Istoria delle guerre gottiche/Libro quarto/Capo XXXV

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CAPO XXXV.

Fenomeni di alcune eruzioni del Vesuvio. — Accampamenti d’ambo gli eserciti. Gottica ritirata sul monte del Latte. — I Romani assaliti. — Eroico valore di Teia. Morto egli le genti sue proseguono a combattere ostinatamente. Chiedono alla fine di terminare la guerra. Consiglio di Giovanni e condizioni della pace.

I. Ergesi nella Campania il monte Vesuvio, il quale soventi volte con romore simile a rugghio getta fuori grande copia di cenere ardente; ma di tali cose ho narrato altrove. Di più le sue viscere, come quelle del monte Etna in Sicilia, dal piè sino alla cima appalesansi, mediante un foro opera della natura, ardenti mai sempre di vivissimo fuoco. Tanta è poi la profondità di quel vano che osando mirare di su la [p. 577 modifica]cima là entro è d'uopo molto intrattenervi gli occhi prima di vedere la fiamma. Questa poi quando avviene la impetuosa uscita del cenere, svegliendo grandi e piccoli sassi dal fondo inalzali sopra il vertice del monte e lanciali a catafascio da per tutto; un ruscello di fuoco scorrevi pure dal vertice alle radici ed anche più lontano, il che vuol pur dirsi riguardo all'Etna. L'igneo ruscello inoltre scavando il suo alveo formasi all'intorno alte ripe, e la fiamma che da principio lo accompagna è simile ad acqua ardente; ma non appena spento si fa immobile, e le sue reliquie condensansi in melma ben poco dal cenere diversa.

II. Alle radici del Vesuvio hannovi sorgenti d'acqua dolce e potabile che danno origine al fiume Draconte, il quale scorre presso alla città di Luceria1, ed accolse in allora sopra le due ripe gli accampamenti dell'una e dell'altra fazione; sebbene poi scarso di acque non consente di essere guadato da cavalieri o fanti, ma restringendo il suo letto e profondissimamente abbassandolo formasi da quindi e quinci discoscesi lidi; ma se ciò avvenga dalla natura del suolo o dall'acqua altri tel dica, non essendo in mia saputa. I Gotti occupatone il ponte vicino del campo costruironvi sopra torri di legno, le cosiddette baliste, ed altre macchine per molestare e ferire il nemico da elevato luogo, impediti del combattere a corpo a corpo dal fiume di mezzo, cosicchè solo dai margini di esso i due eserciti azzuffavansi tratto tratto col saettame; ed aveanvi ben anche [p. 578 modifica]singolari disfide se uom de’ Gotti, valicato il ponte, venisse a provocarle. Di questo modo le truppe consumarono due mesi, nè i barbari vidersi in diffalta di vittuaglia finchè si tennero padroni del contiguo mare, trasportandola sopra navi; ma queste da ultimo per fellonia di chi ne avea il governo caddero tutte in mano de’ Romani, i quali pur moltissime ne riceverono dalla Sicilia e da altre parti dell’impero: Narsete inoltre aveane atterrito gli animi colle torri di legno erette sopra le ripe del fiume. Per cosiffatte cose adunque perdutisi di coraggio al patire d’annona ascesero il vicino monte nomato, con latina voce, del Latte, ove la malagevolezza del luogo rassicuravali dalle offese delle armi nemiche; ma ben presto conobbero l’errore commesso, trovandosi colassù privi d’ogni alimento per sè stessi e pe’ cavalli. Deliberato allora essere anzi meglio uscir della vita in campo che morir consunti dalla fame assalgono all’improvviso il nemico piombandogli cheti cheti sopra. I Romani, quanto consentono le circostanze ed il tempo, di piè fermo difendonsi, non compartiti tra’ duci, e non formatisi in corpi, non regolarmente disposti in ordinanza, giusta la militar disciplina, nè in condizione di ascoltare i dati comandi; ma in piena balìa della sorte duravano coraggiosissimi alla zuffa. I Gotti da principio balzati giù d’arcione attelaronsi con profondo schieramento di fronte al nemico, il quale, a tal vista, pedestre anch’egli apprestosi alla pugna.

III. Prendo qui a descrivere un memorabile combattimento in cui Teia colle sue nobilissime imprese mostrossi per guerresco valore non secondo a qual tu [p. 579 modifica]vuoi de’ più celebri capitani. I suoi della ria fortuna messi orribilmente alle strette incoraggiavano per disperazione; i Romani, sebbene persuasi di aver che fare con disperati, resistevano sforzatamente loro sapendo vergogna il cedere ad armi inferiori; gli uni e altri assalivano intrepidi le genti nemiche da presso, andando questi in traccia di morte, queglino di gloriosa rinomanza. Cominciata del mattino la pugna, Teia visibilissimo a tutti, difeso dallo scudo, colla lancia in resta e con seco debol mano di armati fu il primo ad appresentarsi alla testa dello schieramento. I Romani socchiatolo si persuasero che di subito avrebbe termine la contesa ov’egli cadesse spento; laonde quanti di essi avean cuore, ed alto erane il numero, tutti avventaronglisi contro, gli uni procacciando ferirlo d’asta, gli altri di freccia. Ma il duce arrossava il terreno di molto nemico sangue schermendosi collo scudo, e quando miravalo coperto di punte lo combiava tosto con altro approntatogli da suoi scudieri. Corsa nell’ostinatissimo conflitto la terza parte del giorno, ed inutile addivenutogli il riparo, carico di dodici dardi, a schermo della persona, chiama ad alta voce tale degli scudieri, non ritirandosi o divertendo il piede quanto è un dito traverso, nè dando agli assalitori mezzo di procedere oltre. Non voltossi tampoco, nè si fe’ sostegno dello scudo, ma fermo sulle piante, quasi uom conficcato nel suolo, apportava colla destra morte ad altrui, e colla sinistra riparavane i colpi, forte chiamando a nome lo scudiere, il quale giuntogli al fin da presso lo fornì di nuova difesa. In questa solo un attimo rimasegli [p. 580 modifica]scoperto il petto, nè più vi volle perchè, trafitto da fortuito dardo, tramandasse incontamente l’ultimo fiato. Parecchi Romani allora inalzatone sopra un’asta il capo ivano mostrandolo ad ambo gli eserciti, all’uno, il proprio, per animarlo vie meglio in quel cimento, all’altro per indurlo a cessare, uscito d’ogni speranza, dalla pugna. I Gotti non di meno, quantunque sapevoli dell’avvento, insino a notte combatterono, tenendosi quindi le due fazioni per l’intero corso di lei armate sul campo. Del dì vegnente surgono ai primi albori ed ordinato l’esercito ripigliano a battagliare infino a notte, ostinatisi tutti a non cedere, o dare altrui le spalle, nè a rinculare, avvegnachè gravissima ed eguale da ambe le parti si fosse la strage; accesi per lo contrario da terribile sdegno infervoransi maggiormente a durare la contesa. Erano più che certi i Gotti di sostenere l’estremo aringo, ed i Romani credeansi disonorati piegando loro innanzi. Alla fin delle fini ecco arrivare a Narsete alcuni ottimati barbari significandogli aver eglino che fare col Nume; ben accorgersi da superiore nemica potenza essere fatti segno di tanti mali, ed averne irrefragabile pruova dall’accaduto; il perchè bramavano da quinci in poi deporre le armi non già per divenire imperiali mancipj, ma per vivere obbedendo, come altre genti, alle proprie leggi. Pregavanlo adunque che accordasse loro una tranquilla partenza, nè avesse a schifo di trattarli benignamente; in cambio poi del viatico addimandavano la restituzione della pecunia da essi lasciata in serbo negli italiani fortilizj. Narsete deliberava sulla proposta quando venne persuaso [p. 581 modifica]da Giovanni nipote di Vitaliano che si dovesse ricevere, esortandolo a troncare una guerra con uomini stanchi della vita, ed una lotta con animi fatti ardimentosi dalla stessa disperazione, il perché un egual pericolo correrebbonvi i provocati ed i provocatori. «E per verità, proseguiva, gli uomini usati alla moderanza vanno paghi della vittoria, più ambiziose brame volgendo, alla buona fe, ogni opera nostra in rovina.» Il condottiero allora, fatto giurare ai barbari di non armarsi più contro ai Romani sotto pretesto comunque, permise loro di partire subitamente e senza molestie dall’Italia con tutte le suppellettili di che erano possessori. Mille Gotti intrattanto con parecchi duci, nel cui numero era quell’Indulf menzionato in addietro, usciti del campo batterono la via di Ticino città e della regione traspadana, gli altri tutti sacramentarono senza eccezione il contenuto negli accordi. I Romani di tal modo s’ebbero Cuma ed i luoghi forti dal nemico tuttavia occupati, terminando così l’anno decimottavo di questa gottica guerra, la cui storia mandò per iscritto alla posterità Procopio da Cesarea.


Fine del Tomo secondo ed ultimo delle Guerre.

  1. Nocera.