L'Anticristo/L'Anticristo

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L'Anticristo

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Friedrich Nietzsche - L'Anticristo (1895)
Traduzione dal tedesco di Anonimo (1917)
L'Anticristo
Introduzione
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I.


Guardiamoci faccia a faccia. Siamo iperborei e sappiamo perfettamente quanto diversamente viviamo. «Nè per terra, nè per mare, troverai la via che mena agli iperborei», come Pindaro disse di noi. Al di là del Nord, del cielo, della morte — «nostra» vita, «nostra» felicità... Abbiamo scoperto la felicità, conosciamo la via, abbiamo trovato l’uscita del labirinto attraverso migliaia d’anni. Chi la trovò? L’uomo moderno forse? «Io non so nè uscire nè entrare», sospira l’uomo moderno... Eravamo malati di «questo modernismo — malati della pace malsana, del vile compromesso, di tutto il virtuoso sudiciume del moderno si e no. Questa tolleranza e «largeur»1 del cuore, che tutto «perdona» perchè tutto comprende, è per noi come il vento scirocco. Meglio vivere tra i ghiacci che in mezzo alle virtù moderne e agli altri venti del Sud! Siamo stati abbastanza coraggiosi; non abbiamo avuto una meta nè per noi nè per gli altri: perciò per molto tempo non abbiamo saputo «dove» andare col nostro valore. Eravamo diventati tristi, ci chiamavano fatalisti. La «nostra» fatalità, era la pienezza della tensione, l’immobilità delle forze. Avevamo sete di lampi e di fatti, rimanevamo il più lontano «possibile» dalla felicità dei deboli, dalla «rassegnazione»... La nostra atmosfera era carica di tempesta, si intorbidava la nostra stessa natura, «perché non avevamo una via». Ecco la formola della nostra felicità: un sì, un no, una linea retta, un «fine...»


II.


Che cosa è bene? — Tutto ciò che aumenta nell’uomo il sentimento del potere, la volontà per il potere, il potere stesso.

Che cosa è male? — Tutto ciò che procede dalla debolezza. [p. 8 modifica]

Che cosa è la felicità? — Il sentimento con cui il potere «si ingrandisce» — con cui si vince una resistenza.

Non appagamento, ma più potere; non pace sopra tutto, ma guerra; non virtù, ma valore (virtù, nello stile del rinascimento; «virtus», virtù spoglia d’ipocrisia).

Muoiano i deboli e gli infermi: primo principio del nostro amore per l’uomo. Bisogna, anzi, aiutarli a sparire.

Qual’è il vizio più nocivo di qualsiasi altro vizio? — La pietà dell’azione verso gli infermi ed i deboli: — il cristianesimo...


III.


Ciò che bisogna sostituire nella scala degli esseri all’umanità, non è il problema: l’uomo è un fine — ma questo: che tipo di uomo si deve «educare», si deve «volere», perchè esso sia il più sicuro dell’avvenire?

Questo tipo di più alto valore è già abbastanza frequentemente esistito; ma come caso sporadico, come eccezione, giammai come «voluto». Al contrario è stato precisamente il più temuto; fino ad ora è stato quasi lo spauracchio e per questo timore, il tipo contrario risultò voluto, educato, «conseguito»: la bestia domestica, la bestia da macello, l’infermiccia bestia umana, — il cristiano...


IV.


L’umanità non rappresenta un’evoluzione verso qualche cosa di più buono, di più forte, di più elevato come si crede oggi. Il «progresso» non è altro che un’idea moderna, cioè, un’idea falsa. In quanto a valore, l’europeo d’oggi sta abbastanza al disotto dell’europeo del rinascimento. Evolversi «non» significa assolutamente, necessariamente elevarsi, sublimarsi, fortificarsi.

In altro senso, esiste una serie continua di casi isolati in diversi punti della terra ed in mezzo alle civiltà più diverse, con i quali si rappresenta in effetto un «tipo superiore», qualche cosa che relativamente all’intera umanità, costituisce una specie di superuomo. Tali casualità della gran serie furono sempre possibili, lo saranno forse sempre. Perfino razze intere, tribù e popoli possono, in circostanze particolari, rappresentare un simile «uomo del destino». [p. 9 modifica]


V.


Non bisogna abbellire nè adornare il cristianesimo. Ha sostenuto una «guerra a morte» contro questo tipo superiore di uomo, ha censurato tutti gli istinti fondamentali di questo tipo, ha distillato da questi istinti il male: ha preso l’uomo forte come tipo del «reprobo», «l’uomo reprobo». Il cristianesimo ha difeso tutto ciò che è debole, basso, fallito, ha fatto un ideale della «opposizione» agli istinti di conservazione della vita sana; ha corrotto perfino la ragione delle nature più intellettualmente poderose, insegnando che i valori superiori dell’intellettualità non sono che peccati, vizî, «tentazioni». L’esempio più lamentevole è la corruzione di Pascal, che credeva nella perversione della sua ragione per opera del peccato originale, mentre era pervertita solo per opera del suo cristianesimo.


VI.


Uno spettacolo doloroso, terrificante mi si è presentato davanti agli occhi: ho alzata la cortina della corruzione degli uomini. Questa parola sulle mie labbra è al meno al coperto da un sospetto, quello di contenere un’accusa morale contro l’uomo. Lo credo — vorrei sottolinearlo un altra volta — sprovvisto di «moralina»: e ciò fino al punto che io noto questa corruzione più nei luoghi dove, sino ai nostri giorni, si aspirava più coscienziosamente alla «virtù», alla «divinità». Intendo la corruzione, come è facile indovinare, nel senso di «décadence».

Chiamo corrotto, sia un animale, sia una specie, sia un individuo, quando perde i suoi istinti, quando sceglie e «preferisce» ciò che gli è nocivo. Una storia dei «più elevati sentimenti», degli «ideali dell’umanità» — e forse mi sarà necessario farla, — darebbe approssimativamente la spiegazione della causa per cui l’uomo si trova così corrotto. La vita stessa è per me l’istinto dell’accrescimento, della durata, dell’accumulazione di forze, di «potenza»; dove manca la volontà di potere, è degenerazione. Ed io asserisco che codesta volontà, «manca» in tutti i valori superiori dell’umanità, che regnano sotto i nomi più sacri; valori di degenerazione, valori «nihilisti». [p. 10 modifica]


VII.


Il cristianesimo si chiama religione della «pietà». La pietà è in opposizione con gli affetti tonici, che elevano l’energia del sentimento vitale; essa opera con effetto depressivo. Quando si ha compassione si perde forza. La pietà aumenta e moltiplica sempre più la perdita di forza che il dolore infligge già per suo conto alla vita. Il dolore stesso, per la pietà, arriva ad essere contagioso; in certi casi può apportare una perdita totale di vita e di energia vitale, perdita assurda, se la si paragona con la meschinità della causa, (il caso della morte del Nazareno). Ecco il primo punto di vista: tuttavia ne esiste un altro più importante ancora.

La pietà viola insomma la legge della evoluzione, che è quella della «selezione». Raccatta ciò che è maturo per la dissoluzione e si adopera in favore dei diseredati e dei condannati dalla vita. Con l’abbondanza di cose malsane d’ogni genere che «trattiene» nella vita, dà alla vita stessa un aspetto fosco e malcerto. Si è avuto il coraggio di chiamar virtù la pietà — (in ogni morale «nobile» è ritenuta debolezza) — e si è andati più oltre: si è fatto di essa «la» virtù, il terreno, la matrice di tutte le virtù. Non bisogna però dimenticare che ciò era dal punto di vista di una filosofia nihilista che poneva per divisa sul suo scudo «la negazione della vita».

Schopenhauer aveva ragione quando diceva: «La vita è negata dalla pietà; questa la rende ancor più degna di esser negata».

La pietà è la pratica del «nihilismo». Ripetiamolo ancora una volta: questo istinto depressivo e contagioso viola quegli istinti che tendono alla conservazione ed all’accrescimento del valore della vita; sia come «moltiplicatore», sia come «conservatore» di tutte le miserie, è uno dei fattori principali della «décadence»: — la pietà spinge al «nulla»! Non si dice «il nulla»: si pone in sua vece «l’al di là» oppure «Dio», oppure «la vera vita»; o il nirvana, la salvazione, la felicità eterna... Questa innocente retorica, originaria del regno della idiosincrasia religioso-morale, sembrerà in seguito «molto meno innocente» se si pensi «quale» tendenza si cela in questo caso sotto il velo delle parole sublimi, la tendenza «nemica alla vita». Schopenhauer era nemico della vita, perciò la pietà si [p. 11 modifica]mutò per lui in una virtù... È noto che Aristotele vedeva nella pietà uno stato malsano e pericoloso, a cui sarebbe stato opportuno rimediare di quando in quando con un buon purgante, e considerava la tragedia come una purga. Per salvare l’istinto della vita, sarebbe effettivamente necessario cercare un mezzo per dare un colpo ad un serbatoio di pietà, tanto pericoloso e malsano, come dimostra il caso di Schopenhauer, (e disgraziatamente anche quello di tutta l’attuale «décadence» letteraria ed artistica da San Pietroburgo a Parigi, da Tolstoj a Wagner), per farlo «scoppiare...» Nulla è tanto nocivo in mezzo al nostro malsano modernismo, quanto la pietà cristiana.

Esser medici, essere implacabili «in questo caso», questo «ci» spetta; questa è la «nostra» specie d’amore per l’uomo; per essa siamo «noi» filosofi, noi gli iperborei!


VIII.


È necessario dire «chi» consideriamo come nostro avversario e di tutta la nostra filosofia: — i teologi e quanti han sangue di teologo nelle vene.

Bisogna aver visto da presso questo destino, meglio ancora, bisogna averlo vissuto, bisogna essere stato sul punto di morire per esso, per non ammetter più scherzi in questo caso. Il libero pensiero dei nostri signori uomini di scienza, dei nostri fisiologi è, a mio vedere, una «burla» poichè ad essi fa difetto la passione per queste questioni, fa difetto la «sofferenza» per esse. Questo avvelenamento va molto più lontano di quel che si creda: ho incontrato di nuovo l’istinto teologico dell’«orgoglio», d’onde proviene che oggi si sentano gli «idealisti», d’onde proviene che, grazie ad un’origine più elevata, si arroghino il diritto di guardare la realtà dall’alto e come se ci fosse estranea... L’idealista ed il sacerdote hanno tutte le grandi idee in mano, (e non in mano soltanto); le mettono in giuoco con benevolo disdegno, contro la «ragione», contro «i sensi», contro la «scienza», — e vedono tali cose «ai loro piedi» come se fossero forze perniciose e seduttrici sulle quali aleggiasse lo «spirito» in un’astrazione pura: come se l’umiltà, la castità, la povertà, la «santità» in una parola, non avessero finora fatto alla vita più male di qualsiasi altra cosa terribile, di qualsiasi vizio... Lo spirito puro è la menzogna pura. Fino a che il sacerdote sarà [p. 12 modifica]reputato appartenente ad una classe «superiore», (il sacerdote, questo negatore, questo calunniatore, questo avvelenatore della vita «per professione»), non si avrà risposta alla domanda: Che cosa è la verità? La verità sfugge dalle menti, se il suddetto avvocato del nulla e della negazione è reputato il rappresentante della «verità».


IX.


A questo istinto teologico io faccio la guerra: ho trovato le orme dovunque. Quanto ha sangue di teologo nelle vene si trova sin da principio in una posizione falsa rispetto a tutte le cose, in una posizione che manca di dignità. Il «pathos» che da esso emana si chiama la «fede»: chiuder gli occhi una volta per sempre davanti a se stesso, per non soffrire a causa dell’aspetto di un’incurabile falsità. Di questa ettica difettosa si fa una morale, una virtù, una santità; si accoppia la buona coscienza con la «falsa visione»: si pretende che nessun’«altra» specie di ottica abbia valore, dappoichè è diventata sacrosanta la sua con i nomi di «Dio», «salvazione», «eternità». Dovunque sono andato, ho scovato l’istinto teologico: è la forma più estesa, la forma veramente «sotterranea» della falsità. Ciò che un teologo ritiene per vero, «deve» esser falso: questo è quasi un criterio di verità. Il suo più basso istinto di conservazione è quello che gli proibisce di porre in chiaro la realtà, o di concederle la parola in una qualsiasi occasione. Dove arriva l’influenza teologica, son trasposte le «valutazioni», o necessariamente invertiti i concetti «vero» e «falso»: «Vero» è per esso ciò che è più pernicioso per la vita; ciò che la innalza, la eleva, l’afferma, la giustifica e la fa trionfare, si chiama «falso»... Se accade che i teologi, per mezzo della «coscienza» dei principi (o dei popoli), stendono le mani al «potere», noi non dubitiamo di ciò che si trova sempre nel fondo: la volontà del fine, la volontà «nihilista» aspira al potere...


X.


Mi si capirà in seguito se dico che la filosofia tra i tedeschi è corrotta dal sangue dei teologi. Il pastore protestante è l’avolo della filosofia tedesca, lo stesso [p. 13 modifica]protestantismo è il suo «peccatum originale». Definizione del protestantismo: l'emiplegia del cristianesimo e della ragione... Non bisogna che pronunziare le parole «Scuola di Tubinga», per comprendere quel che è in fondo la filosofia tedesca: una teologia «astuta». I filosofi sono i più bravi ipocriti di Germania; mentono innocentemente...... Donde scaturisce la gioia che all'apparire di Kant passò in Germania attraverso il mondo della scienza che nei suoi tre quarti si compone di figli di pastori e di figli di maestri?

Donde procede la convinzione tedesca — che trova ancora eco — che con Kant incomincia un mutamento verso il «meglio»? L’istinto teologico nel savio tedesco indovinava ciò che stava per esser possibile. Si era aperta una via indiretta per l'antico ideale; il concetto del «mondo verità», il concetto della morale come «essenza» del mondo, (gli errori più perfidi che esistono!), erano di nuovo, se non dimostrabili, almeno «non refutabili», grazie ad uno scetticismo sottile ed astuto... La ragione, il «diritto» della ragione non arriva a tanto... Si era fatto della realtà un’«esperienza»; un mondo assolutamente «bugiardo», quello dell'essenza, era diventato realtà... L'effetto di Kant non è che l’effetto di un teologo: Kant fu come Lutero, come Leibnitz, un freno di più per la proibità tedesca, di per sè stessa poco solida.


XI.


Una parola ancora contro Kant come «moralista». Una virtù deve essere una «nostra» invenzione, una «nostra» difesa, una «nostra» necessità personale: presa in qualunque altro senso non è più che un pericolo. Ciò che non costituisce una condizione vitale è «nocivo» alla vita: una virtù che esiste soltanto a causa di un sentimento di rispetto verso l'idea di «virtù», come Kant la voleva, è pericolosa. La «virtù», il «dovere», il «bene in sè», il bene coi carattere dell'impersonalità e del valore generale; chimere in cui si estrinseca la degenerazione, l’ultimo indebolimento della vita, la sottigliezza di Koenisberg. Le leggi più profonde della conservazione e dell’accrescimento esigono il contrario: che ognuno inventi per sè la «sua» virtù, il «suo» imperativo categorico. Un popolo muore quando confonde il «suo» dovere con la [p. 14 modifica]concezione generale del dovere. Niente rovina tanto profondamente ed irrimediabilmente quanto qualsiasi dovere «impersonale», qualsiasi sacrificio avanti al dio Moloch dell'astrazione.

— Che non si sia trovato «pericoloso» per la vita l'imperativo categorico di Kant!... Solo lo spirito teologico lo prese sotto la sua protezione! Un'azione a cui spinge l’istinto della vita, dimostra di essere un’azione «conveniente» per il piacere che l'accompagna: mentre quel nihilista dalle visceri cristiano-dogmatiche considerava l'allegria come un’«abbiezzione». Chi è che distrugge più rapidamente del lavorare, del pensare, del sentire, senza necessità interiore, senza una profonda elezione personale, senza «piacere», come automa del «dovere»?

E’ in certo modo la ricetta per la «décadence» e fino per l’imbecillità... Kant divenne imbecille. E costui era contemporaneo di Goethe! Questo destino di ragno era considerato come il filosofo «tedesco» per eccellenza, e lo è ancora!... Mi astengo dal dire quel che penso dei tedeschi!... Non vedeva Kant nella rivoluzione francese il passaggio dalla forma inorganica dello Stato alla forma «organica»? Non si era domandato se esistesse un fatto non esplicabile diversamente che con un’attitudine morale dell’umanità, di guisa che per quel fatto si «dimostrasse» una volta per sempre, «la tendenza dell’umanità verso il bene?» Risposta di Kant: — «E’ la rivoluzione.» — L’istinto che equivoca in tutte le cose; il contrarlo alla natura come istinto, la «décadence» tedesca come filosofia — questo è Kant!

XII.


Metto da parte alcuni scettici, il tipo onesto nella storia della filosofia; chè il resto ignora le più elementari esigenze della probità intellettuale. Tutti fanno come le donne, queste grandi entusiaste, questi animali maravigliosi che prendono sempre i «bei» sentimenti per argomenti, il «petto sollevato» per un mantice da magnano della divinità, e la convinzione per un «criterio» di verità. Nell'ultimo periodo della sua vita, Kant, nella sua innocenza «tedesca», cercò di far scientifica, sotto il concetto della ragion pratica, questa forma della corruzione questa mancanza di coscienza intellettuale: inventò espres[p. 15 modifica]samente una ragione «ad hoc», per la quale non bisogna dare ascolto alla ragione, che è quanto dire la morale, quando si fa udire il sublime ordine «tu devi».

Se si considera che, presso quasi tutti i popoli, il filosofo non è che l’evoluzione del tipo sacerdotale, non sorprenderà questa eredità del sacerdote, «questa falsa coniazione davanti a sè stesso». Quando si hanno doveri sacri, per esempio far gli uomini migliori, salvarli, redimerli, quando si porta la divinità nel petto, quando si è il portavoce degli imperativi ultraterreni, si è, con simile missione, al disopra di tutte le valutazioni puramente conformi alla ragione, e «insieme» si è santificato, per simile compito, si diventa insomma tipo di una gerarchia superiore!... Che può importare della «scienza» ad un sacerdote?! Si trova troppo in alto per essa! Ed il sacerdote ha «regnato» fino ad ora! Esso determinava i concetti «vero» e «falso»!....

XIII.


Non disprezziamo ciò; «noi stessi», noi spiriti liberi, siamo una «trasmutazione di tutti i valori», una «formale» dichiarazione di guerra e di vittoria a tutte le vecchie concezioni del «vero» e del «falso». Le conoscenze più utili sono quelle che si trovano più tardi; ma le conoscenze più preziose sono i «metodi». «Tutti» i metodi, «tutte» le promesse del nostro spirito scientifico attuale, hanno avuto contro, per secoli e secoli, il disprezzo più profondo; a causa di quelli e di queste si era esclusi dalle relazioni con le persone «oneste»; si era considerati come «nemici di Dio», come sprezzatori della verità, come «ossessi». Come carattere scientifico, era uno Tschândâla....

Abbiamo contro tutto il «pathos» dell’umanità, il suo concetto di ciò che «deve» essere verità, di ciò che «deve» essere la funzione della verità. Ciascuno degli imperativi «tu devi» era fino ad oggi diretto «contro» noi... I nostri obbietti, le nostre azioni, il nostro carattere silenzioso, circospetto e diffidente, — tutto sembrava loro assolutamente indegno e disprezzabile. — Alla fin fine bisognerebbe domandarsi, con qualche ragione, se non è stato un gusto «estetico» quello che ha tenuto l’umanità in una cecità tanto lunga: esigeva dalla verità un effetto [p. 16 modifica] «pittoresco», esigeva pure che colui che cerca la conoscenza, produca sui sensi una forte impressione. La nostra «umiltà» le fu contraria per molto tempo. Oh, come avevano indovinato questi tacchini della divinità!


XIV.


Noi abbiamo mutato metodo. Noi siamo diventati più modesti in tutte le cose. Non facciamo più discendere l'uomo dallo spirito, o dalla divinità; l'abbiamo posto tra gli animali. Nel nostro concetto esso è l'animale più forte, perchè è il più astuto: la sua spiritualità è una conseguenza di ciò. D'altra parte ci difendiamo da una vanità che vorrebbe anche qui alzar la voce: essere stato l'uomo il grande, ultimo pensiero dell'evoluzione animale.

Esso non è in nessun modo il coronamento della creazione; ogni altro essere si trova con esso allo stesso grado di perfezione... E, ciò posto, andiamo troppo lontano: l'uomo è, relativamente, il più deficiente degli animali, il più malaticcio, colui che ha più pericolosamente snaturati i suoi istinti: — certo che, con tutto ciò, è ancora l’animale «più interessante!» — Per quel che riguarda gli animali, Descartes fu il primo che ebbe il mirabile ardimento di considerare l'uomo come una «macchina»: tutta la nostra fisiologia si sforza per dimostrare questa proposizione. Inoltre, logicamente, non mettiamo già a parte l’uomo, come faceva Descartes; ciò che si sa oggi dell'uomo, non va al di là del concetto «macchinale» di esso.

In altri tempi si concedeva all'uomo il «libero arbitrio» come una dote di un ordine superiore: oggi gli abbiamo strappato fin la volontà, nel senso che non è più permesso intendere con ciò una facoltà. L’antica parola «volontà», non serve più che a designare una resultante, una specie di reazione individuale, che, necessariamente, deriva da una serie di motivi in parte contradditori e in parte concordanti: — la volontà non «opera», non «muove»... Dapprima si vedeva nella coscienza dell'uomo, nello «spirito», la prova della sua origine più elevata, della sua divinità: per «perfezionare» l'uomo, gli si consigliò di riconcentrare i suoi sensi in sè stesso, a guisa di tartaruga, di troncare le relazioni col mondo terrestre, e di liberarsi dall'involucro mortale: allora non sarebbe rimasto di lui che l’essenziale, lo «spirito puro». Anche in questo [p. 17 modifica]abbiamo cambiato modo di pensare. La coscienza, lo «spirito», ci sembra che siano i segni rivelatori di una relativa imperfezione dell’organismo, come una prova, un tentativo, un’equivocazione, un lavoro in cui si spende inutilmente molta forza nervosa; — noi diciamo che nessuna cosa può farsi con perfezione mentre si opera ancora coscientemente. Lo «spirito puro» è una pura sciocchezza: se facciamo astrazione dal sistema nervoso, e dai sensi, e dall’«involucro mortale» noi «sbagliamo nel nostro calcolo», niente più!


XV.


Nel cristianesimo, nè la morale, nè la religione si trovano a contatto con un punto qualsiasi della realtà. Solo «cause» immaginarie: («Dio», «anima», «io», «spirito», «libero arbitrio» — o il «non libero arbitrio»); solo «effetti» immaginari («peccato», «salvazione», «grazia», «castigo», «perdono dei peccati»).

Una relazione tra «esseri» immaginari, («Dio», «spirito», «anima»); una scienza «naturale» immaginaria (antropocentrica; una mancanza assoluta del concetto delle cause naturali); una «psicologia» immaginaria (solo errori propri, interpretazioni di sentimenti generali gradevoli o sgradevoli, per esempio degli stati del «nervus sympathicus», con l’aiuto del linguaggio figurato della idiosincrasia religioso-morale — «pentimento», «rimorso», «tentazione del diavolo», «la presenza di Dio»); una «teologia» immaginaria, («il regno di Dio», «il giudizio finale», «la vita eterna»).

Questo mondo delle «finzioni pure», differisce, con suo grande svantaggio, dal mondo dei sogni, in quanto questo «rispecchia» la realtà, mentre l’altro non fa che falsarla, sprezzarla e negarla.

Dopo che fu inventato il concetto «natura» come opposizione al concetto «Dio», «naturale» diventò equivalente a «disprezzabile»; — tutto questo mondo di finzioni ha il suo fondamento nell’«odio» contro il naturale (— la realtà! — ) ed è l’espressione del profondo disgusto che causa la realtà. «Perciò questa spiega tutto!» Chi è l’unico che ha ragione di uscire dalla realtà «con una menzogna?» Colui che «soffre» per essa. Però soffrire per la realtà significa essere una realtà «fallita»... La [p. 18 modifica]preponderanza del sentimento di pena sul sentimento di piacere è la «causa» di questa morale e di questa religione fittizie: per questo un eccesso tale, dà la formula per la «décadence»...


XVI.


Una critica della «concezione cristiana di Dio» porta con sè una conclusione simile. — Un popolo che ha ancora fiducia in sè stesso, possiede tuttavia un Dio che gli è proprio. In questo Dio esso venera le condizioni che lo fanno vittorioso, le sue virtù, — proietta la sensazione di piacere che causa a sè stesso, ed il suo sentimento di potere, in un essere a cui possa render grazie. Chi è ricco, vuole dare; un popolo orgoglioso ha bisogno di un Dio a cui «sacrificare»... La religione, sotto questo punto di vista è una forma di gratitudine. E' una gratitudine con sè stesso: per questo manca un Dio. — Un Dio tale deve poter servire e danneggiare, deve poter essere amico e nemico — lo si ammira così nel bene come nel male.

La castrazione «contronaturale» di un Dio, per convertirlo in un Dio del solo bene, si troverebbe qui fuori di tutto ciò che si può desiderare. Tanta è la necessità di avere un Dio cattivo come un Dio buono. Non si deve la propria esistenza precisamente alla tolleranza, alla filantropia... Chi si curerebbe di un Dio che non conoscesse nè la collera, nè la vendetta, nè l’invidia, nè lo scherzo, nè l'astuzia, nè la violenza, che ignorasse forse anche i meravigliosi «ardeurs» della vittoria e della distruzione? Un simile Dio non si capirebbe: infatti, perchè tenerlo? Senza dubbio, quando un popolo muore; quando sente svanire per sempre la fede dell’avvenire, la speranza della libertà; quando la servitù gli sembra essere di prima necessità; quando le virtù dei sottomessi entrano nella sua coscienza come condizioni di conservazione, allora è anche «necessario» che il suo Dio si trasformi. Diventa allora bacchettone, pauroso, umile, consiglia la «pace dell’anima», l’assenza dell'odio, le considerazioni, perfino «l'amore», tanto per gli amici che per i nemici. Non fa più che moralizzare, si nasconde nel covo di tutte le virtù private, diventa il Dio di tutto il mondo, si ritira a vita privata, diviene cosmopolita... In altri tempi rappresentava un popolo, la forza d'un popolo; tutta l'aggressività [p. 19 modifica]e l'avidità del potere, procedenti dall’anima d'un popolo; ora non è più che il buon Dio...

Effettivamente non vi è altra alternativa per gli dei: «o» sono la volontà del potere — ed allora saranno dei popolari — ; «o» sono l’impotenza del potere, — ed allora si fanno «necessariamente buoni».


XVII.


Dalla qual cosa si deduce che in tutte quelle forme in cui diminuisce la volontà di potere, v’è sempre pure un regresso fisiologico, una «décadence». La divinità della «décadence», castrata nelle sue virtù e nei suoi istinti più virili si muta allora necessariamente nel Dio di quelli che si trovano in uno stato di regresso fisiologico nel Dio dei deboli. Essi stessi non si chiamano i deboli, si chiamano i « buoni»... Si capisce, senza bisogno di esemplificazioni, in quali momenti della storia diventa possibile la finzione dualistica di un Dio buono e di un Dio cattivo. Con lo stesso istinto di cui si servono i sottomessi per abbassare il loro Dio sino a ridurlo al «bene in sè», essi cancellano le buone qualità del Dio dei loro vincitori; si vendicano sui dominatori «diabolizzando» il loro Dio. Il «buon» Dio, come il diavolo, sono ambedue frutti della «décadence». — Come è possibile sottomettersi tanto anche oggi all'ingenuità dei teologi cristiani, da affermare con essi che l'evoluzione del concetto di Dio, dal «Dio d’Israele», dal Dio popolare, al Dio cristiano, la sintesi di tutte le bontà, può essere un «progresso?» Ma lo stesso Renan lo fa. Come se Renan avesse diritto all'ingenuità! Pure il contrario salta agli occhi. Se si eliminano dal concetto di Dio le condizioni della vita ascendente, tutto quel che v’è di forte, di coraggioso, di dominante, di orgoglioso; se si abbassa man mano sino a diventare il simbolo di un bastone per gli stanchi, di un’ancora di salvezza per tutti quelli che son per affogare; se si fa di esso il Dio «per excellence» dei disgraziati, dei peccatori, dei malati, e se l’attributo «Salvatore, Redentore» «resta» in certo modo come l’attributo divino per eccellenza, a che conduce una tale trasformazione, una tale «riduzione» del divino? — Senza dubbio, per mezzo di ciò il regno di Dio si è ingrandito. In altri tempi Dio non aveva che un popolo, il suo popolo «eletto». Certo che, se si [p. 20 modifica]comportò all’estero come il suo popolo, si pose a viaggiare senza mai rimanere in un luogo, fino a che dovunque ed in ogni casa si trovò il gran cosmopolita — fino a che ebbe dalla sua parte «la maggioranza» e la metà del mondo.

Però il Dio della «maggioranza», il democratico fra gli dei, non si fece, tuttavia un orgoglioso Dio pagano: seguitò ad essere giudeo, continuò ad essere il Dio degli angoli riposti, il Dio di tutti gli angoli e luoghi oscuri, di tutti i sobborghi malsani del mondo intero! Il suo regno universale è oggi, come prima, un regno fosco, un ospedale, un regno «souterrain», un regno del giudaismo. Ed è allo stesso modo pallido, debole, «décadent»... I più scialbi tra gli anemici si fecero degni di lui; i signori metafisici, questi albini del pensiero, tesserono intorno a lui, fino a che questi ipnotizzato dai suoi stessi movimenti, si mutò in ragno, in metafisico. Allora, si mise di nuovo a dipanare il mondo fuor di lui — «sub especie Spinozae» — allora si trasfigurò in una cosa sempre più pallida, evanescente, si fece «ideale», spirito puro», «absolutum», cosa in sè... La «rovina di un Dio»: Dio si mutò nella «cosa in sè»....


XVIII.


Il concetto cristiano di Dio — Dio come Dio degli infermi, — Dio ragno, Dio come spirito, — è uno dei concetti divini più corrotti che si siano avuti sulla terra; anzi rappresenta, forse, il livello più basso nella evoluzione discendente del tipo divino. Dio degenerato in «contraddizione della vita»; invece di essere la glorificazione della medesima ed il suo eterno «». Dichiarare, in nome di Dio, la guerra alla vita, alla natura, alla volontà di vivere! Dio, la formula di tutte le calunnie dell’«al di qua», e di tutte le menzogne dell’«al di là». Il nulla divinizzato in Dio; la volontà per il nulla santificata!...


XIX.


Che le forti razze del Nord d’Europa non abbiamo respinto il Dio cristiano, non fa di certo onore alla loro attitudine religiosa, per non dire nulla del loro gusto.

«Avrebbero dovuto» finirla da un pezzo con questo [p. 21 modifica]embrione della «décadence» infermiccio e decrepito. Bisogna dire che pesa su di loro una maledizione, se non l'hanno finita con esso: hanno accolto in tutti i loro istinti l’infermità, la vecchiezza, la contraddizione: — e da allora in poi non han «creato» nessuno Dio. Quasi due mila anni e non un solo Dio nuovo! Sussiste invece ancora, e quasi per diritto, — quasi un «ultimatum», un «maximum» della forza creatrice del divino, del «creator spiritus» dell'uomo, - questo Dio pietoso del monoteismo cristiano, questo ibrido edificio di smoccolature di ceri, idea e contraddizione ad un tempo, in cui tutti gli istinti della «décadence», tutte le viltà e tutte le stanchezze dell'anima trovano la loro sanzione.


XX.


Non vorrei con la mia condanna per il cristianesimo, aver offeso una religione che è a quello affine, e che lo supera nel numero dei credenti: il «buddismo». Ambedue hanno delle attinenze in quanto sono religioni nihiliste — religioni di «décadence», — ma son tuttavia differenti in modo singolare. Il critico del cristianesimo è profondamente grato ai sapienti indiani, perchè ora si possono «comparare». — Il buddismo è mille volte più realista del cristianesimo, — ha, per eredità, la facoltà di saper porre i problemi con freddezza ed obbiettività; sorge dopo un movimento filosofico di vari secoli; quando esso giunge, l'idea di «Dio» è già fissata. Il buddismo è l’unica religione veramente «positiva» che ci mostra la storia, perfino nella sua teoria della conoscienza — (un pretto fenomenalismo,) — e non dice infatti «lotta contro il peccato »; dando invece ampia ragione alla realtà, la chiama «lotta contro il dolore». Ha già lasciato dietro di sè — e ciò lo divide profondamente dal cristianesimo, — il proprio inganno sui concetti morali; — si trova, per usare la mia terminologia, «al di là» del bene e del male. I «due» fatti fisiologici su cui si basa e che considera sono: primo, un'ipertrofia della sensibilità, che si manifesta con una raffinata facoltà di soffrire, «quindi» un’iperspiritualizzazione, una vita troppo sprofondata nelle idee e nei processi logici, in cui l’istinto personale ha sofferto a vantaggio dell’ «impersonalità». (Due stati, che almeno alcuni miei lettori, gli «obbiettivi», conosceranno, come [p. 22 modifica] me, per esperienza). Queste condizioni fisiologiche han determinato una «depressione». Budda la combatte con l’igiene: ordina come rimedio la vita all’aria libera, la vita con molto moto, la temperanza e la scelta dei cibi; l'astinenza da tutte le bevande alcooliche; e insieme ogni cura per evitare tutti gli stati affettivi che producono la bile e scaldano il sangue: nessuna «irritazione » nè contro sè stessi nè contro gli altri. Esige rappresentazioni che procurano di riposo, l’allegria, e trova il modo di sbarazzarsi delle altre. Intende la bontà, il fatto di esser buono, come favorevole alla salute. L'«orazione» è esclusa, come nell’«ascetismo»; nessun imperativo categorico, nessuna «violenza» neppure nella comunità claustrale (è permesso di uscire da essa). Tutto questo è considerato come mezzo per rafforzare quella eccessiva sensibilità. Per questa ragione non comanda la lotta contro quelli che hanno un diverso modo di pensare: la sua dottrina non si guarda tanto da nessuna cosa, quanto dal sentimento di vendetta, di avversione, di «ressentiment» («l’inimicizia non finisce coll'inimicizia», questo è il proverbio più commovente di tutto il buddismo...) Ed a ragione: infatti risalto al fine principale dietetico, queste emozioni sarebbero completamente «malsane». Combatte la fatica intellettuale, che trova al suo sorgere, fatica che si estrinseca con un’eccessiva «obbiettività», cioè, con diminuzione dell'interesse individuale, con perdita dell’equilibrio, «dell’egoismo », e la combatte con un severo ritorno, anche negli interessi spirituali, all’ «individuo». Negli insegnamenti di Budda, l'egoismo si converte in dovere: il motto «una sola cosa è necessaria» ed il «come ti libererai dal dolore» regolano e limitano tutta la dietetica spirituale (si ricordi quell'ateniese che faceva egualmente la guerra a morte alla «scienza» pura, si ricordi Socrate, che nel regno dei problemi, elevò l’egoismo individuale a dignità di principio morale).


XXI.


La prima condizione per il Buddismo è un clima molto dolce, poi una gran mansuetudine e libertà di costume, «niente» militarismo, e infine il fatto che il movimento ha il suo focolaio nelle caste superiori, e fin nelle classi dotte. Si aspira come a fine supremo, alla serenità, al [p. 23 modifica] silenzio, alla cessazione dei desideri, e si «consegue» il proprio fine. Il Buddismo non è una religione in cui si tende unicamente alla perfezione; la perfezione è il caso normale.

Nel cristianesimo, gli istinti dei sottomessi e degli oppressi si pongono in prima linea: le classi più basse sono quelle che cercano in esso la loro salvezza. In questo si esercita, come «occupazione», come rimedio contro la noia, la casistica del peccato, la critica di sè, l’inquisizione della coscienza: in quello si tiene accesso sempre (con la preghiera) l’affetto verso un «potente», chiamato «io», ed il più elevato si considera come inaccessibile, come premio, come «grazia». Manca tuttavia la pubblicità; gli antri, i luoghi bui sono cristiani. In quello si disprezza il corpo, l'igiene è ripudiata come una sensualità; la Chiesa si guarda perfino dalla nettezza (la prima misura cristiana dopo l’espulsione degli arabi, fu la chiusura dei bagni pubblici di cui solo Cordova ne possedeva 270); è cristiano un certo istinto di crudeltà verso di sè e verso gli altri; è cristiano l’odio per quelli che la pensano in altro modo; è cristiana la mania di perseguitare. Idee tetre ed emozionanti «occupano» il primo posto: gli stati d'animo più ricercati, quelli che si designano con i nomi più eletti, sono epilettoidi; la dietetica è stabilita in modo che favorisca i fenomeni morbosi e sovrecciti i nervi. È cristiano l’odio a morte per i signori della terra, per i «nobili», e nello stesso tempo una sorda ed occulta concorrenza (si lascia loro il «corpo», si vuole solo l’«anima»...) È cristiano l’odio contro lo «spirito», l’orgoglio, il coraggio, la libertà, il «libertinaggio» dello spirito; è cristiano l'odio contro i «sensi», contro il tripudio dei sensi, contro la gioia in generale...


XXII.


Il cristianesimo, quando lasciò il suo primo terreno, le classi inferiori, il «sottosuolo» del mondo antico, quando cercò il potere tra i popoli barbari, non aveva davanti a sè, come prima condizione, uomini «stanchi», ma uomini abbruttiti interiormente che si distruggevano gli uni gli altri; l’uomo forte, ma nell’istesso tempo atrofizzato. Il malcontento di sè, il dolore intimo, non sono qui, come tra i buddisti, l’iperestesia e l’eccessiva facoltà di soffrire, [p. 24 modifica]di dare sfogo alla tensione interna, con azioni ed idee ostili. Il Cristianesimo aveva bisogno di valori «barbari» per farsi dominatore dei «barbari»: tali valori sono il sacrificio del primogenito, la consumazione del sangue nella Cena, il disprezzo per lo spirito e per la coltura, la tortura in tutte le sue forme, corporale e spirituale; infine la gran pompa del culto. Il buddismo è una religione per uomini «tardivi», per razze che son venute su buone, benigne, super-spirituali, che sono molto suscettibili al dolore (l'Europa non è neppure ancor molto matura per esso): è insomma una invocazione di queste razze, un appello alla pace, alla serenità, alla consuetudine con le cose dello spirito, un invito ad una certa insensibilità corporale. Il cristianesimo vuol dominare le «fiere»; il suo metodo è di renderle «inferme», — l'«indebolire» è la ricetta cristiana per la «mansuefazione», per la «civilizzazione». — Il buddismo è una religione per la fine, per la stanchezza della civiltà; il cristianesimo non la trova neppure; — la crea se è necessario.


XXIII.


Il buddismo, diciamolo anche una volta, è cento volte più freddo, più veridico, più obbiettivo. Non ha bisogno di adornare il suo dolore, la sua facoltà, di soffrire, con l'interpretazione del peccato: dice semplicemente ciò che pensa: «Io soffro». Per il barbaro, al contrario, il soffrire è cosa disdicevole: ha bisogno prima di una spiegazione, per dichiarare che soffre (il suo istinto lo spinge piuttosto, a negare la sofferenza, a sopportarla in silenzio). La parola «diavolo» in questo caso fu un beneficio; si aveva un nemico preponderante e terribile: non si sentiva la necessità di vergognarsi di soffrire per opera di un tale nemico.

Nel fondo del cristianesimo esistono alcune sottigliezze appartenenti all’Oriente. Anzitutto sa che è completamente indifferente in sè stesso, che una cosa sia vera, perchè questo è della maggior importanza, «in quanto» è creduta come vera. La verità, e la fede nella verità di qualche cosa: ecco qui due mondi di interessi assolutamente diversi l’uno dall’altro, anzi quasi «opposti»: - all’uno ed all’altro si giunge per vie essenzialmente diverse. — Il solo fatto di essere iniziato in questo punto, [p. 25 modifica]«costituisce» in Oriente quasi il dotto: così l’intendono i brahamani, così l’intende Platone, così tutti i discepoli della sapienza esoterica. Se, per esempio, c’è «felicità» nel credersi salvo dal peccato, non è necessario, come condizione, che l’uomo sia peccatore; l’essenziale è che si «senta» colpevole. Però se ad ogni modo la «fede» è indispensabile, sarà anche necessario gettare il discredito sulla ragione, sulla conoscenza, sull’investigazione scientifica: il cammino della verità si muta in cammino «proibito».

La «speranza» intensa è per la vita uno «stimulans» molto più energico di qualsiasi altra felicità isolata, che si realizzi effettivamente. Bisogna sostenere quelli che soffrono, con una speranza che non possa essere smentita da nessuna realtà, che non possa terminare con una realizzazione: una speranza d’oltre tomba. (Precisamente a causa di questa facoltà di sostenere gli infelici, la speranza fu dai Greci considerata come il male dei mali, come il più «tristo» di tutti, quello che restò in fondo al vaso di Pandora.) Perchè l’«amore» sia possibile, Dio deve essere individuo; perchè i più bassi istinti possano prendervi parte è necessario che Dio sia giovane. Per il fervore delle donne si mette un santo bello in prima linea, per il fervore degli uomini una Vergine. Questo supponendo che il Cristianesimo abbia voluto mutarsi in Dominatore, in un terreno dove il culto di Afrodite e Adone avevan già racchiuso il «concetto» di culto. L’esigenza della Castità rafforza la veemenza, e l’intensità dell’istinto religioso — rende il culto più fervido, più entusiasta, più intenso. — L’amore è lo stato in cui l’uomo vede maggiormente le cose come «non» sono. La forza illusoria sale al suo grado massimo, insieme alla forza dolcificante, «glorificante». Si sopporta di più nell’amore; si soffre tutto. Si trattava di trovare una religione nella quale si potesse amare: con l’amore ci poniamo al disopra delle peggiori cose della vita — non le vediamo più. — Questo, rispetto alle tre virtù cristiane, la fede, l’amore e la speranza: io le chiamo le tre «prudenze» cristiane. — Il buddismo è troppo tardivo, troppo positivo per esser prudente a questo modo. [p. 26 modifica]


XXIV.


Non fo che sfiorare, qui, il problema dell'«origine» del cristianesimo. Il «primo» ragionamento per giungere alla soluzione di questo problema, si enunzia così: Il cristianesimo non si può comprendere se non considerandolo nell’ambiente in cui si è sviluppato; — esso non è un movimento di reazione contro l'istinto giudeo; è la conseguenza stessa di esso, è una conclusione nella sua logica terribile. Nella formula del salvatore: «La salvazione viene per gli giudei.» — Ecco il «secondo» ragionamento: Il tipo psicologico del Galileo, si può riconoscere facilmente ancora, ma solo nella sua completa degenerazione (che è nello stesso tempo una mutilazione, ed un’addizione di caratteri estranei) ha potuto esser utile a quelli che lo hanno utilizzato come tipo di «Salvatore» dell’umanità.

I giudei sono il popolo più notevole della storia universale, poichè, posti al bivio: essere o non essere, preferirono, con impressionante chiaroveggenza, di essere «ad ogni costo»: questo fu la «falsificazione» d’ogni natura, d’ogni realtà sia nel mondo interiore che nel mondo esteriore. Si trincerarono contro tutte le condizioni sotto le quali «era permesso» di vivere ad un popolo; crearono un’idea contraria alle condizioni «naturali»: travisarono via via la religione, il culto, la morale, la storia, la psicologia, in modo irrimediabile, riducendo tutto al «contrario dei suoi valori naturali». Troviamo ancora una volta lo stesso fenomeno, elevato a proporzioni indicibili, ma tuttavia solo come imitazione: la chiesa cristiana, manca, in confronto al popolo dei santi, d’ogni pretensione di originalità. E’ per questo stesso motivo che i giudei sono il popolo «più fatale» della storia universale: con l’ulteriore loro azione hanno in sì fatto modo ingannata l'umanità, che oggi il cristiano può sentire in modo antigiudeo, senza considerarsi come l’ultima «conseguenza del giudaismo».

Nella mia «Genealogia della morale» ho presentato per la prima volta psicologicamente l'idea di contrasto tra una morale nobile e una morale di «réssentiment», nata l'ultima dal «no» rispetto alla prima: è la morale giudeo-cristiana. Per poter dire «no» in risposta a tutto quanto rappresenta il moto «ascendente» della vita, la buona [p. 27 modifica]nascita, il potere, la bellezza, l’affermazione propria sulla terra, fu necessario che l’istinto di «réssentiment», fatto genio, inventasse un «altro» mondo, rispetto al quale, quella «affermazione della vita», ci apparisse come il male, come la cosa riprovevole in sè stessa.

Esaminato psicologicamente, il popolo giudeo è quello che possiede la forza vitale più tenace, che posto in condizioni impossibili, prende liberamente con una profondissima saggezza di conservazione, il partito di tutti gli istinti di «décadence», non perchè sia dominato da essi, ma perchè indovina in essi una forza con cui potrà raggiungere il suo obbietto «contro» il «mondo». I giudei sono l’opposto di tutti i «décadents»: han dovuto «fare i decadenti» fino all’illusione, hanno saputo porsi alla testa di tutti i movimenti di «décadence» con un «non plus ultra» del genio del commediante (come nel cristianesimo di San Paolo) per fare di essi qualche cosa che fosse più forte di tutti i partiti che «affermano» la vita. Per quella classe di uomini che nel giudaismo e nel cristianesimo aspirano al potere, la «décadence» è un modo «sacerdotale», solo un «mezzo»: questa classe di uomini ha un vitale interesse nel render malata l’umanità, e nell’attribuire un senso pericoloso alla vita, un senso calunniatore del mondo, alle nozioni di «buono» e «cattivo», di «vero» e «falso».


XXV.


La storia d’Israele è inestimabile come storia tipica della «denaturalizzazione» di tutti i valori naturali; di essa indico cinque fatti. Primitivamente, soprattutto nell’epoca dei re, Israele si trovava, rispetto a tutte le cose, in una relazione «giusta», cioè, naturale. Il suo Javeh era l’espressione del sentimento del potere, della gioia in sè, della speranza e salvezza, con esso si aveva fiducia nella natura, che dà ciò che al popolo bisogna: anzitutto la pioggia. Javeh è il Dio d’Israele e perciò Dio di giustizia.

È la logica di ogni popolo che ha il potere e la coscienza tranquilla. Nel culto solenne si mostrano questi due lati dell’affermazione propria ad un popolo: si mostra grato per i grandi destini che lo elevarono al potere, ed è riconoscente per la regolarità della successione delle [p. 28 modifica]stagioni, e per tutta la buona fortuna nell’allevamento del bestiame, e nell’agricoltura. Questo stato di cose fu per lungo tempo l’ideale, anche dopo esser scomparso in modo disgraziato: il caos all’interno e gli Assiri al di fuori.

Ma il popolo conservò, come la sua più alta aspirazione, questa visione di un re che fosse soldato valoroso e giudice severo; specialmente quel profeta tipico, cioè, critico e satirico dell’epoca, Isaia. Tuttavia tutte le speranze restarono deluse. L’antico Dio non poteva nulla di quello che in altri tempi aveva potuto. Si doveva abbandonarlo? Che successe? Si «trasformò» il suo concetto, si «snaturò» la nozione di Dio: a questo prezzo si potè conservarlo. Javeh, il Dio della «giustizia» «non» fu insieme ad Israele neppure l’espressione del sentimento della dignità nazionale; non fu che un Dio condizionale... La sua nazione diventa uno strumento nelle mani degli agitatori sacerdotali, che ora interpretano ogni felicità come un premio, ogni disgrazia come un castigo per la disobbedienza a Dio, come un «peccato»: il modo più falso d’interpretare una pretesa «legge morale universale», con la quale, una volta per sempre, si inverte il concetto naturale di «causa» e di «effetto». Quando con la ricompensa e col castigo si è rigettata dal mondo la causalità «contro natura»: allora segue tutto il resto di ciò che è contrario alla medesima. Un Dio che «chiede» invece di un Dio che aiuta, che consiglia, che è insomma, l’espressione di ogni felice ispirazione, del valore e della fiducia in sè stesso. La «morale» non è già l’espressione delle condizioni di vita e di sviluppo di un popolo, non è già il suo più semplice istinto vitale, ma si è fatta astratta, contraria alla vita; — la morale come perversione sistematica dell’immaginazione, come il «mal’occhio» per tutte le cose. Che cosa è la morale giudea? che cosa è la morale cristiana? Il caso che ha perduto la sua innocenza; l’infelicità macchiata dall’idea del «peccato»; il benessere come pericolo, come «tentazione»; il malessere fisiologico, avvelenato dal verme roditore della coscienza...


XXVI.


Falsata la nozione di Dio, falsata la nozione della morale — il clero ebreo non si arrestò qui. Era impossibile servirsi di tutta la «storia» d’Israele: si disfecero [p. 29 modifica]dunque di essa. — Quei sacerdoti compirono questo miracolo di falsificazione, di cui resta come documento gran parte della Bibbia. Con un singolare disprezzo per ogni tradizione, per ogni realtà storica, «han trascritto in senso religioso», il loro passato nazionale, cioè han fatto di esso uno stupido strumento di salvazione dalla colpa rispetto a Javeh, e dal castigo; di devozione a Javeh e di ricompensa. Sentiremmo molto più dolorosamente questo atto vergognoso di falsificazione della storia, se l'interpretazione «ecclesiastica» in corso da migliaia d'anni, non ci avesse resi quasi insensibili alle esigenze di probità «in historicis». Ed i filosofi appoggiarono la Chiesa, e la menzogna dell'«ordine morale universale», attraverso tutta l'evoluzione della filosofia, sino alla più moderna.

Che significa l'«ordine morale universale»? Che esiste una volta per sempre una volontà di Dio, che decide tutto ciò che l'uomo deve fare o non fare: che il valore di un popolo o di un individuo si misura secondo la sua maggiore o minore obbedienza alla volontà di Dio: che nei destini di un popolo o di un individuo, la volontà di Dio si rivela «dominante», cioè, che castiga o premia a seconda del grado d’obbedienza. Messa in luogo di questa miserevole menzogna la «realtà» significa: una certa categoria di uomini parassiti, che non vivono che a spese di tutte le formazioni sane della vita; il «sacerdote» abusa del nome di Dio: chiama «regno di Dio» uno stato di cose in cui il sacerdote è quello che fissa il valore delle cose; chiama «volontà di Dio» i mezzi che esso impiega per raggiungere o mantenere tale stato di cose; con cinismo glaciale giudica popoli, epoche, individui a seconda che sono stati utili, o che hanno resistito alla preponderanza sacerdotale.

Guardarli all'opera: in mano ai sacerdoti giudei, la «grande» epoca della storia d’Israele si mutò in epoca di decomposizione; l'esilio, la lunga sventura, si mutò in un «castigo» eterno per la grande epoca, — epoca in cui il sacerdote non era ancora nulla.

Delle figure potenti e molto libere della storia d’Israele, fecero, a seconda dei bisogni, bacchettoni e miserabili ipocriti, oppure «empii» e semplificarono la psicologia di tutti i grandi avvenimenti, nella formola idiota di «obbedienza o disobbedienza a Dio». V'è di più: la «volontà [p. 30 modifica] di Dio», cioè, la condizione di conservazione per il potere del sacerdote, deve esser «nota»; per raggiungere questo scopo, è necessaria una «rivelazione». In altre parole: si impone una enorme falsificazione letteraria, si svelano le «Sacre Scritture»; si rendono pubbliche con tutta la pompa ieratica, con digiuni e lamentazioni per il lungo tempo del peccato.

La «volontà di Dio» si era fissata già da gran tempo; tutto il malanno sta in questo, che si allontanarono dalle «Sacre Scritture»...

La «volontà di Dio» si era già manifestata a Mosè... Che cosa era accaduto? Il sacerdote, con severità e pedanteria, aveva formulato, una volta per sempre, le grandi e le piccole imposte che si dovevano loro pagare, (senza dimenticare i migliori pezzi di carne, perchè il sacerdote è un divoratore di beffsteack) «ciò che pretendeva», quello era la volontà di Dio.

Fin da allora le cose della vita sono ordinate in modo che il sacerdote si rende «dovunque indispensabile». In tutti gli avvenimenti naturali della vita, la nascita, il matrimonio, la malattia, la morte, per non parlare del sacrifizio («il pranzo»), appare il santo parassita, per «snaturarli», secondo lui... per «santificarlo». Perchè bisogna comprender questo: ogni costume naturale, ogni istituzione naturale (lo stato, la giustizia, il matrimonio, le cure che si debbono prestare ai poveri ed agli infermi), ogni bisogno ispirato dall’istinto della vita, tutto ciò che ha il suo valore in sè, è disprezzato per principio, reso contrario al suo valore, per opera del parassitismo del sacerdote, (o dell’ «ordine morale universale»). Se c'è bisogno di una sanzione, è necessario un potere che «dandogli un valore» neghi la natura in quell'avvenimento, e «crei» allora, proprio per esso, un valore...

Il sacerdote disprezza, «profana» la natura: solo a questo prezzo esiste. La disobbedienza a Dio, cioè, al sacerdote, alla «legge» si chiama ora «peccato»; i mezzi per «riconciliarsi con Dio» sono, come è giusto, quelli che assicurano vieppiù profondamente la sottomissione al sacerdote: solo il sacerdote «salva»...

Esaminati al lume della psicologia, in ogni società organizzata sacerdotalmente, i «peccati» diventano indispensabili: sono proprio gli strumenti del potere; il sacerdote «vive» per i peccati, ha bisogno che si [p. 31 modifica]«pecchi»... Principio fondamentale: «Dio perdona chi fa penitenza», in altre parole: «chi si sottomette al sacerdote».


XXVII


Il cristianesimo si sviluppò in un terreno completamente «falso», dove ogni natura, ogni valore naturale, ogni «realtà», avevano contro i più profondi istinti delle classi dirigenti, una forma di odio a morte per la realtà, che non è stato sorpassato da allora in poi. Il «popolo eletto» che non aveva conservato per tutte le cose, che valori di sacerdote, parole di sacerdote e che aveva, con una logica da far paura, allontanato da sè, come «empio», come «mondo», come «peccato», tutto ciò che era ancora al potere sulla terra, — questo popolo creò per i suoi istinti una ultima formola, che era conseguente sino alla negazione di sè stesso: negò perfino, «nel cristianesimo», l'ultima forma della realtà, il «popolo sacro», il «popolo degli eletti», la stessa realtà «giudea». Il caso è della massima importanza: il piccolo moto insurrezionale, battezzato col nome di Gesù Cristo, è una «ripetizione» dell’istinto giudeo — in altri termini — l'istinto sacerdotale che non sopporta più la realtà del sacerdote, l'invenzione di una forma dell’esistenza anche più astratta, di una visione del mondo anche più «ideale», di quella che offre la organizzazione della Chiesa. Il cristianesimo «nega» la Chiesa...

Non so contro chi era diretta l'insurrezione di cui Gesù fu creduto — erroneamente forse — essere promotore, se questa insurrezione non era diretta contro la Chiesa Giudaica. Chiesa presa esattamente nel senso che oggi diamo a questa parola. Era un’insurrezione contro «i buoni e i giusti», «contro i santi d’Israele», contro la gerarchia della società; «non» contro la corruzione della società, ma contro la casta, il privilegio, l’ordine, la formula. Fu una «mancanza di fede» negli «uomini superiori», un «no» pronunziato contro tutto ciò che era sacerdote e teologo. Però la gerarchia che per questo fatto era messa in dubbio, sebbene solo per un momento, era l’equilibrio instabile, su cui solamente il popolo giudeo, in mezzo «all’acqua», difendeva ancora l’ultima probabilità di sopravvivere, acquistata, a caro prezzo, il «residuum» della sua [p. 32 modifica]esistenza politica autonoma: un attacco contro questa esistenza, era un attacco contro il suo più profondo istinto popolare, contro la volontà di vivere di un popolo, volontà la più tenace che sia mai esistita in terra. Questo santo anarchico che chiamava il popolo più basso, i reprobi e i peccatori agli Tschândâla del giudaismo, alla resistenza contro l’ordine costituito, con un linguaggio che, anche oggi, condurrebbe in Siberia, se bisogna credere agli Evangeli; questo anarchico era un criminale politico, almeno per quanto era possibile un criminale politico in una comunità «assurdamente apolitica». Questo lo condusse alla croce: l’iscrizione che aveva sulla croce è la riprova di ciò. Morì per i suoi peccati e manca ogni ragione per pretendere — quantunque ciò sia stato fatto molto frequentemente — che morì per i peccati degli altri.


XXVIII.


Una questione completamente diversa è questa: se egli aveva tale contraddizione nel suo pensiero, o se soltanto la si «considerò» come tale. Qui soltanto sfioro il problema della «psicologia del salvatore». Confesso che leggo pochi libri con tanta difficoltà come gli Evangeli. Queste difficoltà sono diverse da quelle, con la dimostrazione delle quali la sapiente curiosità dello spirito tedesco celebrò uno dei suoi più indimenticabili trionfi. E' già lontano il tempo in cui anch'io, come qualche altro giovane erudito, assaporavo, con la prudente lentezza del filosofo raffinato, l’opera dell'incomparabile Strauss. Avevo allora venti anni, ora son troppo serio per questo. Che mi importa delle contraddizioni della «tradizione»? Come possono, in generale, chiamarsi «tradizione» le leggende dei santi? Le storie dei santi sono la letteratura più equivoca che esiste: applicare ad esse il metodo scientifico «se non esistono altri documenti», è un procedimento condannato a prima vista, un semplice capriccio d’erudito....


XXIX.


Ciò che a me importa è il tipo psicologico del Salvatore. Questo «potrebbe» esser contenuto negli Evangeli, [p. 33 modifica]e a dispetto degli Evangeli, anche mutilato, e contraffatto da tratti estranei; come quello di Francesco d’Assisi è conservato nelle sue leggende, malgrado le sue leggende. «Non» si tratta della verità di ciò che ha fatto, di ciò che ha detto, di come è morto; ma di sapere se è ancora possibile rappresentarsi il suo tipo, se è «tradizionale».

I tentativi che conosco, fatti per scoprire negli Evangeli, perfino la storia di un'«anima», mi sembrano prove di una detestabile leggerezza psicologica.

Il signor Renan, questo Giovanni delle vigne «in psychologicus», ha fornito per l'interpretazione del tipo di Gesù le due idee più «indebite» che si possan dare: l'idea di «genio» e l'idea di «eroe» («heros»). E dice che se c'è qualche cosa che non è evangelico, è proprio l’idea di eroe.

Decisamente l'opposto d’ogni lotta, di ogni desiderio di trovarsi nella battaglia, si è mutato qui, in istinto. L'incapacità di resistenza, si trasforma in morale, («non resistere al male», la parola più profonda degli Evangeli, la loro chiave in certo modo), la felicità nella pace, nella dolcezza, nell'incapacità ad esser nemico. Che significa la «buona novella»? Si è trovata la vita vera, la vita eterna: e questa non è promessa, è «in voi». E' la vita nell'amore, nell’amore senza deduzione, senza esclusione, senza limiti. Ognuno è figlio di Dio — Gesù non vuole assolutamente nulla per sè — e, in tanto in quanto è figlio di Dio, ognuno è uguale ad ognuno... Far di Gesù un «eroe»! E quale errore più grave ancora, nella parola «Genio»! Ogni nostra nozione, ogni nostra idea colta di «spirito» non ha nessun senso del modo in cui vive Gesù. Parlando con la severità del psicologo, al suo posto starebbe meglio una parola completamente diversa. Conosciamo uno stato morboso di eccitazione del «senso del tatto», che retrocede spaventato davanti a certi contatti, nel vedersi in procinto di toccare qualche oggetto solido. Si riduca un «habitus» fisiologico tale alla sua ultima conseguenza, come l’odio istintivo contro ogni realtà, come tendenza all’impalpabile, all’«incomprensibile»; come la repugnanza ad ogni formola, ad ogni nozione di tempo e di spazio, a tutto ciò che è solido, costume, istituzione, Chiesa; come l’abitare in un mondo in cui non c’è più nessuna specie di realtà, in un mondo esclusivamente «interiore», in un mondo «vero», in un mondo «eterno»... «Il regno di Dio è in voi»... [p. 34 modifica]


XXX.


«L’odio istintivo contro la realtà»: Conseguenza di un’estrema facoltà di soffrire, di un’estrema irritabilità, che, in generale, non vuole essere «toccata», perchè sente con troppa intensità ogni contatto.

«L’esclusione istintiva di ogni ripugnanza, di ogni inimicizia, di tutti i limiti e di tutti i confini nel sentimento». Conseguenza di una estrema facoltà di soffrire, di un’estrema irritabilità, che, ad ogni resistenza, ad ogni necessità di resistere, prova come un'insopportabile «dispiacere» (cioè, come qualche cosa di nocivo, come il «non consigliato» dell’istinto di conservazione) e che trova la felicità (il piacere) solo nel non resistere più a nulla, nè al malvagio: l’amore, come unica, «ultima» possibilità di vita...

Queste sono le due «realtà fisiologiche» sulle quali e per le quali si è sviluppata la dottrina della redenzione. Io le considero come una sublime evoluzione dell’edonismo sopra basi assolutamente morbose. L’epicureismo, la dottrina di redenzione del paganesimo, le si avvicina molto, sebbene sia ricca di una forte dose di vitalità greca e di energia nervosa. Epicuro fu un «decadente tipico»: e come tale lo giudicai io sin da principio. Il timore del dolore, anche del dolore infinitamente piccolo, non «può» finire diversamente che in una «religione dell’amore»...


XXXI.


Io ho dato anticipatamente la mia risposta al problema. L'ipotesi di essa è che il tipo del salvatore ci è stato tramandato con una grande deformazione. Questa deformazione è in sè stessa molto verosimile. Per varie ragioni, un tipo simile non poteva rimanere puro, integro, scevro da addizioni. Il «milieu» in cui si moveva questa strana figura deve aver lasciato in esso delle orme, e ancor più la storia, la «vicenda» delle prime comunità cristiane. Il tipo è stato arricchito, retrospettivamente, con tratti che non si possono interpretare se non come motivi di guerra, come fini di propaganda. Quel mondo strano e infermo, in cui ci introducono gli Evangeli — un mondo simile a quello di un romanzo russo, in cui la feccia della società, le malattie nervose e l’imbecillità «infantile» sembra si siano dato convegno — deve aver «reso più goffo» il tipo, [p. 35 modifica] in ogni maniera. I primi discepoli in particolar modo, interpretarono, nella loro propria rigidità, un essere completamente formato di simboli, e di cose intangibili, per poter comprendere qualche cosa in generale; per essi «esistette» primieramente il tipo dopo di una unificazione in forme più note... Il profeta, il messia, il giudice futuro, il maestro di morale, il miracoloso, Giovanni Battista, erano altrettante occasioni per disconoscere il tipo... Infine non trascuriamo il «proprium» di ogni grande venerazione, specialmente quando è settaria: cancella negli esseri venerati i tratti originali, le idiosincrasie; «essa stessa non li percepisce». Dovrei sentire che un Dostoiewski non sia vissuto vicino a questo «décadent» interessante, voglio dire, vicino a qualcuno che sappia sentire precisamente l’incanto meraviglioso di una tale contaminazione di sublime, di morboso e d’infantile. Un ultimo punto di vista: il tipo, come tipo di «décadence», «ha potuto» essere, effettivamente stranamente multiplo e contradditorio: tale possibilità non si può del tutto escludere. Tuttavia tutto sembra distoglierci da essa. Proprio in questo caso dovrebbe la tradizione essere notevolmente fedele ed obbiettiva; noi però abbiamo motivi per ammettere il contrario. Intanto, esiste una contraddizione tra il predicatore dei monti, dei laghi e delle praterie, di cui piace l’apparizione da Budda in un terreno molto poco indiano, ed il fanatico dell'attacco, nemico mortale dei teologi e dei sacerdoti, che la malizia di Renan ha glorificato come «le grand maître en ironie». Io stesso non dubito che una gran dose di fiele (e perfino d’«ésprit») si sia riversata sul tipo del maestro durante lo stato d’agitazione della propaganda cristiana, perchè si conosce fin troppo il poco scrupolo dei settari nel fare la propria «apologia» nella persona del loro maestro. Quando la prima comunità ebbe bisogno di un teologo maligno e sottile per giudicare, lamentarsi e incollerirsi «contro» i teologi, si «creò» il proprio Dio, secondo le proprie necessità, e nello stesso tempo si mise irrimediabilmente in bocca queste idee, del tutto contrarie all’Evangelo, da cui ora non si potrebbe più prescindere: «il ritorno di Cristo», «il giudizio finale», ed ogni specie di speranze e promesse temporali. [p. 36 modifica]


XXXII.


Ancora una volta, mi oppongo a che si annetta il lato fanatico al tipo del Salvatore: la parola «impèrieux» che usa Renan, annulla di per sè stessa il tipo. «La buona novella» consiste precisamente nel non aver contrasti; il regno di Dio appartiene ai „bimbi,“; la fede che qui si rivela non è una fede acquistata con le lotte; esiste invece da principio, è, per così dire, una ingenuità infantile divenuta spirituale. Il fenomeno della pubertà ritardata, che resta allo stato latente nell’organismo; è familiare almeno ai fisiologi come sintomi risultanti dalla degenerazione. Una fede tale, non si adira, non rimprovera, non porta la spada; non si immagina neppure fino a qual punto potrebbe atomizzarsi un giorno. Non si manifesta nè con miracoli, nè con premi, nè con promesse, e tanto meno con le Scritture: essa, stessa è ad ogni momento il suo miracolo, il suo premio, la sua prova, il suo «Regno di Dio». Tuttavia questa fede si forma, «vive», evita le formole. Senza dubbio l’azione dell’ambiente, della lingua, dell’educazione precedente determina una certa cerchia di concetti. E il cristianesimo primitivo non si serve d’altro che di nozioni giudeo-semitiche (il mangiare ed il bere nella santa cena fanno parte di esse — idea, questa, di cui la Chiesa ha molto maliziosamente abusato, come di tutto ciò che è giudeo).

Guardarsi però dal vedere in ciò più che un linguaggio a segni, una semiottica, un’occasione per le parabole. Infatti, la condizione solita di ogni discorso, era per questo antirealista, che nessuna parola si prendesse alla lettera. Tra gli Indiani si sarebbe servito delle idee di Saukhyàm, tra i Cinesi, di quelle di Lao-Tse — senza trovar differenza tra esse. — Con una certa larghezza d’espressione, Gesù si potrebbe chiamare uno «spirito libero»; non si cura, per niente di tutto ciò che è fisso: la parola «uccide», tutto ciò che è fisso «uccide». L’idea, la «esperienza» della «vita», tali quali egli solo le comprende, rifuggono nel suo insegnamento da ogni specie di parola, di formola, di legge, di fede, di dogma. Parla, soltanto del più intimo: «vita», o «verità», o «luce» sono le sue parole per questa cosa interiore; tutto il resto, ogni realtà, ogni natura, il linguaggio medesimo non hanno per lui che un valore di un segno, di un simbolo. Non bisogna [p. 37 modifica]sbagliare in nessun modo in questo caso, per quanto sia grande la tentazione che è nei pregiudizi cristiani, voglio dire «ecclesiastici». Questo simbolismo «par excellence» si trova al di fuori di ogni religione, di ogni nozione di culto, di ogni scienza storica e naturale, di ogni esperienza della vita, di ogni conoscenza, di ogni politica, di ogni psicologia, di ogni libro, di ogni arte; la sua «sapienza» sta precisamente nella «ignoranza assoluta» che simili cose esistano. La «civilizzazione» non le è nota neppure per relazione, non sente bisogno di lotte contro di essa, non la nega.

Lo stesso avviene rispetto allo «Stato», a tutte le istituzioni civili, all’ordine sociale, al «lavoro», alla guerra, — non ha mai avuto un motivo per negare il «mondo»... non ha mai sospettato l’idea ecclesiastica del «mondo»... La «negazione» è per lui una cosa completamente impossibile. — Manca anche la dialettica, e nell’istesso tempo, l’idea, che una credenza, una «verità», possa esser dimostrata con motivi (le «sue» prove sono «luci interne, sensazioni di piacere intime e affermazioni di sè stesso, tutte «prove della forza»). Una tale dottrina pertanto «può» contraddire, ma non comprende in nessun modo, che vi siano altre dottrine, che «possano» esistere; non può in nessun modo rappresentarsi un giudizio contrario... Quando lo trova, si rattrista per intima compassione di questa «cecita» — perchè essa vede la «luce» — ma non fa obbiezioni....


XXXIII.


In tutta la psicologia del «Vangelo» manca l’idea di colpevolezza e di castigo, e parimenti l’idea di premio. Il «peccato», ogni relazione di distanza tra Dio e l’uomo, resta soppresso — «questa è precisamente la «buona novella». La felicità eterna non è promessa, nè è vincolata da condizioni: è l’«unica» realtà — il resto non è che un complesso di segni per parlar dell’assunto...

Le «conseguenze» di tale stato si proiettano in una «pratica» nuova, la pratica puramente evangelica. Non è la «fede» che distingue il cristiano: il cristiano opera, distinguendosi per un modo di agire «differente», non reagisce contro chi si comporta perfidamente con lui nè con la parola, nè col cuore. Non fa differenza fra [p. 38 modifica]stranieri ed indigeni, tra giudei e non giudei («il prossimo», propriamente il compagno di fede, il giudeo). Non si annoia con nessuno, nè disprezza nessuno. Non si presenta ai tribunali nè si lascia mettere a contribuzione («non prestar giuramento»). Non permette di separarsi dalla moglie in nessun caso, neppure nel caso di infedeltà provata. — Tutto ciò è in fondo un principio, tutta la conseguenza di un istinto. — La vita del Salvatore non fu altro che «questa» pratica, tuttavia la sua morte fu altra cosa... Non aveva bisogno di formole nè di riti per le relazioni con Dio, e neppure di orazioni. Rifiutò tutti gli insegnamenti giudei del pentimento e del perdono; sa che soltanto con la «pratica» della vita uno si sente «divino», «felice», «evangelico», sempre «figlio di Dio». Il «pentimento», l’orazione per il perdono» «non» sono le vie che menano a Dio: «solo la pratica evangelica» mena a Dio, essa sola è «Dio». Quello che fu «detronizzato» dal Vangelo fu il giudaismo delle idee di «peccato», di «perdono dei peccati», di «fede», di «salvazione con la fede», tutta la «dogmatica» giudaica fu negata nella «buona novella».

L’istinto profondo del come si debba «vivere», per sentirsi «nel cielo», per sentirsi «eterno», intanto in quanto con nessun altra condotta, in nessun modo uno si sente «nel cielo», questa soltanto è la realtà psicologica della «redenzione». Una vita nuova, «non» una nuova fede...


XXXIV.


Se comprendo qualche cosa di questo gran simbolista, è il fatto che prese soltanto per realtà, per «verità», le realtà «interne», e che per lo più tutto ciò che è naturale, tutto ciò che ha rapporti col tempo e con lo spazio, tutto quello che è storico, lo comprendeva solamente come segni, come spunti di parabole. L’idea di «figlio dell’uomo» non è una persona concreta che forma parte della storia, un qualche cosa di individuale, di unico, ma un fatto «eterno», un simbolo psicologico, libero dalla nozione di tempo. Lo stesso accade anche, ed in un senso più elevato, rispetto a «Dio», a questo simbolista tipico, al «regno di Dio», al «regno dei cieli», alla «filiazione di Dio». Nulla è meno cristiano delle «rudezze ecclesiastiche» di un Dio «personale», di un «regno di Dio» che [p. 39 modifica]deve «venire», di un «regno dei cieli» «al di là», di un «figlio di Dio», «seconda persona» della Trinità. Tutto ciò è — mi si perdoni l’espressione — il pugno nell’occhio — oh, in quale occhio! — del Vangelo: un «cinismo storico» nell’insulto del simbolo... Pertanto si vede chiaramente — non tutti lo vedono, ne convengo — ciò che si indica con i segni di «padre» e di «figlio»; la parola «figlio» esprime la «penetrazione» nel sentimento della trasfigurazione generale di tutte le cose (la felicità); la parola «padre», «questo stesso sentimento», il sentimento di eternità e di compimento. Mi vergogno di ricordare ciò che la Chiesa ha fatto di questo simbolismo. Non ha introdotto questa, una storia d’Anfitrione nella soglia della «fede» cristiana? E inoltre un dogma dell’«immacolata concezione»?... «Ma con questo maculò la concezione»...

Il «regno dei cieli» è uno stato del cuore, non qualcosa che stia «al disopra della terra» o che venga «dopo la morte». Nel Vangelo «manca» ogni idea di morte naturale; la morte non è nè un ponte, nè un passaggio, manca perchè fa parte di un mondo apparente, completamente diverso, utile solo per segni. L’«ora della morte» non è una idea cristiana; l’«ora», il tempo, la vita fisica e la sua crisi, non esistono neppure per il maestro della «buona novella»... Il «regno di Dio» non è una cosa che si aspetta, non deve avere ne passato ne avvenire, non viene fra «mille anni»; è una esperienza in un cuore; è da per tutto, e in nessun luogo...


XXXV.


Questo «grandioso messaggero» morì come aveva vissuto, come aveva insegnato; non «in qualche modo» per «salvare gli uomini», ma per mostrare come si deve vivere. La «pratica» questo lasciò agli uomini: il suo contegno davanti ai giudici, davanti ai carnefici, davanti ai suoi accusatori, davanti ad ogni sorta di calunnie e d’oltraggi, il suo contegno sulla «croce». Non reagisce, non difende il suo diritto, non muove un passo per allontanare da sè l’estremo pericolo, ma lo «provoca». Prega, soffre ed ama con quelli che lo maltrattano. «Non» difendersi, «non adirarsi», «non» cercar responsabili... Ma non resistere al male: «amarlo»...

[p. 40 modifica]


XXXVI.


Noi che marciamo in prima fila, noi «spiriti liberati» prevediamo le condizioni necessarie per comprendere qualche cosa in questo: che diciannove secoli abbiamo male interpretata questa probità convertita in istinto e passione, che fa guerra alla «santa menzogna», anche più che a qualunque altra menzogna...

Si era ineffabilmente lontani dalla nostra neutralità benevolente e circospetta, da questa disciplina dello spirito che sola permette indovinare cose tanto remote e sottili; con egoismo spudorato, si è voluto, in ogni tempo, non trovare che il «proprio» vantaggio; sulla contraddizione sua col Vangelo si edificò la «Chiesa»...

Chiunque cercasse indizio per scoprire l’ironica divinità che, dietro il gran teatro del mondo, squadra le file, non troverebbe neppure un debole argomento in questo «gigantesco punto interrogativo» che si chiama Cristianesimo. L’umanità si genuflette davanti all’opposto di quel che era l’origine, il senso, il «diritto» del Vangelo; ha consacrato nell’idea di «Chiesa» ciò che la «buona novella» considerava precisamente al disotto di sè, «dietro» di sè. Invano si ricerca una forma più saliente dell’«ironia storica»...


XXXVII.


La nostra epoca va orgogliosa del suo senso storico. Come ha potuto lasciarsi avvincere da questa pazzia che si trova agli albori del cristianesimo, la «ridicola fola del salvatore e facitore di miracoli», — poichè tutto quanto v’è di spirituale e di simbolico non si è sviluppato che più tardi? Anzi, tutto il contrario; la storia del Cristianesimo — dalla morte sulla croce — è la storia di una graduale interpretazione, sempre più falsa e più grossolana, del simbolismo «primitivo». Man mano che il cristianesimo si spandeva tra masse più numerose e più rozze, che comprendevano sempre meno le condizioni prime della sua origine, era necessario «volgarizzarlo» il cristianesimo, «barbarizzarlo»; ha assimilato dogmi e riti di tutti i culti clandestini dell’«Imperium Romanum», e la mancanza di senno d’ogni sorta di malattie mentali. La sorte del cristianesimo si trova nella necessità di render la credenza [p. 41 modifica]stessa tanto malsana, tanto bassa, tanto volgare, quanto malsani, bassi e volgari erano i bisogni che doveva soddisfare. La «barbarie malsana», edifica infine il suo potere, sulla Chiesa, — sulla Chiesa, questa forma di avversione ad ogni giustizia, ad ogni elevazione d’anima, ad ogni disposizione di spirito, ad ogni umanità libera e buona. — I valori «cristiani», i valori nobili: noi, spiriti liberati, noi siamo stati i primi a ristabilire questa lotta, la maggiore che ci può essere.


XXXVIII.


Arrivato qui, non posso fare a meno d’esalare un sospiro. Vi sono giorni in cui si impossessa di me un senso più tetro della più tetra melanconia — il «disprezzo degli uomini». — E per non lasciare alcun dubbio su ciò che disprezzo e su «chi» disprezzo, dirò che è l’uomo moderno, di cui fatalmente sono contemporaneo. L’uomo d'oggi: il suo abito impuro mi soffoca... simile a tutti i chiaroveggenti, uso una larga tolleranza col passato, cioè, «generosamente» mi restringo in me stesso: passo con triste circospezione sopra a migliaia d’anni di un mondo-manicomio, chiamisi esso «Cristianesimo», «fede cristiana», o «Chiesa cristiana»; mi astengo dal far l’umanità, responsabile delle sue malattie mentali; ma il mio sentimento si ribella e scoppia, quando entro nei tempi moderni, nel «nostro» tempo.

Il nostro tempo è un tempo che «sa». Ciò che per l’innanzi non era che malsano, attualmente è arrivato ad esser sconveniente; ai nostri giorni è una cosa sconveniente esser cristiano. «Ed è qui che comincia la mia nausea».

Mi guardo attorno: non è rimasta una parola di ciò che in altri tempi si chiamava «verità»; non sopportiamo più che un sacerdote pronunzi la parola «verità», nemmeno a fior di labbra. Ora, secondo le più semplici esigenze dell’equità, è «necessario» che si sappia oggi che un teologo, un sacerdote, un papa, ad ogni frase che pronunzia, non commette soltanto un errore, ma «mente»; che non gli è permesso mentire per «indecenza», o per «ignoranza».

Anche il sacerdote, come qualsiasi altra persona, sa che non v’è nè «Dio», nè «peccato», nè «Salvatore»; [p. 42 modifica]e che l’«ordine morale universale», ed il «libero arbitrio» sono «menzogne»; la serietà e la profonda vittoria spirituale su sè stesso non «permettono» più a nessuno di rimanere ignorante su questo punto... Tutte le idee della Chiesa sono riconosciute per quel che realmente sono, le più false e perfide invenzioni che ci possono essere per «disprezzare» la natura e i valori naturali; il sacerdote stesso è riconosciuto per quel che effettivamente è: la specie più nociva del parassita, la vera tarantola della vita... Noi sappiamo, la nostra coscienza sa ciò che valgono e «a che servivano» queste sinistre invenzioni dei sacerdoti e della Chiesa, con le quali si raggiunse quello spettacolo di polluzione dell’umanità, il cui spettacolo può ispirare orrore; le idee d’«al di là», di «giudizio finale», di «immortalità dell’anima», dell’«anima stessa», sono gli strumenti di tortura, i sistemi di crudeltà, di cui si servirono i sacerdoti per diventar signori, per continuare ad esser padroni... Tutti sanno questo, e «malgrado ciò, tutto rimane nell’antico stato di cose». Dove, dunque, s’è andato a cacciare l’ultimo senso di pudore, se i nostri stessi uomini generalmente molto franchi, profondamente anticristiani in pratica, si chiamano ancora oggi cristiani e vanno alla comunione? Un principe alla testa dei suoi reggimenti, sovrana espressione dell’egoismo e dell’orgoglio del suo popolo, ma senza alcun pudore, confessarsi cristiano!... Chi nega — dunque — il Cristianesimo? Che cosa è per esso il «mondo»? L’essere soldato, giudice, patriota; il difendersi da sè stesso, l’apprezzare il proprio onore, il voler il proprio vantaggio; l’essere «orgoglioso»... La pratica di tutti i giorni, tutti gli istinti, tutte le valutazioni mutantisi in «azione», sono oggi anticristiani. Quale «aborto di falsità» deve essere l’uomo moderno per «non vergognarsi» di chiamarsi ancora cristiano!


XXXIX.


Torno sui miei passi e faccio la vera storia del cristianesimo. La parola «cristianesimo» è già un’equivocazione; in fin dei conti non è esistito che un solo cristiano, e morì sulla croce. Il Vangelo «morì» sulla croce. Ciò che da allora in poi si chiamò «Vangelo» era già l’opposto di quel che Cristo aveva vissuto: un «cattivo messaggio», un «dyvangelium». E’ falso sino alla stupidaggine, il [p. 43 modifica]vedere in una «fede», per esempio, nella fede nella salvazione, per opera di Cristo, il segno caratteristico del cristiano. La «pratica» cristiana, una vita tale quale la «visse» colui che morì in croce, è l’unico cristiano... Ai nostri giorni è ancora possibile una vita «simile» per certi uomini; anzi è perfin loro «necessaria»: il cristianesimo vero e primitivo sarà possibile in tutte le epoche... «Non» una fede, ma un operare, un «non fare» certe azioni, e sopratutto, condurre un’altra vita...

Gli stati di coscienza, una fede qualsiasi, per esempio creder vera una cosa, tutto ciò è (il psicologo lo sa) assolutamente indifferente e di quinto ordine, se si paragona col valore degli istinti: per parlare più esattamente, ogni nozione di causalità spirituale è falsa. Ridurre il fatto di esser cristiano, il cristianesimo, a un fatto di credenza, ad una semplice fenomenalità di coscienza, si può chiamare, negare il cristianesimo. Di «fatto, non vi sono stati mai cristiani.» Il «cristiano», quello che da duemila anni fa si chiama cristiano, non è altro che un errore psicologo commesso nell’individuo stesso.

Considerando l’obbietto più da vicino, «nonostante» la fede, in esso solo regnavano gli istinti — e che «istinti!» — La fede fu in ogni tempo, per esempio per Lutero, solo un manto, un pretesto, un «velo» che copriva il gioco degli istinti, una sapiente «cecità» sul dominio di «alcuni» istinti... La «fede» l’ho già chiamata la vera «prudenza» cristiana: si «parlò» sempre di «fede», ma si «agì» sempre per «istinto»... Nel mondo delle rappresentazioni cristiane non c’è nulla che almeno sfiori la realtà: al contrario non riconosciamo, nell’odio istintivo «contro» la realtà, l’unico elemento impulsivo nelle origini del cristianesimo. Che cosa si deduce da tutto ciò? Che «in psychologicis» l’errore è ugualmente radicale, in questo caso, cioè, è determinante per gli esseri, cioè, «sostanza». Si faccia, qui, astrazione da una sola idea, si metta al suo posto una realtà sola, e tutto il cristianesimo crollerà nel vuoto. Osservato da lontano, resta questo fatto, il più strano di tutti: una religione, non solo, motivata erroneamente, ma immaginosa e geniale anche solo nel campo degli errori che metton la vita in pericolo e che avvelenano il cuore. «E questo è uno spettacolo per gli dei», per queste divinità che a loro volta sono filosofi e che ho trovate nei celebri dialoghi di Nasso. Nel momento [p. 44 modifica]in cui la «nausea» li lascia (e lascia anche noi!) si volgono riconoscenti per lo spettacolo che loro offre il cristiano: la piccola stella, miserabilmente piccola, chiamata Terra, merita, talvolta, solo a causa di questo strano fenomeno, un divino interessamento, una divina occhiata... Ma non disistimiamo il cristiano; il cristiano falso «ruba l’innocenza», sorpassa di molto la scimmia; per quel che riguarda il cristiano, la nota teoria di discendenza diventa una pura amabilità...


XL.


La sorte del Vangelo fu decisa nel punto della morte: era sospesa alla «croce»... Soltanto la morte, quella morte inattesa e vergognosa, la croce che generalmente era riservata, alla «canaille»; questo spaventoso paradosso fu che condusse da solo i discepoli davanti al vero problema: «Chi era costui? Che significava ciò»? Si comprende troppo bene il senso di costernazione e di offesa fin nel profondo dell’essere; il sospetto che una simile morte potesse essere la «refutazione» della causa di lui; il terribile punto interrogativo: «perchè accadde questo?» In esso tutto «doveva» esser necessario, doveva avere un senso, una ragione, un motivo superiore: l’amore di un discepolo non conosce il caso. Solo allora si spalancò l’abisso. «Chi è stato che l’ha ucciso?» «Chi era il suo nemico naturale?» Questa domanda balenò come un fulmine. Risposta: il giudaismo «imperante», la classe dirigente di esso. Da allora si trovarono in ribellione contro l’ordine, ed inoltre si ebbe Gesù come un «ribelle contro l’ordine costituito». Fino a allora questa linea combattiva e negativa era mancata alla sua immagine: di più ancora, essa era la negazione di esso medesimo. E’ evidente che la piccola comunità «non» aveva compreso l’essenziale, l’esempio dato con questa morte, la libertà, la superiorità «su» ogni idea di «ressentiment»: questo prova quanto poco lo comprendeva! Con la sua morte Gesù non poteva voler altro, in sè, che dar pubblicamente la «prova» più ferma, la dimostrazione della sua dottrina... Ma i suoi discepoli eran ben lungi dal «perdonare» questa morte, ciò che sarebbe stato evangelico al massimo grado, o ad «offrirsi» ad una morte simile, con dolce ed amabile pacatezza d’anima... Il sentimento meno [p. 45 modifica]evangelico, la «vendetta» la vinse di nuovo su tutto. Era impossibile che la causa fosse giudicata da questa morte: si aveva bisogno di «ricompensa», di «giudizio» (eppure che cosa c’è di più contrario al Vangelo, della «ricompensa» e del «celebrar giudizio»?) La speranza popolare di un messia tornò ad occupare ancora una volta il primo posto: si prese in considerazione un momento storico: il «regno di Dio» considerato come atto finale, come promessa! Il Vangelo era stato precisamente l’esistenza, il compimento, la «realtà» di questo «regno». La morte di Cristo fu questo «regno di Dio». Allora si attribuì al tipo del maestro tutto questo disprezzo e questa acrimonia contro i farisei e contro i teologi, e con ciò si «fece» di esso un fariseo, un teologo! D’altra parte la venerazione selvaggia di quelle anime traviate non sopportò più il diritto di ognuno ad esser figlio di Dio, diritto questo che Gesù aveva insegnato: la loro vendetta consisteva nell’«elevare» Gesù in un modo improprio, nel separarlo da essi, come in altri tempi, in odio ai loro nemici, i Giudei si eran divisi dal loro Dio per innalzarlo al massimo grado. Il Dio unico, il figlio unico; tutti e due erano prodotti del «ressentiment».


XLI.


E da allora si presentò un problema assurdo: «Come «poteva» Dio permetter ciò?» La ragione conturbata della piccola comunità trovò una risposta di un’assurdità veramente terribile: Dio dette suo figlio in «sacrificio» per il perdono dei peccati. Oh, come finì tutt’a un tratto il Vangelo! Il «sacrificio espiatorio», nella sua forma più ripugnante, più barbara, il sacrificio dell’innocente per le colpe dei peccatori! Quale paganesimo più spaventevole! Non aveva Gesù fin soppresso l’idea di peccato? Non aveva negato l’abisso tra Dio e l’uomo, non aveva «vissuto» questa unità tra Dio e l’uomo, che fu la «sua» buona novella?.... E ciò «non» era per lui un privilegio! Da allora si introdusse a poco a poco nel tipo del Salvatore la dottrina della «resurrezione» che annulla ogni idea di salvazione, tutta la sola ed unica realtà del Vangelo favorevole ad uno stato «dopo» la morte.... San Paolo fece logica questa concezione — concezione sfacciata! — con quella insolenza da rabbino, che lo caratterizza in [p. 46 modifica]tutte le cose: «Se Cristo non è risuscitato di tra i morti la nostra fede è inutile». Ed in un sol colpo si converte il Vangelo nella promessa irrealizzabile più degna di disprezzo, la dottrina «insolente» dell’immortalità personale.... Lo stesso San Paolo la insegnava pure come una «ricompensa»!...


XLII.


E’ evidente ciò che finiva con la morte sulla croce: un nuovo sforzo assolutamente primitivo, verso un movimento di tranquillità buddistica, verso la «felicità in terra» non soltanto promessa, ma realizzata. Perchè — già l’ho fatto rilevare — la differenza essenziale tra le due religioni di «décadence» fu questa: il buddismo non promette, ma compie; il cristianesimo promette tutto e non «mantiene nulla». La buona novella fu seguita da presso dalla «peggiore» di tutte, quella di San Paolo. In costui si incarna il tipo opposto del «gaudioso messaggero»; il genio nell’odio, nella visione dell’odio, nella logica implacabile dell’odio. Quante cose ha sacrificate all’odio questo «dysangelista»! Prima di tutto il Salvatore: l’inchiodò sulla «sua» croce. La vita, l’esempio, l’insegnamento, il senso e il diritto di tutto il Vangelo — null’altro esisteva più che ciò che intendeva nel suo odio questo falso monetario; null’altro che quel che poteva essergli utile. «Niente» realtà, «niente» verità storica!... E ancora una volta l’istinto sacerdotale del giudeo commise lo stesso grande delitto nella storia, — cancellò assolutamente il ieri e l’avantieri del cristianesimo primitivo. V’è di più: San Paolo falsificò nuovamente la storia d’Israele, per farla apparire come la prefazione dei «suoi» atti: tutti i profeti hanno parlato del «suo» Salvatore. La Chiesa falsò più tardi fin la storia dell’umanità, per farla divenire il preludio del cristianesimo.... Il tipo del Salvatore, la dottrina, la pratica, la morte, il significato della morte, perfino il tempo dopo la morte, nulla rimase intatto, nulla conservò la somiglianza colla realtà. San Paolo spostò completamente il centro di gravità di tutta quella esistenza per porlo «dietro» di essa: nella «menzogna» di Gesù «risorto». In conclusione non poteva servirsi assolutamente della «vita» del Salvatore, aveva bisogno della «morte» sulla croce e anche di qualche cosa di più.... [p. 47 modifica]Credere nella sincerità di San Paolo, che ebbe per patria la sede principale del razionalismo storico, quando con un’allucinazione si procurava una «prova» della sopravvivenza del Salvatore, e credere anche il fatto che fu «lui» che ebbe quell’allucinazione, sarebbe una vera «niaiserie» per un psicologo. San Paolo voleva il «fine», «quindi» voleva anche i mezzi.... Ciò che egli stesso non credeva, lo credettero gli idioti tra cui gettava lo «sua» dottrina. Il «suo» bisogno era il «potere»; con San Paolo, il sacerdote volle ancora una volta il potere; non poteva servirsi d’altro che d’idee, di insegnamenti, di simboli, che tirannizano le moltitudini e formano il gregge. Che cosa prese più tardi Maometto dal Cristianesimo? L’invenzione di San Paolo, il suo mezzo di tirannia sacerdotale per formare il gregge: la fede nell’immortalità; cioè «la dottrina del giudizio»!


XLIII.


Quando il centro di gravità della vita non si pone «nella» vita, ma nell’«al di là» — «nel nulla» — si è spostato alla vita il suo centro di gravità. La gran menzogna dell’immortalità personale distrugge ogni ragione, ogni natura nell’istinto: tutto ciò che vè negli istinti di benefico e di vitale; tutto ciò che promette l’avvenire desta ora diffidenza. Vivere in modo da non aver «ragion» di vivere, «questo» si muta ora nella ragione della vita... A che serve lo spirito pubblico, a che serve la gratitudine per la nascita, per gli antenati, a che serve aiutare, aver fiducia, occuparsi del benessere generale, ed incoraggiarlo?.... Altrettante «tentazioni», altrettante «deviazioni dal retto sentiero»; «una sola» cosa è necessaria.... Che ognuno essendo anima «immortale», abbia un grado eguale ad ognuno, che nella comunione degli esseri, la «salvazione» di «ciascuno» possa richiedere un’importanza eterna, che i bachettoni, zimbelli per tre quarti, abbiano il diritto di immaginare che per essi le leggi della natura si infrangono senza posa: una gradazione tale di tutti gli egoismi fino all’infinito, fino all’«insolenza», non può esser fatta segno a sufficiente disprezzo. Ciò non pertanto il cristianesimo deve la sua vittoria a questa lusinga, — degna di pietà, — della vanità personale; con [p. 48 modifica]questo mezzo attirò a sè tutto quanto v’era di «mancato», gli istinti sediziosi, tutti quelli che eran venuti su squilibrati, la feccia e la schiuma dell’umanità. La «salvazione dell’anima» o, in altre parole: «il mondo si muove attorno a me»... Il veleno della dottrina dei «diritti uguali per tutti», questo veleno ha seminato il cristianesimo per primo; il cristianesimo ha fatto una guerra a morte dai più occulti recessi dei cattivi istinti, contro ogni sentimento di rispetto e di distanza tra uomo ed uomo, ed ogni incremento di cultura; del «ressentiment» delle masse si è fatto la sua «arma principale» contro di noi, contro quanto v’è di nobile, di gaudioso, di magnanimo sulla terra, contro la nostra felicità in terra. Il concedere l’immortalità ad un Pietro o ad un Paolo qualunque fu fino ad oggi l’attentato più enorme e più perfido contro l’umanità «nobile». E non giudichiamo di poco momento la fatalità che dal cristianesimo scivolò fin nella politica. Attualmente, nessuno conserva l’audacia dei privilegi, dei diritti di dominazione, del sentimento di rispetto verso sè stesso, e verso il prossimo, del «pathos della distanza». La nostra politica è «malata» di questo difetto di coraggio! L’aristocrazia del pensiero è stata la più nascostamente minata dalla menzogna dell’eguaglianza delle anime, e se la fede nei «diritti della maggioranza» promuove rivoluzioni, e le «promuoverà», è il cristianesimo — non dubitiamone — sono le valutazioni cristiane che trasformano ogni rivoluzione in sangue e delitto. Il cristianesimo è un’insurrezione di tutto ciò che striscia contro tutto ciò che vola. L’evangelo dei «piccini» «torna» piccolo.


XLIV.


Gli evangeli sono documenti inapprezzabili come testimoni della corruzione, già costante, «nel seno» stesso delle prime congregazioni. Ciò che più tardi San Paolo condusse a buon porto, col suo logico cinismo da rabbino, non fu tuttavia che un fenomeno di decomposizione che cominciò colla morte del Salvatore. Gli Evangeli non possono esser mai letti con sufficienti precauzioni: ogni parola offre la sua difficoltà. Confesso, e mi si sarà grati, che, per questa stessa ragione, essi sono per il psicologo un piacere di primo ordine, il «contrasto» di ogni [p. 49 modifica]corruzione semplice, la raffinatezza «par excellence», la maestria nella corruzione psicologica. Gli Evangeli debbono prendersi a parte. La Bibbia in generale non sopporta paragoni. Trovasi tra i giudei: «primo» punto di vista per non perdere interamente il filo. Questa dissimulazione di sè sotto una «cosa santa», assolutamente geniale, giammai raggiunta altrove, neppure lontanamente, nei libri e negli uomini, questa falsa coniazione di parole e di atti mutata in «arte», non è il fenomeno di un dono individuale, una qualsiasi natura eccezionale. Qui è necessaria la «razza». Il giudaismo, che è tirocinio e tecnica giudaica di molti secoli e dei più seri, arriva all’estrema perfezione col cristianesimo, l’arte di mentire santamente. Il cristiano, questa «ultima ratio» della menzogna, è il giudeo, ancora giudeo, tre volte giudeo... La volontà di non impiegare, per principio, che idee, simboli, attitudini provate con la pratica del sacerdote, l’astensione istintiva da ogni «altra» pratica, da ogni prospettiva di valore e di profitto, non è solamente tradizione, ma «eredità»; ed è a causa di questa sola eredità, che opera come natura. Tutta l’umanità, anche i migliori cervelli delle epoche migliori, (ad eccezione di uno solo che forse non era che un mostro), si è lasciata ingannare. Si è letto il Vangelo come il «libro dell’innocenza...» e non si trova il minimo cenno ad indicare con quanta maestria è stata recitata la commedia. Tuttavia, se noi «vedessimo» non foss’altro che di passaggio, tutti questi bacchettoni e santi artificiali, sarebbe finita per essi, precisamente perchè non leggo una parola senza vedere gli atteggiamenti; «e per questo la finisco con essi...» Hanno una maniera di alzar gli occhi che io non posso sopportare. Fortunatamente, per la maggior parte della gente, i libri non sono che «letteratura». Non bisogna lasciarsi ingannare: «Non giudicate! dicono essi, e intanto inviano all’inferno tutto ciò che si trova sul loro cammino. Permettendo a Dio di giudicare, giudicano anche essi; glorificando Dio, glorificano se stessi; «esigendo» la virtù di cui essi sono capaci — ed ancora di più la virtù di cui hanno bisogno per sostenersi, — si danno la grande aria di lottare per la virtù, l’aria di combattente pel regno della virtù. «Noi viviamo, noi moriamo, noi ci sacrifichiamo «per il bene», (la «verità», la «luce», il «regno di Dio»). In realtà fanno quello che possono per fare di [p. 50 modifica]meno. Facendosi umili o taciturni, seduti nei loro angoli, vivendo nell’ombra come ombre, adempiono ad un «dovere»: l’umiltà della vita sembra loro un dovere; è una prova di più della loro pietà. Ah! questa classe dell’inganno umile, casto, benigno. «La virtù medesima deve far testimonianza per noi...» Si leggano gli Evangeli come libri di seduzione per la «morale»: la morale è sequestrata da questa povera gente; essi sanno ciò che è la morale.

L’umanità si lascia «condurre» come meglio può «per il naso» dalla morale. Realmente, la «fatalità» cosciente di sentirsi «eletto» giuoca alla modestia: uno da «sè stesso» ha posto la «comunità», i «buoni», e i «giusti», una volta per sempre da un lato, dal lato della «verità», ed il resto, «il mondo», dall’altro lato. Questo è il più pericoloso delirio di grandezza che sia «mai» esistito sulla terra: aborti di bacchettoni e di impostori, incominciarono ad appropriarsi delle idee di «Dio», di «verità», di «luce», di «spirito», di «amore», di «sapienza», di «vita», come se queste idee fossero in certo modo i sinonimi del loro proprio essere, per stabilire la separazione tra essi ed il «mondo»: giudei rachitici, superlativamente maturi per ogni specie di manicomi, diventarono i valori secondo «essi stessi», come se il cristiano fosse il senso, il sale, la misura e l’«ultimo giudizio» di tutti gli altri.... Questa esistenza fatale fu possibile solo perchè esisteva già una specie di delirio di grandezza, affine alla stessa razza: era la pazzia «giudea»: dacchè si scavò l’abisso tra giudei e cristiani circoncisi, non restò più scelta per questi ultimi; si videro obbligati a servirsi, contro gli stessi giudei, degli identici procedimenti della conservazione di sè stessi: procedimenti consigliati dall’istinto giudeo, in quanto i giudei, non li avevano usati fin allora che contro i gentili. Il cristiano non è che un giudeo di «confessione più libera».


XLV.


Dò alcuni saggi di ciò che questa gente s’era posto in testa, di ciò che «misero in bocca» al loro maestro; nulla di più che confessioni di «anime belle»: «E se vi fosse in qualche luogo gente che non vi ricevesse, nè vi ascoltasse, partitevi di là e scuotete la polvere sotto i vostri [p. 51 modifica]piedi, perchè ciò serva di testimonianza contro di essa. Io vi dico in verità che il giorno del giudizio Sodoma e Gomorra saran trattate con meno rigore di quella città.» (MARCO VI, 11). Come è «evangelico» ciò!

«E chiunque avrà scandalezzato uno di questi piccoli che credono in me, meglio per lui sarebbe che gli fosse messa intorno al collo una pietra da macina, e che egli fosse gettato in mare». (MARCO IX, 42). Come è «evangelico» ciò!

«Parimenti se il tuo occhio ti dà motivo di cadere, strappatelo; meglio è per te entrare con un occhio solo nel regno di Dio, che, avendone due, esser gettato nella geenna, dove il verme non muore ed il fuoco non si spegne mai». (MARCO IV, 47). — Non si tratta, qui, precisamente dell’occhio...

«Io vi dico in verità, che alcuni di questi che son qui presenti, non moriranno senza aver visto di regno di Dio venir con potenza.» (MARCO IX, 1) - Bella menzogna!...

«Chiunque vuol venire dietro a me, rinunzi a sè stesso, e tolga la sua croce, e mi segua. Perciocchè...» (MARCO VIII, 34) («Osservazione di un psicologo»: la morale cristiana è confutata dai suoi «perciocchè»: le sue ragioni confutano, ciò è cristiano).

«Non giudicate «acciocchè» non siate giudicati... Con la misura con cui misurate sarete misurato...» (MATTEO VII, 1) — Che concetto di giustizia, di un giudice «integro»!...

«Se voi amate coloro che vi amano «che premio avrete?» Non fanno lo stesso i pubblicani? E se fate bene ai vostri fratelli soltanto, «che fate di straordinario»? Non fanno lo stesso i pubblicani? (MATTEO V, 46) — Principio dell’amore «cristiano»: vuole insomma esser ben «pagato».

«Perciocchè se voi non perdonate agli uomini, vostro padre non perdonerà a voi i vostri falli!» (MATTEO VI, 15). Molto compromettente per il padre in «questione...»

«Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia; e tutte le altre cose vi saranno date per giunta.» (MATTEO VI, 33). Le altre cose: cioè, alimenti, vesti, tutte le necessità della vita. Un «errore», per esprimersi discretamente...

«Rallegratevi e saltate dalla letizia in quel giorno, imperciocchè la vostra ricompensa sarà grande nel cielo; [p. 52 modifica]poichè il simigliante fecero i loro padri ai profeti». (LUCA VI, 23) — Canaglia «indecente»! Si paragona ai profeti....

«Non sapete voi, che siete il tempio di Dio, e che lo spirito di Dio abita in voi? Se alcuno distrugge il tempio di Dio, Iddio guasterà lui; perciocchè il regno del signore è santo, il quale siete voi». (S. PAOLO - I Corinti - III, 16). Non c’è disprezzo che basti per simili idee...

«Non sapete voi che i santi giudicheranno il mondo? e se il mondo è giudicato per voi, siete voi indegni dei minimi giudizi?» (S. PAOLO - I Corinti - VI, 2). Disgraziatamente non è questa soltanto la parola di un pazzo da catena... questo «spaventevole impostore» continua parola per parola: «Non sapete voi che noi giudicheremo gli angeli? «Quanto più possiamo giudicare delle cose di questa vita?...» (S. PAOLO - I Corinti VI, 5).

«Non ha Iddio mutata in pazzia la sapienza di questo mondo? Perciocchè, poichè il mondo, con la sua sapienza, non ha conosciuto Dio per la sapienza, è piaciuto a Dio di salvare i credenti colla pazzia della predicazione... Non vi sono tra voi che siete stati chiamati, nè molti savi secondo la carne, nè molti potenti, nè molti nobili. Anzi Dio ha scelte le cose pazze del mondo per isvergognare le savie; e Dio ha scelte le cose deboli del mondo per isvergognare le forti. E Dio ha scelte le cose ignobili del mondo e le cose spregevoli e le cose che non son nulla per ridurre al nulla quelle che sono qualche cosa, acciocchè unica carne si glorii al cospetto di Dio». (S. PAOLO - I Corinti - 1,20 e segg.) - Per «comprendere» questo passo, un testimonio di primo ordine per la psicologia di ogni morale di Tschândâla, leggasi la prima parte della mia «Genealogia della morale»: per la prima volta ho posto in chiaro il contrasto tra una morale «nobile» ed una morale di Tschândâla, nata da «ressentiment» e da vendetta impotente. San Paolo era il più grande degli apostoli della vendetta...


XLVI.


«Che cosa si deduce da tutto ciò?» Che per leggere il Nuovo Testamento converrà mettersi i guanti. Obbliga quasi a questo, tanto sudiciume. Useremmo tanto poco con i «primi cristiani», quanto i giudei polacchi: non [p. 53 modifica]che ci sia bisogno di rimproverar loro la minima cosa... Gli uni e gli altri puzzano.

Ho cercato invano nel Vangelo, un solo tratto simpatico; non c’è nulla in esso che sia libero, buono, franco, leale. L’umanità non ha avuto in esso la sua prima origine: mancan in esso gli istinti della «limpidezza...» Nel Nuovo Testamento non esistono che cattivi istinti, e non vi si trova neppure il valore di questi cattivi istinti. In esso è tutto codardia, occhi chiusi, ed inganno volontario. Qualsiasi libro sembra chiaro dopo di aver letto il Nuovo Testamento: per dare un esempio, immediatamente dopo San Paolo, ho letto con ammirazione quell’incantevole, insolente, giocoso Petronio, di cui si potrebbe dire ciò che Burkard scriveva di Cesare Borgia al duca di Parma: «è tutto festo,» immortalmente salutare, immortalmente allegro ed indovinato... Ma questi poveri bacchettoni errano nell’essenziale. Attaccano, ma tutto ciò che è attaccato da essi, diventa «distinto». Un «cristiano primitivo» «non» macchia chi attacca... al contrario, è in onore avere per avversarii i «cristiani primitivi». Non si può leggere il Nuovo Testamento senza avvertire una preferenza per tutto ciò che è in esso bistrattato; senza parlare della «sapienza di questo mondo, che un agitatore insolente prova inutilmente con «discorsi vani» di aumentare... Per questo gli scribi ed i farisei ci guadagnano a tener nemici di tal fatta: dovevano valere qualche cosa per il solo fatto di essere aborriti in modo tanto incivile. Ipocrisia: questo sarebbe un rimprovero che «i cristiani primitivi» «oserebbero» fare. In fin dei conti essi erano i «privilegiati»; ciò è sufficiente; l’odio di Tschândâla non ha bisogno di altri motivi. Tanto il «cristiano primitivo» che — come temo — «l’ultimo cristiano», «forse vivrò il tempo sufficiente per vederlo», si rivolge, nei suoi bassi istinti contro tutto ciò che è privilegio; vive, combatte sempre per i «diritti uguali...» Considerandolo più ponderatamente, non ha elezione. Quando uno vuol essere «eletto di Dio» - oppure «tempio di Dio», ovvero «giudice degli angeli», — qualsiasi «altro» principio di elezione, per esempio, la rettitudine, lo spirito, la virilità, l’orgoglio, la libertà e la bontà del cuore, si muta nel «mondo»: il «male» in sè... Moralità: ogni parola in bocca al «cristiano primitivo» è una menzogna, ogni suo atto, una falsità [p. 54 modifica]istintiva; tutti i suoi valori, tutti i suoi fini sono vergognosi, perciò «tutto ciò che è odiato da esso, tutti «quelli» che da esso sono aborriti, «guadagnano di valore...» Il cristiano, il sacerdote cristiano specialmente, è un «criterium per il valore delle cose». E’ necessario anche che dica come nel Nuovo Testamento non c’è che «una sola» figura che bisogna stimare? Pilato, il governatore romano, non poteva decidersi a prendere sul «serio» una querela di giudei; un giudeo di più, uno di meno, che importa? La nobile ironia di un romano davanti al quale si è fatto un imprudente abuso della parola «verità» ha arricchito il Nuovo Testamento dell’unica parola che «abbia valore», che è la sua critica, il suo «annientamento».


XLVII.


Non tendere a trovare Dio nè nella storia, nè nella natura, nè al di là della natura; non è questo che ci divide: è, invece, il non provare il sentimento del rispetto divino verso ciò che è onorato come Dio, il trovare questo, lamentevole, assurdo, nocivo, il vedere in esso non solo un errore, ma un «attentato alla vita». Neghiamo Dio in quanto è Dio... Se ci si «dimostrasse» questo Dio dei cristiani, crederemmo ancora di meno in esso. Nella formula, «deus qualem Paulus creavit, dei negatio». Una religione come il cristianesimo, che non tocca la realtà in nessun punto, e che vien meno non appena che la realtà entra per un lato qualsiasi nella sfera dei suoi diritti, una religione tale sarà, di diritto, il nemico mortale della «sapienza del mondo», voglio dire, della «scienza»; essa tenterà tutti i mezzi per avvelenare, calunniare, «svalutare» la disciplina dello spirito, la purezza e la severità nei fatti di coscienza dello spirito, la nobile freddezza, la nobile libertà dello spirito. La fede, in quanto è imperativo, è il «veto» contro la scienza; «in praxi» la menzogna ad ogni costo... San Paolo «comprese» che la menzogna — che la «fede» — era necessaria; e la Chiesa piú tardi «comprese» San Paolo. Questo «Dio» che San Paolo si è inventato, un Dio che «riduce al nulla» la «sapienza del mondo» (in un senso più stretto i due massimi avversarii di ogni superstizione, la filologia e la medicina) non è altro in realtà che la «decisione», presa da San Paolo, di chiamar «Dio» la propria volontà, [p. 55 modifica]«thora», ciò è arcigiudeo. San Paolo venne a ridurre al nulla la «sapienza del mondo»; i suoi nemici sono i «buoni» filologi, e i medici della scuola alessandrina; ad essi fa la guerra. Effettivamente non si può esser filologo e medico senza essere nello stesso tempo «anticristiano». Gli è che come filologo si guarda «a traverso» ai «libri santi», come medico «a traverso» alla decrepitezza fisiologica del cristiano tipico. Il medico dice: «incurabile», il filologo: «ciarlatanismo...»


XLVIII.


Si è ben capita la celebre storia che si trova al principio della Bibbia, la storia del panico di Dio davanti alla «scienza»? Non la si è capita. Questo libro di sacerdote «par excellence», comincia, come è giusto, con la gran difficoltà interiore del sacerdote: per «esso» non esiste che un solo gran pericolo, quindi per «Dio» non vi è che un solo grande pericolo.

Il Dio antico, interamente «spirito», interamente gran sacerdote, perfezione ultima, passeggia nel suo giardino; tuttavia si annoia. Gli dei medesimi lottano invano col tedio. Che fa? Inventa l’uomo, l’uomo è divertente. Ma, ahimè! anche l’uomo si annoia. La pietà di Dio per l’unica pena, che è la proprietà di tutti i paradisi, non ha limiti: allora creò anche altri animali. «Primo» errore di Dio: l’uomo pure seppe divertirsi con gli animali, regnò su di essi, e non volle essere «animale». Dio, poi, creò la donna. E effettivamente finì la noia, ma anche molte altre cose! La donna fu il «secondo» errore di Dio. La donna è per essenza, serpente, «Hera», questo è ciò che sa ogni sacerdote: «per colpa della donna viene «tutto» il male al mondo», questo è ciò che sa parimenti ogni sacerdote. «Dunque la scienza viene anche da essa...» La donna ha fatto mangiare all’uomo il frutto dell’albero della scienza. E che accade? L’antico Dio fu preso da panico. Anche l’uomo venne ad essere il suo «maggiore» errore; si era creato un rivale; la scienza rende «uguali a Dio»; addio sacerdoti ed uomini se l’uomo giunge ad essere scientifico! Moralità: la scienza è la cosa proibita in sè, solo essa è proibita. La scienza è il primo peccato, il germe di ogni peccato, il peccato originale. «La morale è solo questa» : «Tu non [p. 56 modifica]conoscerai nulla»; il resto si deduce da questo. Il panico non impedisce a Dio di esser «astuto». Come «difendersi» contro la scienza? Questo fu per molto tempo il suo gran problema. Risposta: Esce l’uomo dal paradiso! La felicità, l’ozio suscitano i pensieri; tutti i pensieri sono cattivi pensieri... L’uomo non «deve» pensare. E il «sacerdote in sè» inventa la pena, la morte, il pericolo mortale del dubbio, ogni sorta di miserie, la vecchiaia, l’inquietudine, e primo d’ogni altra cosa l’«infermità»; null’altro che mezzi di lotta contro la scienza. La miseria non permette all’uomo di pensare... oh spavento! Ma malgrado tutto, l’edificio della conoscenza si eleva gigantesco, scalando il cielo, dando il segnale del crepuscolo degli dei. Che fare? Il Dio antico inventa la «guerra», divide i popoli, fa che gli uomini si annientino reciprocamente (i sacerdoti hanno sempre avuto bisogno della guerra...) La guerra è, tra le altre cose, un perturbamento per la scienza. Incredibile! La conoscenza, l’«emancipazione dal giogo sacerdotale», aumentano malgrado le guerre. Ed il Dio antico si appiglia ad un estremo partito! «L’uomo si è fatto scientifico; ciò non serve a nulla, bisogna spegnerlo...»


XLIX.


Mi si sarà compreso. Il principio della Bibbia contiene «tutta» la psicologia del sacerdote. Il sacerdote non conosce che un solo grave pericolo: la scienza, la nozione sana di causa e di effetto. Ma la scienza non prospera in generale che al calore delle buone condizioni; è necessario disporre di tempo, è necessario aver spirito «d’avanzo» per «conoscere...» «Quindi è necessario render l’uomo disgraziato»: — questa fu in ogni tempo la logica del sacerdote. — Si indovina quello che, in conformità di questa logica, è penetrato nel mondo: il «peccato... » l’idea di colpevolezza e di castigo, tutto l’«ordine morale» sono stati inventati «contro» la scienza, «contro» la liberazione dell’uomo dalle mani del sacerdote... L’uomo «non» deve uscire di sè, deve guardare in sè stesso; non deve veder le cose con ragione e prudenza, come un apprendista, non deve vedere assolutamente nulla: deve «soffrire...» E «deve» soffrire in modo che [p. 57 modifica]abbia sempre bisogno del sacerdote. — Abbasso i medici! «Un Salvatore è quel che manca». — L’idea di fallo e di castigo, compresa in essa la dottrina della «grazia», della «salvazione», del «perdono» — menzogne senza alcuna realtà psicologica, — sono state inventate per distruggere nell’uomo il «senso delle cause»: sono l’attentato contro l’idea di causa ed effetto. E questo «non» è un attentato col pugno, col coltello, con la franchezza nell’odio e nell’amore! No, chè procede dagli istinti più vili, più perfidi, più bassi. «Attentati» di sacerdoti! Attentati di «parassiti!» Il vampirismo di sanguisughe pallide e sotterranee!... Se le conseguenze naturali di un atto non sono naturali, se non si immaginano provocate dai fantasmi della superstizione, da «Dio», «spirito», «anime», come conseguenze puramente «morali», come ricompensa, pena, avvertimento, mezzo di educazione, — gli è che la condizione prima della conoscenza è distrutta; «gli è che si è commesso il più grave delitto contro l’umanità.» Il peccato, diciamolo ancora una volta, questa forma di polluzione dell’umanità «par excellence», è stato inventato per rendere impossibile la scienza, la coltura, ogni elevazione ed ogni nobiltà dell’uomo; il sacerdote «regna» per l’invenzione del peccato.


L.


Non posso qui trascurare una psicologia della «fede» e dei «credenti» a favore dei «credenti» medesimi. Se c’è ancora qualcuno che ignora fino a qual punto è «indecoroso» esser «credente» — «ovvero» quale sintomo sia di «décadence» enorme e di volontà priva di vita — lo saprà domani. La mia voce raggiunge fin quelli che odono male. Sembra esistere tra i cristiani, se ho ben compreso, una specie di criterio di verità che si chiama «prova di forza». «La fede salva; quindi è vera». Si potrebbe obbiettare subito che la salvazione che deve venire non è dimostrata, ma solamente «promessa»: la salvazione è legata alla condizione di «fede»; si «deve» esser salvo poichè si crede... Ma come dimostrare ciò che il sacerdote promette al credente, questo «al di là» che sfugge ad ogni prova? La pretesa «prova di forza» non è in fondo altro che una credenza nella realizzazione di ciò che promette la fede. In formula: «Credo che la [p. 58 modifica]fede salva! «dunque» è «vera». Ma ciò non ci conduce al fine. Questo «dunque» sarebbe l’assurdo stesso, trasformato in criterio di verità. Ammettiamo tuttavia, con un po’ di deferenza, che la salvazione che deve venire sia dimostrata dalla fede («non» solo desiderata, «non» solo promessa dalla bocca sospetta del sacerdote.) La salvazione — per parlare più tecnicamente, il «piacere» — sarebbe ora una prova della verità? Sarebbe tale, tanto poco che quasi produrrebbe un’antitesi, ed in ogni caso il maggior sospetto, rispetto alla «verità» quando le sensazioni di piacere si mettono a rispondere alla domanda: «che cosa è vero?» La prova del «piacere» è una prova «di» «piacere», nulla più; come si potrebbe sapere che i giudizii «veri» causano maggior piacere dei giudizii falsi, e che secondo un’armonia prestabilita, apportano necessariamente sensazioni di piacere? L’esperienza di tutti gli spiriti seri e profondi insegna l’«opposto». E’ stato necessario conquistare a viva forza ogni briciola di verità, è stato necessario sacrificare quasi tutto ciò che avevamo a cuore, tutto quello a cui si riduceva il nostro amore e la nostra fiducia nella vita. Bisogna aver grandezza d’animo per questo: il servizio della verità è il silenzio più duro. Che cosa è, infatti, esser leale nelle cose dello spirito? Esser severo col proprio cuore, disprezzare i «buoni sentimenti»: farsi un caso di coscienza di ogni «» e di ogni «no...» La fede salva: «dunque» mente....


LI.


Che la fede salva in qualche caso, che la beatitudine non fa, intanto, di un’idea fissa un’idea «vera», che la fede non trasporta i monti, ma che li «pone» molte volte dove non ve n’è, di tutto ciò, darà una prova sufficiente, una rapida visita ad una «casa di alienati». Tuttavia non ad un sacerdote; perchè costui nega per istinto che l’infermità sia infermità, che il manicomio sia manicomio. Il Cristianesimo ha «bisogno» dell’infermità, approssimativamente allo stesso modo che l’ellenismo ha bisogno di un eccesso di salute. «Rendere» infermo, questo è il vero pensiero occulto di tutto il sistema redentore della Chiesa. E la Chiesa medesima non è il manicomio cattolico come ultimo ideale? Tutta la [p. 59 modifica]terra un manicomio? L’uomo religioso tale quale lo vuole la Chiesa è un «décadent» tipico; l’epoca in cui una crisi religiosa si impossessa di un popolo, è caratterizzata sempre da un’epidemia di malattie nervose; il «mondo interiore» di un uomo religioso somiglia, fino al punto di poterli confondere, al «mondo interiore di un uomo sovreccitato e spossato; gli stati «superiori», che il cristianesimo ha posto al di sopra dell’umanità, come valore di tutti i valori, sono forme epilettoidi; la Chiesa non ha canonizzato che dementi o grandi impostori «in majorem dei honorem»... Mi sia permesso, una volta tanto, di considerare tutto il «training» della felicità e della salvazione cristiane (che oggi si studia in Inghilterra, meglio che in qualsiasi altro luogo), come una «follia circolare» prodotta metodicamente, sopra un terreno già profondamente morboso, preparato anticipatamente. Nessuno ha la libera scelta di farsi cristiano: nessuno è «convertito» al cristianesimo, è necessario essere abbastanza infermo, per esso... Noi che possediamo il «valore» della salute ed anche del disprezzo, quanto diritto abbiamo a disprezzare una religione che insegnò ad ingannarsi sul conto del corpo; che non vuol disfarsi della superstizione dell’anima; che si fa un «merito» dell’insufficienza d’alimento! che, nella salute, combatte una specie di nemico, di demonio, di tentazione! che aveva persuaso sè stessa a credere che è possibile avere un «anima perfetta», in un corpo mortale, e che ha avuto anche il bisogno di crearsi un’idea nuova della «perfezione», un essere pallido, infermiccio, fanatico fino all’idiotismo, la così detta «santità», la santità che non è di per sè stessa che la serie di sintomi di un corpo impoverito, snervato, corrotto irreparabilmente!... Il movimento cristiano, come movimento europeo, fu creato fin dal principio dall’accumulazione degli elementi di disfacimento e di discredito di tutte le classi (questi sono quelli che cercano il potere nel cristianesimo). «Non» esprime la degenerazione di una razza, ma è una conglomerazione ed un aggregato delle forme di «décadence», provenienti d’ogni parte, accumulate e che si cercano reciprocamente. «Non» è, come si crede, la corruzione della stessa antichità, dell’antichità «nobile», quella che rese possibile il cristianesimo. Non si può con bastevole violenza combattere l’idiotismo erudito che ancora oggi [p. 60 modifica]sostiene un fatto simile. Nell’epoca in cui le menti di Tschândâla, inferme e pervertite, si cristianizzarono in tutto l’Impero Romano, il «tipo contrario», la distinzione esisteva precisamente nella sua forma più bella e più matura. La maggioranza si fece padrona: il democratismo degli istinti cristiani uscì «vittorioso». Il cristianesimo non era «nazionale», non era sottomesso alle condizioni di una razza, si rivolgeva a tutte le varietà dei diseredati della vita, aveva dovunque i suoi alleati. Il Cristianesimo ha diretto il «rancune» dei malati «contro» i sani, «contro» la salute. Tutto quanto era ben fatto, orgoglioso, superbo, la bellezza prima di tutto, gli dà fastidio agli orecchi ed agli occhi. Ricordo ancora una volta le inapprezzabili parole di San Paolo: «Dio ha scelto ciò che è «debole» davanti al mondo, ciò che è «incensato» davanti al mondo, ciò che è «ignobile» e «spregevole»: questo servì di formula, «in hoc signo» vinse la «décadence». «Dio nella croce?» non si capisce ancora il terribile pensiero dissimulato che c’è dietro questo simbolo? Tutto ciò che soffre, che è sospeso alla croce è «divino». Noi tutti siamo sospesi sulla croce, dunque siamo divini... Noi soli siamo divini... Il cristianesimo fu una vittoria: un’opinione più «distinta» morì per opera sua; il cristianesimo fu fino ad oggi la più grande disgrazia dell’umanità.


LII.


Il cristianesimo si trova anche in contraddizione con ogni buona costituzione «intellettuale»; può solo servirsi della ragione malata come la ragione cristiana, si interessa di tutto ciò che manca d’intelligenza e scaglia l’anatema contro lo spirito, contro la «superbia» dello spirito sano. Poichè l’infermità forma parte dell’essenza del cristianesimo, è anche necessario che lo stato tipico cristiano, la «fede», sia una forma morbosa; è «necessario» che tutti i cammini diritti, legittimi, scientifici che conducono alla conoscenza, siano ripudiati dalla Chiesa, come cammini «proibiti». Il dubbio è già un «peccato»... La mancanza assoluta di chiarezza psicologica nel sacerdote — che si rileva a prima vista — è una conseguenza della «décadence»; si osservino da una parte le donne isteriche e dall’altra i bimbi rachitici, e si vedrà [p. 61 modifica]regolarmente che la falsità per istinto, il piacere di mentire per mentire, la incapacità di guardare e di procedere diritto, sono sintomi di «décadence». La «fede» è «voler» ignorare ciò che è verità. Il pietista, il sacerdote di ambo i sessi, è falso «perchè» è malato: il suo istinto «esige» che la verità non tocchi in nessuna parte i suoi diritti. «Ciò che rende malati è «buono»; ciò che deriva dalla pienezza, dalla sovrabbondanza, dal potere, è «cattivo»: così pensa un credente. Io credo i teologi essere predestinati alla loro «schiavitù della menzogna». Altro segno caratteristico dei teologi è la loro «incapacità filologica». Io intendo qui per filologia, in senso generale, l’arte del legger bene, del saper distinguere i fatti, senza falsarli con interpretazioni, «senza» perdere, nel desiderio di comprendere, la precauzione, la pazienza e la delicatezza: la filologia come «efexis» nella interpretazione: trattisi di un libro o di notizie di periodici, di destini o di fatti meteorologici, per non parlare della «salvazione dell’anima»... Il modo con cui un teologo, a Berlino come a Roma, spiega una «parola della Bibbia», o un avvenimento qualsiasi, per esempio, la vittoria dell’esercito nazionale, sotto la luce sublime dei salmi di David, è sempre «ardito» sì da far impazientire i filologhi. E come si pacificheranno, quando i pietisti e altre vacche di Svevia fanno della loro miserabile esistenza quotidianamente sedentaria, una manifestazione del «Dito di Dio», un miracolo della «grazia», della «provvidenza», della «misericordia divina»! Il minimo sforzo di spirito, per non dire di «decenza» dovrebbe convincere questi interpreti, della puerilità e indegnità di tale abuso dell’abilità divina. Avendo solo una piccolissima dose di pietà, dovrebbe sopprimersi, se esistesse, un Dio così assurdo, che cura a tempo un costipato, o che ci fa entrare in carrozza nel momento in cui comincia a piovere a catinelle. Questo Dio che fa da servo, da portalettere, da merciaio, non è altro in fondo che l’espressione del più stupido dei casi... La «Provvidenza divina», come anche oggi l’ammette la terza parte dei cittadini della «Germania colta» sarebbe un argomento tale, contro Dio, che non potrebbe immaginarsene un altro più potente ed in ogni caso è un argomento contro i Tedeschi!...

[p. 62 modifica]

LIII.


E’ tanto poco vero che un «martire» possa dimostrare la verità di una cosa, che vorrei affermare che un martire non ha mai avuto nulla da vedere con la verità. Nel tono con cui un martire lancia in faccia al mondo la sua convinzione, è espresso un grado tanto infimo di onestà intellettuale, una incapacità tale a risolvere la questione della «verità», che non c'è mai bisogno di confutare un martire. La verità non è una cosa che alcuni possiedono e altri no: vi sono soltanto i campagnuoli e gli Apostoli dei campagnuoli, della specie di Lutero, che possono pensare così della verità. Si può esser certi che, secondo il grado di coscienza nelle cose dello spirito, la «modestia» in questo punto si farà sempre più grande. Essere «competente» in cinque o sei cose, e rifiutare con mano leggera il saper le altre... La «verità», come la intendono tutti i profeti, i settari, i liberi pensatori, i socialisti e gli uomini di Chiesa, è una prova assoluta che non si è ancora fatto un passo nella educazione dello spirito, e nella vittoria sopra sè stessi, necessarie per trovare una verità anche delle più piccole. La morte dei martiri, sia detto di passaggio, è stata una gran disgrazia nella storia: ha «sedotto»... Dedurre come fanno tutti i deboli di spirito, compresi le donne ed il popolo, che una causa che può condurre al martirio, (ovvero che provoca un’epidema di sacrifici come il cristianesimo primitivo) abbia qualche valore, dedurre in questa maniera impedisce il libero esame, paralizza lo spirito d’esame e di precauzione. I martiri «hanno pregiudicato» la verità... Ancora oggi non abbisogna che una certa crudeltà nella persecuzione per attribuire a qualsiasi settario una onorevole reputazione. Come! può una causa guadagnare in valore se qualcuno le sacrifica la propria vita? Un errore che giunge ad essere onorevole è un errore che ha un incanto di seduzione di più. Credete, signori teologi, che vi daremo occasione di far la parte di martiri delle vostre menzogne?

Si confuta una cosa dimostrando i punti deboli con attenzione; così è che si confutano anche i teologi... La scempiaggine storica di tutti i persecutori fu sempre quella di dare alla causa avversa le apparenze dell’onore, di destare la fascinazione del martirio... La monaca ancor [p. 63 modifica]oggi cade in ginocchio davanti ad un errore, perchè le si è detto che uno morì sulla croce per quell’errore. «E’ dunque un argomento la croce?» Ma sopra tutto ciò, uno solo ha pronunziato la parola che sarebbe stata necessaria da migliaia d’anni, «Zarathustra».

Tacciarono orme di sangue sulla via che percorsero, e la pazzia insegnava che col sangue si attesta la verità.

Ma il sangue è il peggior testimone della verità; il sangue avvelena la più pura dottrina e la trasforma in follia ed in odio dei cuori.

E anche quando alcuno si getta nel fuoco per la sua dottrina, che prova ciò? E’ più vero che dal proprio incendio sorge la propria dottrina.


LIV.


Non bisogna lasciarsi trasportare: i grandi spiriti sono scettici. Zarathustra è uno scettico. La forza e la «libertà» nate dal vigore e dalla pienezza dello spirito, si dimostrano collo scetticismo. Gli uomini di convinzione non entrano affatto in tutto ciò che riguarda il principio di valore o di non valore. Le convinzioni sono carceri. Non vedono abbastanza lontano, e non vedono al di «sotto» di esse: ma per poter parlare di valore e di non valore, bisogna vedere cinquecento convinzioni al «disotto» di sè... Uno spirito che vuole qualche cosa di grande, che vuole anche i mezzi per raggiungerlo, è necessariamente uno scettico. L’indipendenza da ogni sorta di convinzione fa parte della forza, «saper» guardare liberamente... La gran passione dello scettico, il fondo e la potenza del suo essere, per illustre e anche dispotico che sia, mette tutta la sua intelligenza al suo servizio; allontana da esso ogni incertezza; gli dà valore fin con i mezzi empi e gli «permette» convinzioni in certe date circostanze. La convinzione in quanto serve di «mezzo»: esistono molte cose che non si raggiungono che per mezzo di una convinzione. La gran passione ha bisogno di convinzioni, fa uso delle convinzioni, ma non si sottomette ad esse — si sente sovrana. — Al contrario, la necessità della fede, di qualche cosa che non dipende dal sì e dal no, il «carlylismo», se mi si permette la parola, è una necessità della debolezza». L’uomo di fede, il «credente» d’ogni specie, è [p. 64 modifica]necessariamente un uomo dipendente, un qualcuno che non si considera come fine, che non può determinare dei fini. Il «credente» non si appartiene, non può essere altro che mezzo, deve esser «adoperato», ha bisogno di qualcuno che lo adoperi. Il mio istinto professa il massimo omaggio a una morale di sacrificio: tutto lo persuade di questa morale: la sua prudenza, la sua esperienza, la sua vanità. Ogni sorta di fede è per sè stessa un'espressione di sacrificio, di allontanamento da sè... Se si considera, quanto è necessario per la maggior parte della gente un regolatore che li leghi e li immobilizzi dall’esterno, se si consideri che l’oppressione o, in un senso più elevato, la «schiavitù» è l’unica ed estrema condizione che permette di prosperare agli uomini di debole volontà e specialmente alla donna, si comprenderà anche la convinzione, la «fede». L’uomo di convinzione ha la sua spina dorsale nella fede. «Non» veder certe cose, non essere indipendente in nessun punto, esser sempre di un «partito», avere in tutte le occasioni un’ottica severa e necessaria — questo spiega il perchè, in generale, esiste una tale classe di uomini. Però questo fa sì che sia il contrario, «l’antagonista» della veracità, della verità... Il credente non ha la libertà di possedere una coscienza per la questione del «vero» e del «falso»; «qui» la probità sarebbe perdizione. La dipendenza patologica della sua ottica fa del convinto un fanatico — Savonarola, Lutero, Rousseau, Robespierre, Saint-Simon — il tipo opposto degli spiriti forti ed emancipati. Però le grandi attitudini di questi spiriti «malati», di questi epilettici delle idee, operano sulle grandi masse: i fanatici sono pittoreschi, ed all’umanità piace di più veder atteggiamenti che udire «ragioni»...


LV.


Un passo ancora nella psicologia della convinzione, della «fede». E’ già molto tempo che feci notare come le convinzioni sono a volte nemici più pericolosi delle menzogne per la verità. («Umano, troppo umano», 71, 54 e 483) Qui vorrei porre la questione definitiva: Esiste in una maniera generale un’antitesi tra la menzogna e la convinzione? Tutti lo credono, ma che cosa è che non credono tutti! Ogni convinzione ha la sua storia, le sue forme [p. 65 modifica]primitive, i suoi tentativi ed i suoi errori: si «fa» convinzione dopo di non esser stata tale per molto tempo e senza che possa continuare ad esser tale. Come sotto questa forma embrionale della convinzione non potrebbe esserci una menzogna? — Qualche volta è soltanto necessario un mutamento di persone: pel figlio diventa convinzione ciò che per il padre era una menzogna. — Chiamo menzogna il negarsi a veder certe cose che si vedono, il negarsi a veder qualche cosa come si vede: poco importa se la menzogna ha avuto luogo davanti a testimoni o no. La menzogna più frequente è quella che ciascuno fa a sè stesso; mentire agli altri è un caso relativamente eccezionale. Però «non» voler vedere ciò che si vede, non voler vedere «come si vede», è quasi la condizione primordiale di tutti quelli che appartengono a questo o a quel «partito:» l’uomo di partito è necessariamente impostore.

Gli storici tedeschi, per esempio, sono persuasi che l’Impero romano era il dispotismo; che i germanici hanno introdotto lo spirito di libertà nel mondo. Che differenza c’è tra questa convinzione ed una menzogna? Può uno meravigliarsi ancora del fatto che tutti i partiti, per istinto, comprendendo tra essi gli storici tedeschi, si servono delle grandi parole della morale, che «continua ad essere» la morale, quasi solo perchè l’uomo di partito ha bisogno di essa ad ogni istante? «Questo è la «nostra» convinzione; la riconosciamo avanti ad ogni altra cosa al mondo; viviamo e moriamo per essa; che sia anzitutto rispettato chi ha convinzioni!» Questo è ciò che ho udito, fin dalle labbra degli antisemiti. Al contrario, signori, mentendo per principio, un antisemita non diventa più decente... I sacerdoti che in questa specie di questione sono più astuti, e che comprendono perfettamente la contraddizione che racchiude l’idea di una convinzione, cioè, di un’abito a mentire per principio, perchè tende ad un fine, ha preso dai giudei la prudenza di introdurre, in questo caso, l’idea di «Dio», di volontà di «Dio, di «rivelazione divina». Anche Kant col suo imperativo categorico si trovava sulla stessa via: allora, la sua ragione si fece «pratica». «Vi sono» questioni nelle quali l’uomo non può decidere sul vero e sul falso; tutte le questioni superiori, tutti i problemi di valore superiore, si trovano al disopra della ragione umana... Comprendere i [p. 66 modifica]limiti della ragione, questa è unicamente la vera filosofia... Con quale obbietto «Dio» diede all’uomo la rivelazione? Come avrebbe fatto Dio qualche cosa di superfluo? L’uomo «può» sapere di per sè stesso ciò che è buono o cattivo, per questo è che Dio gli insegna la sua volontà... Moralità: il «sacerdote» « non » mente, — la questione del «vero» e del «falso» non esiste nelle cose di cui parlano i sacerdoti; queste cose non permettono in nessun modo di mentire. Perchè, per mentire, sarebbe necessario poter dire «ciò» che è vero in questo caso. Però questo è precisamente ciò che l’uomo non «può»; ed è per questa ragione che il sacerdote è il portavoce di Dio. Un simile sillogismo da sacerdote non è in assoluto, soltanto giudeo e cristiano; il diritto alla menzogna e la «prudenza» della «rivelazione» appartiene al tipo del sacerdote, ai sacerdoti decadenti come ai pagani (pagani son tutti quelli che affermano la vita, per i quali «Dio» è la grande espressione dell’affermazione di tutte le cose). La «legge», la «volontà di Dio», il «libro sacro», la «ispirazione» — parole che non designavano altro che le condizioni sotto cui il sacerdote arriva al potere — queste idee si trovano in fondo a tutte le organizzazioni sacerdotali, a tutti i governi ecclesiastici o filosofo-ecclesiastici. La «santa menzogna» — comune a Confucio, al codice di Manù, a Maometto e alla Chiesa cristiana: — questa menzogna non manca in Platone. «La verità è qui»: ciò significa dovunque, «il sacerdote mente»...


LVI.


In fine, importa sapere con quale «obbietto» si mente. Io getto in faccia al cristianesimo la sua mancanza di fini «sacri». Non vi sono che fini cattivi: avvelenamento, calunnia, negazione della vita, disprezzo del corpo, degradazione ed avvilimento dell’uomo per mezzo dell’idea; «per conseguenza» i suoi fini sono cattivi. Con opposto sentimento leggo il codice di «Manù», il libro incomparabilmente spirituale e superiore; il «nominarlo» insieme alla Bibbia sarebbe un peccato contro lo «spirito». S’indovina subito; c’è una filosofia vera dietro questo libro, e non solo un miscuglio nauseabondo di rabbinismo e superstizione. Offre qualche cosa anche ai psicologi più delicati. Non dimentichiamo l’essenziale; ciò che [p. 67 modifica]lo differenzia da ogni specie di Bibbia è che le caste «nobili», i filosofi ed i guerrieri, si servono di esso per dominare la moltitudine; da pertutto valori nobili, un senso di perfezione, un’affermazione di vita, un benessere trionfale in sè e nella vita; il «sole» risplende sopra tutto il libro. Tutte le cose che il cristianesimo copre con la sua inesauribile volgarità, per esempio: il concepimento, la donna, il matrimonio, acquistano in esso serietà e son trattati con rispetto, con amore e confidenza. Come si può porre in mano ai fanciulli ed alle donne un libro che contiene queste parole abbiette: «per evitare l’impudicizia, che ognuno abbia la propria donna e che ogni donna abbia il proprio marito... perchè val meglio maritarsi che arder d’amore»? E si ha il diritto di esser cristiano mentre la creazione degli uomini rimane cristianizzata, cioè, «macchiata» dall’idea della «immaculata conceptio»... Non conosco nessun libro in cui si dicano alla donna tante cose dolci e buone, come nella legge di Manù: quei vegliardi e quei santi avevano una maniera di essere amabili con le donne che forse non è stata mai superata in seguito. «La bocca di una donna — è scritto in esso — il seno di una donzella, l’orazione di un fanciullo, il fumo del sacrificio sono sempre puri.» In un altro passo: «Nulla v’è di più puro della luce del sole, dell’ombra di una vacca, dell’aria, dell’acqua, del fuoco e dell’alito di una donzella.» Citeremo quest’ultimo passo — e sia pure una santa menzogna: — «Tutte le aperture del corpo al disopra dell’ombelico sono pure, tutte quelle che stanno al disotto sono impure; ma nella donzella tutto il corpo è puro.»


LVII.


Si sorprende «in flagrante» delitto la «irreligiosità» dei mezzi cristiani, se si paragonano i «fini cristiani» con i fini della legge di Manù, se si rischiara con luce molto viva la gran contraddizione di questi due fini. La critica del cristianesimo non può esimersi dal presentarlo «disprezzabile». Una legge come quella di Manù, si elabora come tutti i buoni codici: riassume la pratica, la prudenza e la morale sperimentale di alcune migliaia di anni, conclude e non crea niente di più. La prima condizione per una codificazione di tal natura, la convinzione [p. 68 modifica]che i mezzi per dare autorità ad una «verità» lentamente e difficilmente acquisita, sono molto differenti da quelli coi quali si avrebbe la dimostrazione di questa verità. Un codice non espone mai nella sua prefazione l’utilità, la ragione, la casistica delle sue leggi; ciò gli farebbe perdere il tono imperativo, il «tu devi», prima condizione per farsi ubbidire. Proprio qui sta il problema. Ad un certo punto dello sviluppo di un popolo, il suo libro più avveduto, quello che meglio percepisce il passato e l’avvenire, dichiara di stabilire la pratica secondo la quale si deve vivere, ossia secondo la quale si «può» vivere. Il suo fine è di raccogliere, quanto copiosamente e completamente è possibile, le esperienze delle cattive epoche. Ciò che si deve, dunque, evitare allora principalmente, è la continuazione delie esperienze, il proseguire «in infinitum» lo stato instabile dello studio, dell’esame, della scelta, della critica dei valori. Si oppone a questo sistema un doppio ostacolo, da una parte la rivelazione, cioè, l’affermazione del fatto che la ragione di queste leggi non è di origine umana, che non è stata cercata e trovata lentamente, con errori, ma che è di origine divina, intera, perfetta, senza storia, che è un dono, un miracolo, che è stata semplicemente riferita... Dall’altra parte la «tradizione», cioè, l’affermazione del fatto che la legge esiste da tempo immemorabile e che porre questo in dubbio sarebbe una mancanza di rispetto, un delitto contro gli antenati. L’autorità della legge è fondata sopra queste due tesi: Dio l’ha data, gli antichi l’hanno «vissuta». La ragione suprema di questo procedimento si rivela nell’intenzione di allontanare a poco a poco la coscienza dalla vita, nella quale si è riconosciuta l’obbligazione (cioè, dimostrata con un’esperienza enorme e accuratamente vagliata); così è che si ottiene il completo automatismo dell’istinto — condizione prima di ogni abilità, di ogni perfezione nell’arte della vita. Compilare un codice a guisa di quello di Manù, significa d’allora in poi concedere ad un popolo il diritto di esser maestro, di farsi perfetto — di ambire all’arte più sublime della vita. Per ottener questo è necessario renderlo incosciente; questo è il fine di tutte le sante menzogne.

L’«ordine delle caste», la legge suprema e dominante, non è che la sanzione di un «ordine naturale», di una legge naturale di prim’ordine, sulla quale non ha potere [p. 69 modifica]nessuna volontà arbitraria, nessuna «idea moderna». In ogni società sana si distinguono tre tipi psicologici, che gravitano differentemente, perchè si trovano reciprocamente soggetti, avendo ognuno la sua propria igiene, il suo proprio campo di lavoro, il suo proprio sentimento di perfezione e di abilità. La natura e «non» Manù è che divide gli uomini che hanno superiorità intellettuale, quelli che hanno superiorità muscolare e carattere forte, e quelli che non si distinguono per nessuna superiorità, i terzi, i mediocri; gli ultimi costituiscono la maggioranza, i primi sono gli eletti. La casta superiore, che è la «minoranza», essendo la più perfetta, possiede anche i diritti della minoranza: è necessario, dunque, che rappresenti la felicità, la bellezza e la bontà sulla terra. Solo gli uomini più intellettuali hanno diritto alla bellezza, all’aspirazione al bello, tra essi soltanto la bontà non è debolezza. «Pulcrum est paucorum hominum»: il buono è un privilegio. Nulla è loro meno permesso quanto i modi turpi, lo sguardo pessimista, gli occhi «sfigurati»; neppure l’indignazione è la prerogativa della Tschândâla, come il pessimismo. «Il mondo è perfetto — così parla l’istinto dei più intellettuali, l’istinto affermativo: — l’imperfezione, tutto ciò che sta al disotto di noi, la distanza, il «pathos» della distanza, della stessa Tschândâla, fa anche parte di questa perfezione.» Gli intellettuali, essendo i «più forti» trovano la loro felicità là dove gli altri morrebbero: nel labirinto, nella durezza verso sè stessi e verso gli altri, nella tentazione; il loro godimento sta nel vincere sè stessi: tra essi l’ascetismo si considera natura, necessità, istinto. Il compito difficile è dell’intellettuale: trattenersi con carichi che stancano gli altri gli serve di «riposo»... La conoscenza è una delle forme dell’ascetismo. Compongono la più onorevole classe degli uomini: ma ciò non impedisce che a volte sia la più allegra e la più amabile. Comandano, non perchè essi vogliano dominare, ma perchè «sono»; non hanno la libertà di secondi. I «secondi» sono i custodi del diritto, gli amministratori dell’ordine e della sicurezza, sono i nobili guerrieri, sopra tutti «il re», la formula suprema del guerriero, del giudice, del sostegno della legge. I secondi sono l’elemento esecutivo degli intellettuali, quello che è loro prossimo, quello che loro appartiene, quello che loro libera da tutto quanto v’è di «grossolano» nel [p. 70 modifica]lavoro di regnare — il loro seguito, la loro mano dritta, i loro migliori discepoli. — In tutto questo, diciamolo ancora una volta, non c’è nulla di arbitrario, nulla di «fittizio»; l’«opposto», questo è artificiale; è allora che la natura è stata distrutta... L’ordine di Caste, la «divisione dei ranghi», non formulano che le regole supreme della vita medesima: la divisione dei tre tipi è necessaria per conservare la società, per render possibili i tipi superiori e supremi — la «disuguaglianza» dei diritti è la prima condizione per l’esistenza dei diritti. — Un diritto è un privilegio. Nel suo modo di essere ognuno trova anche il suo privilegio. Non stimiamo troppo bassi i privilegi dei «mediocri». A misura che la vita si eleva, si presenta più dura, l’impertinente aumenta ed aumenta la responsabilità. Un’accurata coltura è una piramide: non può erigersi se non sopra una larga base, abbisogna come condizione essenziale, di una parte di mezzo sana e fortemente consolidata. L’ufficio, il commercio, l’agricoltura, la «scienza», gran parte dell’arte, in una parola, tutte le occupazioni quotidiane non possono andar d’accordo nel potere e nel volere; tali cose non sarebbero al loro posto tra gli esseri eccezionali; l’istinto necessario starebbe in contraddizione tanto con l’aristocratismo, quanto con l’anarchismo. Per essere una pubblica utilità, una ruota, una funzione, è necessario esser da lungo tempo a ciò predestinato: non è «in nessun modo» la società, la specie di felicità accessibile alla maggioranza, ciò che fa di questa maggioranza macchine intelligenti. Per la mediocrità, essere mediocrità è una felicità; l’abilità in una sola cosa, la specializzazione è per essi un istinto naturale. Non sarebbe dunque degno di uno spirito profondo, vedere un’obbiezione nella stessa mediocrità. La mediocrità è la «prima» necessità perchè possano esistere eccezioni: da essa dipende una coltura elevata. Se l’uomo eccezionale tratta le mediocrità con più dolcezza che sè stesso ed i suoi pari, ciò non è solo un’intima cortesia; è semplicemente un «dovere».... Chi odio di più io tra la ciurma di questi tempi? La canaglia socialista, gli apostoli della Tschândâla, che rodono l’istinto, il piacere, la gioia dell’operaio di vita modesta, che rendono invidioso l’operaio, che gli insegnano la vendetta... L’ingiustizia non si trova mai nella disuguaglianza dei diritti; si trova nella pretesa a diritti «eguali» Che cosa è il «male?» Io lo [p. 71 modifica]dissi: tutto ciò che ha la fonte nella debolezza, nell’invidia, nella «vendetta». L’anarchista e il cristiano hanno la medesima origine....


LVIII.


Effettivamente, è necessario considerare a qualfine si mente: è molto differente se si fa per conservare o per «distruggere». Si può benissimo stabilire un parallelo tra il «cristiano» e l’«anarchista»: i loro fini, i loro istinti non sono che distruttori. La storia dimostra questa affermazione con esattezza spaventevole. Abbiamo già visto urna legislazione religiosa, che ha per principio «eternare» una grande organizzazione della società, condizione suprema per far «prosperare», la vita; il cristianesimo, al contrario, ha trovato la sua missione nella distribuzione di un simile organismo, «poichè la vita con esso prosperava». In quel sistema i risultati della ragione, per lunghi periodi di esperienza ed incertezza, dovevamo esser seminati per servire nelle epoche più lontane, ed il raccolto doveva essere tanto grande, abbondante e completo quanto era possibile: al contrario qui si «avvelenò» il raccolto durante la notte... Ciò che esisteva «aerre perennius», l’Impero Romano, la più grandiosa forma di organizzazione, che sotto difficili condizioni, sia stata mai realizzata, tanto grandiosa che, comparato con essa, e tutto ciò che l'ha preceduta e tutto ciò che l’ha seguita non è stato che dilettantismo, cosa imperfetta et fangosa — questi santi anarchisti han considerato una «pietà» il distruggere «il mondo», cioè l’Impero Romano, fino a non lasciare pietra su pietra — fino al punto che gli stessi Germani ed altri bruti potettero farsi padroni di esso... Il cristiano e l’anarchista sono ambedue «dècandents», ambedue incapaci da operare in maniera tale che non sia dissolvente, velenosa, debilitante, spargendo sangue; ambedue hanno per istinto un «odio a morte» contro tutto ciò che esiste, tutto ciò che è grande, tutto ciò che ha durata, tutto ciò che promette un avvenire alla vita... Il cristianesimo è stato il vampiro dell’Impero Romano, ha ridotto al nulla in una sola notte questa immane opera dei romani: aver preparato un terreno per una gran coltura «di là da venire». Non si comprende ancora? L’impero Romano che noi conosciamo, che la storia della [p. 72 modifica]provincia romana insegna sempre a meglio conoscere, questa mirabile opera d’arte di grande stile, era un principio; il suo edificio era calcolato per essere «dimostrato» da migliai d’anni. Fino ai nostri giorni non si è mai costruito a questo modo, neppure si è sognato di costruire con dimensioni simili «sub specie aeterni!» Questa organizzazione era abbastanza forte per sopportare cattivi imperatori: il fatto delle persone non deve aver influenza in simili cose: «primo» principio di ogni grande architettura. Tuttavia non fu forte abbastanza contro la specie «più corrotta» di tutte le corruzioni: contro il «cristiano»...

Questa misteriosa gentaccia che si avvicinava ad ognuno nel cuor della notte o nella caligine dei giorni foschi, che estorceva ad ognuno le cose serie in cambio delle cose «vere», dell’istinto delle «realtà», questa turba codarda e lusingatrice allontanò, man mano, le «anime» di questo enorme edificio, quelle nature preziose, virilmente nobili, che vedevano nella causa di Roma la causa loro, la loro serietà ed il loro orgoglio. La simulazione dei beati, il mistero delle conventicole, idee tetre come l’inferno, come il sacrificio degli innocenti, come l’«unio mystica» nella degustazione del sangue, e specialmente il fuoco dell’odio lentamente avvivato, l’odio degli Tschândâla, «questo» è ciò che condusse ad esser padrona di Roma la stessa specie di religione, che nella sua forma preesistente, era stata combattuta da Epicuro. Si legga Lucrezio per capire a che cosa Epicuro fece guerra; non era «in nessun modo» al paganesimo, ma al cristianesimo, voglio dire alla corruzione dell’anima per opera dell’idea di peccato, di penitenza e d’immortalità. Combattè i culti «sotterranei», tutto il cristianesimo latente — in quel tempo negare l’immortalità era già una vera «redenzione». — Ed Epicuro sarebbe uscito vittorioso; ogni spirito rispettabile dell’Impero Romano era Epicureo: «allora apparve San Paolo».

San Paolo, l’odio di Tschândâla contro Roma, contro il «mondo», fatto carne, fatto genio. San Paolo il giudeo, il giudeo errante, «par excellence»! Ciò che egli indovinò fu il modo come accendere un incendio universale con l’aiuto del piccolo movimento settario dei cristiani, al di fuori del giudaismo; come, con l’aiuto del simbolo «Dio sulla croce», poter riunire in un enorme potere tutto ciò [p. 73 modifica]che era volgare e intimamente rivoltoso, tutte le eredità degli strumenti anarchisti dell’Impero. «La salvazione viene per gli giudei». Fare del cristianesimo una formula per superare i culti sotterranei di ogni genere, quelli di Osiride, della gran Madre, e di Mitra per esempio, una formula per riassumerli, questa penetrazione costituisce il genio di San Paolo. Il suo istinto per questo era tanto sicuro, che un dispotismo senza riguardi per la verità, pose in bocca a questo «salvatore» di sua invenzione, le idee di cui si servivano quelle religioni di Tschândâla per fascinare, e non solamente nella bocca; «fece» del suo Salvatore un qualche cosa che anche un sacerdote di Mitra poteva comprendere. Questo fu il suo viaggio di Damasco: comprese che «aveva bisogno» della fede nell’immortalità per disprezzare «il mondo», che l’idea di «inferno» poteva farsi padrona di Roma, che con l’«al di là» «si uccide la vita». Nihilista e cristiano: ambo le cose concordano e non soltanto concordano...


LIX.


«Invano» tutto il lavoro del mondo antico: non trovo parole per esprimere il mio sentimento su di una cosa tanto mostruosa. E dire che questo lavoro non era altro che un lavoro preliminare, che, con una coscienza di sè, dura come granito, finiva appena di gettar le basi per un’opera di varie migliaia di anni! Invano tutto il «senso» del mondo antico!... A che erano serviti i Greci? a che i Romani? Tutte le condizioni prime per una sapiente civiltà, tutti i «metodi» scientifici esistevano di già; s’era già fissata la grande, l’incomparabile arte di legger bene, condizione questa necessaria per la tradizione della coltura, per l’unità delle scienze; le scienze naturali, unite alle matematiche ed alla meccanica si trovavano sulla buona via, «il senso dei fatti», l’ultimo ed il più prezioso di tutti i sensi, aveva la sua scuola; la sua tradizione di vari secoli! Si comprende ciò? Tutto ciò era «essenziale» per porsi a lavorare era stato trovato: i metodi, debbo dirlo dieci volte, «sono» l’essenziale, ed anche il più difficile, ed anche ciò che da più tempo ha contro di sè gli usi e la pigrizia. Ciò che oggi abbiamo riacquistato con indicibile vittoria su noi stessi, perchè abbiamo tutti ancora i cattivi istinti, gli istinti cristiani in noi — lo [p. 74 modifica]sguardo libero davanti alla realtà, la mano prudente, la pazienza e la serietà, nelle cose più piccole, tutta la «probità» nella ricerca della conoscenza; tutto questo esisteva già, duemila anni or sono. E più ancora, il gusto, il tatto fine ed infallibile! Non come un addestramento del cervello, «non» come la coltura «tedesca», con modi di bruto! Ma come corpo, come gesto, come istinto, come lealtà, in una parola!... «Tutto questo, invano!» Niente più che un ricordo da un giorno all’altro! Greci! Romani! La nobiltà degli istinti, il gusto, l’investigazione metodica, il genio dell’organizzazione e dell’amministrazione, la fede e la «volontà» nell’avvenire umano, la grande «affermazione» di tutte le cose, visibile sotto la specie dell’Impero Romano, visibile con tutti i sensi, il grande stile non solo arte, ma mutato in realtà, in verità, in vita... E non è un cataclisma della natura che dalla notte al mattino ha distrutto tutto ciò! Non è la spinta dei germani o degli altri tardigradi. Vampiri astuti, clandestini, invisibili e anemici lo hanno rovinato! Non vinto ma soltanto paralizzato!... La sete occulta di vendetta, l’invidia insignificante mutate in «signore». Tutto il deplorevole, tutto ciò che soffre, che è affetto da male tendenze, tutto il mondo del «ghetto» dell’anima posto improvvisamente «in prima fila»! Si legga un agitatore cristiano qualsiasi, Sant’Agostino, per «annusare» che esseri tanto sudici erano saliti al potere. Si sbaglierebbe di molto se si presumesse una mancanza di intelligenza nei capi del movimento cristiano. Oh! sono astuti fino alla santità i signori padri della Chiesa! Ciò che ad essi manca è un’altra cosa, molto diversa. La natura li ha trascurati, ha dimenticato di fornirli, almeno modestamente, di istinti convenienti e «puri».... Sia detto tra noi, non sono neppure uomini... Se l’islamismo disprezza il cristianesimo ha mille ragioni per farlo; l’islamismo possiede degli «uomini» come condizione prima...


LX.


Il cristianesimo ci ha fatto perdere l’eredità della coltura antica, ci ha fatto perdere, più tardi, l’eredità della coltura islamitica. La meravigliosa civiltà araba di Spagna più vicina, certo, ai nostri sensi ed ai nostri gusti, che non Roma e la Grecia, questa, civiltà fu «calpestata» [p. 75 modifica](non dico da quali piedi); perchè? perchè ripeteva la sua origine da istinti nobili, da istinti di uomo, perchè affermava la vita, con le magnificenze rare e raffinate della vita moresca... Le crociate lottarono più tardi contro ciò che avrebbero fatto meglio ad adorare nella polvere, contro una civiltà che farebbe apparire molto povero ed «arretrato» perfino il nostro secolo XIX. E’ vero che volevano far bottino; l’Oriente era ricco... Siamo, dunque, giusti! Le crociate... piraterie su vasta scala, niente di più! La nobiltà tedesca — in fondo nobiltà di «Wiking» — si trovava con tutto ciò, nel suo elemento. La Chiesa sapeva troppo bene come si attrae al proprio partito la nobiltà tedesca... La nobiltà tedesca, sempre gli «Svizzeri» della Chiesa, sempre a servigio dei cattivi istinti della Chiesa, ma «ben pagata»... Con l’aiuto della spada tedesca, del sangue e del valore tedeschi, è che la Chiesa ha fatto la guerra a morte contro tutto ciò che v’è di nobile sulla terra! Qua potrebbero farsi domande ben dolorose. La nobiltà tedesca manca, quasi sempre nella storia, di coltura elevata: s’indovina il motivo... Cristianesimo, alcoolismo i due grandi mezzi di corruzione... Insomma non c’era campo di scegliere tra l’islamismo ed il cristianesimo, come non c’era tra un arabo ed un giudeo. La decisione è presa; nessuno ha più libertà di scegliere. O si è Tschândâla o «non» si è... «Guerra a morte a Roma! Pace ed amicizia con l’Islamismo!» Così pensava, così «fece» quel grande spirito libero, il genio tra gli imperatori tedeschi, Federico II. Come? Bisogni che un tedesco sia genio, sia spirito libero per diventare «conveniente»? Io non capisco come un tedesco abbia mai potuto sentirsi «cristiano»....


LXI.


Son costretto ad incidere qui un ricordo cento volte più doloroso per i tedeschi. I tedeschi impedirono in Europa la più grande mèsse di coltura che si sia potuto raccogliere: quella del «Rinascimento». Si capisce finalmente, si vuol capire infine che cosa era il Rinascimento? La «trasmutazione dei valori cristiani»; il tentativo intrapreso con tutti i mezzi, con tutti gli istinti, con tutto il genio, per dar la vittoria ai valori opposti, ai valori «nobili»... Fino ad oggi non si è avuto che questa unica [p. 76 modifica]grande guerra, non si è avuto fino ad oggi un problema più concludente di quello del Rinascimento — il mio problema è lo stesso: — non si ebbe mai forma di «attacco» più profondo, più diritto, più severo, diretto contro il centro, su tutta la linea. Attaccare nel luogo decisivo, nella sede stessa dei cristianesimo, porre sul trono papale i valori nobili; cioè introdurre questi valori negli istinti, nei bisogni e nei desideri più bassi di quelli che erano al potere... Vedo davanti a me la «possibilità» di una magia ultra-terrena, di un perfetto incantamento di colori: — mi pare che questa possibilità risplenda in tutte le palpitazioni di una belezza raffinata; che in essa si riveli un’arte, un’arte tanto divina, tanto diabolicamente divina che invano si cercherebbe attraverso le età una possibilità simile; contemplo uno spettacolo così significativo e insieme così maravigliosamente paradossale, che tutte le divinità dell’Olimpo avrebbero avuto motivo di prorompere in un’immortale risata — vedo «Cesare Borgia papa»... Mi comprendono? Veramente ciò sarebbe stato la vittoria che solo io ardisco chiedere ora. — Con ciò sarebbe rimasto soppresso il cristianesimo. — Che avvenne? Un monaco tedesco, Lutero, giunse a Roma. Questo monaco, carco di tutti gli istinti di vendetta di un sacerdote disgraziato, si ribellò in Roma «contro» il Rinascimento... Invece di capire, pieno di riconoscenza, il prodigio che si era effettuato, — il cristianesimo vinto nella sua stessa «sede», — il suo odio non seppe trarre da quello spettacolo che il suo proprio alimento. L’uomo religioso non pensa che a sè stesso. Lutero vide la corruzione del papato, in tanto, in quanto dovette persuadersi del contrario; l’antica corruzione, il «peccatum originale» non era più seduto sulla sedia papale. Era sostituito dalla vita, dal trionfo della vita, dal gran rispetto di tutte le cose elevate, belle ed ardite... E Lutero «ristabilì la Chiesa»: l’attaccò... Il Rinascimento si mutò in un avvenimento vuoto di senso, in un eterno «invano». Ah! questi tedeschi, quanto ci son costati! Invano: questa fu sempre l’opera dei tedeschi. La Riforma: Leibniz, Kant e la così detta filosofia tedesca; le guerre d’«indipendenza» contro Napoleone I.°; il nuovo Impero tedesco, sempre un «invano» per qualcosa che era in procinto di realizzarsi, per qualche cosa «irreparabile»... Questi tedeschi, lo confesso, sono «miei» nemici; disprezzo in essi ogni specie di sudiciume d’idee e di [p. 77 modifica]valori, di debolezza davanti alla probità di ogni sì e di ogni no. Da circa mille anni hanno oscurato e intorbidato quanto han toccato con le loro mani, hanno sulla coscienza tutte le cose fatte a mezzo — nei suoi tre ottavi! — da cui è afflitta l’Europa; e allo stesso modo grava sulla loro coscienza la specie più sudicia di cristianesimo che possa esistere, la più incurabile, la più irrefutabile, il protestantesimo... Se non la si finisce col cristianesimo, i tedeschi ne avranno la colpa...


LXII.


Termino qui e pronunzio il mio giudizio. Io «condanno» il cristianesimo; faccio contro la Chiesa cristiana la più terribile delle accuse che mai accusatore abbia pronunziato. È per me la più gran corruzione che si possa immaginare, ha avuto la volontà dell’estrema corruzione immaginabile. La chiesa cristiana non lesinò la sua corruzione in nessuna occasione; fece di ogni valore un non-valore, di ogni verità una menzogna, di ogni integrità, una bassezza d’animo. Ed osino ancora parlarmi dei suoi benefici «umanitari»! «Sopprimere» una miseria era contrario al suo più profondo utilitarismo; visse di miserie, «creò» miserie per eternarsi... Il verme del peccato, per esempio: una miseria della quale, soltanto la Chiesa arricchì l’umanità. La «uguaglianza delle anime avanti a Dio», questa falsità, questo pretesto per i più bassi rancunes, questo esplosivo dell’idea, che ha finito per mutarsi in rivoluzione, idea moderna, principio di degenerazione di tutto l’ordine sociale, è la dinamite «cristiana»... Benefici «umanitari» del Cristianesimo! Fare dell’«umanità» una contraddizione, un’arte di polluzione, una volontà di mentire ad ogni costo, un’avversione, un disprezzo contro tutti gli istinti buoni e retti! Ecco, tenete i benefici del cristianesimo. Il parassitismo, unica pratica della Chiesa; scialacquare col suo ideale di anemia e di «santità», il sangue, l’amore, la speranza della vita; l’al di là, negazione di ogni realtà; la croce, contrassegno per la più tenebrosa cospirazione che sia mai esistita, la cospirazione contro la salute, la bellezza, la rettitudine, il valore, lo spirito, la «bellezza» dell’anima, «contro la vita stessa»...

Voglio incidere su tutti i muri questa accusa eterna [p. 78 modifica]contro il cristianesimo, per tutti i luoghi dove sono muri: posseggo lettere che possono leggere perfino i ciechi.... Chiamo il cristianesimo l’unica grande calamità, l’unico grande pervertimento interno, l’unico grande istinto d’odio, che non trova mezzi abbastanza velenosi, abbastanza tenebrosi, abbastanza «sottili»; lo dichiaro l’unico ed immortale disonore dell’umanità...

E si misura il tempo, a partire dal «dies nefastus», che fu il principio di questo destino, a partire dal primo giorno del cristianesimo! «Perchè non si dovrebbe misurarlo a partire dal suo ultimo giorno»? «A partire da oggi»? Trasmutazione di tutti i valori!...



FINE.

Note

  1. Questa come tutte le altre parole francesi che si trovano nell’opera sono così anche nel testo tedesco (M. D. T.)