La sciarada, appendice alle antiche poetiche/Poema

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Avvertimento La sciarada, appendice alle antiche poetiche
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In quel travaglio dell’umana mente,
Per cui, di voci con industre ambage,
Altri un’idea nasconde, e di confuso
Barlume la ricinge, altri, col raggio
5D’un acuto veder, l’incerto e fioco
Artefatto crepuscolo rischiara,
E a trovar giunge l’involuta idea,
Ogni gente si piacque ed ogni etade.
Chè ciò pur dall’ingegnito deriva
10Desiderio dell’alma, anzi bisogno,
D’esercitar sue posse, e trar dagl’imi
Penetrali, ove giace, un arduo vero.
Io non dirò che con tai sorta d’enigmi
Tentasse la Sabea Viaggiatrice
15Di Palestina il coronato Senno:
So che l’uomo ed il mondo enigmi sono,
A noi proposti dall’eterno Saggio,
Cui strigar tenta invan chi non invoca
L’oracolo, che rende in fra i cipressi
20Dell’eterna Sion gli alti responsi;
E che per questo a’ suoi beati regni,
Odorosi di balsami e d’aromi,
Forse diè ’l tergo la prudente Donna.
Ma certo in riva ancor del fiume sacro,
25Che ora udia spaventevoli i profeti

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Minacciar sovra Giuda il brando Assiro,
Or, sfavillanti di celeste gioja,
Prometter Lui, che di sua diva fronte
La monda umanitade entro ci terse,
30Grazia trovâr questi ingegnosi ludi.
Da chi si ciba il cibo, e la dolcezza
Dal forte è uscita, ed a cui ciò mi spieghi
trenta tuniche io dono e trenta manti,
Diceva, posti i nuziali deschi,
35Della sua giovinezza ai cari amici,
Marito allegro, il Nazareo Sansone:
E quando i cari amici, a cui di furto
Preciso avea quell’impossibil nodo
La levità della cianciera sposa,
40Sclamâr: dal forte la dolcezza è uscita,
E da lui che si ciba uscito il cibo,
Altro non è che discoperto favo
Nelle gran fauci di leone estinto;
Se non aveste, il Nazareo Sansone
45Ripigliò quasi per enigma nuovo,
Colla giovenca mia la zolla infranta,
Anco starebbe il mio tesor nel fondo.
Similemente il declinar dell’uomo,
Le accasciate sue membra, i sensi tardi,
50Quando trascorsa è la virile etade,
E pria che colla destra inesorata
L’alta Necessità la tomba schiuda,
Di Palestina il coronato Senno
D’enigmatica nebbia offuscò e disse:
55Tremolan della casa le massaie,
I robusti vacillano, ridotti
Vedi a picciolo numero e oziosi
Quei che soleano rigirar la mola,
Il mandorlo di fiori è tutto bianco,
60Per le finestre più non entra lume,
Invase attonitaggine profonda
Dei cantici le figlie, sulla fonte

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L’urna si franse, si spezzò la ruota
Sulla cisterna, perchè l’uomo al fine
65Della sua eternità va nell’albergo.
Nè, men che in Palestina, in Grecia caro
S’ebbe un tal vezzo, e sol perchè rinvenne
Di Giocasta il figliuol quell’ente oscuro,
Che cammina al mattin con gambe quattro,
70Al meriggio con due, con tre alla sera,
Di bile disperata in core acceso,
Il portento, leone aquila e donna,
Si perigliava dal Teban dirupo;
E, se credi a talun, lenta rancura
75I giorni logorò d’un divin Cieco,
Cui meno increbbe non veder la terra,
E, o placida o in furor, l’onda infinita,
E l’aureo Sole e le Titanie stelle;
Che d’un enigma, che da scior gli diero
80Sul marin lido scinti pescatori,
Non penetrar nella bizzarra notte.
Quando più liete le Romulee cene
Fea la zampogna del gentil Marone,
Scoprimi, ed io t’avrò qual magno Apollo,
85Ove stendasi il ciel tre sole braccia,
Uno cantava degli Ocnéi pastori:
E perchè Mecenate avea da un canto
Il cispo Flacco, e il Mantovan dall’altro,
Cui talor, colpa delle veglie dotte,
90Lo stomaco restio sonoramente
Improverava, non murena o ciacco,
Ma lieve frusto di più cauto cibo,
Con salso motto, che d’enigma ha faccia,
Dir solea quell’Etrusco Cavaliero:
95Fra le lagrime io vivo e fra i sospiri.
Moltiforme è l’Enigma, e nomi ha varii;
Ma quello, che fra noi tiene oggi il campo,
O ne’ crocchi leggiadri, o ne’ volanti
Fogli ingegnosi che ai prescritti giorni

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100Pel suolo Italo e fuor l’Adria e l’Olona
Invian corrieri del sapere umano,
È quando, ai nodi della scelta voce
Tronco ogni membro che un’idea concede,
Il senso, sotto a vel più fitto o meno,
105Degl’incisi vien porto, e dell’intero.
E il campo, io credo, tale enigma tiene,
Sendo comodo più; chè su’ tuoi passi
Agevolmente un’utile parola
Scontri, da coglier quasi fior novello,
110E in parole moltiplici e gradite
Con fortunata analisi scomporre:
Laddove pur da te, senza la scorta
Dell’amico vocabolo, un subietto
Rinvenir, che gradevoli alla mente
115Porga relazioni e qualitadi,
Contemperando in lui la luce e l’ombra,
Ed il deforme sotto a bella larva,
Ovver sotto a deforme offrire il bello,
Altra indagine vuole, altro consiglio.
120Soltanto dunque le mie leggi s’abbia
Dal mio secol l’enigma prediletto,
E scluso resti pur de’ suoi germani
Il drappel vario: tutte chiede il solo
Telemaco di Mentore le cure.
        125In qual anno, in qual terra il caro alunno
Vagisse prima, raccertar non oso:
Un Morelli fin or non surse, o un Mai,
Che, con assidua man scartabellando
Marciani palinsesti o Vaticani,
130Dalla polve traesse e dagli sgorbi
Del suo natal la data avventurosa;
Pur di narrar m’avviso un tal mio sogno,
Che cortese ne fia di qualche lume.
        Me ritenea Vinegia, e le notturne,
135Ambiziose per maestri intagli,
E più pel marmo della Greca infida,

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Non men che dotte amiche stanze, dove
Undici nazioni in una sera,
La Cinese tra lor, concordi e giusti
140Offerivano incensi ad Isabella1;
A Isabella, che ohimè! le stanze usate
Or non abita più fuor che dipinta.
Dei garzon vispi e delle vaghe donne
Eletto, più che folto, era lo stuolo.
145V’avea quella gentil2, cui Milan cesse,
Onde il famoso germogliasse ancora
Ceppo del non degenere Soranzo:
L’altra3 v’avea, per cui tonâr di gioia,
Quando la salutò sposa Rialto,
150E la natia Verona in pianto stava,
I bellici tormenti, e tanta udissi
Di cetere armonia sull’onde salse.
Agile, come ai passi, ai cari motti,
Non mancava colei4 che le sue sale,
155Prospettanti di Marco il nobil foro,
Apre a lauti convivi e allegri balli:
Nè lei5, che troppo spesso il bel sembiante
E i vezzi accorti alle cittadi invola,
Per dilettar di sè Tempe frondosa;
160Ch’io vidi, io stesso, al traduttor6 di Flacco
Figgere un dardo nel non vecchio core:
O la dolce compagnia7, a cui bambina
Dava l’Adria contento il proprio nome,
Presago che dovea la pargoletta
165Redar dell’ingegnosa amata zia
(Che illustrò di Vinegia i dì festivi)

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L’anima eccelsa e l’onorata penna.
Tra queste d’Isabella il giovin figlio,
Nella scuola difficile sì addentro
170D’eccitar fra gli amici un riso urbano
Con detti, che va il lepido talora,
Volendo ed infingendosi per poco,
Del goffo ad acquistar nell’officina;
E de’ natii canali il desiato
175Gondoliere, 8 che a un bel raggio di luna
Invece degli altrui canta i suoi canti;
Col buon prence9 dall’Ipani alla tomba
Della Sirena ambasciador venuto,
Ov’ei, credo, affinò l’arti già conte
180D’ammaliar dolcemente ingegni e cori.
Il crocchio dilettevole a gran notte
Prodotto, e molte tenebre di voci
Nel lepido trastullo, ond’io ragiono,
Da molti ad or ad or densate e sciolte,
185Partimmo al fin, che già il tonante bronzo
Salutava dal mar l’alba nascente.
De’ veridici sogni è questa l’ora,
Ed io non pria su i taciti origlieri
Posai la stanca de’ fantasmi sede,
190Che un’incerta di femmina persona
S’affacciò agli occhi miei nel sonno involti.
Le membra, dislogate alle giunture,
Qual di barbare età creduta maga
Che saggiò della côlla o della ruota,
195Opaca ricopria sottana veste,
E l’abito di sopra a più colori
Era un viluppo d’ingegnosa rete;
Crespa la chioma e inanellata, i piedi
Di fettuccia strignean giri e rigiri;
200Semplice un velo e senza gruppi un nastro

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Non l’adornava; qual visiera o larva
La faccia le chiudea cilestra nube.
Chi sei, le dissi, e perchè vieni? ed Ella:
Veramente io son tal, che palesarmi
205Non deggio; indovinata esser vogl’io;
E, se di colpo tu non mi affiguri,
Ne incluso il sonno, che le idee scolora.
Spesso io vivo con te; le mie parole
Odi tu spesso, e colle tue favello
210Io pur talvolta; pochi istanti sono
Che ci lasciammo, e me sì ratto obblii?
Di romanzi, di storie e di poemi
Anch’io m’intendo, e se a men alte cose
Scender consento, è solo che benigna
215Indole vuol, che ai piccoli io non nieghi
Qualcun talora de’ piaceri miei.
Come la rima, che in etadi grosse
Nata quantunque, di diletto è fonte,
Fonte son di diletto io, che pur nacqui
220A quelle grosse età, quando le care
Membra dell’uomo dalle atroci ruote
Veniano affrante e dalle corde ingiuste;
E affransero a me pur le care membra:
Rozzezza e ferità spogliate, il mondo
225Streghe non più, nè eretici tortura;
Sola io rimango degli strazii antichi
Rispettato vestigio, ultimo sfogo.
Anche in dirotti membri io talor apro
Un sorriso festevole, ed il bujo
230Discorso tingo d’amoroso mele.
Tu, che le reti mie più presto godi
Tessere che strigar, non vo’ che troppo
Pensar tu debba a discoprirmi; questo
Vapor ceruleo, che mi appanna il volto,
235Gl’Italici ombra, scia dissero i Greci,
E Sciarada da scia chiamata io venni.
Un gran servigio, o mio Fedel, tu puoi

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Rendermi, e che tu voglia io non diffido.
Molti, come ben vedi, e troppi, io conto
240Seguaci; tanta turba a me non quadra,
Perchè, soverchio agevole e diffusa,
L’arte invilisce, ed arduo è il bello e raro.
Dunque si difficulti, adatte leggi
Facciano d’infrenarla, e due guadagni
245Se ne trarrà, perfezione all’arte,
E nell’inetto artista o indiligente
Della difficultosa arte abbandono.
Queste leggi tu detta, e come bello
Non è nè usato, che raccolga e chiuda
250La natia prosa peregrini arcani,
Così le leggi degli arcani miei
Sien da metro raccolte: al naturale
Racine apprese della Francia il Flacco
Più difficili carmi; e da te s’abbia,
255Prudente amico, più severe norme
Chiunque alle mie soglie i passi affretta.
Ohimè, che dici? in questo secol norme?
Io dettarle? non sai, Donna, risposi,
Che la grave Epopea, la insanguinata
260Tragedia scosse a questi tempi il giogo?
Di riso obietto ci faremo entrambi;
L’acqua alla china correr lascia. Credi,
Ella mi soggiugnea, che in uno stato
Perduri il mondo? le trascorse etadi
265Gioghi non vider, qual la nostra, scossi,
Che poscia ritornaro? al mio comando
Non ostar; lunga sperienza hai fatto
Presso di me; de’ scaltrimenti tuoi
Gli altri scaltrisci; al secol prisco e al novo,
270Da Macro, che cantava erbe e veneni,
Al buon Lorenzi, che de’ monti aprici
La cultura cantava, ognor fu culla
Verona tua di tal, cui le incresciose
Regole piacque rallegrar col verso.

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275Del bel novero sii, quantunque torca,
Sitibonda di lagrime e di sangue,
Dal carme didascalico l’etade
Gli orecchi disdegnosi, e quasi irrida
Le recenti non pur, che Brescia vide
280Scaturir nel suo sen limpide Fonti,
Ma le terre le piante il gregge e l’api,
Meglio che il pio Troian, che Turno e Dido,
A chi cantolle in pregio. Ardua e sparuta
La materia non è, ch’io ti presento,
285Più di quella, che un giorno appresentava
A’ tuoi concittadin, 10 Fumáno, e il grande
Che di Merope in man ponea la scure,
Logica, di soriti e d’entimemi
Ispida, e l’altra, che con segni diece
290Quasi novera i fior le arene e gli astri.
Disse; e il vapor, che racchiudeale il viso,
Per l’aere dileguossi, e anch’Etla sparve,
Ma non sì ratto, che il cortese aspetto
Mirar non ne potessi: un’aurea luce
295E un’ambrosia fragranza allor diffuse
Della mia vision s’eran nel loco,
Che l’alto sonno ruppermi; io le coltri,
Dal suo nume agitato, abbandonai,
Nè il furor cesserà, se prima io tutto
300Dell’arte sua l’occulto magistero,
Da cotanta presenza in me trasfuso,
A trasfonder non giungo in queste carte.

        Quale tu sii, che da chi t’ode, o legge,
Col poter d’un vocabolo procacci,
305Per diletto che dái, ricever plauso,
Vocabol trova, che in ciascun de’ membri
Piaccia, e, vie meglio, nell’intero corpo;

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E piacerà, quando l’intero corpo,
E de’ membri ciascun, fra i varii obbietti,
310Che l’infinito di Natura emporio,
E della sua rivale in mostra pone,
Quelli presenterà, che destar sanno,
Mercè di lochi di persone o cose,
Vivaci fantasie, memorie illustri,
315Dolci affetti, o magnanimi, ricordi
D’usi, di riti, d’arti e di mestieri.
A ciò fra le otto schiere, in cui si parte
L’immensa truppa delle voci umane,
È de’ nomi acconcissima la schiera;
320Però de’ nomi che solinghi stanno:
Gli altri, che lor si addopano, e che solo
Sprimono qualitade, atti son meno.
E la milizia del drappel diverso,
Onde azion s’accenna e non già cosa,
325Che i primi segue ognor, più de’ secondi
Utile all’uopo trovasi e piacente.
Alcun vantaggio puoi da’ vicenomi
Trarre, ma scarso; ed è più scarso molto
Quello trarrai da copule, da avverbii,
330Da proposizion, da segnacasi,
Articoli, e simíl genía di voci,
Che della mente la capace tela
Vôta, siccome pria, lasciano bianca.
Meglio l’altre farien, ma rare sono,
335Cui fuori scaglia un forte interno moto
D’odio, d’amor, di tema, o di speranza,
Latinamente dal lanciarsi dette;
Chè piace sempre chi favella al core.
Quando giunge il primier, la terra tutta
340S’allegra e ogni animal; roco foriero
Di piova è l’altro; per ortense ajuola,
O di balcon donnesco in fittil vase,
Delle nari delizie il tutto vedi.
Al verno, o Donna, fra le danze e i suoni

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345Il mio primo t’accoglie? assai l’ho caro:
Caro il secondo ho pur, se raggirarti
Fra lui ti piaccia, allor che ai prati in grembo
Anco le Belle invita il gajo autunno:
Sconfessarti non vo’ ch’io son l’intero,
350Io nel tuo foco sempre, e sempre vivo.
Di nomi al tutto, che solinghi stanno,
Ambedue questi enigmi, maggiorana,
Compongonsi, qual vedi, e salamandra,
E per ciò, credo, e perchè obbietti varii,
355Campestri, sollazzevoli, amorosi,
Colorano al pensier, di grazia ignudi
Non vanno: han grazia le parole anch’esse,
Ch’erudite si chiamano, notando,
Non già gli obbietti agevoli e comuni,
360Che in monti in valli in borghi ed in cittadi
Scontra ciascun, ma gli altri al vulgo oscuri,
Che de’ gran savii attigni entro ai volumi.
Ignora il vulgo la congiura ordita
Contro Augusto da Cinna, ed il lodato
365Verso non men che riordilla in Francia:
Il satirico Momo, che detrasse
Ai sandali divini, alle perfette
Membra di Citerea nulla potendo
Detrarre, ignora; e l’Indiana scorza,
370Che l’odorato vellica ed il gusto,
Ei cannella dirà, non cinnamomo.
Ma quante, e quanto care ai culti ingegni,
Non pote suscitar reminiscenze
Questo dotto vocabolo! Soverchia
375Non sia per altro la dottrina. Scopo
È dell’enigma il tollerato stento
D’un meditar, non troppo intenso o lungo,
Ristorar col diletto e coll’onore
D’una trovata astrusità; trovarsi
380Dunque denno gli enigmi, e cinti dunque
Esser non denno di perpetua notte.

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Quinci pecca, lo scopo in obblio posto,
Chi del nostro sermon fra i cimiteri,
Indigeno sciakal, 11 s’aggira e raspa,
385Disotterrando scheletri di voci,
Nel morto mar delle biografie
Nomi incogniti pesca, dalle mappe
Municipali trae, non gloriosi,
Un fiumicello, una collina, un borgo.
390Vale senza il primier, del castron l’altro
Discorse il mal, nuoce a’ destrieri il tutto:
Chi formella dirà? sentor ci giunse
Di for per senza? al medico d’Altino,
Mella, e al dettato sul castron chi pensa?
395Nè pure, io credo, il Tragediante d’Asti,
Benchè di sè cantasse imbianco il pelo
Questa lingua scrivendo e non sapendo,
Dotto nel sermon nostro, e di cavalli
Amoroso del par, come scaltrito,
400Che domarli sapea, sapea curarli,
Potuto avria sclamar formella, il morbo,
Che i suoi diletti corridori offende
Tra la giuntura e la corona appunto
Del lor piè, vicino alla pastoia.
405È ver che gli adunati e colti amici
Molto a vicenda imparansi, e che bello
È più istrutti partir fin da un trastullo;
Ma riposti chi vuol dottrinamenti
A quei fondachi va, che il prisco Egitto
410Intitolò farmacopea dell’alme,
E gli Ambrosoli vi consulta e i Gamba,
Nè, seduto su morbidi cuscini,
Caffè sorsando, bisbigliando amori,
Vagheggia d’un vocabolo il conquisto.
415Quindi, se cercherà notizie apprese

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Risuscitar la non umíl sciarada,
Proficua la dirò, la dirò dotta;
Nuove notizie intruder se pretende,
Dirò che pedanteggia e che delira.
        420Difetta ancor chi troppo raro il velo
A lei travagli; chè meschina palma
Quegli poi miete che il penetra, e molto,
Se il preceda un sudor, cresce il diletto.
Avvallasi il primiero; sul Giordano
425Fu il secondo prolifico e non bello;
Fu sul Tebro l’inter bello e non crudo.
D’ognun sul labbro è Giulia tosto, e intanto
L’altera Giulia, che al Roman teatro,
Tutti gli occhi onde trar, comparia tarda,
430Or sollecita vien, qual peritosa
Matrona che, straniera ai bei misteri
D’entrar con garbo in elegante sala,
Cápita delle prime, e il più vicino
Sedìle ingombra della sua persona.
        435Poni anco mente, che slogata ai nodi
La tua parola sia, non iscavezza
Nell’ossa; chè ciò il numero de’ buoni
Disgiungimenti limita, e ti sforza
Di scegliere, nè dritto è lasciar tutte
440Le malagevolezze a chi indovina.
Però colui che, canape intendendo,
Dicesse il primo è fido, industrioso
Il secondo, si semina l’intero,
Violerebbe tanta legge, e fora
445Osservarla, lasciati il cane e l’ape,
far che a questa sottentri di Corinna,
Men nota forse, la prudente ancella,
Nape, che torre all’emola Cipassi
Potea, giudice Ovidio, il caro vanto
450Di spartir meglio alla padrona i crini:
Far che al cane sottentri la dimora
Dell’uomo sincopata, e qual si noma

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Sulle Adriache lagune con usanza
Non dissentita dal Frullon Toscano;
455Poichè questi la frottola membrando,
Che tramandava ai secoli futuri
Il gajo Certaldese, e sì corriva
A creder la Lisetta, e pe’ notturni
Scandali camuffato e berteggiato,
460A mezzogiorno in piazza di san Marco,
Agnol pria, quindi Satiro, il mal frate,
Dice di quella bambola Lisetta,
Che femmina si fu di ca Quirina.
        Un dittongo vocabolo talvolta
465Lecito è usarlo dittongato e sciolto,
E v’han dittonghi, che mai scior non lice.
A questo giogo sottoporre il collo
Si contenti l’accorto sciaradista;
Chè vocaboli ei tratta, e manco d’arte
470Il viziar la sua materia fora.
Può dir quindi, il mio primo un popol cenna;
Venti e più capitana il mio secondo;
Traesti il tutto, o Apollo, (o del fier mostro,
Per la belletta del diluvio nato,
475Sterminator, come il tuo nome suona)
Dalla vagina delle membra sue,
Marsia indicando; e dir pote non meno
Il primo azzurra immensitade; l’altro
È voce, che il desio spinge sul labbro.
480Vorrei, se in questo ei titubi talvolta,
Che con notturna mano e con diurna
Non gl’increscesse squadernare i fini
Provvedimenti 12 di quell’alma schietta,
Che a te, Verona, gl’Insubri rapiro,
485Che non sol pinse, ne’ color sublimi
De’ veggenti di Dio, la paurosa
Folgore ed il pacato arcobaleno;

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Non sol con Salomone di robusto
Saporito viatico e manesco
490Ne provvide al difficile e pur caro
Pellegrinaggio dell’umana vita;
Non sol fe con Esopo a belve, a piante
Parlar sapienza, ma si piacque ancora,
Perchè l’Italo verso numeroso
495Riesca, non che giusto, in bel volume
Ai novizii nell’arte additar l’orma,
Che sillabando e dittongando impresse
De’ nostri vati il più gentil drappello.
        Peggio di lui, che sillaba inesatto,
500Lui tieni, che in sciarada difettiva,
Sia che male raddoppi o male scempi,
Più che ortografizzar, cacografizza.
In ciò verso degl’Itali i Franzesi
Han briglia lunga e libera carriera;
505E il Proteo di Ferney, che gonfiò tromba,
Calzò coturno e socco, all’auree corde
Stese la man, nè disdegnò pur anco
Queste, ch’ei disse frivole tenebre,
Sciaradando, se non mente il grido,
510Nel linguaggio natio canzone13 e sempre,
Di lesa ortografia non si diè carco:
Ma nè rimando pur Franzese vate
Cura l’ortografia, che si rispetta
515Dall’Italico in vece; ogni favella
L’indole ha propria, e la seconda il Saggio.
Stupendo per l’ intero e per gl’ incisi,
Ove entrambo dissillabi sien fatti,
Vocabol fora l’inclito cognome,
520Fiorentina repubblica, del tuo

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Segretaro, or Tiberio ed or Catone
Ne’ sensi, nello stil Tacito sempre
O Sallustio, e talor Sejano in core:
Ma, poi che tal cognome non raddoppia
525La lettera, che simula la luna
Quando volge le corna all’occidente,
Accomiatar con doloroso addio
O fa d’uopo sì nobile parola,
O al ma starsi contenti ed al chiavello,
530Che poco dice al cor, poco all’ingegno.
So che dell’Allighier l’arbitro verso
La lettera scempiò, di cui favello,
Onde il figliuol di Semele e di Giove
Con laco rimeggiasse e con Benaco;
535Ma nel breve confin dell’epigramma
Di prodotto poema le licenze
Concedersi è viltà: però disdetto
Dal costumar degli Ottimi non viene
Sillabe, che, congiunte alla lor voce,
540O van disaccentate, o scritte vanno
Senza segno majuscolo, divise
Considerarle, valutarle, quasi
La majuscola ottengano e l’accento.
Nel vocabol diletto il primo splende,
545Se ti giova, dirai; nè quel Maestro
Di poesia, che delle nove Suore
Cantava il nascimento, in mercè, credo,
Che a lui sì vivo amor ponesser tutte;
Nè il genero suo degno, che vergava
550Gl’Itali fogli del più puro inchiostro,
Rifiutavan poeta e calamaro,14

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Perchè il Tessalo monte, che fu rogo
D’Ercole e tomba, e l’immortal Cantore,
Onde Mantova è chiara al par di Smirne,
555Majuscolo pretendano quel segno,
Che adusa in prima chi lor nomi scrive.
Similemente, benchè suoni angusta
Una vocal nella parola intera,
Puoi nell’inciso, come larga suoni,
560Prenderla, e, se l’inciso o il tutto ha senso
Doppio, giovarti d’ambo i sensi: brami
Ad Orazio accennar? del giorno parte
Col primiero ti nomino, dir puoi;
De’ cari genitor chiamo il fratello
565Col secondo; e col tutto a te gran vate
Rammemoro e gran duce; e ti è pur dato
Aggiunger, refrigerio è il primo ancora
Del viandante, che meriggia all’ombra.
        Evvi sciarada, ch’appellar vorrei
570Ricca, perchè di molti sensi abbonda;
E tal fôra Timoteo, Ateniese
Guerriero, onde narrava i magni gesti
La linda penna che d’Ostilia è vanto;
Gran citarista, che tumulti e calme
575D’Alessandro sapea metter nel core;
Un de’ cinque scultori, che la tomba
Di Mausolo fregiaro; al fin quell’Unto,
Sovente egro e di stomaco affralito,
A cui l’usaggio di scarsetto vino

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580Delle genti l’Apostolo consiglia.
        I cenni del tuo enigma austeramente
Sien giusti, incontrastabili; pareri
Propii, idee vaghe, allusioni incerte,
Mal gli si attagliarebbono: conobbi
585Più d’un Edipo, che tai reti niega
Strigar, quando non abbia della Sfinge,
Che la rete formò, qualche contezza.
Ciò che mangi non pur, ma ti fa luogo
Con chi ’l mangi, saper, disse Epicuro;
590E, pria che gli venisse manifesto
Ogni conviva, di tener l’invito
Non promise Chilone a Periandro.
Tutti a un modo non veggono, chi presso
Vede, e chi da lontano; altri ogni obbietto
595Confonde; e, se dai primi acconci indizi
Può trarre, all’altro nè pur bada il Saggio,
Conscio che il suo badar vana opra fôra,
E che tesori son tempo ed ingegno,
Che usar, non sprecar, voglionsi, e che l’arte
600Del buon massaio, come nelle grandi,
Appar così nelle sottili spese.
Dunque se Rodomildo, che di colto
Ha bensì grido, ma che quanto ei pesa
Tu sai, Guglielmo, scioglie e ricompone
605Voci in un crocchio, tu, che a’ gelsi intendi,
Segui a congetturar col tuo vicino
Sul prezzo delle sete; e tu, Gherardo,
Che di carmi t’impacci, e che devoto,
Qual sei, della sua donna o del suo cuoco,
610Col bisbigliar di chiacchere avvertite
A Rodomildo dispiacer paventi,
Fa dell’impensierito, ma i pensieri,
Più che a’ suoi lambiccati guazzabugli,
Serba a qualche concier dell’ultim’ode,
615Che recitasti a Panfilo; e tu Laura,
Se or non vuoi dalla folla degli amanti

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Tenerezze ascoltar nè maldicenze,
Alla gran festa de’ Filocorei
Pensa, la qual s’approssima, o al vestito,
620Cui Parigi per te medita e suda,
Del color di quel nitido elefante,
Che al re de’ Franchi il re de’ Siamesi
Testè donava, avventurosa belva,
Succeduta in Europa agli alti onori,
625Onde, due lustri nanzi, inebriata
La giraffa venia, di tante fogge
Legislatrice, e che del trono al piede
Gli eleganti suoi dì chiuse sull’Istro.
Ma, della Sfinge tua se puoi fidarti,
630Non che l’enigma suo, studia lei stessa.
Rumina (vuol ragion ch’io pur soccorra
Gl’indovinanti d’alcun saggio avviso)
Quai nel cerebro idee, nel core affetti,
Le vadan fermentando, i luoghi nota
635Da lei visti quel giorno e le persone,
E rianda, se puoi, l’ultimo libro,
Di severo argomento o di giocondo,
Onde al tuo tentator sarà piaciuto
Nodrir l’ingegno, o discacciar la noia;
640Chè, come spesso l’indole è sul labbro,
Così talvolta è nel suo enigma l’uomo.
        Sciarada rincrescati, i cui cenni
A più motti rispondono, un sol piede
Il tuo calzar ben calzi, e non imiti
645Di Teramene il duttile coturno.
Incontra che, più adatta ai cenni offerti
Voce vegga l’acuto indovinante,
Di quella che pria vide il losco autore:
Affermo col primier, dicea Fulberto;
650Secondo e tutto son del patto antico,
E a Sisara alludea; ma Clementina,
Alludendo ad Elia, diè più nel brocco;
Chè il profeta, compagno in sul Taborre

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Di chi portò le tavole a Israello,
655E non già un aborrito Cananeo,
Della prisca alleanza è personaggio.
        I cenni poi t’increscan, se co’ motti
Accennati non han perfetto accordo
Grammaticale; in ciò peccar non rado
660Ho veduto qualcun, ch’altro da nome
Sprimer desía, che non istà solingo.
        Specificar suoi cenni ama ogn’inciso
Meglio, che sol notar qualche riguardo
Cogl’incisi limitrofi e col tutto,
665Nulla specificando; se la foggia
Men buona è l’adottata, e tu rischiara
Tenebría tanta di riflesso lume;
Conveniente epiteto, atta frase
Scusa altri cenni omessi, e, modellato
670Così l’enigma, più scabroso, è vero,
Riesce, ma più ancor semplice ed uno.
Ti è forza nel primier scontrare il tutto,
Come il secondo mio, con doppio volto.
Quel doppio volto a Giano, che col senno
675Il futuro vedea come il presente,
Non pur t’adduce per sentiero breve;
Ma ti serve di fiaccola, che raggia
Gran luce sovra l’altre oscuritadi,
E nelle corti addentrasi, e ti mostra
680Un troppo differente Cortigiano
Da quello sì perfetto, che in Urbino
A Isabella Gonzaga, a Emilia Pia
L’alta descrisse Mantovana penna.
        Amerei pure, o fra ogn’inciso e il tutto
685Notar relazioni, ovver fra nullo.
Del mio secondo, che il mio primo tiene,
L’intero cerchia l’adorata imago,
Dir vorrei nel vocabolo cornice;
Nè in Fenice direi: diedi al secondo
690Il mio primiero; ed il mio tutto vola;

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Ma sì bene: al secondo io diedi il primo;
Al secondo, che proprio è fra le donne
Quello che fra gli augei l’unico intero.
        Gretta di’ la sciarada, ove arieggi
695Troppo l’un membro all’altro, ovvero al corpo,
E trovar di tai motti è merto lieve.
Dalla parte del conte d’Almaviva
A Rosina leggiadro mazzolino
Testè recando, o Figaro, dicesti:
700Olezza l’un, l’altro l’uom veste, e viene
Dal primiero l’inter, pegno sovente
Di corrisposto amor; ma, se la sbarra
A sì fatti vocaboli disserri,
Poca varietà l’enimma acquista,
705Tu poca gloria, sì stivato e umile
Vedrai di voci popolo all’entrata.
        L’enimma tuo lungo non sia, nè, a guisa
Delle similitudini d’Omero,
Strascichi dopo sè coda prolissa
710D’episodica ciarla, che soverchia
Gli utili cenni, e per lo ciuffo quasi
Par che voglia afferrar l’occasione
Stranieri d’inserir distico o strofa:
Sì, di Rosina tu buon confidente,
715Anche in ciò, a parer mio, talor difetti.
La regola, che indíce all’epigramma
Corpicciuolo minuto, adatta viene
Alla sciarada pur; chè qualche volta
Fassi epigramma la sciarada anch’essa,
720Or tenero, or galante, or d’acre aceto
Cosparso; e nel tuo lepido volume,
Siracusano Epigrammista15, ch’oggi
Di quella veste l’Aquinate ammanti
Onde un giorno ammantasti il Venosino,
725A Frine dici: il mio primier te chiama,

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Te il seguente; ed il tutto (ovvero Teti)
È una Dea, pari a te, che il mondo abbraccia.
Coll’epigramma la sciarada questo
Ha pur comune, che perpetuo cibo
730Non va fatto di lei; non è quel pane
Cotidiano, che non mai disgusta,
Ma quando mele sdolcinato, e quando
Piccante droga, onde l’incauto abuso
Fastidisce il palato, o lo stordisce.
735De’ Feaci e de’ Veneti splendore,
Te benedetta per rispetti mille,
E di ben altro affar, saggia Isabella,
(Volentieri il mio verso a lei ritorna)
Di cui niuna, cred’io, la sottile arte
740Meglio apparò d’un conversar leggiadro;
Ma benedetta veramente ancora,
Per ciò che ne’ periodi frequenti,
Che in qualsivoglia amabile ritrovo
Sorgea più baldanzoso e pertinace
745Questo ardente sciaradico desio,
Sempre sapesti dominarlo accorta,
Nè, pria che desse mezzanotte il segno,
Mai ti piegavi all’indiscrete istanze.
E benedetto or te, Zamboni illustre,
750Nella via degli elettrici misteri
Trovator di miracoli, sfuggiti
Alla Comasca vigile pupilla,
E della suora mia16 soccorritore
Nelle amiche de’ crocchi iberne notti,
755(Ch’ella dai balli e dai teatri lunge,
Al mondo, che ancor l’ama, il tergo vôlto,
Di te paga e d’alcun che a te somiglia,
Inganna fra i domestici pareti)
Soccorritor, perchè l’Allettatrice,
760Che oracol me delle sue leggi volle,

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Troppo non si accarezzi, e sugli alterni,
Utili favellari o dilettosi,
Non le accordi il Favor soverchio campo.
Ah! nelle Costei reti incauto core,
765Che s’avviluppi oltre misura, (sia
Franca la verità, nè assenta il cielo
Che inavvertito dal mio labbro parta
Chi con periglio a femmina s’accosta)
Più libero non è; l’ora ed il loco
770Del trastullo non pur, ma l’util tempo,
E il gabinetto, a’ gravi studii sacro,
Fansi di lei; vien di repente tronco
Un pindarico volo a quel che l’estro
Del poeta più spazia; e, quando gli occhi
775Stanno de’ Sofi sulle eterne carte,
In esse il santo ver, l’amabil bello
Non attraggono più, ma, come il Sardo17
Correggitor di letterate pecche,
Dell’isola natia tolto alle storie,
780E le origini dato e la fortuna
A meditar dell’Itale parole,
Ne’ libri, che svolgea, pensieri e affetti
Più non curava, se a lui stesso credi,
Ma voci solo ed etimologie;
785Tal chi del proprio core ambo le chiavi
All’eroina de’ miei canti affida,
Dal racconto patetico, dal sodo
Ragionamento fia che si dismaghi,
Perchè gli sbalza al guardo affascinato
790Un prepotente sciaradabil motto.
        Meglio, che riprodur sott’altro aspetto
Disfiorato vocabolo, ti sembri
Un vocabolo vergine produrre.
Conosco che non vuole arte men fina

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795Ridir con vaghe ed altre fogge il detto;
Membro che Tullio e Roscio ebber tenzone
A chi più moltiforme riuscia
Un medesimo pensier significando
Con frasi il Dicitor, con gesti il Mimo;
800Che il vate de’ tre regni in guise tante
Ambì di sporre, che Tiresia e Arunte
Nella pena infernal vedeansi il tergo;
E che Ippolito mio gli azzurreggianti
Mutò quindici volte occhi di Palla18;
805Ma ciò non sempre, che più d’arte acchiude,
Induce più diletto, e cotal vero
La mia pagina stessa ah! non rassodi,
Ove dall’artificio esca la noia.
E tengasi, che nuova intatta voce
810Di quella voce assai più cara torna,
Quantunque ornata di recenti vezzi,
Che alle lusinghe d’un primiero amante
Concesse il bello virginal suo fiore.
        Nè sol non difettate e nuove, acconce,
815Massime se ad un circolo proposte,
Le sciarade io vorrei; tenero motto,
Che rimembri d’amor gioie e tormenti,
Male s’accoglieria dove i tarocchi
Stanno attendendo cavalieri santi,
820Che, i presciti mustacchi abbominando,
Serban, reliquia del novantanove,
La bella ancor predestinata coda;
O rigide matrone, che, nel fosco
Mattutino zendado imbavagliate,
825Sole per umiltà, l’ebdomadario
Devoto biscottin portano agli egri;
O cappe o toghe, che zelando vanno,
Coi polmoni non men che colle braccia,
La legittimità delle Corone.

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830Parimente di giovani bizzarri
Nelle assemblee ridevoli, o proterve,
D’austero motto il torvo sopracciglio
Un Senocrate fôra ai molli in grembo
Tappeti d’Aristippo: loderesti
835Che que’ Severi ascoltino? più caro
M’è il primier, s’io propino a due begli occhi;
Dell’altro i lacci19, che Vittoria suona
Nella lingua d’Erodoto e d’Omero,
Rotti cantava pria, poi rannodati,
840Di Metastasio l’amorosa lira;
Non di vate l’inter, (ch’è Berenice)
Ma sospir fu di blando Imperadore.
E diresti a sbadata ragazzaglia?
Lagnavasi il facondo Nazianzeno
845Che esatte non ripetan le parole
Gli uomini, qual ripete il mio primiero;
È simbolo il secondo, o spento o acceso,
Di quella carità, che a noi nel petto
Langue pel terzo o ferve; in fra gli agnelli
850Metti anco il tutto, che lasciâr le poppe
Della lor madre, e semplici e lascivi
Combatton seco stessi a senno loro.
Ah! che l’eresiarca Ecolampadio,
E di Nazianzo il Sole, e le nodrite
855Del mistic’olio lampane, o digiune,
Delle vergin prudenti e delle stolte,
E la sposa di Cristo e il Nume eterno,
Son troppo serii obbietti e da mondane
Follie divisi troppo. Ai Tridentini

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860Padri la gravità del sacro enigma
Sulle labbra del dotto Fracastoro
S’addicea, se co’ ludi dell’ingegno
In compagnia festevole talvolta
Godean, nella stagion che al foco invita,
865I sottili cangiar dibattimenti
Sulla difficil grazia, e le temute
Decisioni sulla residenza.
Il tuo secolo pure e la moda anco
A blandir ti consiglio. Or che la stessa
870Montagna, ove s’inerpicano in frotta
Rimatori animosi e rimatrici,
Non più lo scudo di Minerva, ornato
Della Gorgone orrenda, a proprio stemma,
Nè l’arco tien del già canuto Apollo,
875Ma il segno trionfal di Costantino,
Tu farai, se a’ miei detti orecchio porgi,
Ben di rado venir sulla tua scena
Le Deesse d’Ovidio e i loro drudi.
Nè sol trarrai da veritiero e antico
880Volume il motto, che per te poi viene
Di luce e d’ombra destramente avvolto:
La novella, che uscì l’altrieri, e piacque,
Il romanzo, che ognuno oggi divora,
Lo storico, il filosofo d’un giorno,
885Che i sapienti avvenir rumineranno,
Il vate, l’orator, l’autore, l’opra,
Su cui, come su preda, già coll’ugne
I giornalisti piombano e col rostro,
Se un ipocrita obblio meglio non fieda,
890Avrai più famigliari. Esempio caro
D’antepor l’odierno all’ossoleto,
Il patrio al forestier, di fresco diede
Ai culti ingegni della nostra etate
D’Anna Allighieri la sentita figlia20,

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895Che a mascherata illustre danza giunse,
Non col nome, coll’abito e co’ fiori
Di pastorella, che in Arcadia nacque,
Non co’ veli funébri e i nereggianti
Velluti della misera Stuarda;
900Non ritraendo in sè la Ravennate,
Che insanguinava Rimini, quantunque
Sì calde sul domestico poema,
Per pietade di lei, lagrime sparga;
Ma più presto la tua, Cesare amato21,
905Giovin Romilda, quale a noi si mostra
Della Lombarda antica strenna in fronte.
Sventurata Romilda! In fra gli altari
Le fralezze d’un primo amor non vinto
Al ministro di Dio svelar credendo,
910Al marito svelavale, ed in vece
Della destra, che assolve, in alto il fiero
Lampo mirò del vindice pugnale.
Tu non vedesti, o Cesare, quegli occhi,
Le ciocche di quel crin, giù per lo viso
915Riccie e folte, e per l’omero diffuse,
Non udisti i sinceri universali
Plausi di questa tua Romilda intorno,
Tu22 che dai muri cittadini, e lunge
Dal tripudio di sale e di teatri,
920Solo e pensoso, del tuo laco in riva,
Placida vivi e dolce vita, i tuoi
Mesti amori or cantando, or la natura:
Pur, come di sì amabili trionfi
Sentore a te pervenne, il tuo di vate
925In pria gonfiossi moderato orgoglio,
Ma tosto, del natio laco quasi onda,
Che s’ingrossa un momento e poi ricade,

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Piano tornò, qual dianzi, e mansueto.
        Talor per simpatia, per gentilezza,
930Per blandire una Bella o un Sapiente,
Perchè, più che all’astratto, aprir la porta
Il cerébro dell’uom gode al concreto,
Altri l’enigma suo tesse alludendo
A luoghi a tempi a fatti ed a persone
935Peculiari al tutto: io non disdico
Che tu pure in adatta circostanza
Di pari guisa adopri; esigo solo
Che queste parziali e inconosciute
Allusioni, quasi di rimbalzo,
940E per certa gentil disinvoltura,
Dal conversar con fine donne attinta,
Scoprir tu debba a chi t’ascolta, o legge.
        È lecito produr sciarada mista
Di volontario equivoco e faceto,
945E di quella goffaggine voluta,
Che Tullio encomiò, praticò Volta,
E in Stratico destò bile, non riso?
Chiedemi qualche Saggio, ed io ripiglio:
Purchè di rado facciasi, e, siccome
950Nelle disconosciute allusioni,
Al lettore, o uditor, ne venga cenno,
È lecito: però l’Ontario laco,
Che nelle terre Americane stagna,
Amando sciaradar, nell’altro mondo
955Cerca il tutto, dir puossi, e frodolento,
Intendendo l’Antipode emisfero,
Al soggiorno accennar delle ignude Ombre:
Però l’amante di Sofronia, Olindo,
Quell’attillata lettera dir puossi,
960Che un dì venne di Solima tra i muri,
Per troppo amore e fè, legata al palo:
Similemente l’unica officina,
Che roba trista di spacciar confessa,
Ove indicar la merceria si voglia.

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965 Meglio assai di tal genere, che troppo
Rät ien, più che del lepido, del falso,
Reputa l’altro, che favella agli occhi,
E ch’uno è pur de’ nobili piaceri
Delle colte assemblee, massime quando
970Le scevre di sollazzo cittadino
Non brevi sere del novembre acquoso
Passino alla campagna. Esso vicina
Cogli adagi o proverbi, o sia parole,
Cui la maestra esperienza approva,
975Non già da labbro pedantesco usciti,
Ma dalla gaia pantomimic’arte,
Perchè tu debba indovinarli, pôrti
Al sagace tuo sguardo: e una gioconda
Villa tra i monti, che il mio fiume bagna,
980Alta Donna mirò, che la cortese
Del Moliere Italico fingea,
E prudente del par Mirandolina,
Benissimo acconciar di stanza e mensa
Color, che primi nella sua locanda
985Fingeansi capitati, ed il sezzaio
Disservito di tavola e di letto;
E tutta udì la risguardante folla
Sclamar: chi tardi arriva male alloggia:
E mirò sollazzevol drappelletto
990Di teneri garzoni ed ingegnosi
Imitar Barbariccia e Farfarello
Con le corna di carta e con le code,
E Cagnazzo, e Alichino, e Rabicante;
E ciascun di que’ démoni fanciulli,
995Iterando di piè colpi e di mano,
Dal seggio, che sedente ognor mutava,
Ora trarre a vicenda, or venir tratto,
Un diavol caccia l’altro i circostanti
Tra gli applausi gridando e fra i cachinni.
1000E tu del pari d’ogni tronco membro,
Che un immagin consente, e dell’intero

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Corpo tanti potrai diversi gruppi
Di persone formar, che un quadro vivo
Formino, ove più quadri insieme stanno.
1005Del mar la piaggia, che un’antica torre
Presenti, e sull’arena, umido ancora
Dell’onda mal varcata, un caro estinto,
E, di pianto e di morte il viso sparsa,
Donzella che si lacera le chiome,
1010E il petto si percuote, il primo quadro
Sia che tu sponi; un semplice tappeto,
Steso a terra o a muraglia sovrapposto,
L’altro; ed il terzo ampio delubro, a cui
Va con fiaccola accesa un furibondo;
1015Chi non esclama Erostrato? Ti giova
Figurare esterminio? Oh di che vario
Spettacolo e pomposo ogni pupilla
Pasci! nel primo gruppo la leggiadra
Di Mardocheo nipote, allor che bianca,
1020E lagrimosa, e da due fide ancelle
Soffolta, move all’alta grazia, e sviene;
Appunto quale io la vedea fanciullo
Dal colorar di Farinato espressa
Nel picciol tempio delle patrie scuole,
1025Ove la mia sì debole virtude
Non pochi attinse al retto oprar conforti;
Vedeala, e fu costei la prima Bella
Che da me dolci s’ebbe e lunghi sguardi.
La toletta di Venere e di Giuno,
1030Che ammisero d’accordo ai lor misteri,
Perchè troppo congiunti in amistade
Colle Grazie ministre, Albano e Appiani;
Toletta, onde oggi il Mella si rallegra
Nella magion d’un mite Cavaliero23,
1035Le cui splendide sale ogni Arte fregia,
Può fra l’acque odorose e le manteche

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E le polveri far che nel secondo
Tuo gruppo meglio il vivo minio splenda,
Sicchè questo ad ogni altro adornamento
1040La Dea bella preponga o la superba:
E del Fenicio Agenore la figlia,
Che, sul candido toro a Creta giunta,
Dicea: pria che per doglia io smuora e smacri,
Bella dato mi sia pascer le tigri:
1045Può vedersi involar quel minio stesso,
Che di Giove l’amor le valse, e l’ira
Di Giunone implacabile; ma i tempi,
Indulgenti cogli Angeli idolatri
Delle belle Mortali, di rigore
1050S’armano contro i Numi dell’Olimpo;
Ond’io ritrar ti esorto in quella vece,
Quantunque men così l’idea primaia
Parrà, d’un gran palazzo ad una vista,
Donde cenno real la capovolge,
1055Di Nabot la Nemica e de’ Profeti,
Che da’ cani fu poi lacera e morsa,
Purchè nella sua gala invereconda,
Più che cincinni e nastri e fiori e gemme,
Delle guance impiastrate il minio spicchi.
1060Ogni secolo ahi! troppo, ogni contrada
Vario tema può darti al gruppo terzo.
Ma se ritrar fiera vendetta e giusta
Vorrai, che a un popol conculcato insegni
De’ crudeli oppressor scuotere il giogo,
1065Sulle Sicule piagge, in fin del golfo,
Nel grembo a ridentissima pianura,
Sorga da lungi la regal Palermo;
Più presso, al Paracleto un tempio sacro;
Cada il Sol, tutta intorno la campagna
1070Fiorisca, e donne ed uomini giocondi
Ne’ prati il ritornar di primavera
Festeggino, e più ancora il Dio risorto.
Qualcuno ai panni, men che alla baldanza,

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Francese appaia, e a casta donna insulti,
1075Che lo respinga; la campana suoni;
Zuffa indi sorga e strage, e rida altera
Sicilia al fin dell’esterminio Franco.

        Tali, che a parte a parte io fin qui sposi,
La sofferenza tua forse abusando,
1080Lettore, o scoltator, le leggi e’ modi
Son dell’enigma, cui l’Europa intera
Oggi frequenta, e di che l’Asia anch’ella
Giovasi da gran tempo, e quel fiorito
Paese, ove tante arti ebber la culla,
1085E contro degli esterni assalitori
D’altissima muraglia a sè fa schermo.
Magonza non avean Friburgo e Amalfi
Le tre famose rivelato ancora
Invenzioni, che cangiâr la faccia
1090Del nostro mondo, nè straniere in China
Erano sin d’allor che il Veneziano
Polo a Pekin comparve. Dal caduto
Impero con Augustolo pur anco
Le stazioni a facili intervalli
1095Sulle maestre vie ristabilito
Italia non avea de’ corridori,
Che mutano a vicenda e son mutati,
E già vulgari erano in China; e diede,
Seguendo il senno del tornato Polo,
1100La norma a Italia del benefic’uso,
O cantor di Goffredo, un tuo bisavo;
Siccome il pel del sonnacchioso bruto,
Che i postali destrier fido guernisce,
E donde trasse la tua gente il nome,
1105Da secoli ben cinque a noi ricorda.
In Pekin dunque, sotto Gingiscano,
Fra mille dell’ingegno scaltrimenti
Proficui, dilettevoli, o bizzarri,
Questo pure enigmatico trastullo

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1110Marco Polo trovò, quando col padre
Vi pervenne e col zio, Maffio nomato
Questi, quei Niccolò; ma d’Agiarne
A un tenace proposto sanguinoso
Servia barbaramente. Era la vaga
1115Agiarne (de’ Tartari agli orecchi
Suona tal voce risplendente luna)
Cara di Gingiscan prole infelice
Quanto vaga e ingegnosa, e Marco stesso
S’avvide come ratto ella potea,
1120Volendolo, apparar gl’Itali accenti,
Che, uditi, ripetea con memor labbro:
Ma un suo cupo dolor la tiranneggia,
E in un pensier la tuffa, e la distorna
Dagli studii non men, che da’ piaceri.
1125De’ Cinesi monarchi o doppia Corte,
Cui sol divide un maestoso fiume,
E dove il men delle ricchezze è l’oro;
O superbi giardini, ove sovente
Arbori enormi, che da voi ben lunge
1130Stendeano a torto le frondose braccia,
Da’ natii seggi colle barbe loro
Disvelti, mercè d’argani e di ruote
Vengono ad aumentar rezzo e portento,
Quanto rapisce alle delizie vostre
1135Il dolor d’Agiarne! Ma, s’io piena
Dar del rammarco suo contezza debbo,
Le mosse mi convien prender più d’alto.
Raccapricciando ragionare udito
Avrai non una volta del tremendo
1140Veglio della Montagna, Hassan, primiero
Di quella stirpe, ed inventor nefando
Della setta Assassina. Una contrada
Abitava di Persia, anzi una valle,
Milice detta e fra due monti chiusa.
1145Bellissimo l’aspetto era del loco
Già da natura, ma poi l’arte molto

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Sudò nell’adornarlo, e ameno parco
Quivi costrusse ed elegante reggia.
Per canali venian fiumi di latte,
1150Di liquefatto mele, e del robusto
Licore allegrator, che il Monsulmano
A sè stesso negava, il cui digiuno
È solo, come raccertar poteo
Del regnante Mahmoud la sapienza,
1155Consiglio del Profeta e non comando.
Antri per tutto e comodi boschetti,
E sonore fontane, e cheti laghi,
E fere mansuete, ed amorosi
Pennuti, e femminili a quando a quando
1160Beltadi, più che rigide, proterve.
Ne’ ricchi del palagio appartamenti,
In capaci alabastri, a voluttade
Odorose e tepenti acque fomento,
E talami, e giacigli, e specchi arditi,
1165Che i misteri d’amor doppiano al guardo.
Paradiso tal loco i Saraceni
Chiamaro, e veramente paradiso
Il credeva ogn’illuso giovinetto,
Che per voler d’Hassan venía là tratto,
1170Assassino onde crescerlo. Guardava
Le strette fauci dell’arcana valle
Un ardua rôcca, bello e forte arnese
Da fronteggiar con prospera costanza
Plebeo tumulto, od agguerrito assalto.
1175Nella rôcca serbavasi l’imberbe
Adolescente frotta, e a quattro, a dieci,
A venti, traslavansi nel parco,
Poi che in ben alto sonno aveali immersi
Soporifera beva; risentiti,
1180Ed ammirati del divin soggiorno,
Pensavano che avean già traversato
L’Alzirat, ponte più d’un fil d’aragna
Non largo, che due mondi insiem collega,

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Sotto cui scorre vorticosa fiamma,
1185E subitani scoppiano fragori,
Di sgomento a colmar chi passa sopra,
E ch’eran delle Urì giunti agli amplessi.
Ove alcun degli adulti giovinetti
Spedir voleasi al tradimento e al sangue,
1190S’assonnava di nuovo, e nella rôcca
Si riportava, ed era il suo destarsi
Un fastidio di tutte umane cose,
Un’ansia d’acquistar di nuovo il cielo,
E per sempre. Il feroce al par che scaltro
1195Di tali insanie profittava, e i suoi
Biondi sicarii in questa e in quella parte
Mandava; chè il morir di gioia, non duolo,
Lor riusciva. Quanti prenci e quanti,
Onde sottrarsi ai subiti pugnali,
1200Con prudente viltà si fêr del Crudo
Tributarii! L’obbrobrio sanguinente
Cento il mondo sofferse anni e cinquanta
D’Hassan nella prosapia; e fu supremo
Vegliardo Aloadin, che il generoso
1205Tabur mandò sotterra. Era il garzone
Figliuolo al re di Samarcanda, e in campo
Valore, ne’ consigli, oltre l’etade,
Mostro prudenza avea; ma un suo scettrato
Confine, assai temendone, dal Veglio
1210Comperò sua morte; e giubilando
La vendette Costui, che lo avversava,
Però che il genitor sempre distolse
Dall’offrirgli tributo, e con indegno
Vassallaggio mercando abbietti giorni,
1215Quasi approvar cotanta immanitade.
Il reale garzon Samarcandese
Fervea per Agiarne, e pari fiamma
La donzella struggea, che, pria che moglie,
Vedova, più di talamo non volle
1220Udirsi favellar: quando le inique

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Arti fur conte, onde Tabur si giacque,
Il padre, a vendicarla, eletta schiera
In Milice mandò, ma l’afforzata
Rôcca fu inespugnabile; soltanto
1225Trionfolla nel terzo anno la fame,
I brandi allora le bipenni e il foco,
Non pur la reggia e il parco, Aloadino
Struggendo, e tutta la sua stirpe rea.
        Ma non l’alta vendetta, e non gli alterni
1230Ricreamenti, con che cerca il padre
Alleggiar della figlia il muto duolo,
Conseguono l’effetto. In van le danze
Fervono nella Corte, e ne’ giardini
Colla rapida man stupendi incanti
1235Fan gli sperti apparir tragettatori;
Sempre mesta è Agiarne. Il padre intima
Sollazzevole caccia, e spranghe e funi
Sovra quattro congegnano elefanti
Portatil sala, covertata fuori
1240Di leonine pelli, e dentro agiata
Di tappeti e origlieri, ove si corca
Gingiscan mollemente, i dolci figli
Seco tenendo e maggiorenti e dame:
Gli cavalcano intorno i suoi scudieri,
1245Che, gru vedute spaziar per l’alto,
Sire, passano gru, dicono; e il Sire,
Tolti di botto i leonini cuoi,
Ai lanieri falcon disserra il varco,
Che rotano per l’aere, e que’ passanti
1250Ghermiscono, indi recano alla sala.
Talor cavalca Gingiscano istesso,
E piglia in groppa un educato pardo,
Che, sguinzagliato, fa su daini e cervi
Quello che sulle gru lanier falcone.
1255Ma l’afflitta Agiarne: O Genitore,
Un conforto, miglior delle tue cacce,
Assenti alla tua figlia, e, sin che duri

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Il piacer del Monarca e della Corte,
A me pur di Pekino uscir concedi.
1260Sul vôto avello di Tabur tradito,
Che fra le patrie tombe io gli sacrai,
(Quando il corpo sen giace in Samarcanda)
Alcun riposo avrò. S’accora il padre,
Nè però le si oppon: la Dolorosa,
1265Fra le tombe a venir, di Pekino esce;
Chè i cimiteri fuor delle cittadi
Tanto pria dell’Europa ebbe la China;
Come Pekin, pria di Venezia tanto,
Ebbe un’eccelsa torre, e sulla cima
1270Notturna vigilante sentinella,
Che velettava intorno, e, dove o foco
Scoppiasse d’improvviso, o movesse oste,
Con due legni battendo un gran tamburo,
Dotta del rischio suo fea la cittade.
1275Or pensa se altro talamo Agiarne
Salir potrà: ben ne la prega il padre,
Ma vanamente; e, se talvolta impera,
L’altra l’ordin declina; e, poichè vuoi,
Sposa, dice, verrò, ma di garzone,
1280Che i viluppi enigmatici, ch’io tesso,
Sia tanto a sciorre, ed, altrimenti, perda
Sul patibolo il capo, e dell’oltraggio,
Che a lui recava contrastargli osando
La fida sposa, il mio Tabur consoli.
1285Nè sol gli enigmi tessere l’Accorta,
Ma proporli vuol ella ai folli amanti
In tutto lo splendor di real pompa,
Che bellezza le cresce e maestade,
E nel Divano, perchè il luogo anch’esso,
1290Oltre lo sfolgorar di sì cari occhi,
Li smarrisca e confonda, e vincitrice
N’esca ella sempre. Quanti capi e quali
Di Pekin sulle porte all’aste infitti,
Senza che mai per questo imparin senno

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1295I garzoni, o la Vergine pietade!
Dell’enigma, ch’io canto, un sì fiero uso
In Pekino trovò, quando vi giunse,
Marco Polo, e pentito Gingiscano
Che soverchio indulgesse al pertinace
1300Della figlia dolor. Giovane e ardito
Il Veneto era e generoso, e molto
Stavagli a cor quel barbaro costume,
Da prima divenuto incauta legge,
Abolendo, perenne ed onorata
1305Lasciar di sè memoria a sì gran Corte.
I vezzi d’altra parte e la beltade
Potean di Marco sovra il cor gentile,
Ma non sì che alle grandi congiunture,
Che il magnanimo tentano, incapace
1310A resistere ei fosse, e d’assennata
Costanza a inusbergarsi e di rigore.
Dunque fra sè dicea: Della Donzella
Io l’arti affronterò; s’io vinco, annullo
La legge detestata, e, ov’io soccomba,
1315Sol dell’averlo cerco immensa lode
Procaccio al nome mio; chè non per brama
Combatto d’ottener la Principessa,
Ma tanto di sparmiar garzonil sangue.
Grande il Gingiscan, che un grande affetto
1320Già per Marco nutria, fu la tristezza,
Quando non avvertito nel Divano
Sel vide comparir contro la figlia,
Presentando al Consesso un chiuso foglio,
Da leggersi, dicea, dopo il cimento.
1325Fra la seduzion di nere gale
Agiarne entra intanto; e Marco in piedi
Nell’alta idea d’un benefizio illustre,
Che impartir spera, assorto, ode e non vede.
Il mio primo son ceruli canali,
1330E vi scorre per entro un’onda rossa,
L’Ingegnosa sclamava, che addestrata

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Alquanto nel sermon s’era di Marco,
Persuasa ch’ei pur di lei perduto
Correr vorrebbe la funesta lancia.
1335Quanto il secondo tuo, la sposa intendo
Dell’avuncol Maffio, s’ella presente
Qui fosse, e, più, la tua diletta madre,
Palpitar non dovrebbe in tale istante
Per te, che nella fossa un piede tieni!
1340Dell’intero sin qui sonan portenti,
Ma tu te ne dilunghi, e veramente
Meco giunto, infelice! a questa gara,
Che nol vuoi riveder ci manifesti.
Alquanto riposò la china fronte
1345Polo sovra la manca, indi rispose:
Real Donzella, come vaga e cruda,
Di fermo, gentil sei, ma ne’ presagi
Veridica del par non ti conosco.
Con un piè nella fossa ancor non sono;
1350Ben potresti esser tu nelle mie braccia:
Nè smarrirti di ciò, nè il corso usato,
Per dispetto, o cordoglio, affretti, o allenti,
La rossa onda ne’ ceruli canali,
Il sangue voglio dir del tuo primiero,
1355Che certo il tuo primier sono le vene.
Se il mio secondo, la diletta zia,
E l’ancor più diletta genitrice,
Per lo biondo mio capo a un’asta infisso,
Non bagnerà di lagrime la guancia,
1360Non per questo vorrò che mai nipote
L’una possa chiamarti, e nuora l’altra.
Al tuo tutto, del mare alla Reina,
A Venezia, che a me, gentil Donzella,
Caramente tu memori ed esalti,
1365Temi in van ch’io ti adduca, e ch’io sostegna
Del tuo Tabur dall’adorata tomba
Strapparti: si disserri il suggellato
Scritto, ch’io diedi, e leggasi: « Prometto

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« Io Marco Polo, che, qualor m’accaschi
1370« Scioglier l’enigma d’Agiarne, mai
« Non sarà che al mio talamo io l’astringa.
« L’incauta onde abolir cruenta legge,
« Lei tento di far mia; mia divenuta,
« Non v’han più dritto genitore o amanti;
1375« Io la cedo a sè stessa, ed ella puote
« Sceglier, donna, di sè, talami o tombe.
« Nella scrittura mia tanto dichiaro,
« Perchè, s’io cado nel cimento, sappia
« L’Asia e l’intero mondo, e, più, Venezia,
1380« Che un giovin figlio delle sue lagune
« Non, siccom’altri, per fruir gli amplessi
« Di questa rara Tartara beltade,
« Ma per tor legge infausta a fausto impero,
« E il proprio nome ornar d’eterna fama,
1385« Affrontò l’alto rischio e vi soggiacque ».
A fiera bile di vedersi vinta,
E più, d’amante, qual tenealo preda,
Sottentra in Agiarne a poco a poco
Maraviglia, conforto, e quasi gioia
1390Di scoprir nel rivale una tanto eroe.
Aperto nelle braccia, Gingiscano
Gli va incontro, il ringrazia, il loda, e giura
Che liberi gli affetti d’Agiarne
Sempre vorrà. Di preziosi doni,
1395Cui Marco rifiutar credette orgoglio,
Non che la figlia e il padre, ogni Barone
Largamente il colmò, ma più coloro,
Ch’esposta di quel fascino al periglio
Avean del miglior sesso adulta prole.
1400Di Ceilan i rubini, e le ritonde
Grosse perle vermiglie, onde l’estremo
Giappon le sue frequenti isole ingemma,
Perle assai delle candide più care,
Fra i topazii, i carbonchi, e gli smeraldi,
1405Eran di Polo nel tesoro immenso:

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E pria vinta Agiarne, e poi ceduta,
E Baroni magnifici, che a prova
Fean di mostrarsi grati e sontuosi,
Fur la vera cagion di quel tesoro,
1410Ond’ei, nuovi compiti ardui viaggi,
E poi reduce ai patrii focolari,
I più lauti abbagliò concittadini,
E a sè di Milion vendicò il nome.
Così, di bella principesca mano
1415Fatto, non per viltade, il gran rifiuto,
Lode ottenne e ricchezza; indi lasciando
Pekino, e d’Asia trascorrendo i liti,
Reverito da tutti, a tutti caro,
Tesor più bello d’adunar si piacque;
1420Trovati egregi, mediche radici,
E scorze, e gomme, e polvi, e aromi, e droghe,
Che, sconosciuti dianzi all’Occidente,
Dai regni dell’Aurora ei portò primo;
E, meglio, varia sapienza, attinta
1425A regione tante, a tante genti.
Sia che per la sabbiosa ei s’aggirasse
Landa, che dalla China il Tibet parte,
Renajo degli Spiriti nomata,
Però che incontra ne’ silenzi orrendi
1430Di quell’ermo talvolta e della notte
Strepito d’oricalchi e di tamburi
Ascoltar d’improvviso, e il viandante,
Che move in caravana, se per sonno
O per lassezza mai dietro rimanga,
1435Dei compagni s’avvisa udir le voci,
A nome ode chiamarsi, e il lor viaggio
Quei seguon taciturni, e son gli Spirti
Del renajo malefici, che gioco
Fansi del derelitto, e lui di senno
1440Traggon spietatamente e di cammino:
Sia che vedesse i carri ricoverti
Di feltro impenetrabile alla pioggia,

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Che de’ Tartari son nomadi case.
O il festeggiasse la provincia gaia
1445Appo la gran muraglia, che in sollazzo
Tra suoni e canti sempre e cene e danze
Passa la vita, e, quando forestiero
Cápiti, si raddoppiano i tripudii,
E i benigni consorti alle mogliere
1450Fidanlo, e per tre giorni escono fuori;
Intanto il forestier dalla finestra
Cappello o ciarpa, come frasca ostiero,
Spone, per avvisar ch’ei tuttavolta
Indugia, e che il marito ancor non rieda.
1455O, singular non meno, il Tibet, dove
Alle donzelle ogni felice drudo
Di sua felicità dona un segnale,
E qual di loro più segnali vanta
Quella si preferisce a dolce sposa.
1460Se non che esempi, da ritrar più degni,
E più da trasportar di qua da’ mari,
In Caver scôrse, oriental cittade,
Ove cinque regnavano fratelli,
Tra i quali, se talor guerra sorgea,
1465S’interponea la madre, e, se ostinati
Duravano e feroci, il sen nudato,
E brandito un coltello, ah! queste poppe,
Dicea, punir saprò, che infausto latte
Vi porsero, o germani; i figli allora,
1470Per pietà della madre, ogni rancura
Spogliavano, e fra lor riedea la pace.
So che al vero talor nel suo volume
Marita i sogni e le stupende fole,
Questo d’Italia nostra Humboldt vetusto;
1475Il fiel del gran colubro, o coccodrillo,
Se credi a Polo, del rabbioso cane
Risana i morsi, e alle nicchianti donne
Della maternità la gioia affretta;
Il grifone, quadrupede pennuto

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1480Dell’Africano ciel, da terra leva
L’anguimano elefante e in aria il porta.
Ma ciò che per veduta attinse Marco,
O per udita, cerner vuolsi, e troppi
V’han Sapienti che ne’ lor quaderni
1485Notan scredute intese maraviglie,
Il vero d’appurar, la cura al tempo
Lasciata, ed al solerte acuto esame;
Chè il dissimile al ver vero è pur anco.
Della credula età qualche fiata
1490Drizza Polo le torte opinioni;
Che solo da una vergine sopporti
Di venir côlto il gran rinoceronte;
Che gli uomin cubitali della cinta
Dall’Indiano mar florida Java
1495Uomini sien da senno, e non piuttosto
Con zafferano acconce, e il corpo intero,
Fuor muso e pettignon, pelate simie;
Salamandra non finta, perchè il foco
Purgalo solamente e nol consuma,
1500L’amianto chiamò, filabil marmo;
Nè delle nere pietre, che, quai brage,
Ardono, e assai più a lungo che le legne
L’ardor tengono, pietre onde van liete
Del Catai le montagne, e l’util sono
1505Litantrace, a’ dì nostri in tanta voga,
Si tacque. Ei fra’ moderni a’ naviganti
Primo seppe accennar l’uso ed il tempo
Delle etésie; le donne e i dilicati
Denno a lui, se le nari allegrar sanno
1510Col muscado odorifero, un umore,
Ch’or sulle rupi e gli alberi, a’ quai viene
Fregando l’ombelico postemato,
Del nevoso Tibet lascia una cerva,
Or le ruba dell’uom l’arbitro ferro.
1515E tanto eroe, che tanti in Asia rischi
Vinse, e fu amor di popoli e di regi,

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Cadea prigione sovra i patrii mari,
E dell’Italia sua, sempre divisa,
Sempre in guerra fra sè, prigion cadea?
1520Gioisci, ben ti sta, dell’arse, o prese,
Là nell’acque di Curzola triremi,
Di Venezia rival, Genova altera;
Se adornar non può, vivo, il tuo trionfo
Dandolo, l’Ammiraglio, che d’incontra
1525Al maggior pino della vinta nave
Si fracassava la delira testa,
Perchè, cinte le mani di catene,
Gli contendean la morte desiata,
Sorvive Polo, gloriosa spoglia,
1530Adriaca non pur, ma d’Oriente.
Ed egli, prigionier fra le tue mura,
La bozza nel nativo dialetto
A Francese palmier fia che consenta
De’ suoi per l’Oriente ardui viaggi,
1535Che nel Franco sermon la prima volta,
Nell’Italico poscia e nel Latino,
S’ammireran; ma d’Agiarne quivi
Scomparirà l’istoria; chè, smarrita
Della bozza la pagina amorosa,
1540Rinverralla soltanto a’ dì più tardi,
Vivo ornamento di Liguria bella,
L’erudito24 Spotorno. Io lo inchinai
Tra i codici e i papiri, or compiè l’anno,
E nell’alterno favellar giocondo
1545Dell’alato leon vassallo un tempo
Udendomi, il cortese Sapiente
La lieta mano a un suo guardato scrigno
Stese, il dischiuse, e la vetusta carta
Trattane, e letta: Guarda, mi dicea,
1550(Se vision non fu pur questo o sogno,

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Come la Donna a me sull’Adria apparsa)
Del dialetto tuo bel monumento.
Sì, gli soggiunsi, è degno che Vinegia
De’ Dogi suoi nelle superbe sale
1555Entro marmoreo cippo il custodisca,
Siccome i documenti venerati,
Discoverti da te, che il tuo Colombo
Proprio nel cinto delle patrie mura,
Non sul propinquo Savonese lido,
1560Del matern’alvo uscia, Genova serba.
Solo ch’io non vorrei, per arricchirne
Venezia, impoverir la tua cittade;
Avventuroso assai, se quanto or lessi
Di Polo e d’Agiarne consentito
1565Mi venisse ridir. Per lo cerebro
A me da lunghi mesi un estro ferve,
Che dell’enigma più fra noi vulgato
Cantar vorria le leggi: oh, sìio di Polo
Colla storia le infioro e d’Agiarne,
1570Di quanto le ricreo! Tua brama s’empia,
Spotorno ripigliò; passato è il tempo
Delle vendette Italiche e degli odi,
E l’amistà fra te Veneziano
Già stretta e questo ligure gentile25,
1575Che in te la giusta ed erudita sete
Ammorza delle nostre raritadi,
È di quella amistà, che tutti or gode
Gl’Itali rannodar, simbolo caro.
        Alle patrie colline io tornai poscia,
1580E lentamente il mio disegno antico
Venni incarnando; ma gli austeri Sofi
Diranno, e la presente utile etade,
Che in sì misero tema abbiettai l’arte;
Ch’altro da’ vati pur chiede oggi il mondo;
1585E che quel Jone io son, che, mentre al corso

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Destri veniano, al pugilato, al disco,
Dell’Olimpica arena i combattenti,
Chiamava a sè la spettatrice turba
Con vana maestria fuor saettando
1590Dalla cruna d’un ago il sottil miglio:
Onde non lauro ambito, od oppio, o ulivo
Conseguì l’ardua, più che bella impresa,
Ma un vulgar moggio del negletto grano.
        Calinsi dunque omai le stanche vele,
1595E del loro gonfiar quasi pentite;
E, quando io le calava e vedea ’l porto,
Nel maggior tuo delubro, alta Milano,
La Lombarda corona Ferdinando
Alle tempie cignea, sull’onde salse,
1600Da custodir nel tuo tesono, o Marco,
Il Veneto spedia compagno scettro,
Acciocchè quella unicamente o questa
Non vantasse metropoli rivale
I segni entrambi del congiunto regno;
1605E l’arco, d’architetti e di scultori
Moltilustre fatica, alla Vittoria
Destinato dall’Uom, che per le chiome
Lungamente la tenne, inaugurava
Il pacifico Augusto a miglior Nume.



Note

  1. Teotochi Albrizzi.
  2. Rachele Londonio.
  3. Teresa Mosconi Papadopoli.
  4. Caterina Quirini Polcastro.
  5. Antonietta Pola Albrizzi.
  6. Tommaso Gargallo.
  7. Adriana Renier Zannini.
  8. Luigi Carrer.
  9. Lodovico Jablonovski.
  10. Adamo Fumáno e Scipione Maffei cantarono latinamente, l’uno la Logica, l’altro l’Aritmetica.
  11. Animale dei climi caldi, tra il cane e il lupo, che ha questa proprietà.
  12. I Dittonghi italiani d’Ilario Cesarotti.
  13. Mon premier est musique, mon second est musique, mon tout est musique. Chan-son.
    Mon premier est l’immensité, mon second est la clarté, mon tout est l’éternité. Tou-jours.
  14. Fiume altero - è il mio primiero;
    Per la morte - d’un gran forte
    Chiaro al mondo - è il mio secondo;
    Il mio tutto è un ente ardito,
    Or lodato, ora schernito
    Che con anima secura
    Tutta abbraccia la Natura.
    Vincenzo Monti
    Odi il primo sclamar dai marinari
    Quand’hanno al lor desio gli austri contrari;
    L’altro è il Divin che con divini carmi
    Cantò le gregge, le campagne e l’armi;
    Ed il tutto è il vasel di quel liquore,
    Che a molti reca infamia e a pochi onore.
    Giulio Perticari
  15. Tommaso Gargallo
  16. Lavinia Pompei
  17. Il cav. Giuseppe Manno autore De’ Vizii de’ Letterati, Della Fortuna delle parole, e d’una Storia della Sardegna.
  18. Nel tradurre l’Odissea.
  19. Sento da’ lacci suoi,
    Sento che l’arma è sciolta;
    Non sogno questa volta,
    Non sogno libertà.--
    È ver da’ lacci suoi
    Vantai che l’alma è sciolta;
    Ma fia l’estrema volta
    Ch’io vanti libertà.
  20. Teresa Di Serego Allighieri
  21. Cesare Betteloni
  22. Allora il Betteloni non avea scritto la sua ode a Carolina Ungher
  23. Il conte Paolo Tosi
  24. Autore della Storia letteraria della Liguria, e del Codice diplomatico Colombo-Americano.
  25. Eustachio Mongiardino.