La botte di sidro/La bella zoccolaia

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La bella zoccolaia

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Octave Mirbeau - La botte di sidro (1919)
Traduzione dal francese di Anonimo (1920)
La bella zoccolaia
Rabalan Racconto polinesiano


I

— Che cosa le hai detto ancora a mia madre ? — chiese Goudet, il quale, alzandosi, allontanò con una pedata un grosso mucchio di pelli di coniglio che andava contando e amrnucchiando in pacchetti.

La Goudet gli rispose subito :

— Le ho detto che era una vecchia ladra e una sudiciona... che poteva pure andare a letto con Roubieux se le faceva piacere, e poi con altri, ecco tutto... ma che noi ne avevamo abbastanza di sgobbare dalla mattina alla sera per vedere ingrassarci sotto il naso un porcaccione, un fannullone, un maiale che la sfrutta e che ci deruba... che se lei continuerà, le faremo la festa, ecco !

Avendo fatta una lunga corsa, con un respirone, si accasciò su una seggiola, ansante, e si asciugò con la cocca del grembiule la fronte su cui scorreva il sudore e, con le mani aperte sulle cosce, le gomita ben divaricate e la voce tremante di collera, urlò :

— Ah! che carnaccia ! che carnaccia schifosa !

I piccoli occhi neri, dalle palpebre brigliate, si empivano d’un fosco bagliore ; una espressione di ferocia bestiale le increspava le labbra, i cui angoli si assottigliavano, tagliandole la faccia come la ributtante cicatrice d’una sciabolata.

Goudet domandò :

— E che t’ha detto mia madre ?

— Mi ha detto che s’infischiava di me, di te e di tutti... che ha guadagnato il suo patrimonio da sè... che è tutta roba sua... e che ne farà quello che vorrà... E che venderà il suo podere, la casa, i mobili, tutto, piuttosto che lasciarti un centesimo, un centesimo solo, capisci ?

— Tutto qui ?

— No, non è tutto... Nella strada, davanti al macellaio, ho incontrata la moglie di Sorieul... Sai che mi ha detto ? « Sembra — mi ha detto — che la bella zoccolaia oggi metta tutti i suoi quattrini in nome di Roubieux apposta per diseredarvi, alla sua morte. » Non sa più che cosa inventare quella brutta diavola !

La fisononiia di Goudet si rannuvolò... fece due volte il giro della stanza, bestemmiando e grattandosi il capo. Poi, piantandosi dritto davanti a sua moglie, coi pugni sui fianchi e la bocca malvagia, disse :

— Che cosa facciamo ?

La Goudette guardò bene in faccia suo marito. Un desiderio omicida le brillava fra le palpebre, gonfiava abbominevolmente le sue narici.

— Ah, sfortuna ! — si lamentò — ... se io fossi un uomo !...

— Son io, un uomo ! — affermò Goudet.

Essa alzò le spalle.

— Un uomo ! Ah ! sì !... Un uomo buono soltanto a gridare, ecco !

— Io ti dico che sono un uomo, perdio ! — ripetè Goudet, che serrò i pugni con collera e pestò col piede per terra.

Allora con una voce sorda, precipitosa :

— Ebbene, se sei un uomo — diss’ella — dimostralo una buona volta... Scannala, perbacco ! Torcile le budella ! Schiacciale la testa !

Le dita della donna si muovevano terribili e convulse, come artigli di bestia feroce : dalla sua bocca spuntavano dei dentacci gialli e aguzzi, impazienti di lacerare una preda viva ; le sue pupille, terrificanti, erano annebbiate di sangue.

Goudet rinculò, un po’ spaventato e balbettando :

— Non posso... è mia madre...

— Vedi ? Che ti dicevo? È una ragione questa, pezzo di vigliacco ? Una donna che ci abbandona alla miseria, che ci deruba, aspettando di poter ingrassare, coi nostri quattrini, un mucchio di Roubieux, un mucchio di ghiottoni... Tua madre, quella ?... Ah, disgrazia, disgrazia !... Tu non sarai mai altro che un cencio, tu !

— Va bene ; va bene ! — disse Goudet.

Infilò il suo camiciotto e si diresse verso la porta.

— Dove vai ? — domandò sua moglie.

— Vado dove mi pare.

Dalla Goulardière, la catapecchia dov’essi abitavano, a Bretoncelles, dove dimorava mamma Goudet, correvano due chilometri appena. Goudet camminava assai lesto. In un quarto d’ora raggiunse la piazza del paese. Era un giorno di mercato. Si mescolò ai diversi gruppi di villani, chiacchierò con questo, fermò quell’altro, disse il suo parere sulla qualità del grano i sacchi del quale, appoggiati uno all’altro, si allineavano su una quadruplice fila di lastre di pietra grigia, s’interessò del prezzo del farro.

— Vanno bene, i vostri affari, padron Aveline ? — domandò ad un omone che affondava le sue mani nei sacchi e le ritraeva colme di grano che soppesava, fiutava e poi rigettava scrollando il capo con aria malcontenta.

— Punto bene, ragazzo mio, punto bene — rispose padron Aveline. — E tu ?

— Siete troppo buono, padron Aveline... Sono un po’ triste, per via di mia madre...

— Ben ? Che c’è ancora, ragazzo mio?

— C’è... c’è che Roubieux si porta molto male con lei, padron Aveline, molto male... Pare che abbiano avuto delle parole fra loro... E così in casa sua c’è una vita d’inferno ! Ier l’altro egli l’ha battuta in modo da far tremar la casa... E poi, c’è di peggio : minaccia d’ammazzarla... Eh ! finirà male, questa storia, penso che finirà male assai, penso !...

— Può essere, ragazzo mio, può essere... Non è un uomo quieto, quello... Ma che vuoi ? Non sarebbe mica colpa tua, dopo tutto, se succedesse una sventura ! Non ti fare della bile per questo... Quando si è galantuomini, si è galantuomini, non c’è che dire... Alla peggio, ti godrai l’eredità !

— Certo... ma tuttavia è una cosa ben tormentosa, padron Aveline... Non ne abbiam più pace...

Emise un lungo sospiro.

La campana suonò la chiusura del mercato. Dei gruppi si dispersero.

— Andiamo a bere un litro — disse padron Aveline.

— Come vi piace — ringraziò Goudet.

Tutti e due, lentamente e dondolandosi, entrarono al caffè Bodin.


II

Abbenchè da molto tempo avesse perduto suo marito che era zoccolaio a Bretoncelles, e per quanto contasse più di cinquant’anni, nel paese si continuava a chiamare mamma Goudet « la bella zoccolaia ». Era una donna grassa, avvenente e pulita, dal viso colorito, ardita con gli uomini, dagli occhi nerissimi, vivi e inquietanti. Malgrado la sua età, nel suo accurato abbigliamento essa serbava una andatura provocante, dei pretenziosi atteggiamenti di giovanilità e di bellezza. Tutti i giorni la si vedeva ridente e scherzosa, sempre in vena di discorsi arditi e di avventure licenziose ; e, veramente, quando la domenica, col suo vestito di seta nera, le spalle graziosamente modellate da un minuscolo scialle a righe rosse e bleu, attraversava la piazza, il corso Barat e la via della Chiesa per recarsi alla messa grande, si poteva dire che non aveva affatto usurpato il suo soprannome, la bella zoccolaia. Era forse l’unica cosa di cui si potesse dire che non l’aveva rubata.

Rimasta vedova, con il danaro guadagnato durante il matrimonio, essa mise su una bettola che, grazie ai suoi occhi, alla sua simpatica fisonomia allettante, e sopratutto alla sua poco rigida e compiacente virtù, fu prestissimo affollata. Roubieux, un carpentiere ozioso e losco che, già dal tempo che viveva Goudet, passava per l’amante della bella zoccolaia, andò a stabilirsi nella bettola e ad abitare con la vedova, a vista e a cognizione di tutti. Roubieux era un uomo alto, fortissimo, dall’aspetto erculeo. Era temutissimo, Roubieux, non perchè avesse commesso qualche azione violenta ; ma solo a considerarne la feroce fisonomia, gli occhi sfuggenti e falsi, la tenace e forte schiena di assassino, si sentiva che doveva essere capace di cose terribili. Tuttavia, apparentemente, egli non faceva altro che vivere lautamente, a spese della vedova, non disturbando nessuno, sapendo voltare il capo quando delle mani impazienti frugavano sotto le gonnelle della sua amante e andarsene al momento opportuno, trovando ogni volta, e molto a proposito, un plausibile pretesto. Ma quella calma cupa, quella complicità silenziosa, non rassicuravano tuttavia troppo i galanti, che temevano un risveglio di collera e di gelosia. E le larghe spalle del carpentiere, i suoi pugni enormi, più pesanti d’un martello d’acciaio, il suo collo possente, i muscoli tesi ed elastici delle braccia, fatte per le strette mortali, cagionavano loro un perpetuo spavento.

Roubieux era utilissimo alla vedova e l’interesse lo univa a lei quanto l’amore : infatti essi si amavano a dispetto degli inganni e delle sconcezze d’ogni giorno, delle quali Roubieux non si doleva mai, sapendo bene che, in quelle, il piacere non c’entrava affatto, ma soltanto il lucro interessava la bella zoccolaia : e dove, questa, avrebbe trovato un maschio le cui reni fossero più robuste di quelle di Roubieux ?

La bella zoccolaia prestava danaro a usura ai contadini bisognosi, agli operai in isciopero ed era Roubieux che andava a caccia delle vittime, che le conduceva nella bettola, dove si erano compiute molte rovine, sulle tavole impiastricciate di liquori, nello stordimento dell’ubbriachezza.

Si raccontavano anche, tanto vanno lontano le immaginazioni in quegli angoli perduti di provincia, delle cose sinistre, delle orribili scene di ubbriachezza e di lussuria terminate con minacce, quando alle volte avessero fallito il vino o gli adescamenti sensuali della vedova.

La polizia s’impressionò, sorvegliò la bettola, iniziò una inchiesta e non accettò nulla. All’infuori di questi racconti di avventure segrete e formidabili, la bettola serbava un’aria di gaiezza licenziosa e divertente sotto la direzione della bella zoccolaia, la quale non sdegnava punto di bere insieme con i clienti, di lasciarsi tastare da essi e di stimolare i desideri con delle sapienti e furtive carezze incompiute.

Padrone nella casa, Roubieux ottenne facilmente dalla sua amante ch’essa non rivedesse più il proprio figliolo, un fannullone, un inetto che non era riuscito mai a nulla di buono e che, sempre senza un soldo, lamentando sempre miseria, le era stato fino allora di aggravio non indifferente.

— Faccia corne me ! — diceva Roubieux — lavori !

A questo riguardo, fra i due uomini c’erano statet delle scene selvagge, liti, minacce, bastonate. Finalmente il figliolo, con la rabbia in cuore, era stato buttato fuori di casa.

Da dieci anni ormai, Goudet viveva miserabilmente con un piccolo mestiere di rivenditore. Nè lui, nè sua moglie avevano potuto mai flettere il cuore di sua madre. Ed ecco, ora, che la bella zoccolaia nascondeva la propria fortuna, che intestava il danaro prestato al nome di Roubieux, dopo aver rifiutato in vita un soldo solo al figlio, si accingeva a diseredarlo alla sua morte !...


III

La notte è tetra, senza stelle e senza luna. Nella campagna nessun rumore, nessun fremito. Poco fa, lontanissimo, nell’ombra invisibile, un cane ha lungamente abbaiato. Poi, di nuovo, silenzio. L’aria è pesante : fra gli alberi che fiancheggiano la strada, non passa un soffio, non passa un brivido neanche sopra l’erba degli argini. Solo, in mezzo alle tenebre opache, riluce una lucciola, riflesso sperduto d’una stella inaccessibile... Ed ecco che una forma più nera del nero della terra, appare, si avanza ; poi, due forme, ugualmente nere, che seguono la prima. Presto, le tre forme riunite non compongono più che una massa sola, stranamente agitata, che rotta volta a volta si estende, si rimpicciolisce, si allunga, si spezza in profili di facce umane, di braccia alzate, di mani contorte, di angoli sinistri somiglianti a schiene ricurve e dalla massa misteriosa sfuggono bestemmie, rochi suoni di voci strozzate, un grido disperato, un’ invocazione atterrita, immediatamente preceduta dal tonfo sordo di un corpo caduto al suolo...

— Pigiala, montale sulla pancia ! Ah... l’indiavolata, come si dibatte !

È una voce di donna...

E il grido riecheggia più doloroso.

— Ma perdio ! strappale il suo scialle e cacciaglielo in gola perchè non urli più !...

È la voce d’un uomo...

Il grido riprende di nuovo, poi a un tratto si spegne in un piccolo rantolo.

Per qualche minuto non s’odono più che colpi furiosi, cui rispondono i rumori molli di carne battuta, di ossa spezzate...

— Ci siamo ? — domanda la voce dell’uomo.

— È fatta ! — risponde quella della donna. — Sai che aveva la pelle dura, tua madre ?

— Ah ! la schifosa ! Ne ho caldo, ne ho ! Che ne facciamo ?...

— La lasciamo qui... Andiamo ! Vientene !...

I passi si allontanano sulla strada e la notte, un istante turbata, ricade nel suo silenzio e nella sua immobilità.