Istoria delle guerre persiane/Libro primo/Capo XVII

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CAPO XVII.

Scorreria persiana. — Sorgente e corso dei fiumi Tigri ed Eufrate. — Tempio di Diana Tauride, e fuga d’Oreste con la sorella Ifigenia; infermità di lui. — Orìgine di due città appellate Comane; provenienza di questo nome, e due tempj in una di esse dal culto degli Dei passati ai riti cristiani. — Divisione della Persarmenia in Comagene, Eufratesia ed Osroene. — Cavado toglie al mirrane l’aureo cordone segno di onoranza. — Aringa di Alamandaro al re. — Elogio del Saraceno.

I. Allo spuntare di primavera un esercito di quindici mila cavalieri persiani condotto da Ezareta, e rafforzato dal saraceno Alamandaro con grande caterva de’ suoi, fece discorrimento nelle imperiali terre, non valicando però, siccome dapprima, la Mesopotamia, ma la cosiddetta in altri tempi Comagene1 ed ora Eufratesia. E [p. 81 modifica] qui cade in acconcio che io riferisca la origine della voce Mesopotamia, ed il perchè dalle reali truppe venisse ora sparagnata.

II. Havvi nell’Armenia da settentrione e soli quarantadue stadj lunge da Teodosiopoli un monte, non gran che erto, con due sorgenti, dalle quali traggon principio a destra l’Eufrate ed a sinistra il Tigri. L’ultimo senza rivolgimenti e senza mescersi con altri fiumi ritto seri corre ad Amida, e bagnatala da settentrione fa dono all’Assiria delle sue acque. L’Eufrate poi dal nascere suo va per assai declive terreno, e quindi ne smarrisci le tracce; nè creder già che passi oltre per sotterranea via2, ma vedi causa mirabile di questo [p. 82 modifica]singolare fenomeno. Per cinquanta stadj, o in quel torno, di lunghezza e venti di larghezza galleggia a fior d’esso una melma, e v’indura sì che mentisce allo sguardo ben fermo terreno, su cui del continuo discorrono uomini, cavalli, e sin molte carra, certi di aggiugnere con buon viaggio alla divisata meta: oltre di che germoglianvi abbondanti calami, arsi dai vicini abitatori ogni anno allo spirare di propizio vento affinchè non riescano d’impaccio ai passeggieri; e se il periodico abbruciamento discopersevi talora poca e superficiale umidità in alcun punto, la melma tosto rassodandosi torna al luogo la solita apparenza.

III. Di là mette foce l’Eufrate nell’Edessene dove ha tempio Diana Tauride, e da qui narra la fama che Ifigenia, figliuola di Agamennone, al fuggire con Oreste e Pilade trasportasse l’imagine della Dea3. Giace [p. 83 modifica]pure altro tempio a lei consacrato nella città di Comana, da non confondersi con questo della Tauride, e vo a dichiarare in che modo stia la cosa.

IV. Oreste partitosi dalla Tauride con la sorella infermò, ed invocato sul malor suo l’oracolo ebbe a risposta che risanerebbe sol quando avesse eretto altro tempio a Diana in luogo simigliantissimo a quello della Tauride, e, quivi tagliatasi la chioma, dato gli avesse nome acconcio a tramandare alla posterità la memoria dell’operato. Il supplichevole adunque trascorrendo le vicine terre giunse nel Ponto, e vedutovi erto e scosceso monte colle acque dell’Iri alle falde, giudicollo essere il sito indicatogli dal vaticinio, il perchè di botto fecevi sorgere un tempio ed una città, nomando l’uno e l’altra Comana4 in obbedienza ai voleri del nume. Aggravando però, anzi che cedere, il malor suo, egli estimò non ancora paga la Dea, e proseguendo a correre il paese rinvenne alla fin fine il luogo in tutto corrispondente a quello della Tauride. Io mi sono dato più volte a considerarlo con grandissimo stupore, e tanta apparivami la simiglianza tra loro, che non sapeva distormi dall’essere colà, vedendovi e monte dell’egualissima forma del Tauro, e fiume, il Saro, modello perfetto dell’Eufrate. Oreste pertanto edificò pur quivi altra bellissima città e due tempj, l’uno a Diana [p. 84 modifica]e il secondo alla sorella Ifigenia, consacrati di poi, senz’alterarne l’edificio, ai riti cristiani. La città nomasi tuttavia Comana in monumento della recisa chioma d’Oreste, il quale appena offerto alla Dea questo tributo risanò, divenuto in prima furente, secondo la fama, col rendersi matricida5. E qui riprendo il rotto filo dell’argomento.

V. L’Eufrate dall’armena Tauride e dall’Edessena, ingrossatosi colle acque di altri fiumi, in ispecie dell’Acesine, va a bagnare la Lencosiria, che noi chiamiamo Armenia minore, di cui Melitene6, città [p. 85 modifica]prestantissima, è la metropoli; quindi proseguendo per Samosata7, Gerapoli e tutte le vicine contrade sbocca finalmente all’Assiria, dove incorporandosi col Tigri ne prende il nome.

VI. I nostri avi denominavano Comagene quanto havvi di paese tra Samosata e l’Eufrate, per noi ora detto Eufratesia in riguardo al fiume; la regione poi avente a limite l’Eufrate ed il Tigri chiamasi nel suo tutto Mesopotamia8, divisa però in varie parti, [p. 86 modifica]ciascheduna di esse riceve particolare denominazione; così l’intervallo che è uopo trascorrere prima di arrivare alla città d’Amida costituisce secondo alcuni l’Armenia, Edessa9 co’ suoi dintorni l’Osroene, prendendo il nome da Osroe suo re quando strigneva alleanza colla Persia. Or questa, tolte all’imperatore Nisibi e molte altre città della Mesopotamia, in ogni congiuntura di nuova guerra contro i Romani facea marciare gli eserciti pe’ recenti acquisti a motivo della bontà del suolo e della vicinanza ai nemici, mentrechè la via di là dall’Eufrate battuta in avanti era per la sua aridità quasi deserta.

VII. Il mirrane tornato in Persia e ricondottevi le poche truppe campate dalla sconfitta ebbe severa punizione dal re, venendogli principalmente interdetto quell’ornato d’oro e di margarite che cingeva per lo avanti il suo capo; segno di grandissimo onore compartito dal [p. 87 modifica]monarca ai soli benvolenti suoi, ascrivendo le persiane leggi a regal dono e grazia la facoltà di portare anello d’oro, cintura, o collana od altro tale ornamento10. Dopo questa disgraziata guerra il re dei Saraceni, Alamandaro, sentendo Cavado nella massima costernazione e tristezza, ma dispostissimo tuttavia a perseverare nelle armi, venne a lui con queste parole:

VII. «Mal si consiglia, o re, chi troppo fida nella fortuna, e crede suo retaggio la vittoria in campo; il pensarlo contrasta alla ragione, non meno che al corso delle umane vicende, e guai all’uomo sedotto a prestarvi fede, non avendovi dolor più forte di quello proviamo nel mirar tradite le nostre speranze. Quindi è che gli espertissimi duci non affrontano mai direttamente i pericoli della guerra, ed eziandio quando veggonsi da ogni lato superiori ai nemici non lasciano di studiare artifizj e stratagemmi a fine di gabbarli, perocchè delle sole armi usando non si può essere mai certi della vittoria. Cessa dunque, o re, d’attristarti cotanto pe’ rovesci tocchi dalle truppe di Perozo, nè più esporti di tal guisa a nuovi rischi. Mai fu la Mesopotamia guarnita di sì valide [p. 88 modifica]fortificazioni, nè le sue città e castella ricettarono mai sì formidabili presidj come al presente, il perchè facendoci noi da quivi ad assalire i Romani, esporremmo le cose nostre a manifestissimo danno, quando per lo contrario nella Siria, ed in tutto il suolo prima di giugnere all’Eufrate, non trovi una loro fortezza o guarnigione. Ed a vie più confermarti che tal sia la verità non tacerò di aver io mandato replicate volte a riconoscere attentamente quelle regioni alcuni miei Saraceni, i quali ripatriati dichiararono che la stessa Antiochia11, città per opulenza, grandezza e popolazione fiorentissima sopra tutte le altre orientali suddite del romano imperio, non racchiudeva nè presidio, nè truppa, ed il popolo era solo applicato a dilettarsi con feste, sollazzi, e con mille scenici ludi. Quindi è che potendola noi sorprendere all’impensata riusciremo con ogni verisimiglianza a conquistarla prestamente, massime non avendovi dentro esercito nemico; riportata però coll’aiuto de’ Numi la vittoria, e prima che giungane sentore alle truppe di stanza nella Mesopotamia, retrocederemo nelle nostre terre. Nè paventare la mancanza dell’acqua, o d’altro che necessario alla vita; io stesso partirò alla [p. 89 modifica]testa dell’esercito per inoltrarci laddove meglio s’appresenterà il nostro conto».

IX. Cavado non seppe che opporre alle costui parole, nè potea diffidarne conoscendo assai bene quanto il Saraceno valesse per accortezza e pratica nell’arte guerresca, e quanta stima sovra ogni altro riscuotesse dai Persiani. Il quale con una guerra di cinquant’anni ridusse l’imperio a tristissima condizione, saccheggiandone tutte le terre dai confini dell’Egitto sin entro la Mesopotamia, dandovi alle fiamme tutti gli edifizj, e tornandone a quando a quando con ben dieci mila prigionieri, molti dei quali arbitrariamente condannava a morte, ed al resto offriva gravissimo riscatto. Ed in queste sue insidie neppure una sol fiata lasciossi cogliere dal nemico, non avendovi esempio che intraprendesse geste contro di lui senza far precedere diligenti esplorazioni: di più era sì destro e pronto nell’eseguire che uom non videlo mai di ritorno colle mani vuote. Egli è bensì vero che talora e duci e truppe romane, al tardo annunzio di qualche suo predamento, cimentaronsi a rintracciarlo colla mira di piombargli comunque addosso per via, ma il barbaro, saputolo, venne loro incontro, e sopraffattili non preparati e senz’ordine li pose in fuga, uccidendone trattanto ed a suo bell’agio molti. Riuscì eziandio in altro cimento ad imprigionare duci e truppa: erano i primi Demostrato fratello di Rufino, e Giovanni figlio di Luca, e vollervi tutte le grandissime ricchezze loro a redimerli da quella schiavitù. In breve, fu questi il nemico che desse maggior travaglio ai Romani, imperciocchè fregiato di [p. 90 modifica]regale autorità sopra tutti i Saraceni dimoranti in Persia, liberamente penetrava da ogni banda a manomettere le nostre terre, non essendovi tra comandanti imperiali, detti con voce nazionale duci, nè tra quelli saraceni confederati all’impero, e filarchi nomati12, chi valesse ad arrestarne il furore. E sebbene a tal uopo Giustiniano avesse dichiarato Areta, figliuol di Cabala, governatore di molte saraceniche tribù, accordandogli insieme quanto a re si conviene di onorificenza e potere, non cessò Alamandaro tuttavia di riportar vittoria in ogni scontro, vuoi perchè Areta tradisse le imperiali cose, o perchè soltanto fossegli contraria la fortuna, non essendosi ancora disvelata la verità. Egli è certo però che il barbaro ebbe lunghissima vita, ed in gran parte di lei fece man bassa di tutto l’oriente 13.

Note

  1. Plinio (lib. v, cap. 24) parlando dell’Eufrate dice: A cataractis (Tauri) iterum navigatur quadraginta millia passuum inde Comagenes caput Samosata. Provincia e città sono appellate da Strabone soggiorno reale, ed ai tempi di Pompeo vi regnava Antioco Comageno, il quale ottenne altresì dal romano condottiero la Seleucia, e quanto avea scorso e preso della Mesopotamia (App., Guerra mitr., lib. xi). E così andarono le faccende sino ai tempi di Tiberio, che ne fece una provincia romana. In progresso però di tempo degli imperadori Caligola e Claudio fu ridonata ai re, ma tornò ad essere provincia romana sotto Vespasiano (V. Flavio, Guerre Giud., lib. viii, cap. 6).
  2. Come ha scritto Giustino riferendo la cosa al Tigri; eccone le parole: A cujus montibus (Armeniae) Tigris fluvius modicis primo incrementis nascitur, interjecto deinde aliquanto spatio sub terras mergitur; atque ita post quinque et viginti millia passuum grande jam flumen in regione Sophene emergit (lib. xlii). Egli ha dunque erroneamente supposto che il Tigri fosse imitatore dell’Alfeo in Grecia, del Lico in Asia, dell’Erasino nell’Argolide, del Timavo nell’agro di Aquilea ec.
  3. Così scrive Dione Cassio: «Quanto a Comana poi essa è in quel paese che al presente chiamasi Cappadocia; e si e sempre creduto in fino a questo giorno che ivi sia stato il simulacro di Diana Taurica e la schiatta di Agamennone. Siccome poi varie opinioni si spacciano intorno alla maniera con cui le dette cose colà pervennero, ed ivi fermaronsi, così io non ho potuto rinvenirne alcuna certezza, e dirò soltanto quello che a me è noto. Due sono in Cappadocia le città che hanno lo stesso nome di Comana, che non sono molto distanti fra loro, e che contengono i monumenti delle medesime cose; ed in fatti non solo tutte le altre cose si favoleggia e si vanta che in questa ed in quella sieno simili; ma ambedue queste città hanno un pugnale, il quale credono che sia veramente quello d’Ifigenia» (Dione, tom. ii). Una di esse città oggi vien detta Arminaca, e altra, al fiume Casalnach ed anticamente appellata Comana pontica, ha nome Com.
  4. Questa era detta Pontica per distinguerla dall’altra esistente nella Cappadocia. Avevano poi entrambe un grande sacerdozio in onore di Bellona o Diana, il cui pontefice non cedeva in dignità agli stessi cappadoci monarchi.
  5. Intorno a questa narrazione V. Paus., lib. viii, cap. 34.
  6. In più luoghi Strabone parla solamente della regione Melitene, perocchè non prima di Traiano vi surse un forte dello stesso nome. Procopio nel lib. iii degli Edif. scrive: «Nell’Armenia, detta in addietro minore non lungi dall’Eufrate erano stati messi in istazione soldati romani; e il luogo dicevasi Melitene, e legione il numero de’ soldati; ivi i Romani avevano anticamente eretto un forte quadrato posto in aperta pianura, e fattone quartiere comodissimo ai soldati ed alle insegne militari. Poscia, così stabilendo Traiano augusto, quel luogo fu inalzato all’onor di città, e diventò la metropoli della nazione; perciocchè coll’andare del tempo cresciuta Melitene in ampiezza e il popolo, nè potendo questo contenersi entro le antiche fortificazioni, divenute in proporzione troppo anguste, si erano costrutte case, come accennai, nella pianura adiacente, ove si aggiunsero e templi e palazzi pe’ magistrati e foro, e mercati per la vendita delle cose occorrenti, e quartieri distinti, e portici e bagni, e teatri, e quanto può dare splendore ad una grande città; sicchè la parte massima di Melitene consisteva ne’ sobborghi. Anastasio imperatore avea preso a cingerla di mura, ma egli morì prima di dar fine all’opera. Giustiniano la compì, e con ciò diede sicurezza agli Armeni e decoro a Melitene». Abbiamo inoltre da Eusebio (Hist. Eccl., lib. v) che i soldati di questa legione (Milites legionis Melitenae) sotto Marco impetrarono da Dio una miracolosa pioggia ai Romani e tuoni e fulmini ai nemici. Quindi è che alcuni eruditi leggendo in Dione Cassio (lv) la medesima legione, ch’era pur la duodecima, soprannomata fulminifera, congetturarono datole cosiffatto nome sino dall’epoca di quella portentosa vicenda. Non è poi da maravigliare che Stefano, fedele seguace degli antichi geografi e soprattutto di Strabone, abbia scritto Melitene urbs Cappadociae, avendo in epoche più remote il suo territorio fatto parte di questa regione.
  7. Città forte per natura, metropoli altre volto della Comagene, e patria di Luciano. Plinio narra (lib. ii) ch’era in essa un celebre stagno il cui fango, nomato comunemente malta, avea la proprietà d’accendersi coll’acqua, e di ammorzarsi colla terra; il perchè molto se ne valsero gli abitatori a difenderne le mura assalite da Lucullo, venendone arso il romano fante con tutte le sue armi. Plutarco però nella vita di Lucullo non dice verbo di questo fatto. Intorno a Samosata V. Strabone, lib. xvi.
  8. «L’Eufrate e il Tigri, dice Diodoro Siculo, sono i più notabili fiumi di tutta l’Asia. Hanno essi le sorgenti loro nei monti dell’Armenia, e sono tra loro distanti per due mila cinquecento stadj; ma venuti presso la Media e la Paretacene entrano in Mesopotamia, la quale così appunto si chiama perchè essi la serrano in mezzo. Quindi vagando per la Babilonide, vanno poi a sboccare nel mar Persico; ed essendo fiumi grandi e scorrendo per molte regioni somministrano considerabili comodità a chi si applica alla mercatura» (Bibl. Stor., lib. ii, cap. 3. Traduzione del cav. Compagnoni).
  9. Calliroe pur nomata in grazia d’una bella fontana (χαλλίρρόη) entro le sue mura. Ora ha cambiato di nome appellandosi Roha, o coll’articolo degli Arabi, Orrhoa, per abbreviazione Orha. Il fiume Scirto (saltatore) scorre vicino a lei, e recale molti danni colle sue allagazioni; i Sirii chiamanlo Daïsar, voce affatto corrispondente nel significato all’antedetta.
  10. Erano parimente segni di grandissima distinzione in Persia, e dal re accordati ai benivolenti suoi e benemeriti della repubblica, la veste alla foggia de’ Medi (nomata da alcuni autori δυροφοριχη, e ne’ posteriori tempi serica, i braccialetti d’oro e così pure l’acinace ed il freno del cavallo (V. Erodoto, lib. iii e vii; Senofonte, Cirop., lib viii, ed Anabasi, lib. i; Giuseppe Flavio, Antich. Giud., lib. x e xi; Plutarco, Vita di Artaserse; Dione Crisost., Oraz. 2).
  11. Fatta costruire da Seleuco Nicatore, il quale diedele questo nome per onorare la memoria del suo genitore Antioco. Ebbe parimente il soprannome di Epidafne, sendo a lei vicina Dafne grossa borgata con bosco e tempio sacri ad Apollo e Diana, per distinguerla dalle altre città asiatiche aventi la stessa denominazione. Essa è attraversata dal fiume Oronte (V. Plinio, v, 21; Giust., xv, 4; Strab., xvi). Ora è nomata Antackia.
  12. Era anche dato questo nome, secondo Suida, ai principi della Mesopotamia.
  13. Menandro parimente fa di lui onorevole menzione.