Il tarì amalfitano

Da Wikisource.
Arthur Sambon

1891 Indice:Rivista italiana di numismatica 1891.djvu Rivista italiana di numismatica 1891

Il tarì amalfitano Intestazione 6 ottobre 2011 75% Numismatica

Questo testo fa parte della rivista Rivista italiana di numismatica 1891
[p. 117 modifica]

IL TARÌ AMALFITANO



Tarì.

D/ — Giro esterno: (croce di S. Andrea) Ƨ ANDREAƧ (Caratteri cufici sformati) ƧALRN (Caratteri cufici sformati).
Giro interno: El Moez ledin illah Principe dei credenti.
Area: Cerchio con un punto nel centro.
R/ — Giro esterno: Caratteri cufici sformati, tra i quali, quattro volte ripetuta la parola ﺿﺮﺐ (battuto).
Giro interno: Non vi è altro Dio che Dio, Maometto è il Legato di Dio ed Aly l’amico di Dio.
Area: Cerchio con un globetto nel centro.
Coll. Sambon. — Oro. — Peso gr. 0,96 (F. D. C).


I.


Il Camera, in un suo opuscolo: Importante scoperta del famoso tareno d'Amalfi1, pubblicò una pergamena dell’antico tabulario del monastero di S. Gregorio Maggiore di Napoli, in cui si faceva menzione del tari amalfitano e che gli parve fosse [p. 118 modifica]del 913. Questo documento, però, era monco nel Regesto consultato dal Camera, ed il Capasso, colla scorta di un altro Regesto più completo, dimostrò che quel documento è del 1063 e non del 9122. Per quanto io sappia, non si ha alcuna menzione del tarì amalfitano nei documenti della prima metà del X secolo; ne abbiamo invece notizia nei primi anni della seconda metà di quel secolo3, e da questa si può trarre un’importante considerazione. Si può cioè, determinare che gli amalfitani, nel conio del loro tari dovettero imitare la moneta aurea del Califfo Al-Moez-ledin’-illah.

Non v’ha certamente chi ignori l’esteso e ricco traffico che facevano gli amalfitani, nel X secolo, in quasi tutto l’Oriente e negli stati Musulmani dell’Africa settentrionale.

Ancora più frequenti e importanti erano i loro commerci in Sicilia, sia per la maggior facilità, sia per l’abbondanza dei prodotti e della merce che i Musulmani vi avevano trapiantati o v’importavano. Queste relazioni continue e la necessità di agevolarle fecero nascere il bisogno di contraffare i dinar arabici. Né Amalfi fu sola, tra le città del mezzodì d’Italia, ad imitare la moneta araba ; Salerno anch’essa, in continui rapporti commerciali colla Sicilia4, sin dalla metà del X secolo, coniò tari ad [p. 119 modifica]imitazione dei dinar del Califfo Al-Moez-ledin’-illah (953-975) e ne continuò per lungo tempo il conio, siccome attestano i documenti, trovandosene frequentemente menzione sin’oltre il 1148.

Intorno l’esistenza di questo famoso tarì d’Amalfi e di Salerno si è scritto e quistionato molto.

Nel secolo passato, storiografi e nummografi lo credettero titolo d’un valore monetario convenzionale, dicendo, a cagione di un falso raffronto, che un tari d’oro, posto che si fosse coniato, avrebbe dovuto essere d’un’assurda picciolezza. — Ma a sfatare le fantastiche ipotesi, bastò che nel 1812 Salvatore Fusco5 pubblicasse uno di quei tarì, tante volte rammentati nelle carte salernitane.

Né il dubbio fu più possibile, quando, accanto ai caratteri arabici, fu letto il nome del principe Gisulfo. Quindi, più tardi, lo Spinelli, nel 1844 dava un compiuto ragguaglio di tutte le imitazioni dei dinar del Califfo Moez-ledin’-illah, rinvenute nelle Provincie meridionali d’Italia. Se non che argomentò che le imitazioni fossero esclusive, o della Sicilia, o di Salerno. Solamente dopo l’Amari6, l’Engel7 ed altri, a ragione giudicarono che, fra le tante contraffazioni, dovevano ritenersi confusi tarì salernitani e tarì d’Amalfi, pur dichiarando ch’era impossibile distinguerli. E poiché l’imitazione non ebbe dapprima

[p. 120 modifica]altro scopo infuori di quello commerciale, mancando ogni altro motivo di varietà, era naturale la confusione. Difatti prima della conquista normanna, nelle provincie continentali del mezzodì d’Italia, non abbiamo che il tarì la città in cui fu battuto, e due altri, di cui, uno con la sola epigrafe Salerno Prece e l’altro con lettere d’incerta interpretazione attribuito dallo Spinelli a Guaimario IV. Tutti gli altri tipi riproducono quelli dei Moezzini senz’altro indizio distintivo del luogo della zecca, tranne la sformazione dei cufici caratteri.

Rimaneva dubbio quindi se questi tarì amalfitani fossero stati differenti dai prototipi arabo-siculi per qualche segno speciale o anche per diversa dicitura. Ma i più, poiché dalla lettura delle epigrafi dei tanti che ne avanza, non fu mai possibile trovare indizio della zecca amalfitana, son d’avviso che, tranne la sformazione dei caratteri, furono i tarì amalfitani affatto simili a quelli dei califfi siculi.

Il Camera però, leggendo in una pergamena del 1112, dell’Archivio Cavense, l’ordinazione di un pagamento in solidi, quorum quisque habeat auri tarenos bonos amalfitane monete, in quibus crux efformata pareat, argomentò che in tutti i tarì amalfitani fosse impressa, nel centro dell’area, una croce. Ma evidentemente non si può consentire a questa interpretazione, perchè quella determinazione lungi dal provare che tutti i tarì amalfitani avessero la croce, prova invece che la maggior parte non l’avesse8. In ogni [p. 121 modifica]modo, il più prezioso cenno dei tarì amalfitani è una rubrica del de dandis dotibus nelle consuetudini Amalfitane9 redatte verso la fine del XIII secolo. Leggiamo quivi: Datio dotium in civitate Amalphiae olim consistebat in solidis de tarenis cusis in civitate ipsa ad rationem de unciis quinque de auro et quinque de argento per libram, et quelibet solidus erat de tarenis quatuor praedictorum; quilibet autem tarenus ipsorum, qui erat in pendere granae viginti, valebat granas duodecim auri monetae Siciliae.

Il tarì d’Amalfi pesava dunque 20 acini ed era composto di 8 acini ed un terzo di oro puro, di acini 8 1/3 di argento e di acini 3 1/3 di altro metallo che serviva di lega. Lo stesso si ripete spesso nei documenti10, leggendosi la formola tari boni de Amalfi de unciis quinque de auro et quinque de argento ana tari quatuor per solidum.

Ma è evidente che a questa lega si dové giungere man mano, riducendo la lega primitiva, o almeno è da supporre, giudicandolo dalla rinomanza ch’ebbe quel tarì, dovuta senza dubbio al suo intrinseco valore. Infatti la stessa diminuzione dell’oro troviamo nei coni successivi del tarì salernitano, di oro puro in sul principio, di oro basso durante il dominio di Gisulfo II e dei normanni.

[p. 122 modifica] Cosi può dirsi risoluta la questione dell’esistenza dei tarì d’Amalfi, ma non quella però dei caratteri speciali che dovrebbero distinguerli dai tarì salernitani, coi quali, come abbiamo dimostrato, hanno comune l’epigrafe di Moez.

Solamente si può affermare, tenendo conto della determinazione riportata dal Camera: tarì amalfitane monete in quibus crux efformata appareat, che al principio del XII secolo alcuni tarì amalfitani avevano una croce11. Il Camera nel 1872 sostenne pure che, oltre al tarì d’oro, si fossero battuti in Amalfi anche tarì d’argento e pubblicò l’impronta d’una monetina, che a lui parve essere l’immaginato tareno argenteo Amalfitano. Ma ben altra importanza ebbe la sua scoperta. E io credo aver mostrato altrove con indiscutibili raffronti, che quella monetina d’Amalfi, appartenente al XIII secolo, fu battuta, insieme ad una simile di Napoli, allorché le due città, morto Federico II di Svevia, incitate da Innocenzo IV, tentarono riacquistare la loro autonomia12. Né vale che il Camera asserisca aver trovato ricordo di questi tarì d’argento in infinite scritture; perché nel fatto non ne adduce la prova, appagandosi forse dell’erroneo giudizio del De Meo13, il quale scrisse: «Vi avea dunque fra noi i tarì d’oro, e con essi vi aveva certamente quei d’argento, e tali s’intendono (almeno d’ordinario) qualora a tarì non si aggiunga di oro». [p. 123 modifica] Senza por mente all’assurda conseguenza che ne deriva: perchè il valore di questi pretesi tarì d’argento, posto a ragguaglio dei soldi bizantini, sarebbe stato eguale a quello dei tarì d’oro14.


II.


Nel gennaio dell’anno scorso, alcuni contadini rinvennero a S. Angelo in Formis un pignatte contenente un gruzzolo di tarì di zecca italiana; erano tutti di oro pallido, con caratteri cufici abbastanza sformati, e su due di essi, leggevansi frammischiate a caratteri arabici, lettere latine, e sul più integro era l’epigrafe S - ANDREA SALRN. Una simile moneta venne, per la prima volta, pubblicata dallo Spinelli15. Ma nelle brevissime osservazioni che a tutte appone, di questa tace affatto, mostrando di non saperne trarre nulla.

Fu invece l’Amari, che poi tentò dame spiegazione. E in una nota a pie della pag. 469 del II tomo della sua storia dei Musulmani di Sicilia, a proposito delle leggende interpretate dallo Spinelli disse: «a varie non mi sembrano ben trascritte; non tengo punto provata la cronologia che distribuisce cotesto monete ai principi di Salerno, né che tutte sieno state coniate in Salerno. Ve n’ha forse d’Amalfi, [p. 124 modifica]e forse è di Napoli il n. XXVII ». Il n. XXVII (Tav. I, n. 7) sarebbe appunto il tarì col nome ANDREAS16.

Pare che l’Amari, nell’assegnare a Napoli quel tarì, abbia avuto in mente l’alleanza di Andrea col Musulmani di Sicilia, per cui quel Duca napolitano aiutò e forse anche consigliò i Musulmani nell’assedio di Messina. Ma nel riferirlo all’836 ed a Napoli, l’illustre scrittore incorse in grave errore, ed è probabile che egli abbia emesso quella supposizione senza troppo pensarvi su. Del resto, in tutti gli esemplari dello Spinelli leggevasi più o meno accorciata la parola Salerno, e la leggenda cufica, che ricorda il califfo Moez-ledin’-illah (953-975) è più che sufficiente a torre ogni possibilità che debba riferirsi ad un duca Andrea. E la monetina del ripostiglio di S. Angelo in Formis, cosi chiara ed evidente nella leggenda, addimostra ancora più che ostinandosi a voler ricercare un nome storico in quell’Andreas, si andrebbe assai lungi dal vero. Lo Spinelli non badò all’S messa nei suoi stessi esemplari a quel nome e l’omise nelle descrizioni, quantunque si scorga visibile ne’ suoi disegni e visibilissimo anche nell’esemplare di S. Angelo in Formis.

Però si può spiegare la ragione del ritegno, che impediva di mutare il nome d’un duca in quello d’un santo. Quello che maggiormente faceva ostacolo, perchè si pensasse all’Apostolo patrono d’Amalfi era la parola Salerno, che su tutti gli esemplari appariva chiarissimamente. E su questo ostacolo, di non poco rilievo, importa soffermarsi. [p. 125 modifica] Per me ritengo, che in questo tarì segnato col nome di S. Andrea debba indubbiamente ravvisarsi uno dei celebri tarì amalfitani, e credo poter rinvenire nella storia dei tempi sufficienti ragioni a spiegare perchè, insieme al nome del santo di Amalfi, vi si legga Salerno.

Occorre innanzi tutto vedere se dall’impronta stessa riesca possibile determinare la data. Lo Spinelli che l’assegnò a Guaimario IV, tenendo conto dei diversi e successivi gradi di contraffazione, comparando gran copia di questi tarì coniati da cristiani dinasti, è riuscito a stabilire una cronologia che ha alquanta sembianza di vero. — Però non è possibile ritenere con certezza che le meno scorrette sieno le più antiche, giacché trattandosi d’imitazioni, la correttezza delle epigrafi non dipendeva che dalla diligenza e dalla valentia dello zecchiere: e l’una e l’altra potevano essere maggiori o minori, senza ragioni di tempo o di luogo. Oltre a ciò è da osservarsi che la cronologia supposta dallo Spinelli, pur verosimile, se tutti quei tarì potessero dirsi battuti nella zecca salernitana, non ha più fondamento di credibilità quando si ammette, come pensa l’Amari e a me sembra certo, che sieno usciti da zecche diverse.

Non si può quindi, con la sola scorta del tipo, assegnare a ciascun principe le proprie monete. — Solamente si può affermare questo, che, a misura che ci avviciniamo all’epoca normanna, assumendo queste imitazioni un valore proprio, s’aumenta sempre più l’incuria nelle mentite epigrafi. — Cosicché, paragonando la monetina scoperta a S. Angelo in Formis a quella segnata colle lettere R • D 17 che [p. 126 modifica]sicuramente si deve attribuire a Roberto duca (Guiscardo) o al duca Ruggiero (Borsa) suo figlio, scorgesi subito, che fra l’una e l’altra viene a frapporsi un periodo di tempo abbastanza lungo, i cui limiti forse non è facile argomentare. — Accettando quindi, con debita riserva, la classifica dello Spinelli e tenendo conto delle lettere latine che si veggono frammiste agli sformati caratteri arabici, dobbiamo fissare il conio della monetina ad un’epoca in cui già nel commercio amalfitano s’era dato un certo corso al proprio tarì.

Tuttavia questo fatto non basterebbe a indicarci quando e perchè al nome dell’Apostolo protettore d’Amalfi fu aggiunta la parola Salerno. E l’enigma può essere risoluto solamente dagli indizi che ci porge la storia delle relazioni che furono fra le due città.

La più facile supposizione sarebbe questa, che il principe di Salerno, Guaimario IV, nell’aprile 1039, allorché si rese padrone di Amalfi, facesse coniare quella moneta, volendo nei due nomi, della città e del Santo, indicare l’antica e la nuova signoria insieme congiunte. Ma io non so immaginare che il valoroso principe, s’inducesse a lasciare senza ricordo, sul tarì commemorativo, quello che più importava, cioè il proprio nome; né che egli nell’epigrafe S. Andreas Sarn avesse voluto preporre il simbolo della città soggetta al nome di quella ch’era metropoli del suo principato. D’altra parte non potendo per le stesse ragioni, persuadermi, che fu invece Gisnlfo II, durante il breve e contrastato dominio ch’ebbe di Amalfi, colui che nella zecca di Salerno, fece battere, quasi ad onta degli amalfitani, il tarì improntato col nome del loro taumaturgo, debbo porre da banda anche questa seconda supposizione. Né poi m’induco ad accettarne un’altra. Cioè, che [p. 127 modifica]lo stesso Gisulfo, dopo che fu scacciato da Salerno nel 1077, ed errò profugo qua e là, quando gli amalfitani, scosso il giogo Normanno nel 1088, lo preposero al loro governo, facesse coniare quella moneta, che in un tempo doveva indicare il titolo nuovo di duca d’Amalfi, e rammentare nella parola Salerno, le sue pretese sull’avito principato. E non l’accetto, perchè Gisulfo non avrebbe trasandato d’aggiungervi il suo nome, e perchè fugace troppo fu la sua signoria in Amalfi; e perchè, i caratteri diversi che distinguono la moneta segnata col Sant’Andrea da quella che reca le sigle R • D e dagli altri tarì dell’epoca normanna, non ci consentono di ritardarne la coniazione fin quasi al termine del secolo XI.

Storicamente ha maggior sembianza di vero la seguente ipotesi. Cioè, che non un principe di Salerno facesse battere quella moneta, ma un duca d’Amalfi. E tra questi si sa, che Mansone II, nel 981, riuscì ad impossessarsi dell’emula città e tenne quella e il principato salernitano per breve tempo.

Qual meraviglia ch’egli abbia voluto commemorare il vanto glorioso di quella conquista, segnando insieme all’invocato nome del Santo protettore della sua patria, il nome della città sottomessa?

Forse può nascere il dubbio se, con tale ipotesi non si avanzi troppo l’epoca a cui, per la qualità del metallo e le peculiarità del tipo, sembrerebbe doversi attribuire. Certo tra questi tarì ed altri moltissimi anteriori pure al dominio normanno è parecchio divario, perché in esso è ancora perfettamente leggibile l’epigrafe e negli altri, invece, diviene sempre più sformata, sino a ridursi una sequela graduata d’asticelle dalle quali più non si può trarre alcun elemento sicuro della formola originaria dei Moezzini. [p. 128 modifica] In ogni modo, volendosi attribuire a Guaimario IV, si potrebbe forse supporre che quel principe, rendendo nel 1042 il ducato Amalfitano all’esule e cieco Mansone IV, gli abbia pure concesso di continuare il conio del tarì, a condizione però che su di esso si dinotasse la soggezione a Salerno, e che gli amalfitani dall’invocazione del santo patrono abbiano tratto motivo a rendere meno oltraggiosa quella affermazione del giogo salernitano.

Rimane però sempre certo che questo nostro tarì è uscito dalla zecca d’Amalfi e spero, ora che si è dato un primo passo, che con altri monumenti o almeno con altri raffronti, si potrà determinare con assoluta certezza l’occasione di questa nostra monetina.



Note

  1. Memorie storico-diplomatiche dell’antico ducato amalfitano.
  2. Il Capasso lo riporta al N. 498 del II vol. dei Monum. Neap. ducatus. Il Regesto del Capasso dimostra che il contratto facevasi dalla stessa Anna abbadessa del Monastero di S. Gregorio o S. Liguoro, che aveva fatto il contratto antecedente del 1048 (v. n. 483).
  3. Il Camera cita i documenti degli anni seguenti: 957-973-997. È da osservare però che i tari amalfitani non ebbero sempre quella gran rinomanza che vogliono attribuir loro il Pansa, il Camera ed altri.
  4. Già dai primi anni del X secolo era ricercatissima qui, nel mezzodì d’Italia, la moneta Arabo-sicula, sia perchè d’oro purissimo, sia per ragione del commercio coi Musulmani. A Salerno se ne ha menzione sin dal 906 e poi, di nuovo, in parecchi documenti del 911-917-924 e via dicendo (V. Codex. Cav. n. cxxiv, cxxvii, - cxxviii, - cxxix, - cxlii, ecc.). Nei Reg. Neap. arch. mon. (Napoli, 1845, T. I, part. I, p. 9) sin dai 909, in una pergamena di Gaeta. A Napoli dal 936 in poi (Capasso, Mon. Neap. duc. N. 31, p. 36). Nella 2a metà del X secolo acquistarono ancor maggior credito per l’estendersi delle conquiste di Moez.
  5. Diss. su di una moneta del re Ruggieri detta Ducato. Napoli, 1812, pag. 4-6, tav. n. 1 e 2.
  6. Storia dei Musulmani in Sicilia. Tomo II.
  7. Recherches sur la Numism. des Normands, etc. Pag. 19 e 24.
  8. Queste parole provano soltanto, che sopra alcuni tarì amalfitani in una determinata epoca, più o meno vicina all’anno 1112 venne raffigurata una croce. L’interpretazione del Camera è smentita : prima dal fatto che altri tarì contemporanei recano la croce ; in secondo luogo da questo che, in infinite carte antecedenti a quella indicata dal Camera, nelle quali si pone ogni immaginabile determinazione, questa della croce si omette; in terzo luogo, dalla considerazione dell’origine di questi tarì, che, essendo imitazioni, che dovevano, da principio, simulando i tipi arabici, confondersi colle monete dei Musulmani, non potevano recare un simbolo così evidente di lor cristiana origine.
  9. Vedi L. Volpicelli; Le Consuetudini di Amalfi, «Archivio storico per le provincie Napoletane». Anno 1876, fasc. IV.
  10. Antiche carte amalfitane stipulate dal 1146 al 1192. Vedi Tabulario amalfitano del Perris e Pansa, Istor. di Amalfi. Tomo II, Notam. dell’Arch. della SS. Trinità delle monache di Amalfi, pag. 41 e seg. Vedi anche Camera, Op. cit, pag. 175, pergam. dei 1149. Ex. arch. cap. Amalphiae. Perg. n. 562.
  11. Potrebbero essere di Amalfi i due tarì riportati dall’Engel, nelle Recherches sur la Numismatique des Normands de Sicile et d’Italie. Tav. III, num. 34 e 35. Io ho avuto ultimamente il n. 35 in cui, da una parte è un tempietto e dall’altra la croce. La qualità dell’oro è assai bassa ed i caratteri cufici sono completamente sformati.
  12. A. Sambon, Monete del Ducato Napoletano, « Arch. Stor. per le prov. Napoletane ». Anno XIV, fasc. III e « Rivista. Ital. di Numis. », 1890, fasc. III, pag. 26 e 28.
  13. Tomo XI, pag. 397.
  14. Cosi in una carta del 1107: auri solidos viginti tres de Amalfi de tarì, ana quatuor tari per solidos, ed in altra del 1105: auri solidos quinquaginta quatuor, quorum quisque habeat tarenos quatuor presentis monete istius civitatis (Salerni) e chi non sa che questo appunto è il rapporto espresso nelle varie antiche carte tra il soldo bizantino ed i tarì Amalfitani? Le notizie fomite dalle Consuetudini Amalfitane valgono pure a chiarire ogni dubbio.
  15. Pag. xxvi, n. 1 ; tav. I, num. 7, 8, 9, 10.
  16. Di nuovo poi a pag. 460 del II tomo, parlando del commercio dell’Italia continentale colla Sicilia, dice: «maggior d’ogni altra prova è che a Salerno, fors’anco a Napoli e Amalfi, si contraffaceva per bisogno del commercio la moneta d’oro di Sicilia».
  17. Spinelli, Monete cufiche. Tav. I, n. 6.