L'asino d'oro/Libro IX

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Apuleio - L'asino d'oro (II secolo)
Traduzione dal latino di Agnolo Firenzuola (XVI secolo)
Libro IX
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LIBRO NONO


In cotal guisa armava lo scelleratissimo boia contro a di me le crudelissime mani; laonde io, che mi accorsi dello imminente pericolo, senza perdere troppo tempo in consigliarmi, feci pensiero col fuggirmi scansar le mie povere carni da quella scellerata beccheria: e rotta la cavezza colla quale io era legato, subito la diedi a gambe, e a cagione che niuno mi si accostasse per ritenermi, alzato i ferri all’aria mi andava gagliardamente difendendo co’ calci: e veduto uno uscio aperto, nè sappiendo dove m’entrassi, mi misi in un tinello, dove il signor della casa con quegli imbriachi di quei miei padroni doveva cenar quella sera; e fu tanta la furia che io ebbi nello entrare dentro, che io misi sottosopra ciò che era su per le tavole e su per la credenza, bicchieri, guastade, saliere, coltelli, vasi, tovaglie, [p. 199 modifica]tovagliolini, e le tavole finalmente: perchè il signor di casa, pieno d’un mal talento, fattomi subito prendere, comandò ad un suo fante che mi guardasse con grandissima cura, a cagione che un’altra volta io non facessi una di quelle pazzie. Legato adunque bene, e messo a buona guardia, me ne stava coll’animo tutto riposato, e parevami che quel carcere fusse pur troppo benigno, posciachè per suo mezzo io era libero dalle crudelissime mani di quel ribaldo di quel beccaio. Ma che bisogna affaticarsi contro al volere della Fortuna, posciachè così male puon resistere i nostri sagaci pensieri o la nostra prudenzia alla sua fatale disposizione, sì che ella non ne guidi sempre al crudelissimo e destinato sentiero? Finalmente, quel mio consiglio, che pareva che mi avesse tratto del profondo baratro dello Inferno, mi tuffò in pelago più profondo e più mortale: e questo fu, che venendosene un fanciullo (secondo il mio giudicio, ch’io mi pensava, ragionavano tra loro i famigli) là oltre ove coloro cenavano, riferì al padrone, che egli era uscita di una stradetta ivi vicina una cagna arrabbiata, ed entratasene per l’uscio di dietro in casa con una furia che mai la maggiore, aveva assaltati tutti i bracchi di casa, e d’indi poscia corsasene alla stalla, col medesimo empito aveva morso quasi tutte quelle bestie: e quello ch’era molto peggio, che ella non si era manco astenuta dagli uomini; imperocchè ella aveva ferito il Penna mulattiere, e Chichibio cuoco, e Lenio cameriere, e maestro Appollonio medico, insieme con tutti quegli altri che si erano voluti contrapporre alla sua rabbiosa e inaudita furia: aggiugnendo che tutti quei bracchi che ella aveva tocchi col dente, erano incorsi nel medesimo furore. La qual cosa turbò subitamente gli animi di tutti quelli che erano ivi a tavola, stimandosi che io avessi fatto poco fa quelle pazzie per essere infetto del medesimo veleno: perchè prese ognuno di loro l’arma in mano, inanimandosi l’un l’altro ad ammazzarmi, dubitando che io, mordendogli, non gli facessi similmente incorrere in quella medesima rabbia nella quale egli [p. 200 modifica]erano incorsi, senza che mi accostassi loro. E senza dubbio alcuno, egli mi avrebbon tagliato tutto in mille pezzi; tante lance, tanti dardi, e tante spade avevano ritrovate; se io, prevedendo la pioggia di questo strano pericolo, non me ne fussi fuggito volontieri al coperto alla camera, dove con riposo dormivano tutti i miei padroni. Laonde eglino, serratomi immediate addosso gli usci e le finestre, si deliberarono tenermi assediato quivi dentro, insino a tanto che quello arrabbiato veleno mi avesse al tutto finito di consumare: nè sappiendo io altro che farmi, presomi la comodità della presente fortuna, mi misi a giacere sopra del letto il quale poco avanti era stato molto ben rifatto e ordinato, e dopo tanto e tanto tempo io presi finalmente il sonno come gli altri uomini. E venuto il dì alto, avendo disgombrata da me ogni stracchezza colla morbidezza del letto, sano e fresco e gagliardo mi risvegliai; e stando così un poco in orecchi, per udir se quegli che con gran diligenza mi facevano la guardia, ragionavano niente del fatto mio, io sentii che uno di loro diceva: Pensiamo noi però che questo povero asinello sia vessato sì lungamente da questo suo malvagio furore? io per me credo che l’impeto di quel pestifero veleno avrà fatto suo sforzo, e lo avrà mandato nel paradiso degli altri asini: ma vogliamoci noi chiarire del tutto? guardiamo un poco per una fessura dell’uscio, se egli ve ne ha alcuna, e saperrem tutto il convenevole. E così facendo, egli mi videro più sano, più quieto e più pacifico che mai: per la qual cosa, aperte le porte, si andavano consigliando di far qualche sperienza, per veder se io fussi guarito affatto. Perchè un di loro, veramente mandato dal cielo per la mia salute, diede lor questo modo, e disse: ch’e’ pigliassero un catino pieno di acqua fresca, e me la dessero a bere, affermando che s’io senza paura alcuna la bevessi come prima, che egli mi avessero assolutamente per sano; dove se, per lo contrario, io mi facessi schifo o del vederla o del toccarla, ch’e’ tenessero per certo che ancora non [p. 201 modifica]era spenta la rabbiosa fiamma: affermando che questo rimedio, oltrechè egli era scritto come cosa provata negli antichi libri, egli ne aveva altra volta visto la sperienza. Piacque a tutti il parer suo, e senza indugio fu portato un gran catin d’acqua fresca e chiara come un cristallo, tratta allora allora d’una fonte ivi vicina; alla quale, come più tosto io la vidi, senza aspettare altrimenti ch’e’ sufolassero, io mi feci incontra; e non solo vi bagnai le labbra, ma vi tuffai dentro il capo tutto intero, e bevvimi quella preziosa medicina tutta quanta in pochi sorsi: e percotendosi poscia alcun di loro un poco più supertizioso le mani l’una coll’altra per farmi paura, e un altro ripiegandomi le orecchie, e chi tirandomi per la cavezza, io stava fermo come un porcellin grattato; imperocchè io aveva deliberato per ogni modo colla mia modestia trarre loro quella falsa opinione che egli avevan preso del fatto mio. Avendo adunque scampato questi due così fatti pericoli, mi stetti nella mia santa pace sino al dì dipoi: il quale come più tosto fu venuto, col solito tabernacolo e colle altre bagaglie addosso, io fui da’ miei padroni rimesso a nuovo viaggio. E cercando un grandissimo numero di case e di ville, e quivi gabbando una vecchia, e più colà sforzando una giovane, e’ si cacciaron sotto tanta roba, che nè io nè essi la potevamo più portare. Perchè venuticene in un castello, dove per avventura era il mercato, e dato ordine di vender quello che non bastava loro l’animo di portare, ci mettemmo dentro a una osteria dove io senti’ contare una novella da ridere; della quale e’ mi parrebbe far gran torto, se io non ve ne facessi partecipe.

Era un poveretto, che di giorno in giorno lavorando a opere, a vivere s’aiutava. Aveva costui una moglie giovanetta e di viva bellezza, colla quale era ancora giunta quella piacevolezza che volentieri con beltà s’accompagna. Ora essendo il marito una mattina ito a lavorare, siccome sempre era usato, la moglie raccolse in casa un bel giovane, che le tenesse il fuso diritto, [p. 202 modifica]mentre che ella menasse la rocca del lino intorno. E avendo già lavorato tanto, che in poco d’ora non sarebbe stato più diritto il fuso, eccoti il marito improvviso ritorna a casa: il quale, siccome più intendente dell’arte del manovale che delle femmine, niente di ciò sospetta; e trovato la sua porta chiusa, ringraziò molto Iddio dell’onestà della moglie: dopo battè, com’era usato, e fischiando, fa chiaro ch’egli è venuto. La moglie, dolente a morte di non aver voto il fuso, nasconde l’amante subito in una botte, che in uno de’ cantoni della casa stava vota e scoperta; poi aperto al marito, con turbato viso gl’incominciò a dire: A questa ora mi torni tu a casa colle mani a cintola? e di che viveremo noi se non ti affatichi, o sciagurato? che credi, che io ti abbia a pascere? io non sono di quelle che tu credi: io sventurata tutta la notte e tutto il giorno mi stento a filare per tenerti coperto, e potrei anch’io fare come dell’altre fanno: tu meriteresti una femmina, come è la Tullia, che si pascesse di adulterj, lasciando morir di fame il marito. - Ah non ti turbare, moglie mia bella, disse il marito, che benchè oggi il nostro gran maestro sia ito in villa, nè possiam lavorare, ho perciò trovato modo al viver nostro per parecchi giorni. Tu vedi questa botte, la quale è sempre stata vota, ed è tanto tempo che c’impedisce questa picciola casetta: io l’ho venduta testè cinque danari ad uno, che sarà qui incontanente per portarsela; sicchè aiutami un poco, che la nettiamo, perchè io ho così promesso di dargliela netta e forbita. La moglie, pigliato d’improvviso nuovo partito, sorridendo gli disse: Beata me, che pure ho per marito un buon mercatante, uomo di molta astuzia, e che sa molto ben fare i fatti suoi e i miei; che quando gli mancasser le sue mani, pascerebbe la famiglia collo ingegno. E come? non ti pare che questa botte tanto grande vaglia più che cinque danari? Io trista femminella, che non mi spiccai mai dall’uscio tre palmi, ne ho fatto mercato in sette danari. Il marito allora, della buona vendita molto contento, disse: E chi è colui che [p. 203 modifica]l’ha comperata per questo pregio? O babbione, dice ella, che pure me lo convien dirtelo, egli è già dentro nella botte per veder s’ella è sana. Colui, che dentro aveva inteso il tutto, saltò fuori con buon viso, e disse: O tu, che mi hai venduto questa botte, ell’è molto vecchia, e per lo tanfo che vi è dentro, non posso vedere se c’è alcun buco. Ma tu, buon uomo, che qui se’ venuto, portami una lucerna accesa, ch’io raderò via la feccia, che non intendo comprar quel ch’io non veggo. - Ciò non voglio comportar per niente, disse la moglie; che tu potresti fare alcuna fessura col ferro nella botte; per distornare il mercato che con essomeco hai conchiuso, ma il mio marito, ch’è qui presente, entrerà egli dentro, e scopriralla a tuo piacere. Così dicendo, lo fece spogliare, e miselo nella botte, e presa la lucerna, sopra l’orlo si pose ella a fargli lume. Il giovane, che conobbe il tempo, prestamente incominciò di fuori a scarpellare ancora egli; ma con manco romore incarnava lo scarpello, che ’l maestro non faceva nella dura botte: e sentendo la cattivella femmina che egli alquanto sconcio stava, e temendo di qualche grandissimo pericolo, [p. 204 modifica]che agevolmente intravvenir ne poteva, più pianamente si piegò, facendo arco della schiena. E chinatasi col lume più presso al suo marito, diceva: Netta qui, toccando sopra il fondo: e qui ancora, e da questa banda, e da quell’altra; e movendosi dava ad amendue i maestri bonissimo aiuto a compir l’opere loro. Le quali poichè quasi ad un tempo furono fornite, il manovale ricevette i sette danari per prezzo della venduta botte, convenendogli anche portar quella sopra le spalle fino alla casa del giovane adultero.

Venuta l’altra mattina l’alba del chiarissimo giorno, i miei padroni, postisi in assetto di tutto quello che lor faceva mestiero, si misero prestamente in cammino; e per mia maggior ventura, presero una certa strada così dolorosa e scellerata, che io non so come egli fu mai possibile che noi n’uscissimo a salvamento. La prima cosa, non ci lasciavano passare certe gore, che traboccavano; ma più oltre, quando tu ti credevi essere uscito dall’acqua, e tu trovavi certi paludacci, che vi si andava fino alle cigne: esci di quei grandissimi paduli, e’ s’entrava in tanto fango e in sì crudeli fitte, che, lasciamo stare che io vi lasciai dentro ambi i ferri dinanzi, io non ne credetti mai potere cavar le gambe; e dove non erano quelle fitte, e’ vi si sdrucciolava di tal sorte, che i miei carissimi e debili padroni ed io, ad ogni passo che noi faciavamo, tombolavano così bei cimbottoli ch’egli era talvolta da ridere. E quando con mille aspre fatiche e mille stenti, tutti rovinati e tutti stracchi, noi eravamo arrivati ad un poco di buona via, e’ ci si scoperse addosso una squadra di cavalli tutti armati, e con una furia che mai la maggiore assaltarono Filebo e i suoi compagni; e presoli tutti, e messo una fune al collo per uno e le manette alle mani, e chiamandoli ladri, assassini e sacrilegi, e toccando lor tutta volta di buone pugna, dicevano, che traessero fuor quel vaso d’oro, il quale con simulata religione egli avevano involato d’in sull’altare della chiesa della Madre del Signore; come se i ribaldi credessero poter, [p. 205 modifica]senza supplicio patirne, violare tanta maestà, e che il partirsi di notte gli avesse a torre degli occhi di Colui che è essa luce. E mentre ch’e’ dicevano queste parole, messosi un di loro a cercar entro a quel tabernacolo, trovarono un bellissimo calice, che i devoti uomini l’avevano dato a Santo Antonio, perchè egli dicesse messa. Nè allibbì almanco per il discoprimento di così fatto sacrilegio quella impurissima gente; ma con false risa, dimostrando d’esser i buoni e belli, dicevano: Vedi che disoneste cose ne conviene altrui sopportare; che per un caliciuzzo, che la Madonna ha donato al suo servo Santo Antonio, odi che villania costoro ci dicono, e quanto oltraggio ci fanno! e senza guardare alla dignità dell’abito, ci mettono in pericolo della testa. E mentre che con queste e altre simili menzogne costoro si credevano fargli Calandrini, quegli armati, così legati come egli erano, ritirandogli donde egli erano partiti, gli misero nelle mani della Corte; e il tabernacolo e il calice fu posto nella lor chiesa con grandissima solennità. E il giorno dipoi, condotto in un mercato, fu’ messo allo ’ncanto una volta; e più totte lire, che non mi avea [p. 206 modifica]comprato Filebo, mi pagò un mugnaio, che abitava in un altro castelletto poco lontano: il quale, caricomi di grano, che egli aveva comprato sul medesimo mercato, per una strada tutta piena di sassi e di pruni me ne menò al suo mulino: entro al quale non picciol numero di bestie colle loro volte, e il dì e la notte, supplendo al difetto dell’acqua, s’aggiravano intorno alle macine. Ma il nuovo padrone, a cagione che nella prima giunta io non mi sbigottissi per così strana servitù, mi mise in una buona stanza, e mi fece traboccar la mangiatoia e la rastrelliera; e volle che il primo giorno fusse feriato. Ma non pensassi però, che quella abbondanza del mangiare e dell’ozio durasse più che quel giorno; chè, venutone poscia l’altra mattina, io fui legato ad occhi chiusi ad una di quelle macchine, la maggiore che vi fusse; e dandomi dietro uno con uno scudiscio, fui forzato a far la volta tonda; perchè nel picciolo spazio di quel circolo troppo velocemente rivolgendomi, un de’ miei piedi l’altro mi calpestava. E benchè spesse volte, quando io conversava tra gli uomini, io avessi veduto voltare di queste macchine, e anche asino ne avessi, com’egli vi può ricordare, voltate un’altra volta, contuttociò mostrandomi ignorante e mal pratico di questo esercizio, stimando, stolto ch’io era, che come inutile per questo mestiero e’ mi adoprerebbono a qualche cosa più agevole, o mi darebbono le spese senza farmi durar fatica, spesso spesso, mostrando una grandissima maraviglia, mi stava fermo come una cosa balorda. Ma non solo indarno per allora, ma con mio grave danno esercitai, non vo’ dir l’astuzia, ma la mia semplicità; imperocchè io non mi era prima fermato, ch’e’ mi erano parecchi addosso con bastoni, e mettendo a romore ciò che v’era, non restavano di caricarmi di bastonate, sintantoch’e’ mi vedessero camminare: perch’io, dato bando a tutti i miei consigli, e messo ogni mia forza ad una fune di giunchi, colla quale era legato a quella macine, mi diedi a girare colle più belle volte che voi vi possiate pensare, in modo che questa [p. 207 modifica]mia mutazione mosse non picciole risa a tutte quelle brigate: e così durò la cosa sino all’ora valica di desinare; ed allora fui menato alla mangiatoia, dove io, ancorchè fussi stracco e avessi gran necessità di mangiare, pure sollecitato dalla mia solita curiosità, lasciando il cibo, del quale io aveva larghissima copia, con non picciolo mio piacere considerava i diabolici strumenti della rincrescevole arte di quella bottega. O Signor mio, che omiciatti vi si vedeva egli, pieni di segni di bastonate, pien di lividori, con mantellucci, che piuttosto ombravan loro, che e’ ricoprissero le macerate membra! senza quelli che non avevano altro indosso che un poco di panno, che copriva loro le parti vergognose; e perciocch’egli erano avvezzi a star tra il fummo, egli avevano quegli occhi scerpellini, sicchè e’ vedevan poco o niente di lume, e in guisa di quei che camminano per la polvere, erano incrostati di farina; sicchè tu non avresti creduto che i diavoli fussero fatti in altra maniera. Che dirò io della mia compagnia? come eran vecchi quei muli, magri quei cavallacci, e avevan quei capacci pieni di piaghe vecchie, e come pendevan quelle froge del naso, e quanto cimurro gettavano! quanti guidaleschi, quante scorticature gli avevan fatto certi fornimentuzzi ch’egli avevano di quelle funi di giunchi! Che occorre dire? chè l’unghie eran tutte fesse e logore insino al vivo; e ch’egli eran sempre pieni d’una scabbia minuta, che gli consumava. Egli non vi era bestia alcuna, della cui pelle se ne potesse fare un vaglio da noci. Temendo io adunque lo spaventevole esempio di questa generosa famiglia, e ricordandomi della fortuna dello antico Agnolo, e or veggendomi ridotto nel profondo del pelago delle miserie; non potendo altro fare, abbassato il capo, meco stesso mi rammaricava. Posto dunque tra tante e così gravi miserie, un solo sollevamento aveva; e questo era quello che mi porgeva la mia solita curiosità: imperocchè non facendo stima la brigata del fatto mio, ognun diceva e faceva in mia presenza quello che ben gli veniva di dire e di fare. E non senza [p. 208 modifica]cagione quel grande autore della antica poesia, volendo dipignere appresso de’ Greci un uomo dotato d’una gran prudenzia coll’aver cerco molte città, e coll’aver apparato il vivere d’infiniti popoli, lo celebrò come ripieno di tutte le virtù: per la qual cosa sono obbligato di rendere infinite grazie all’asino mio, il qual tenendomi ascosto entro alla sua pelle, ed esercitandomi in vari accidenti, se non mi fece prudente, almeno mi fece di molte cose conoscitore. Finalmente, io ho deliberato pascer gli orecchi vostri con una dilicata favola, la quale, mercè dell’asino, io apparai in casa col mio padrone; ed ecco ch’io la comincio. Ma prima sarà meglio, or ch’io ci penso, darvi un poco di notizia della sua moglie, ch’io non dubito che voi avrete caro d’averla conosciuta. Era quel mugnaio, il quale co’ suoi danari m’aveva fatto della sua famiglia, veramente una buona e modesta persona; ma egli aveva una moglie ch’era delle più pessime e più malvagie femmine che nascessero mai sotto alla cappa del Sole; e aveva tante le brighe e sì fatte le fatiche col fatto suo, ch’era una compassione; di maniera che io, ch’era uno asino, per amor suo assai sovente meco me ne rammaricava; ned era vizio al mondo, che non fusse in quella scelleratissima donna, anzi tutti come in una profonda fogna erano piovuti nell’'animo suo: malvagia, crudele, vaga dell’uomo, ghiotta del vino, bugiarda, ostinata, pertinace, nelle lodevoli spese avara e prodiga nelle disoneste, nemica della fede, avversaria della pudicizia, ruffiana; perocchè da lei non era restato di far capitare male una figliastra ch’ell’aveva; e dispregiato e cacciatosi dietro alle spalle l’onore dell’eterno Dio, sotto spezie di esser delle divote di non so che convento di frati, e cignersi non so che corda intorno a’ fianchi (che assai meglio le sarebbe stata intorno al collo), ingannando gli uomini, e uccellando il marito, aveva fatto profession di fare astinenzia (col bere ogni mattina per tempo) e di macerare il corpo suo (con continui adulterj). Questa venerabil femmina mi portava un odio maraviglioso: [p. 209 modifica]e ogni mattina, anzi che fusse apparito il giorno, giacendosi nel letto, metteva a romor la casa, ch’io fussi menato a lavorare; e come più tosto, posciachè a dì alto ella si era levata del letto, ella se ne veniva nel mulino, e mi faceva dare un carico di bastonate. Ed essendo dato spazio assai per tempo agli altri animali che andassero a strameggiare, ella non voleva che io fussi legato alla mangiatoia, se non al tardi al tardi: la quale stranezza mi aveva accresciuta la natia curiosità ne’ suoi costumi. E accorgendomi che del continuo entrava in camera sua un certo giovanetto, io aveva gran vaghezza di vederlo in viso; a cagione che, se mai Agnolo fussi ritornato entro agli occhi miei, e’ non mi mancasse modo di scoprir la disonestà di quella rea femmina. Ora, volendo una volta fra l’altre una certa vecchia mezzana e aiutatrice de’ suoi adulterj, e con chi ella faceva tutto il dì mille merenduzze e mille stravizzi di nascosto al marito, metterle per le mani non so che altro bel giovane, ragionandosi un dì seco, le disse queste formali parole: Di cotesto, la mia padrona, il quale, senza mio consiglio, così pigro e pauroso ti hai preso per amico tuo seguirai il parer tuo; posciachè egli non ti dà noia, che temendo così vilmente la rugosa fronte del tuo odioso marito, e perdendo il tempo, tu ti stracchi i tuoi volonterosi abbracciamenti. Quanto sarebbe miglior per te Filero, giovane bello, liberale, valente, e contro alle inefficaci diligenze e vane gelosie de’ mariti costantissimo; degno egli solo di portar corona, se non fusse per altro, che per quello che egli fece, non ha molti giorni, così astutamente contro ad un de’ più gelosi mariti che sieno di qua a cento miglia: ascolta di grazia, e poscia fa paragone dello ingegno di costui con quello degli altri amanti. Ecco che la vecchia mi racconta la novella: se voi siete stati a disagio un pezzo, incolpatene la trista natura della mia padrona, la quale non si poteva con brevi parole così bene esplicare.

Tu hai conosciuto Barbato, decurione della nostra città, il quale la brigata per li suoi rozzi costumi [p. 210 modifica]chiamalo Scorpione. Avendo costui una bellissima moglie e gentile, egli n’era, senza saper la cagione, divenuto sì geloso, ch’egli aveva paura che gli uccelli non gliela involassero; e guardavala con tanta cura, che egli, o non se le levava mai dattorno, o se pur gli faceva mestiero per picciolo spazio lasciarla, e’ la teneva rinchiusa in una camera con mille chiavi. Il quale, mentre che egli era entrato in questo farnetico, accadendoli di cavalcare per alcune sue bisogne per molti giorni, e desiderando di lasciarla guardata di maniera, ch’ella non facesse le vendette di tante stranezze; avuto a sè uno schiavo chiamato Mirmece, il quale egli aveva sempre conosciuto fedelissimo, e’ gli disse tutto quello ch’e’ voleva ch’e’ facesse circa la guardia di questa sua moglie: e minacciandolo di bastonate, di ferri, di ceppi, di prigione, e della morte, finalmente gl’impose che non le lasciasse a uomo del mondo toccare, eziandio per passo, i panni pur con un dito: e con molti giuri e saramenti raffermando quei suoi minacci, se ne andò a suo viaggio. Rimaso adunque Mirmece alla guardia di questa sua padrona, non la lasciava pur tanto sola, che ella avesse agio d’andare a pisciare; anzi sempre standole attaccato a’ panni, con maggiore importunità la gridava che il marito stesso non avrebbe voluto. Ma la eccessiva bellezza di questa gentildonna non potè fuggir le vigilantissime mani del giovane Filero, il quale quanto maggior sentiva il grido della sua castità, quanto più intendeva ch’ell’era guardata con diligenza, maggior desio gliene prendeva, e con più prontezza d’animo s’accendeva a questa impresa; e finalmente era apparecchiato a sopportare ogni fatica, ogni disagio, ogni spesa, ogni danno, ogni vergogna, pure che egli avesse l’onor dell’espugnazione d’un così ben guardato castello; parendogli (e nel vero egli è così) tanto doverne divenir glorioso, quante maggiori difficoltà gli s’appresentassero. E come quelli che molto ben conosceva l’umana fragilità, ed avea più fiate visto per isperienza, che l’oro è sì penetrativo, che egli si fa far la strada per ogni [p. 211 modifica]serrato luogo, e con assai maggior empito spezza le porte, ancorch’elle sieno di durissimo adamante, che non dicono costoro che faccia il sangue di becco; perchè, fatto d’avere un giorno Mirmece a solo a solo, e’ gli scoperse lo amor suo, e quanto più potè umilmente gli si raccomandò; dicendo, che egli si struggeva, e che se e’ non otteneva da lui questa grazia, che si voleva dar la morte; e aggiugnendo tutte quelle belle parole che sanno gli amanti quando e’ si raccomandano, si sforzava trarlo alla sua volontà. E perchè la difficoltà non lo spaventasse, mostrandogli la via agevole, soggiungeva, che stravestendosi una sera, quando non lucesse la Luna, sicch’e’ non potesse esser conosciuto da veruno, e’ potrebbe entrarsene per l’uscio di dietro in casa sua; e statosi non guari colla donna, ritornarsene nel medesimo modo; aggiungendo, al fine delle sue parole, quello stimolo ch’è cagione della rovina dell’umana generazione, e che importava più che cosa che egli avesse detto, e l’aveva a fare per ogni modo andare a gambe levate: e stesa la mano, gli mostrò trenta ducati d’oro larghi, e belli, e nuovi, usciti di zecca allora allora, de’ quali e’ voleva che ne desse venti alla giovane, [p. 212 modifica]e gli altri dieci fussero il guiderdon della sua fatica. Spaventossi sul primo Mirmece udendo così disonesta domanda; e, senza risponder cosa alcuna, con orecchi impeciati via se ne fuggì. Ma e’ non potè fare, che quello splendor di quei bei ducati, che gli s’era fitto negli occhi, non lo seguitasse; e benchè e’ fusse lontano un pezzo, e rinchiuso in casa, veggendo nondimeno quel bel colore, tutto vi si abbagliava, e già gliene pareva essere possessore, e già gli era avviso d’annoverargli: e percotendo il suo debil legno or questo or quel pensiero, ora stava per annegare, or lontano dal periglio prendeva la via del porto; quinci lo ritirava la fede, quindi lo sospingeva il guadagno; al porto il menava la tema de’ minacciati martirj, agli scogli il ritraeva la bellezza di quell’oro: vinse finalmente il pregio la temenza della morte, la fede e la osservanza del suo padrone; e non potè avere almen tanto di pacienza, che egli indugiasse insino alla mattina. E preso a un tratto partito della vergogna, di bella mezza notte itosene al letto della padrona, tanto le seppe ben predicare, che per cupidigia di quei danari la buona femmina diede bando alla tanto guardata e onorata castità. Allora allora lo infido Mirmece tutto allegro, e parendogli mill’anni d’aver lo scellerato pregio della venduta fede, se ne andò da Filero, e raccontogli come il fatto stava, li chiese la promessa mercede: e così quella mano che non era pur usa a maneggiare quattrini, possedeva così al presente così bei ducati. Or, per non ve l’allungare, venuta una notte a lor proposito, il fedel Mirmece condusse Filero colla donna; e mentre che nelle più care vivande d’Amore i nuovi amanti con lor grandissimo piacere si cibavano, quel geloso del marito, presa la opportunità della notte, a bella posta, per vedere se egli, giugnendo all’improvviso, vi coglieva persona, fuor della estimazione d’ognuno arrivò alla porta; e picchiando, e chiamando, fece in modo che tutti quegli di casa lo sentirono. E perchè Mirmece non gli veniva ad aprir così tosto come egli avrebbe voluto, dubitando [p. 213 modifica]di quel che era, il minacciava di fargli e dirgli, se egli non apriva allora allora: ma egli per la repentina giunta tutto perturbato e pien di paura, non sappiendo altro che farsi, quello che solo poteva, e’ dava scusa, che per essere al buio egli non poteva ritrovar la chiave. E Filero in quel mentre, presa subitamente una sua veste e tutte le altre cose, e per la gran fretta lasciato un paio di pianelle di velluto, calatosi per una finestra della camera, che riusciva in una stradetta dietro, se ne andò a casa sua. Della qual cosa accortosi Mirmece, ritrovata la chiave, e aperta la porta, mise dentro il padrone: il quale, minacciando e borbottando, se ne corse subito in camera della moglie, per vedere se egli vi era alcuno che se la mangiasse; nè avendo ritrovato persona, per quella sera non ne fu altro. Ma venuta poscia la mattina, il buono uomo, che non aveva dormito in tutta quella notte un sonno in pace, come più tosto fu levato, andando guardando per la camera, s’e’ vedesse segno alcuno che non gli piacesse, e’ gli venne veduto sotto il letto quelle pianelle: nè riconoscendole per di casa, rinfrescando il preso sospetto, anzi raddoppiandolo, presele, e messolesi in seno, senza dir cosa del mondo o alla moglie o ad altri di casa, comandò che Mirmece fusse preso e legato, e in quella guisa gliel menassero dietro verso piazza. E rodendosi per la stizza da sè a sè, se ne uscì fuora, sperando coll’indizio di queste pianelle potere agevolmente sapere chi fusse bazzicato colla moglie. E mentre che egli se n’andava così gonfiato e così accigliato per la piazza, e dietro gli veniva Mirmece, come io vi dissi, legato (il quale, ancorch’e’ non fusse stato giunto in manifesto peccato, stimolato dalla macchiata coscienza, piangeva e lamentavasi, in guisa ch’e’ ne ’ncresceva a ognuno che lo vedeva), andando Filero per avventura per far non so che sue faccende, e passando per piazza, e’ gli venne veduto quel cattivello, e in sulla prima giunta tutto si conturbò; e ricordandosi dello errore, che per la gran fretta egli aveva commesso lasciando quelle pianelle, e [p. 214 modifica]tenendo per certo che costui non era legato per altro fatto; non impaurito miga, anzi pensando subito alla di lui salute e all’onor della donna, fatto buono animo, da lui se ne andò, e scansato tutti quelli che gli erano intorno, se li mise addosso colle pugna, e senza fargli molto male, fe le vista di dargliene un carpiccio de’ cattivi. E mentre ch’e’ lo percoteva, e’ gli teneva detto continuamente: Ladroncello da mille forche, schiavo poltrone, che non so come questo tuo padrone e Iddio insieme, i quali tu hai tante volte bestemmiati e maladetti, ti sostengano in vita, che hai avuto tanta faccia che tu mi rubasti iersera le pianelle sin della stufa; ma non ti curare, chè tu stai non già come tu meriti, perchè assai più ti si converrebbe una prigione fra un monte di ladri par tuoi, che stare su per le piazze fra tanti uomini dabbene: ma io ho speranza, che se questo gentiluomo fa quello che e’ dee, ch’egli non ci andrà guari, che avrai parte del pagamento delle tue ladroncellerie. Tolto Barbato dalla grande astuzia del valente giovane da ogni sospetto, rimenato a casa Mirmece, e avutolo a sè, gli perdonò liberamente, come quelli che poco stimava tutte l’altre ingiurie anno quelle [p. 215 modifica]della moglie; e portoli quelle pianelle, il confortò a renderle al padrone.

Fu di tanta efficacia la novella della buona vecchia della mia padrona (che non era però così cruda, ch’e’ bisognasse gran fatto legne a cuocerla), che si lasciò persuadere a far tutto quello ch’ella voleva: e così, senza dire altro, diedero ordine che ’l giovane le mettesse nel cervello qualcuna delle astuzie sue. E tanto durò la cosa, che il marito una volta fra l’altre ve la giunse; e non ne potendo più sopportare del fatto suo, e’ se la cacciò di casa a suon di bastonate. Laonde la malvagia femmina, oltre alla sua natia malignità, sdegnata per la villania fattale, benchè giustamente, se ne corse allo armario delle medicine delle scellerate donne; e con ogni diligenza fece d’avere a sè una vecchierella, la quale avea nome di fare con suoi incanti e sue malie ciò ch’ella voleva; e con molte preghiere e infiniti doni la costrinse a prometterle di fare una delle due cose: o che ella la facesse ritornare in grazia del suo marito; o quando questo non si potesse fare, ch’ella gli cacciasse addosso un qualche spirito, che lo facesse morire di morte violenta. Laonde quella valente fattucchiera, messo mano all’armi della sua disonestissima disciplina, cercò la prima cosa di rivocar l’offeso animo del marito dal giustissimo sdegno, e di nuovo piegarlo nello amore della mogliera. La qual cosa avvenendole al contrario di quello che ella si estimava, adiratasi col cielo e con sè stessa, e stimolata da questa indignazione, dal premio ricevuto e dall’onor dell’arte sua, con tutte le forze si mise a soffocar lo spirito dell’innocente marito; e stimolata l’ombra di una certa donna morta con violenta mano, pose lo assedio alla di lui vita. Ma io temo che un di quei lettori un poco scrupolosi, i quali non per altro che per riprendere si mettono a leggere le opere di quelli che vivono (che Dio il sa se egli ce ne ha), usando l’uficio suo, dirà così da sè: donde hai tu, o asinello, riserrato sempre entro ai termini del molino, quello che si ragionassero, pensassero, e veramente [p. 216 modifica]facessero quelle donne? Nota adunque in che modo un uomo curioso, nascosto sotto alla pelle d’un asino, abbia conosciute tutte quelle cose che già sono state fatte e pensate in danno del mio mugnaio. Un dì fra gli altri, che il sole era arrivato, o poco manco poteva stare a giugnere, al più alto giogo del suo viaggio, una donna squallida, magra, brutta, con certi capelli mezzi canuti, arruffati, che le coprivano mezza la faccia, co’ piè discalza, e coperta d’un manto, negra sì ch’ella pareva l’accidia in un campo di funghi, se n’entrò nel mulino; e preso assai benignamente il mugnaio così per mano, mostrando di volergli parlar di segreto, il menò nella di lui camera; e serrato molto ben l’uscio, si stettero là entro un pezzo: ed essendo finito di andare giù tutto il grano che egli aveva lasciato nelle tramogge, volendo un de’ garzoni chiedergliene dell’altro, se n’andò all’uscio della camera, e più volte ad alta voce lo chiamò; e veduto che niuno non rispondeva, forte maravigliandosi, nè potendo pensar che cosa potesse esser questa, posciachè egli ebbero picchiato parecchi e parecchi volte, e che dentro non si sentiva romore alcuno, e’ si diliberò di romper l’uscio; e fattosi aiutare dagli altri garzoni, che eran tratti a veder quel romore, se ne entrarono in camera; e senza veder quella donna in luogo alcuno, e’ s’avvidero che lo sventurato lor padrone stava appiccato per la gola a un travicello che spuntava in fuori in un cantone di quella camera. Il pianto fu grande, e i ragionamenti fur molti; e finalmente, levatogli quel capestro dal collo, diedero ordine di sotterrarlo, e onorevolmente il dì medesimo, colla compagnia di tutti i mugnai di quelle contrade, e altri parenti e amici, fu menato alla sepoltura. E venuto il dì dipoi, la figliuola, che di pochi dì avanti se n’era andata a marito ad un castello non molto lontano, lamentandosi altamente, battendosi la fronte, e stracciandosi i capegli, e piangendo lo infortunio del morto padre, alla sua casa se ne venne, affermando che non altri gliele aveva annunziato, ma ella medesima per sè stessa lo aveva [p. 217 modifica]saputo: imperocchè la notte davanti, mentre ella dormiva, il padre, col capestro avvolto ancora intorno alla gola, e colle lagrime sempre in sulle gote, le aveva racconta l’abbominevole opera della malvagia matrigna, e in che guisa, e per che conto, e come egli si fusse morto. La qual cosa ella distesamente narrò in guisa, che tutti noi che eravamo presenti, lo potemmo intendere. E questo fu il modo per lo quale io seppi così distesamente questa novella: il quale ti basti per tutte le altre volte, che tu ti maraviglierai ch’io abbia inteso le cose così per lo minuto; ch’io non ti voglio ogni volta avere a render ragione del fatto mio. Posciachè la tapinella si fu cruciata per lungo spazio co’ pianti e co’ lamenti, racconsolata dagli amici e da’ parenti di casa, diede pur finalmente luogo al gran dolore; e consumate che furono tutte le cerimonie che si costumano in quel paese alla morte di un capo di casa, in capo de’ nove giorni tutte le cose mobili, bestiame e masserizie, fu messo allo incanto. E così la licenziosa Fortuna le robe d’una sol casa, con gran fatica in lungo spazio insieme ragunate, ella disgregò in picciol tempo nello arbitrio d’infinite persone; ed io, fra gli altri, capitai nelle mani [p. 218 modifica]d’un poveretto ortolano, comprato venticinque lire, ma caro, secondo che egli medesimo diceva; e la sua e la mia fatica gli avevano a guadagnar le spese. La qualità della cosa mi par che richieda ch’io esponga eziandio il modo di questa mia nuova servitù. Questo mio padrone aveva per usanza ogni mattina avanti il giorno menarmi carico con una soma quanto mai ne poteva portare, ad una città vicina all’orto dove egli stava; e quivi lasciando l’erbe a quelli che le rivendevano, messomisi sopra le spalle a sedere, acciocchè io durassi più fatica, se ne ritornava all’orto. E mentre che egli aspettando la sera per rimenarmi un’altra volta, o zappava, o annaffiava, o faceva altro esercizio per l’orto, io prendeva un poco di riposo. E aggirandosi l’anno per le solite rivoluzioni delle stelle, e per lo solito numero de’ mesi e de’ giorni camminando, dopo le mostose dolcezze dello Autunno inchinandosi alle vernerecce brinate del Capricorno, senza aver mai cencio di ferro in piè, mi faceva mestiero camminare su per quei ghiacci, che tagliavan come rasoi; e per ristoro poi, mi stava alle piogge e alle nevi tutta la notte in una stallaccia coperta con non so che frasche, che vi pioveva dentro come fuora: imperocchè quel mio padrone era sì povero, ch’egli avea disagio di un po’ di strame per dormirvi su, non che egli avesse dove mettermi a coperto; come quelli che sotto ad un frascato (che non so se io me la voglio chiamare capanna, tanto avea cattiva coperta) e’ si dormiva in piana terra, come farebbe un altro in un letto spiumacciato: e spesso spesso egli ed io avevamo una medesima cena, ma breve; certe lattugacce tallite, che era come mangiare scope, e non sapevan se non d’un certo lattificcio, che era amaro come uno assenzio. Accadde una sera fra l’altre, che un uomo dabbene, che aveva una sua possessione lontana di quivi sette o otto miglia, sopraggiunto da una gran pioggia, e avendo il cavallo stracco, non gli bastò l’animo d’andare più innanzi, e ne chiese albergo per quella notte. Il povero ortolano benignamente lo [p. 219 modifica]ricevette; e corso in vicinanza a provvedergli qualche cosa da cena, non secondo che meritava quello uomo dabbene, ma secondo la sua povertà, e come comportava il tempo, il trattò assai piacevolmente. Laonde desideroso il buono uomo di rimeritarlo di tanto beneficio, gli promise di aiutarlo, e dargli un poco di grano, un poco d’olio, e non so quanto più di due barili di vino. Non istette il mio padrone a dir: che c’è dato? che subito che quell’uom dabbene si fu partito, preso un sacco e due barili un poco giusti, e postomegli addosso, ed egli poi messosi a cavalcioni fra essi per sopprassello, ne mettemmo in via. E appena eramo camminati sei o sette miglia e mezzo, che noi arrivammo alla possessione di quel valente uomo, dal quale noi ne fummo ricevuti tanto amorevolmente, che io non ve lo potrei mai dire. E ordinato abbondevolmente da fare colezione, egli invitò il padrone, e a me fe dare del fieno e dell’orzo; cosa che non aveva veduta, non che assaggiata, poi che io fui di quell’ortolano. E mentre che ognuno di noi attendeva a trionfare, egli accadde un prodigio molto maraviglioso: una gallina uscita del branco delle altre, gracidando come se pur allora far volesse l’uovo, se ne corse per lo mezzo dell’aia dove coloro desinavano con una furia molto maravigliosa; la quale vedendo il suo signore, disse: La mia buona monnina, la quale già tanto tempo ci hai ogni giorno pasciuto col frutto tuo, secondo che a me pare, tu vuoi adesso pagare il solito tributo. E chiamando un fanciulletto, seguitò: E però prendi quel nidio, dove ella altre volte suole far l’uovo, e mettilo là in quel canto, acciocch’ella possa far l’uficio suo agiatamente. E facendo il fanciullo quanto gli era stato imposto; la gallina, senza curarsi d’entrarvi dentro, itasene davanti a’ piedi del signore, partorì non un uovo, come fanno le altre galline, ma un pollastro colle penne, colle unghie, e colla cresta: il quale, pigolando, subito cominciò a seguitar la madre. E mentre che tutti noi ripieni di maraviglia eramo intenti a rimirar così fatto miracolo; egli ne accadde [p. 220 modifica]un altro molto maggiore, e fuori di tutti gli ordini della natura: imperocchè sotto la mensa, dove coloro desinavano, in quel luogo appunto dove erano cadute le reliquie del desinare, la terra si aperse infin del profondo, e subitamente vi nacque un grandissimo fonte di sangue; e perciocchè egli zampillava all’aria ben alto, molte gocciole ne caddero in sulla tavola, e imbrattarono tutta quanta la tovaglia. E mentre che, tremando per la paura, stavano come balordi a rimirar che cosa volesse esser questa, e’ venne correndo uno della cella, e raccontò come tutto il vino, che era per le botti, aveva incominciato a bollire, non altrimenti che se egli fusse stato in una caldaia sopra a qualche gran fuoco. Nè aveva finito di raccontar costui questa sciagura, che noi vedemmo una donnola, che se ne portava un serpente morto per bocca. E voltoci dall’altro canto, noi ci accorgemmo che della bocca d’un can da pecorai era uscita una rannocchia viva; e un montone, che era appresso a quel cane, presolo co’ denti, allora allora con un sol morso lo strangolò. Queste tante e così fatte cose, con grandissima ed isterminata paura di quel povero uomo e di tutti gli altri di casa, avevano fatto cadere ognuno che vi era in una grandissima paura e ammirazione. E così, mentre che il buon vecchio voleva dare ordine con orazioni, digiuni, e limosine, e altre pie opere, di placare e rimuovere l’ira del cielo, e’ sopraggiunse un altro suo fante, e raccontogli come a confine delle sue posessioni era stata fatta una grandissima strage. Aveva costui tre bellissimi figliuoli, oramai tutti uomini fatti, letterati, gentili e graziosi, de’ quali egli viveva contentissimo soprammodo. Tenevano questi giovani una stretta amicizia e antica con un povero uomo padrone d’una possessioncella non molto lontana da loro, a’ confini della quale aveva di molte belle possessioni un giovane, che per essere animoso, ricco e d’una nobilissima famiglia, e’ poteva nella sua città tutto quello che egli voleva; ma egli non usava questa sua potenzia se non in dispiacere altrui, e far [p. 221 modifica]violenza ora a questa e ora a quel povero uomo. E perchè quello stecco di quella possessioncella di quel povero uomo gli era sempre negli occhi, egli aveva in ogni modo deliberato di averla; e perchè ella gli venisse a noia, e da lui venisse il dargliela, egli vi faceva su ogni dì qualche danno: e or gli ammazzava le pecore, or gli toglieva i buoi, e or gli dava il guasto alle biade; nè gli bastando questo, e’ cominciò a metter mano alle strisce de’ campi; e mossoli non so che lite sopra de’ confini, gli andava usurpando a poco a poco ciò ch’egli aveva. La qual cosa veggendo quel poveretto, il quale per altro era una persona tutta modesta, e deliberando di vedere se egli si poteva preservar pure almen tanto terreno di quello che gli aveva lasciato il padre, che egli vi si potesse seppellire dentro; avea ragunati molti e amici e parenti, a cagione che egli si vedesse un tratto come stavan quei benedetti confini: e fra gli altri, egli vi erano quei tre fratelli, disiderosi sopra tutti gli altri di porgere qualche aiuto a’ bisogni del poveretto amico. Contuttociò quel bestial giovane, senza aver tema o riguardo della presenza di tanti cittadini, non solamente non volle rimuover le rapaci mani dalla disonesta impresa, ma non si astenne da mille parole ingiuriose; e quanto più coloro cercavano colle piacevolezze di addolcire la sua mala natura, allora egli faceva peggio. E voltosi loro con una stizza grandissima, disse: Così Dio mi guardi me, e tre carissime sorelle ch’io ho, come io fo quel conto di voi altri, che volete comprar l’altrui brighe, come del terzo piè ch’io non ho; e ogni poco che voi mi facciate stizzare, io farò prendere a’ miei servidori questo ribaldo per le orecchie, e gittare a terra d’una di queste balze. Empierono le arroganti parole gli animi di tutti coloro d’una ragionevole indignazione; perchè un di quei tre fratelli, il maggiore, parlando così un poco più liberamente che alcuno altro, gli disse: che ancorchè egli fusse sì ricco, che e’ non farebbe del tiranno così come e’ minacciava, nè userebbe tanta superbia; e che ancora i poveri, la [p. 222 modifica]mercè delle leggi, avranno chi gli trarrà delle rapaci mani degl’insolenti ricchi. Quello che la fame al leone, quello che l’olio alla fiamma, quello che il zolfo al fuoco, cotale e più accesero quelle parole la bestialità dello impazzito giovane; e uscendo di tutti i termini della ragione, gridava come una cosa pazza, ch’e’ si andassero appiccar per la gola eglino e le lor leggi. E senza pensar più altro, comandò ch’allora allora fussero sciolti tutti i cani delle pecore e dell’altro bestiame; i quali avvezzi a morder chiunque passava, e a spogliar l’ossa di quelle carogne che avevan quei paesi, erano divenuti sì fieri, ch’egli avrebbono atterrato ogni grandissimo lione: i quali subito che furono sciolti, pieni d’una estrema rabbia, e incitati dalle grida de’ lor pastori, si misero attorno a quei poveri uomini, e dieron loro tanti morsi e sì stranamente abbaiavan loro, ch’egli era una compassione a vederlo. Nè era in così crudel battaglia almen sicuro il fuggire; imperocchè essi con maggior rabbia e sì velocemente gli seguitavano, che egli era lor forza assaggiare le loro ferite con bocca maggiormente avvelenata. E in questa guisa il più giovane de’ tre fratelli, cercando col fuggirsi il suo scampo, perseguitato da tre di loro, percotendo per la fretta in un sasso, che gli s’attraversò fra’ piedi, e spezzatosi le dita, cascando per terra, fu preda a quelle ferocissime bestie. E come più tosto gli altri due fratelli sentirono le sue mortalissime strida, corso dove egli era, e avvoltosi le cappe al braccio sinistro, fecero ogni sforzo di levar quei cani daddosso al lor fratello; ma indarno fu la fatica loro, chè mai non poterono allentar pure non che diminuire la lor ferocità: laonde il misero giovincello, veggendosi venir a morte, strettamente pregando i due fratelli, che fusser contenti con giusta lor possa non lasciar passare senza vendetta tanta crudeltà, e tutto strambellato, e tutto pertugiato, se ne passò di questa vita. Gli altri due giovani allora, viepiù disperata e disprezzata la lor salute, corsi a dove era quel riccone, con grandissimo impeto e con maravigliosa [p. 223 modifica]furia, con sassi e ciò che altro veniva loro alle mani si sforzavano di sopraffarlo. Ma quel nefario uomo, che più d’una volta si era imbrattato le mani nel sangue umano, messo man per un giannettone che egli aveva, lo lanciò all’un de’ due giovani per mezzo del petto. Nè cascò colui per terra, ancorch’e’ fusse morto; imperocchè essendoli passata l’asta per una delle spalle, e fittasi là oltre in un muro, ella il teneva sospeso in guisa, come se egli vivesse ancora: perchè un de’ servi di quel bravaccio, il più robusto, volendogli porgere aiuto, ricolto di terra un buon sasso, con quella forza che egli potè la maggiore, il trasse nel destro braccio del terzo giovane; ma egli nol giunse, com’e’ credette, perocchè fuor della credenza di ognuno, senza fargli male, gli rasentò la estremità delle dita. La qual cosa porse occasione al sagacissimo giovane d’una egregia e onorevole vendetta; perchè fingendo d’essere stato percosso nella mano aspramente, e però averla guasta, voltosi al crudelissimo giovane, disse: Godi oramai, sii lieto della rovina di tutta la nostra famiglia, sazia la tua crudelissima sete col sangue di tre fratelli, e trionfa [p. 224 modifica]della morte di tanti cittadini, i quali non per le tue mani, ma co’ morsi de’ tuoi arrabbiati cani stanno così vilmente distesi per terra; e ancorchè tu abbia predate le possessioni a questo vecchio, e distesi e allungati i termini a modo tuo, ricordati che tu hai a confinare con chi che sia: oramai questa mano, la quale indubitatamente avrebbe levatoli il capo dallo imbusto, percossa dal passato colpo ha finito i giorni suoi. Per le cui parole esasperate il furioso ladrone, messo mano per un suo coltello, si gli gittò addosso per ammazzarlo: ma egli non si riscontrò in uomo men forte di lui; il quale resistendogli con un suo pugnale, e dandogli infiniti colpi, li trasse l’anima del corpo, a dispetto suo e di quanti famigli che egli aveva dintorno; e sano e salvo uscì lor delle mani. E non gli bastando l’animo di sopravvivere alli suoi carissimi fratelli, posciach’egli ebbe fatto di loro così bella vendetta, cacciatosi nella gola quel medesimo pugnale che aveva ammazzato il nemico, mandò la sua pietosa anima a tener lor compagnia. Questo era lo infortunio che avevan significato gli occorsi miracoli: il quale come il povero vecchio ebbe minutamente udito raccontare, senza mai poter dire una parola, non mandare fuora una lagrima, non un sospiro, preso quel coltello col quale poco fa aveva partito il cacio e le altre cose per desinare, in guisa che il suo figliuolo fatto aveva, si scannò; e cadendo in quel luogo donde eran cadute alcune macchie di quel portentoso sangue, con alcune gocciole delle sue le rinfrescò.

Essendo adunque, nella guisa che voi avete potuto comprendere, disfatta in tanto picciolo spazio una così fatta casa, quello ortolano non potendo fare altro che dolersi di tanto infortunio, e rammaricarsi della sventura sua, che non gli aveva lasciato cavarne altro che un desinare, e anche quello gli aveva fatto pagare colle sue lagrime; sicchè, non sappiendo altro che farsi, rimessomisi addosso, ce ne ritornammo per la medesima via. Ma posciachè con tanta disgrazia era stata l’andata, [p. 225 modifica]almeno non fusse stato così infelice il suo ritorno! Imperocchè mentre amendue noi così addolorati ce ne venavamo, egli ci si fece incontro un certo uomo grande, secondochè l’abito e la presenza dimostravano, soldato; e con una voce arrogante e’ dimandò il mio padrone, dove egli menasse così voto quello asinello. Ma egli, che ancora attonito per la passata sciagura, e in oltre non intendeva troppo bene il suo linguaggio, perciocchè colui parlava francioso, se ne passava senza dir niente. Laonde il soldato, preso sdegno, perch’e’ non rispondeva, nè potendo affrenar la sua naturale insolenza, dandogli così una spinta, e gittatolo da cavallo, più arrogantemente che prima soggiunse: Villan poltrone, tu non vuoi dirmi dove tu meni cotesto asinello? Perchè l’ortolano scusandosi ch’e’ non gli aveva risposto per non intendere il suo linguaggio, e il meglio ch’e’ sapeva raccomandandosegli, gli disse che andava alla città. A cui seguitò il soldato: Bene sia: io ne ho un poco di bisogno: imperocchè io ho a far vettureggiare certe robe del mio capitano insieme con molte altre bestie, che sono in castello qui vicino. E detto fatto, gittatemi le mani alla cavezza, mi voleva tirare inver lui. E quel poverello, nettandosi ancor colle mani il sangue d’una ferita che egli si aveva fatta cadendo, a più potere gli si raccomandava, e pregavalo, che per lo amor di Dio e’ lo lasciasse andare; e che io era un asinaccio, che non poteva la vita, e cadeva ad ogni passo, e che avea sì fatta l’ambascia, che appena poteva portare quattro mazzi di spinaci, e che egli era povero uomo, e non viveva d’altro; e mille altre cose così fatte. Ma accortosi alla fine che le parole giovavan poco, anzi gli facevan tuttavolta toccare qualche buon pugno, egli prese uno astuto e ultimo rimedio: e inginocchiatoseli a’ piedi, col mostrare di voler implorare la sua clemenza, abbracciatogli ambe le ginocchia, e’ lo prese per tramendue le gambe, e alzatolo così un poco all’aria, gli fece dare il più bello stramazzone in terra, che mai vedeste forse un’altra volta; e poscia [p. 226 modifica]montatoli addosso, che pareva proprio un galletto su una bica di grano, colle pugna, co’ calci, co’ morsi, e colle pietre che eran quivi dattorno, gli pestò le spalle e tutto ciò che egli era. Nè quel fastellaccio, poscia ch’e’ fu in terra, si potè mai o rizzare, o rivolgere, o coprirsi il viso, o far difesa veruna; ma quello che sol poteva, egli attendeva a minacciarlo, che come e’ si levava in piedi, lo voleva tagliar a pezzi con una sua coltella che egli avea accanto. Per le quali parole avvertito l’ortolano, gliela levò da lato, e scagliatola discosto da sè quanto più potè, di nuovo ritornò con più furia che mai a percuoterlo e lacerarlo. Nè vedendo il valente soldato altro rimedio alla salute sua, e’ fece vista d’esser morto: la qual cosa credendosi l’ortolano, se gli levò daddosso; e presa la sua spada, e cintosela a’ fianchi, se ne risalse sopra di me, e con quella furia che e’ potè la maggiore, senza curarsi pure di veder l’orto, se ne corse verso la città. E andatosene a casa d’un amico suo, e raccontoli il fatto, il pregò che egli lo nascondesse in casa sua insieme con quel suo asino, insino a tanto ch’e’ fuggisse quella prima furia di due [p. 227 modifica]o tre dì. Nè dimenticato quel valente uomo della vecchia amicizia, gli promise benignamente di far tutto quel ch’e’ voleva: e legato a me tutti e quattro i piedi, mi menò sopra un palcaccio, che era in cima della casa, che non vi capitava mai persona: e l’ortolano cacciò in una stanza terrena sotto una cesta, e molto bene il ricoperse, sicchè egli non potesse così agevolmente essere trovato. Il soldato, secondochè io intesi dipoi, risvegliatosi come da una greve crapula, traballando ad ogni passo, appena sostenendosi sopra di un suo bastone, così mal condotto come egli era, se ne venne così pianamente alla città; e vergognandosi della sua viltà e della sua poltroneria, non ardiva con alcuno de’ cittadini dirne cosa del mondo, ma tacitamente si andava inghiottendo quella ingiuria: se non che pur ritrovati certi soldati della medesima compagnia, e’ contò loro questa sua sciagura; i quali mandandolo subito allo alloggiamento, gli dissero ch’e’ vi si nascondesse per parecchi giorni, acciocch’e’ non si scoprisse questa sua gran codardia, e non si sapesse che da un villano disarmato gli fusse stata tolta la spada così vilmente; per lo qual fallo egli meritava, oltre alla vergogna d’esser casso, di portar mille altre pene; promettendoli, che in quel mezzo essi ricercherebbono con ogni diligenza dell’ortolano, e farebbono in guisa ch’egli non se ne potrebbe vantare. Nè duraron molta fatica a ritrovarci; imperocchè uno scellerato e perfido vicino, che ci aveva veduti entrare, c’insegnò loro. Perchè egli senza indugio andatisene al magistrato, dissero che avevano perduto, andando per la strada, un vaso d’argento di grandissimo pregio, il quale era del loro capitano; e che un certo ortolano, che lo aveva ritrovato, non voleva loro restituirlo, anzi s’era nascosto in casa d’uno amico suo. Allora il magistrato, credendo che la cosa fusse così com’e’ la porgevano, mandò tutta la Corte alla casa dove noi eravamo, per pigliarci: e giunto che fu il bargello dove noi eravamo, e’ fecero intendere a quel nostro ospite, ch’egli ci desse loro [p. 228 modifica]nelle mani, se egli non voleva portare grandissimo pericolo del fallo altrui. Non si spaventò miga per questo il buono amico per le loro minacce; anzi avendo più cura alla salute di colui, che egli aveva ricevuto sotto la fede, che alla sua, senza confessar niente, teneva pur loro detto col più severo volto del mondo, che egli era parecchi e disparecchi giorni che egli non gli aveva mai veduti: ma quei soldati, pigliandone ogni saramento, scongiuravano e dicevano pure che noi eravamo là entro. Perchè veggendo il bargello, che quanto colui più negava, questi altri più affermavano, e’ diede ordine, ch’e’ si cercasse la casa per tutto. E mandato là entro due a suo proposito, comandò loro, che con ogni diligenza ricercassero per ogni cantone, se vi ci trovavano: i quali avendo cercato un pezzo, nè ci sappiendo ritrovare, riferirono che non avevano saputo vedere nè ortolano, nè asino, nè altra persona. Allora fu il romor grande non solo fra il padrone della casa e i soldati, ma con gli sbirri ancora: e’ vi sono, e’ non vi sono: e’ fu per andare a romore tutto quel paese. Perchè io, che, come vi potete ricordare, era in [p. 229 modifica]cima della casa, per intender meglio che strepito fusse questo, mi feci a una fenestra, che riusciva nella strada; nè prima mi vi fui affacciato, che uno di que’ soldati, accortosi dell’ombra mia, alzò il capo, e si mi vide. Perchè levato subito un grande schiamazzo, mi dimostrò a tutta la brigata. Levossi un grandissimo romore, ed io come prigione fui da non so che guida da quelle scale strascinato: e senza indugio alcuno, cercata più sottilmente tutta la casa, trovarono quel misero ortolano nella cesta, e nella pubblica prigione il condussero a portar pena del commesso male; ma di me ridendo grandemente si sollazzavano. Per la qual cosa nacque il proverbio che si dice, del guardar dell’ombra dello asino.