordini or trova al suo partir lasciati.
Come inseguìto dal nemico Russo
Là d’Astracan per li nevosi campi
Ritirasi lo Scita, o qual sen fugge
525Il battrïan sofì verso i ripari
Di Tauri o di Casbìn, pieno di tema
All’apparir dell’ottomana luna,
E ’l regno d’Aladúl dietro si lassa
Fatto un deserto, tal quell’oste inferna
530Dal ciel sbandita i neri suoi confini
Abbandonò per lungo spazio, e intorno
Alla suprema e più munita rocca
Con stretta guardia si ridusse, e quivi
Che l’audace suo re dall’alta impresa
535Di gir cercando nuovi esterni mondi,
Faccia ritorno, d’ora in ora attende.
Egli, in sembianza di comun guerriero
Dell’ordine minore, inosservato
Passò fra lor; varcata indi la porta
540Della sala real, sul trono eccelso
Che nel fondo sorgea con regia pompa
D’auro e di gemme riccamente intesto,
Invisibile ascende; ivi un tal poco
Egli s’assise, e il tutto a sè dintorno
545Vide non visto: alfin come da nube
La sua fulgida fronte ecco si mostra,
E la forma qual astro ampio raggiante;
Anzi ancor più raggiante un falso lume
Spande, o gli avanzi della gloria prima
550Che a Dio piacque lasciargli. All’improvviso
Folgoreggiar, quelle tartaree turbe
Volgon gli sguardi, e ’l sospirato duce
Veggon fra lor tornato. Alto risuona
Il plauso universale, ed ogni grande
555Di quel nero consesso a un tratto s’alza,
E pien di gioia verso lui s’affretta
E ’l circonda e ’l festeggia. Egli con mano
Silenzio impone, e rispettoso, attento
Stassi ciascuno: - O principati, o troni,
560Podestadi, virtù, dominj, ei dice,
Non sol pe’ dritti vostri a voi si denno
Tai nomi ormai, ma pel possesso ancora
Degli espressi poteri or ch’io ritorno,
Oltr’ogni speme fortunato, a trarvi
565Da quest’inferno, abbominevol antro
Di miseria e d’orror, da questo crudo
Carcer di quel tiranno. Un nuovo, un vasto
Mondo or vi chiamo a posseder che poco
Al nostro ciel natìo di pregio cede,
570E ch’io fra mille rischj e mille affanni
Vi suggettai. Lungo il ridir sarebbe
Quello ch’io fei, quant’io soffersi, e come
I vôti, immensi, tempestosi guadi
Del feroce Disordine io trascorsi.
575Quel varco, ov’or largo cammin costrutto
Han Colpa e Morte, ed appianato al vostro
Glorïoso tragitto, apersi io primo
Fra duri stenti: io mi slanciai, m’immersi
Nel tetro grembo del Caosse informe
580E della notte ingenita che al mio
Viaggio audace s’opponean, gelosi
De’ loro arcani, con orrenda rabbia;
E con fragor, con urli i gran decreti
Allegavan del fato. Al nuovo mondo
585Che già predetto in ciel gran tempo innanzi
Avea la fama, vincitore alfine
Io giunsi; egregia fabbrica, perfetta,
Meravigliosa. Ivi in giardin felice
Era locato l’uom che al nostro esiglio
590Dovea sua bella sorte. Al suo Fattore
Con l’arti mie lo fei ribelle, e un pomo
A lui vietato, il crederete? un pomo
A ciò bastommi. Per tal fatto (or voi
Ridete) acceso d’ira il re supremo
595L’uom suo diletto e tutto il mondo insieme
Alla Colpa ed a Morte ha dati in preda,
E quindi a noi, senz’alcun rischio nostro
O pena o tema, a noi che là potremo
Soggiornar, spazïar, regnar sull’uomo,
600Com’ei sul tutto in pria regnar dovea.
È ver (nol celo) che su me pur anco
Ei profferir la sua sentenza volle,
O piuttosto sul serpe, onde le forme
Io presi a sedur l’uom. Quel che mi spetta,
605È mortal odio ch’ei fra me vuol porre
Ed il genere umano. Io deggio al piede
Tendergli insidie, ed il suo seme un giorno
Calpesterammi il capo; il quando poi
Non sepp’ei dir. Forse tropp’alto è il prezzo
610Del conquisto d’un mondo? Eccovi esposti
I miei successi. Or ch’altro resta, o numi,
Se non andar di quei beati regni
Al pien possesso? - Egli, ciò detto, alquanto
Fermossi ad aspettar le liete grida
615E ’l plauso universal; ma d’ogni lato
Ode, all’opposto, d’infinite lingue
Un orribile sibilo improvviso,
Suon di ludibrio general. Stupito,
Ma pochi istanti, ei ne riman; chè tosto
620Maggior stupore ha di se stesso: ei sente
Che gli si stira e affila il volto, a’ lati
Gli si affiggon le braccia, insiem le gambe
S’accoppian, s’attortigliano e bocconi,
Riluttante, ma invan, sul ventre cade
625Mostruoso serpente a terra steso.
Or maggior della sua lo investe e doma
Una superna forza, e, come vuole
La sua condanna, in quella forma stessa,
In cui peccò, porta la pena. Ei tenta
630Parlar, ma sol con la trisulca lingua
Sibili rende a’ sibili dell’altre
Trisulche lingue; chè conversi i rei
Complici del suo fallo al par con lui
Son tutti in serpi. Un fero suon riempie
635La vasta sala che d’attorte code
E spaventose teste ondeggia tutta
In orridi viluppi, e tutta ferve
Di que’ rabbiosi mostri; aspi, cornute
Ceraste, anfesibène, idri, scorpioni,
640Dipsadi, ellopj. Moltitudin tanta
Già non fu vista da quel suolo uscirne
Ove l’atro stillò gorgoneo sangue,
E non d’Ofiusa. In mezzo a lor grandeggia
Satán, dragone smisurato assai
645Più di quel che dal fango il sol produsse
Pitone immane, e sovrastare agli altri
Sembra, come di forma, ancor di possa,
Seguillo ognun verso l’aperto campo
Ove l’intero esercito ribelle
650Schierato stava cupido e superbo
Ad aspettar che il glorïoso duce
Si mostri in pompa trionfal, quand’ecco,
Oh vista ben diversa! un stuolo appare
Di deformi serpenti. Un freddo orrore
655Assal tutta quell’oste e la percote
Il colpo stesso. In ciò che miran, tosto
Senton cangiarsi; cadono repente
L’aste e gli scudi al suolo, e cade a un tempo
Ogni guerrier: rinnovasi per tutto
660L’orribil fischio, e quell’orribil forma
È di colpa comun comun gastigo.
Così fur vôlti in sibili di scorno
I loro applausi ed il trionfo in onta
Dalle proprie lor lingue. A far più grave
665La pena loro, ivi dappresso un bosco
(Così piacque all’Eterno) a un tratto surse
Tutto carco di poma appien simìli
A quelle che a Satán fur l’esca ond’egli
Nel paradiso Eva ingannò. Gli sguardi
670Sopra il novo stranissimo portento
Essi a lungo fissâr, da tema presi
Che, per un arbor solo, ivi cresciuta
D’arbor vietati sì gran copia fosse
A raddoppiar la lor vergogna e ’l danno.
675Ma cruda fame e intollerabil sete
D’alto mandata sì gli assale e strugge
Che non san rattenersi: a torme, a mucchi
Tutti colà s’avvoltolaro, e sovra
Le piante inerpicandosi, dai rami
680Così pendero attorcigliati e folti
Che fu men folto di Megera il crine.
Avidamente a dispiccar le frutta
Tosto si dier, vaghe e lucenti al guardo
Non men di quelle che un dì crebber poi
685Appo il sulfureo lago, ove del cielo
Cadde la fiamma e Sodoma fe’ polve.
Ma non al tatto solo, al gusto ancora
Fean queste inganno: essi calmar pensando
Con dolci poma la rabbiosa fame,
690Amarissime ceneri mordaci
Solo col dente stringono, che tosto
Sono con ira e sibilante scroscio
Costretti a rigettar: tornan più volte
Spinti da fame e sete all’aspro assaggio,
695Ed altrettante il sozzo, orrido pasto
Di ceneri e fuliggine distorce
Loro e bocca e mascelle. A quell’inganno
Sì fur spesso dannati essi che alteri
Ivan testè d’un sol trionfo e vano
700Sovra l’uomo caduto, e tormentolli
Quello stridulo fischio e quell’atroce
Rabida fame infin che lor concesso
Fu ripigliar le prime forme. Ogni anno
Però, siccom’è voce, in fissi giorni
705Quella pena e quell’onta in lor ricade
Ad abbassarne l’esultante orgoglio
Per l’uom sedotto. Incerta aura di fama
Pur del vantato lor trofeo si sparse
Fra le idolatre genti, onde cantaro
710Che il serpe a cui d’Ofione il nome diessi,
Prima dell’alto Olimpo il regno tenne
Con Eurinome insieme (in lei fors’Eva
Che usurpò ambizïosa i dritti altrui,
Intesero nomare), e furo entrambi
715Indi scacciati da Saturno ed Opi
Pria che al lume del dì sul ditteo giogo
Uscisse Giove. A’ nostri danni intanto
Ahi! troppo ratta in paradiso è giunta
L’infernal coppia. Il sol poter stendea
720Ivi la Colpa in prima, or ella stessa
Evvi in persona, e stabil sede avervi
Già fa disegno. Ne ricalca l’orme
Morte dappresso che non anco il tergo
Premea del suo corsier squallido e smunto,
725Quando colei sì prese a dir: - O Morte,
O di Satán secondo illustre germe
Di tutto domator, di’, che ti sembra
Di questo nostro impero? Ancor che duro
Cammin ci costi, assai miglior per noi
730Non pensi tu che senza possa e nome
Lo starci a guardia colaggiù di quelle
Atre soglie infernali, ove per lungo
Digiun tu pur languivi? - A cui quel mostro
Così tosto rispose: - A me ch’eterna
735Fame tormenta, paradiso, inferno,
O ciel che importa? Ov’è maggiore il pasto,
Ivi mia stanza anco è miglior; nè spero
Bench’io qui larga preda abbia davanti,
Empiermi il ventre già, nè stender mai
740Intorno all’ossa mie la vôta pelle. -
- Intanto di quest’erbe e frutta e fiori,
Soggiunge allor l’incestuosa madre,
Pasciti in prima, indi d’augelli e pesci
E d’ogni belva, non spregevol cibo,
745E quanto il tempo coll’adunca falce
Miete, col dente vorator tu struggi;
Finch’io sovra l’intera umana stirpe
Fermi mia sede e del mio tosco infetti
I suoi pensier, sguardi, parole ed opre,
750E tua lo renda alfin più dolce preda. -
Ambo, ciò detto, per diverso calle
Volsero il piè, di spargere anelando
In ogni cosa di lor peste i semi,
E tosto o tardi, quanto vive, tutto
755Maturare all’eccidio. Allor dal sommo
Soglio mirando ciò l’Eterno Padre,
Ai circostanti luminosi cori
Così parlò. - Mirate là que’ sozzi
Mostri d’inferno con qual rabbia vanno
760La terra a disertar ch’io non men vaga
Creai che buona, e tal serbata avrei
Se il folle error dell’uomo a quelle ree
Struggenti furie non ne aprìa l’ingresso.
Pur quel prence d’averno e gli empj suoi,
765Perchè a’ nemici miei facil consento
D’entrare in sì bel regno e avervi impero,
D’improvvidenza osan tacciarmi, e oggetto
A’ lor dileggi io son, qual se da cieco
Disdegno preso, in lor balìa lasciato
770Io tutto avessi e al lor furore in preda:
Nè san ch’io stesso que’ mastini inferni
Di laggiù spinsi in sulla terra ond’essi
Quanto d’immondo e turpe il fallo umano
Sparse colà sovra le pure cose
775Deggian tutto lambire e pascer sempre;
Finchè di quella sanie e quel sozzore
Satolli e gonfj, a un colpo sol del tuo
Vittorïoso braccio, o amato Figlio,
Con l’atra preda loro un’altra volta
780Scagliati sien giù pel Caosse alfine
Dentro l’abisso, cui le ingorde fauci
Fian con suggello eterno allor serrate.
Più santi e puri allora il ciel, la terra
Di beltà nuova splenderan, nè mai
785Soggetti a macchia più. Ma d’uopo è intanto
Che si purghi il misfatto e ’l mio s’adempia
Sovran giudicio. - Egli qui tacque, ed alto,
Come il fremer de’ mari, in tutto ’l cielo
Dell’infinito angelico consesso
790Risonâr gli alleluja: - È giusta e retta
Ogni tua via, Signor: giusti son tutti
In tutte l’opre i tuoi decreti eterni:
Chi fia che adombri la tua gloria? Al Figlio
Della perduta umana stirpe eletto
795Ristorator quindi sia gloria e lode,
Per cui novello ciel, terra novella
Sorger vedranno le future etadi
O scender dall’empiro a’ cenni suoi. -
Tai furon gl’inni, e ’l Creator frattanto
800A sè chiamando i suoi ministri a nome,
Diverso incarco a ciascun diè, com’ora
L’ordin volea delle cangiate cose.
Di torcer la sua via così fu prima
Al sole imposto e tal vibrar sua luce
805Che gelo e ardore intollerabil quasi
La terra alternamente ne sentisse,
Or dal rigore aquilonar percossa,
Or dalle infeste soffocanti vampe
Che il solstizio le avventa. Il proprio fue
810Ministero alla luna indi fermato,
Ed agli altri pianeti i varj moti,
I varj siti, i varj spazj, ond’ora
Guardansi opposti con sinistre fronti,
Or s’uniscon maligni. Appreser quando
815I loro influssi rei versar le fisse
Stelle dovean; qual d’esse a par col sole
Sorgendo o tramontando orridi nembi
Avesse a sollevar: fu il loco a’ venti
Prescritto, e quando furïosi insieme
820Dovrian mescere il mare e l’aria e i liti.
E quando il tuon le buie eteree volte
Crollerìa spaventoso. È fama ancora
Ch’a’ suoi ministri comandò l’Eterno
Per venti gradi e più dal solar asse
825Svolgere i poli della terra, e quelli
Non senza sforzo l’ampia e stabil mole
Spinsero e travoltâr. Per egual tratto,
Com’altri vuol, del suo Signore al cenno
Scostossi il sole dal cammino usato,
830Pel Tauro, per le atlantidi sorelle
E i gemelli spartani infino al segno
Ascendendo del Cancro, e quindi in giuso
Pel Leon, per la Vergine e la Libra
Calando al Capricorno. I varj climi
835Ebber così varia stagion: che in altra
Guisa un’eterna primavera in terra
Sarïasi vista e fresche erbette e fiori,
Con notti eguali a’ giorni: ai poli il sole
Per compensarli di sua scarsa e troppo
840Lontana luce, compartito avrebbe
Perpetuo dì, visibile girando
Senz’orto e senza occaso intorno intorno
All’orizzonte, nè d’eterni ghiacci
Forano state rigide le piagge
845D’Estotilanda e i magellani liti.
Dall’empio assaggio del vietato frutto,
Qual dall’infando tïestèo convito,
Rivolse quel grand’astro i guardi e ’l corso:
Chè se, qual fu dipoi, tal fosse stato
850Suo calle in pria, come il terrestre globo
Schivato avrìa, benchè di colpa scevro,
Gli acerbi freddi ed i cocenti ardori?
Cotai vicende in ciel trasserne in terra
E in mar, benchè più lente, altre simíli;
855Splendero infausti gli astri; ignei vapori,
Caliginose nebbie ed atre pesti
L’aria infettâr: da Norumbéga estrema
E dai confin de’ Samoiedi algenti,
Le lor di bronzo carceri squarciando
860Borea ad Argeste e Cecia e Trascia armati
Di neve e gelo e turbini e procelle
S’avventano a schiantar le selve intere
E por sossopra i mari. Ad essi incontro
Si slanciano ruggendo Africo e Noto
865Cinti di negre, fulminanti nubi
Dalla Serralïona e dalle porte
Del mezzodì. Di fianco in giostra viene
Con furia egual Zefiro ed Euro, e presso
Han Scirocco e Libeccio altomugghianti.
870Tal fra le cose inanimate in pria
Trambusto surse, e della Colpa figlia
La Discordia bentosto il suo furore
Soffiò negli animali, e fu di morte
Fra lor ministra: cogli augei gli augelli,
875Coi pesci i pesci ed ogni belva insieme
Cominciaron la guerra: i frutti e l’erbe
Obblìan feroci, e l’arrabbiato dente
Volgon l’une sull’altre; all’uomo alcuna
Più non serba rispetto, e il fugge o biechi
880Torce sovr’esso nel passar gli sguardi.
Cotai furo i crescenti esterni mali
Che dalle folte e nere ombre del bosco,
U’ s’era ascoso e abbandonato al duolo,
Già scorse in parte Adam, ma ben più feri
885Nel seno altri ne prova, e ’n gran tempesta
Agitato d’affetti, il grave affanno
Cercò sfogar così: - Misero Adamo,
Tanto felice in pria! Di questo nuovo
Splendido mondo adunque il fine è questo?
890A questo fin venn’io che dianzi n’era
L’ornamento più bello? Io che del cielo
Era testè l’amor, l’odio or ne sono?
E la vista di Dio, già di mie gioie
Suprema gioia, or di terror m’ingombra?
895Ma de’ miei mali almen qui fosse il fine!
Io li ho mertati e soffrireili in pace.
Ma che! quanto prolunga il fil di questa
Misera vita mia, la vita in altri
Da me diffusa, altro sarà che trista
900Propaggin di miserie? Oh voce, oh voce
Con tanta gioja udita un dì! - Crescete,
Moltiplicate: - Oh voce or, più che morte,
Amara a ricordarsi! E ch’altro mai
Poss’io moltiplicar se non le altrui
905Fere bestemmie sovra il capo mio?
Chi ne’ venturi secoli, fra i tanti
Mali ch’io tratti avrò su lui, chi fia
Che non mi maledica? - Ecco il retaggio
D’Adamo, si dirà; mal s’abbia il reo
910Nostro progenitor! - Così l’immenso
Carco dei danni, onde saranno oppressi
I miei più tardi sventurati figli,
Tutto sull’alma mia, quasi in suo centro
Ricaderà, s’aggraverà. Quai lunghi
915Affanni, oimè, succederanno ai brevi
Piacer del Paradiso! Ah! t’ho fors’io
Richiesto, o Creator, di trarmi fuora
Dalle tenebre mie? Ti pregai forse
Da quel mio fango d’innalzarmi a questa
920Forma vitale, e qui locarmi? A quello
Che festi, il mio voler parte non ebbe:
Giusto non fora il ritornarmi dunque
Nella mia polve? Io volontier vi torno,
Tutto quant’ebbi volentieri io rendo,
925Io non atto a serbar quell’ardue leggi
Per cui quel bene ritener dovea
Che non ti chiesi. Io l’ho perduto, e basta;
Perchè tu dunque d’infiniti mali
V’aggiugni il peso? Inesplicabil sembra
930La tua giustizia: pur tardi, il confesso,
Sì, troppo tardi, ora m’oppongo: allora
Che offerti furo, io ricusar dovea,
Quai che fossero, i patti. Il dono, Adamo,
Tu ricevesti, ne gioisti, ed ora
935Contro la legge del goderlo, or movi
I tuoi vani argomenti? Iddio creotti
Senza il consenso tuo: ma che? se un reo
Figlio, mentre il riprendi, a te dicesse:
- Perchè mi generasti? Io non tel chiesi: -
940L’oltraggiosa accettar discolpa audace
Vorresti tu? Pur non tua scelta diede,
Ma di natura necessaria legge
A lui la vita; e Dio crearti scelse,
E perchè grato il suo voler seguissi,
945Trasfuse in te di sè medesmo un raggio.
Era suo dono il premio; a dritto or dunque
Sta in suo voler la pena: io mi sommetto;
Giusto è il giudicio suo: fui polve, e polve
Io tornerò. Deh ne giungesse il punto!
950Ma perchè tarda la sua man quel colpo
Ch’oggi scagliar fermò? Perchè ancor vivo?
E son gioco di morte, e senza morte
Mi si prolunga il duolo? Oh come lieto
Alla data sentenza incontro andrei
955Di ricadere in insensibil terra!
Quanto lieto a giacer porreimi in essa,
Come in grembo a mia madre! Ivi tranquillo
Avrei riposo, avrei sicuro sonno;
Non più di Dio la spaventevol voce
960Mi tuonerebbe nelle orecchie allora;
Non più per me, pe’ figli miei la tema
Mi cruceria con rinascenti pene
Di peggior sorte. Un dubbio aspro la mente
Però mi punge, che non tutto forse
965Io morirò; che forse in un con questa
Corporea creta mia non verrà meno
Quell’aura pura che spirovvi Iddio:
E allor chi sa ch’io nella tomba o in qualche
Altro fero soggiorno ognor non provi
970Senza morir la morte? Oh se ciò fosse!
Qual orrido pensier! Ma che! lo spirto
Di vita, ei sol, peccò; dannato a morte
È ciò che ha vita e colpa, e questo incarco
Terreno mio dell’una e l’altra è scevro.
975Tutto dunque io morrò. Tacciano alfine
I dubbj miei: chè andar non sa più lungi
L’umana mente. Ah! se il Signor del tutto
È infinito, infinito anco il suo sdegno
Fia dunque? Sia; tal non è l’uom, che a morte
980Ora è dannato. È come eterna l’ira
Dio sull’uom stenderebbe, a cui di vita
Fisso è un confin? Fare immortal la morte
Egli forse potria? Pugnanti cose
Ei stesso unir non può; chè fora questo
985Di debolezza e non di possa un segno.
L’insazïabil sua vendetta dunque
Andrebbe oltre la polve, oltre le leggi
Della natura, onde ogni causa solo
Opra quanto il subietto in sè sostiene,
990Non già quant’ella in sè medesma puote?
Pur se la morte un colpo sol non fosse,
Com’io supposi, che ogni senso spenga;
Ma serie interminabile di pene,
Che in me medesmo e fuor di me già sento
995Incominciata, e se durar dovesse
Così per tempo eterno... Oimè! ritorna
Sull’ignudo mio capo il mio timore
A tuonar spaventoso. Io dunque e morte
Con sempiterno indissolubil nodo
1000Sarem congiunti? E non sol io, ma tutti
Andranno meco i miei più tardi figli,
Tutti perduti? Oh bel retaggio ch’io
Vi lascio, o figli! Consumarlo tutto
Io sol potessi almeno, e parte alcuna
1005A voi non ne lasciar! Quanto il mio nome
Benedireste allor, che un suon d’orrore
Così saravvi! E d’un sol uom pel fallo
Dunque dannato fia, benchè non reo,
Tutto il genere uman? Non reo! Che dico?
1010Ah! di mia colpa l’orrido fermento
Entro la massa di mia stirpe intera
Serpeggia e la corrompe: i figli miei
Saran d’infetta fonte infetti rivi:
Le lor menti, i pensier, le voglie e l’opre
1015Tutto fia pravo, e del suo sdegno Iddio
A dritto graveragli. Ah! sì, costretto
A confessar la sua giustizia io sono,
E per le buie, tortuose vie
De’ miei vani argomenti io cerco indarno
1020Una fuga, uno scampo; ogni ragione
Al mio convincimento alfin mi guida.
Ultimo e primo io solo, io sol radice
Son d’ogni labe, e in me solo ricade
La colpa tutta. Oh ricadesse ancora
1025Tutta l’ira del ciel!... Che dissi? Ahi cieco
Desire! un peso io sostener potrei
Più della terra, più del mondo intero
Grave, orrendo a portar, sebben con quella
Trista donna diviso? E quanto bramo
1030E quanto temo, ogni speranza dunque
Distrugge di salute! O qual esempio
Insuperabil di miseria io sono!
Solo Satán, come in delitto, ancora
M’agguaglia in pena. O coscïenza, in quale
1035Abisso di terror m’immergi, ond’io
Se tento uscire, altro cammin non trovo
Che non mi tragga in un più cupo abisso! -
Questi mettea dal seno alti lamenti
Per la tacita notte afflitto Adamo,
1040Notte non più salubre e fresca e dolce,
Quale innanzi al peccar, ma ingombra e cinta
D’umide, spaventose, alte tenébre
Che all’atterrito cor presentan mille
In ogni oggetto orridi mostri e larve.
1045Sul suol, sul freddo, ignudo suol disteso
Ei spesso l’ora maledice, in cui
Creato fu, spesso la morte accusa
Che il suo colpo scagliar nel dì del fallo
Doveva, e ancor lo indugia. - Oh! perchè mai,
1050Perchè non vieni, o morte? egli pur torna
A replicar, perchè t’imploro invano?
Manca a’ suoi detti un Dio? Perchè sì tarda
È la giustizia sua? Ma sorda è morte
A’ voti miei, nè per preghiere e pianti
1055La divina giustizia affretta il passo.
Ben altre, o boschi, o fonti, o colli, o valli,
Ben altre note già dall’ombre vostre
Ripeter v’insegnai, ben altro canto. -
Quando sì vinto dal dolor lo vide
1060Eva dal loco ove piangendo stava,
Accorse, e quel furor con molli detti
Disacerbar tentò; ma: - Fuggi, fuggi,
Esecrabil serpente (egli le grida
Con severo sembiante), a te conviensi
1065Ben questo nome, a te che seco in lega
T’unisti, al par fallace e degna al pari
D’abborrimento. Oh perchè ancor non hai
Tu quelle forme stesse, onde altri avviso
Di tua nequizia interna avesse almeno,
1070Nè quel tuo lusinghier, celeste aspetto
D’infernal fraude occultator, nei lacci
Strascinasse così! Felice ancora
Io sarei senza te, senza quel vano
Orgoglio tuo che i miei consigli a vile
1075Ebbe nel maggior uopo, e ’l mio rispinse
Ah! troppo giusto diffidar. Dinanzi
Allo stesso Satán, di tua beltade
Desïasti far pompa, e ’l folle ardire
Di superarlo anco nudrivi! Intanto
1080Al primo incontro, nel tessuto inganno
Ecco schernita cadi; indi con teco
Nel precipizio me, perfida! traggi.
Ahi cieco me! me forsennato allora
Che saggia e ferma ed invincibil contro
1085Ad ogni assalto io ti credei, nè scorsi
Che verace virtude in te non era,
Ma vana mostra solo! Ah! perchè in terra
Un solo sesso ed il miglior non regna,
Siccome in ciel? Perchè quel grande e saggio
1090Supremo Facitor formò sì nuova
Creatura quaggiù, questo sì vago
Di natura difetto, ed altra via
L’umano seme a propagar non scelse?
Quest’orribile dì surto non fora
1095Allor per me, nè le venture etadi
Sariano esposte a mali tanti e gravi
Ch’io già preveggo. Una compagna adatta
Or l’uom non troverà, ma tale avralla
Qual trista sorte o inganno a lui la mena:
1100Or quella ch’ei più brama, a’ voti suoi
Starà proterva e dura, e poscia in braccio
Darassi d’un indegno; or, se d’eguale
Amor ell’arda, s’opporran severi
I genitori: or quando alfin potrebbe
1105Ogni suo bel desìo far pago appieno,
Con laccio indissolubile già stretto
Ei troverassi a donna iniqua e rea
Che sarà l’odio suo, la sua vergogna.
Così sconvolta e travagliata sempre
1110Fia la pace domestica e la vita. -
Disse e ’l tergo le volse: Eva per questo
Non si sconforta, ma con largo pianto
E discomposte trecce, umile ai piedi
Gli si getta, li abbraccia e perdon chiede
1115E così geme e prega: - Ah! non lasciarmi,
Adam, così: m’è testimone il cielo
Qual io nel seno riverenza e amore
Senta per te: fu involontario il fallo,
E d’un funesto inganno io caddi preda.
1120Supplice adesso il tuo perdono imploro
E tue ginocchia stringo. Ah! non mi tôrre
Quegli sguardi soavi, ond’io sol vivo,
E i tuoi consigli e ’l tuo soccorso in questa
Estrema mia sciagura, o sol conforto,
1125Solo sostegno mio. Se m’abbandoni,
A chi ricorro? ove mi volgo? Ah! sia,
Almen finchè viviam (forse una breve
Ora soltanto), ah! fra noi due sia pace.
Entrambi offesi fummo, entrambi uniti
1130Contr’un nemico espressamente a noi
Decretato dal ciel, tutto volgiamo
L’odio nostro e ’l poter, contro quel crudo
Serpe: deh! pon giù l’ira: assai meschina,
Meschina troppo, e più di te son io.
1135Peccammo entrambi; contro il ciel tu solo,
Io contro il cielo e te. Sì, vo’ tornarmi
A quel loco medesmo ove l’Eterno
Ci condannò. Là con preghiere e pianti
Lo stancherò ch’ei dal tuo capo svolga
1140La sua sentenza e la ritorca tutta
Sovra me sola d’ogni mal cagione,
Sovra me sola del suo sdegno intero
Ben giusto oggetto. - Ella finì spargendo
Un rio di pianto. In rimirarla umíle,
1145Inginocchiata, immobile, dal duolo
Oppressa e dai rimorsi, Adam sentissi
Tocco dalla pietà: gli parla il core
Per lei ch’era testè sua gioia sola,
Anzi sua vita, ed or prostrata, immersa
1150In disperato affanno ai piè si mira;
Per cotanta beltà che grazia chiede
E pietade e consiglio e aìta a lui
Ch’ella oltraggiò. Tutto il suo sdegno ei perde,
L’alza da terra, e placido le parla
1155In questi accenti: - Oh sconsigliata e troppo,
Siccome pria, nelle tue brame cieca!
Tutto sopra di te vorresti dunque
Ricevere il gastigo? Ah! prima apprendi
La tua metade a tollerar: non sai
1160L’ira soffrir del tuo consorte, ed atta
Ti credi a sostener l’orrenda piena
Dell’ira eterna, onde non provi ancora
Fuorchè minima parte? Oh! se co’ preghi
Si potesser cangiar gli alti decreti,
1165Precederti a quel loco io ben vorrei
Con ratti passi, e con più forte voce
Chieder che sul mio capo il ciel versasse
Tutto il suo sdegno, e appien ne fosse immune
Un sesso frale a me fidato e ch’io
1170Mal seppi custodir. Ma sorgi, e omai
Da ogni alterno rimprovero si cessi;
D’altronde assai ne abbiam. Sol si contenda
In ufficj d’amore e in far più lieve
De’ nostri guai scambievolmente il peso,
1175Giacchè la morte un súbito ritorno
Non fia nel nulla, s’io ben scorgo il vero,
Ma un lento mal che cogl’indugi suoi
Ci diverrà piu grave e fia trasmesso
Nei figli nostri. Ahi sventurati figli! -
1180Eva, ripreso cor, risponde allora:
- Troppo conosco, Adam, per trista prova
Che i miei consigli, del commesso errore
E di tanta sciagura a noi cagione,
Nulla mertar, fuorchè disprezzo, ponno:
1185Pur, giacchè ’l tuo favore, ancor che indegna
Io ne sia, tu mi rendi e insiem la speme
Di racquistarmi il tuo primiero affetto,
Che, vivendo o morendo, il mio conforto
Sempre sarà, non vo’ celarti quali
1190Pensier mi van per l’agitata mente,
Onde ristoro o fine abbia l’estrema
Sciagura nostra; aspro compenso e duro,
Ma di quella men duro, e tal che puote
Ben anteporsi. Se il pensier ci affanna
1195De’ figli nostri ch’a infallibil duolo
Nascer dovran, che preda alfin di morte
Tutti saranno (e miserabil certo
È il tramandar dal proprio sangue in questa
Dannata terra un’infelice stirpe
1200Che dopo tanti guai sia pasto alfine
Di quell’orrido mostro), in te scamparli
Sta dal crudo destin. Figli non hai,
Figli non acquistar: così delusa
Morte sarà, così l’ingordo ventre
1205Di noi due soli ad appagar costretta.
Ma se fra i vezzi usati e i dolci sguardi
E ’l dolce conversare, arduo tu stimi
Frenar l’ardor degli amorosi amplessi,
De’ nuzïali riti, e di desìo
1210Senza speme languir dinanzi al caro
Oggetto d’egual brama anch’ei languente
(Tormento forse non minor di quanti
Noi ne temiamo), a liberar noi stessi
D’ogni terrore e i nostri figli a un tempo,
1215Cerchiam spedita via, cerchiam la morte;
O compian nostre mani, ov’ella indugi,
L’ufficio suo. Fra tremiti ed angosce
Perchè stiam noi, s’ella è di tutte il fine,
E tante strade a lei ci sono aperte?
1220Scelgasi la più breve, e si consumi
Coll’esterminio l’esterminio. - Pose
Eva qui fine, o de’ suoi detti il resto
Troncò l’insana, disperata doglia;
E l’imagin di morte ond’ella ingombra
1225Tutta l’anima avea, le sparse il volto
D’un esangue pallor. Ma, nulla mosso
Da tai consigli, Adamo alzò la mente
Più attenta e grande a miglior speme, e disse:
- Il tuo sprezzar la vita, Eva, discopre
1230In te qualcosa più sublime e degna
Di ciò che sprezzi; ma il cercar la morte
Non è dispregio della vita, è duolo
Di perderla piuttosto e perder seco
Que’ diletti, a cui troppo il cor s’appiglia.
1235Chè se qual fin delle miserie estremo
Brami la morte, e la prescritta pena
Pensi evitar così, lascia la vana
Speranza, o certa sii che Dio più saggio
La vindice ira sua così non arma
1240Ch’altri stornarla possa: anzi tem’io
Che se le mani vïolente e crude
Contro noi volgeremo, a noi s’accresca
La decretata pena, e più crucciato
L’alto Fattore alla protervia nostra,
1245Eterni in noi la morte stessa. Ad altro
Dunque ci rivolgiam miglior consiglio,
Che parmi ritrovar, se attento io peso
Parte di quel decreto: "Infranto il capo
Al serpe fia dal seme tuo." Qual fora
1250Meschina ammenda questa, ove non sieno
Vôlti quei detti al nostro gran nemico,
A Satán, com’io penso, il qual ci ordìo
Sotto imagin del serpe il fero inganno?
Schiacciar l’empio suo capo alta vendetta
1255Sarebbe invero, e procacciando morte,
O senza prole i nostri dì passando,
Ella fora perduta. Il suo gastigo
Ei così fuggirebbe, e doppio in noi
Cadrebbe il nostro. Ogni pensier stia lunge
1260Dunque da noi di volontaria morte,
E di sterilità che tutte tronca
Nostre speranze, e sol dimostra orgoglio
E rancore e dispetto incontro a Dio
E ’l giusto giogo suo. Rammenta come
1265Benigno ei ci ascoltò, come senz’ira
Ci giudicò, senza rampogne. Noi
Súbita morte aspettavàmo, ed ecco
Solo del partorire a te predetti
Sono i dolori che bentosto in gioia
1270Si cangeran de’ figli al dolce aspetto.
Cadde, strisciando sul mio capo appena,
La mia sentenza al suolo: io debbo il pane
Col sudor procacciarmi: ebben, peggiore
L’ozio stato sarìa. La mia fatica
1275Mi sosterrà: contro l’ardore e ’l gelo
Già la provvida sua mano paterna
Spontaneamente ci vestì non degni,
E, al par che giusto, ei si mostrò pietoso.
Or quanto più, se il pregherem divoti,
1280Facil sarà ch’apra l’orecchia e ’l core
Alla pietà? Delle stagion l’acerbo
Rigor come si schivi, o scemi o tempri
Egli c’insegnerà. Già vedi come
Per lo sconvolto ciel nembose nubi
1285Aggirando si van; di nevi e ghiacci
Già di questa montagna aspra è la cima,
E con acuto, umido soffio i venti
Sperdon di queste maestose piante
Le belle chiome. Ciò ne avverte, o sposa,
1290Un ricovro a cercar, dove le nostre
Abbrividate membra abbian conforto
Di maggior caldo; e pria ch’all’aspra, algente
Notte ci lasci la diurna lampa,
A tentar di raccor sovr’arid’esca
1295Gli addensati suoi raggi e trarvi il foco;
O di due corpi al rapid’urto e spesso
Dall’aer trito sprigionar la fiamma,
In quella guisa che testè dal cozzo
Delle aggruppate nubi in giostra spinte
1300Scender la tôrta folgore vedemmo
E incendere del pino e dell’abete
La gommosa corteccia e spander lungi
Un sì dolce calor che può del sole
Al difetto supplir. L’uso di questo
1305Foco e di quanto esser sollievo ai mali
Potrà che il nostro fallo in terra ha tratti,
Iddio ci mostrerà, se a lui devoti
Ricorso avrem. Sì, trapassar la vita,
Sostenuti da lui, potremo ancora
1310Assai contenta e lieta, infin che resi
Alla polve sarem, primiero nostro
Nativo nido e nostra requie estrema.
Ch’altro di meglio a far ci resta intanto
Se non colà ’ve giudicati fummo
1315Ambo tornar, prostesi e riverenti
Cadergli innanzi, confessare il fallo
E implorarne il perdon, bagnando il suolo
Di pianto e l’aere di sospiri empiendo
Tratti da cor compunto, in certa prova
1320Di vero duolo e d’umiltà sincera?
Certo a pietade egli fia mosso e l’ira
Distornerà. Nel suo sereno sguardo,
Quand’ei più irato e più severo apparve,
Favor non rilucea grazia e mercede? -
1325Sì disse il nostro penitente padre,
Nè fu minor d’Eva il rimorso. Al loco
Di lor condanna s’affrettaro entrambi
Ivi prostesi e riverenti, a Dio
Caddero innanzi, confessaro il fallo
1330E imploraro il perdon, bagnando il suolo
Di pianto e l’aere di sospiri empiendo
Tratti da cor compunto, in certa prova
Di vero duolo e d’umiltà sincera.