La scotennatrice/IX. La pineta dei giganti

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IX. La pineta dei giganti

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IX.


La pineta dei giganti.


La nazione degli Sioux è la più potente che ancora esista nell’America del Nord ed anche la più bellicosa, poichè se fu più volte sottomessa, non fu mai interamente vinta.

Il nome di Sioux veramente non è il loro proprio, poichè nella loro lingua si fanno chiamare Dakotas, ciò che sembra significare gli alleati, essendo la loro tribù composta di Chayennes, di Brûlee, di Yanktoni, di Ponkans, di Santés e di altre piccole frazioni ormai assorbite. Secondo altri avrebbe il loro nome un altro significato: gli ubriachi.

Dakotas od Ubriachi, la nazione degli Sioux è sempre stata quella che ha dato maggiormente da fare agli Stati Uniti dell’America settentrionale, e che ha opposto la maggior resistenza alla marea degli uomini bianchi provenienti da ponente e da levante soprattutto.

Sessant’anni or sono questa tribù non contava che tredicimila guerrieri sparsi su una superficie immensa, poichè era vasta quanto l’Inghilterra, la Francia e la Germania riunite.

Le terribili e sanguinose lotte sostenute per anni ed anni contro le tribù canadesi degli Uroni e dei Chippeways, appartenenti a razze non meno bellicose, l’avevano stremata.

Vent’anni di pace non avevano però tardato a rinvigorire straordinariamente la nazione, portando i suoi figli a poco meno di cinquantamila.

Quel rapido aumento fu un male per la colonizzazione e per l’avanzata della marea bianca, perchè gli Sioux, consci della propria forza, ed appoggiati anche dalle tribù dei Comanci e degli Arrapahoes, non meno nemiche del viso pallido e non meno guerriere, nel 1854 dissotterravano la scure di guerra sepolta da vent’anni, sorgevano furiosamente in armi e dichiaravano la guerra. [p. 88 modifica]

Ingannati dalle promesse degli agenti americani, resi feroci per l’avanzarsi continuo dei pionieri dalla pelle bianca, che invadevano le loro terre senza nemmeno dire: guarda che te le prendo, e più di tutto contro l’invasione dei cacciatori che distruggevano le immense colonne dei bisonti emigranti che formavano quasi l’unico loro sostentamento, poichè la terra non la coltivavano, avevano deciso di tentare la lotta.

Sapevano di avere da fare con un nemico strapotente, brutale non meno di loro, perchè non avrebbe risparmiato nè le loro donne nè i loro fanciulli, pure non tornarono a sotterrare l’ascia di guerra.

Gli uomini rossi, che già vedevano la loro razza sparire a poco a poco sotto l’invasione bianca, piombano furiosamente sulle fattorie, scannano e scotennano, e, sorpreso un distaccamento di volontari americani, lo fanno completamente a pezzi, facendo grossa raccolta di capigliature.

La loro fortuna doveva però essere di breve durata.

Il Governo di Washington, allarmato da quella terribile alzata di scudi, manda il generale Harney con un buon numero di truppe, e dopo una serie di combattimenti vince la nazione imponendo durissime condizioni.

Nove anni dopo gli Sioux, vinti sì, ma non mai domati, stringono alleanza coi Chayennes e cogli Arrapahoes e dissotterrano l’ascia.

La marea bianca non aveva cessato di avanzare e d’impadronirsi dei loro territori e di distruggere le loro riserve di caccia.

Per l’indiano, non coltivatore, come abbiamo detto, si trattava di vita o di morte.

In un momento tutto il Colorado è in fiamme. Le fattorie dei pionieri americani sono incendiate; gli abitanti sono macellati e scotennati, senza risparmio di donne e di bambini; le corriere che viaggiano da S. Louis a S. Francisco di California sono fermate ed i passeggieri uccisi.

Drappelli di volontarî americani mandati frettolosamente contro di loro subiscono l’egual sorte.

Resi audaci, assalgono in gran numero il forte Sendgwik nel quale si erano precipitosamente rifugiati tutti gli emigranti che in quell’epoca attraversarono il Colorado per invadere le regioni dell’Ovest, ma vengono respinti a colpi di mitraglia e con migliaia di obici.

Allora tornano a rovesciarsi nella prateria e mettono a ferro ed a fuoco le frontiere del Nebraska, del Colorado, del Wyoming e perfino quelle dell’Utah battute dalle bande degli Arrapahoes.

Per un anno e più infuria la guerra, con grande strage dei coloni americani dispersi nel Grand’Ovest, ma il 29 novembre del 1864 il colonnello Chiwington, comandante del 3° Reggimento dei volontari del Colorado, sorprende i più famosi capi indiani raccolti a gran consiglio [p. 89 modifica]sulle rive del Sand-Creek (ruscello delle sabbie), piccolo affluente delle sabbie.

Gl’indiani erano cinquecento fra uomini, donne e molti fanciulli.

Erano per la maggior parte Arrapahoes e Chayennes, guidati da Caldaia Nera, da Antilope Bianca, da Mano Sinistra e da Yalla, sakem degli Sioux con Nube Rossa suo marito, sakem dei Corvi.

Nel momento dell’attacco, il colonnello, non meno selvaggio e non meno barbaro degli indiani, grida ai suoi uomini:

— Ricordatevi delle vostre donne e dei vostri figli assassinati sulla Plata e sull’Arkansas!...

Gl’indiani, sorpresi ed impotenti a far fronte a quei mille e duecento uomini, alzano la bandiera bianca per parlamentare, ma il colonnello scaglia le sue truppe su di loro ed una mischia spaventosa, tragica, s’impegna.

I capi indiani fanno prodigi di valore combattendo colle carabine prima e coi tomahawak dopo, ma cadono sotto il numero strapotente dei vincitori, i quali dimostrarono in quell’occasione tutta la leggendaria brutalità americana.

I guerrieri furono scotennati, morti o feriti, le donne sventrate e private delle dita per carpire loro gli anelli, i bambini schiacciati contro le pietre.

Quattrocento indiani riuscirono nondimeno, con una rapida fuga, a mettersi in salvo, perdendo però i loro più famosi capi, rimasti in difesa delle donne e dei fanciulli.

Caldaia Nera, Antilope Bianca, Mano Sinistra, Yalla, il Guercio, Ginocchio Compresso, Piccolo Mantello furono scotennati dai vincitori.

Il Governo di Washington, indignato per quel macello che fu poi chiamato Chivington-massacre, destituì il vincitore, il quale in tutta quella battaglia, combattutasi contro donne e fanciulli e pochi sakems valorosi, non aveva avuto che due morti e pochi feriti.

Quel massacro non aveva però vinta la guerra, anzi aveva resi più furibondi che mai gl’indiani.

Compresa la loro debolezza, le nazioni alleate stringono amicizia coi Kyoways, cogli Apaches e coi Comanci loro antichi nemici, e la guerra si riaccende più feroce.

Le donne ed i fanciulli indiani macellati sul Sand-Creek sono vendicati ad usura, e centinaia di capigliature vanno a ornare i wigwams degli uomini rossi.

Nell’ottobre del 1867 la guerra finalmente cessa col celebre trattato di pace firmato a Kansas.

Era però una pace effimera. La marea bianca non aveva cessato di spingersi verso il Grand’Ovest, invadendo le migliori regioni del territorio indiano.

Si uccideva e si bruciava sempre sulle frontiere del Colorado, del Wyoming e dell’Utah. [p. 90 modifica]

Le pelli-rosse, sempre più irritate dalle prepotenze e dalla brutalità dei coloni americani, di quando in quando si prendevano delle terribili rivincite, e non solamente negli Stati Uniti, bensì anche sulle frontiere del Messico, per rispondere alla selvaggia ed inumana legge di quello Stato, il quale offriva cinquanta dollari per ogni capigliatura indiana presentata a qualunque cabildo delle città messicane.

Per scongiurare nuovi disastri, il governo americano, per mezzo del generale Harney, offre agli Sioux trenta milioni per lasciare i loro territorî.

I rossi guerrieri rifiutano sdegnosamente la proposta e dissotterrano, nel 1873, la scure di guerra, aizzati da uno dei più grandi e rinomati guerrieri della loro razza: Sitting-Bull (Toro Seduto).

Questo terribile guerriero, che doveva più tardi dare dei grandi fastidi alle truppe americane, era nato nel 1837.

A soli dieci anni si era acquistata, al pari di Buffalo Bill, una fama straordinaria come cacciatore di bisonti.

A quattordici anni uccideva e scotennava il suo primo nemico, un uomo bianco s’intende, che l’aveva provocato, e prendeva il nome di Tatanca Jotanca, che in lingua indiana vuol significare Toro Seduto e che conservò fino alla sua morte.

Nel 1877 era sakem degli Sioux.

Aveva già preso parte a ventitrè combattimenti che aveva avuto la cura di dipingere, bene o male, sul suo mantello da guerra di pelle di bisonte.

Dichiarata la guerra, stretta alleanza colle altre tribù indiane, gli Sioux, fidenti nel valore del loro capo, piombano sulla prateria, decisi a morire tutti piuttosto che cedere al governo di Washington il loro territorio.

Minnehaha, la sakem dei Corvi, era con loro, con Nube Rossa suo padre, decisa a vendicare Yalla, sua madre, che John, l’indian-agent, aveva scotennata nel massacro di Sand-Creek.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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— Gl’indiani!... Badate alle vostre capigliature!... — aveva esclamato Turner, nel momento in cui il piccolo drappello, sfuggito incolume dal terribile incendio della prateria, si cacciava nella pineta.

John, Harry e Giorgio, udendo quel grido si erano precipitosamente gettati dietro il gigantesco tronco del pino, armando contemporaneamente i loro rifles.

— Dove sono, Turner? — aveva chiesto l’indian-agent.

― Attraversano l’ultimo lembo della prateria bruciata, ma pel momento non corriamo alcun pericolo. [p. 91 modifica]

«Oh, sono ancora lontani ed abbiamo una foresta superba alle nostre spalle.

«Per bacco!... Abbiamo dato dentro a dei big-trees (alberi grossi) che non si trovano nemmeno sulle falde della Sierra Nevada californiana.

— Dove sono? — chiese per la seconda volta John.

— Là, guardate, galoppano verso le prime alture. Corpo d’un bisonte!... Sono in buon numero quei furfanti. Vedete, John?

Una bestemmia fu la risposta dell’indian-agent.

Aveva purtroppo veduto e come aveva veduto!... Il mantello bianco che spiccava vivamente fra i guerrieri Sioux e Corvi e soprattutto sullo sfondo nerastro della prateria, distrutta dalla tromba di fuoco, gli aveva aperto d’un sol colpo gli occhi.

— Minnehaha!... — esclamò poi, facendo un gesto di terrore. — Ella ha indossato il grande mantello di sua madre!...

— Ah!... È la Scotennatrice!... — disse Turner, senza apparire troppo sgomentato. — Non mi dispiacerebbe incontrarmi con lei da solo a solo, col coltello da scotennare in pugno.

— Come vedete non è sola.

— Purtroppo, mio bravo John. Ha una sessantina d’uomini con sè e che mi sembrano ben montati.

«Se continuano quella corsa, fra mezz’ora saranno qui ed allora, mio vecchio John, dovrete prepararvi a restituire una capigliatura che non sarà quella di Yalla, bensì la vostra.

— Non scherzate, Turner. Mi pare di sentire, in questo momento, la fredda lama d’una navaja o d’un machete passarmi fra la scatola ossea e la cotenna.

— Ciò potrebbe anche succedere, più tardi però, poichè in trenta minuti possono succedere molte cose.

«Qualche volta per un solo secondo io ho salvata la mia pelliccia. Vedete bene che l’ho addosso ancora.

— Che cosa fare? Siamo senza cavalli — disse John, coi denti stretti.

— In mezzo a questa foresta i cavalli non sarebbero di gran giovamento, amico. Raccomandiamoci alle nostre gambe e cerchiamo un nascondiglio.

«I Laramie sono ricche di cañones e di caverne. Che cosa dite voi, Harry?

— Che non troverei altra migliore soluzione.

— E voi, Giorgio?

— Che mi sentirei più al sicuro se mi trovassi fra i volontari del generale Custer.

— L’Horse è lontano, quindi è inutile pensare a quella gente. Cerchiamo di trarci d’impaccio da noi, giacchè non possiamo contare, almeno pel momento, su nessun soccorso.

«Gambe in spalla e via!... La grande foresta ci protegge.

I quattro avventurieri, già convinti che gl’indiani non avrebbero [p. 92 modifica]tardato a scoprire le loro tracce, tanto più che avevano attraversata la prateria a piedi, lasciando dovunque, sulla cenere, abbondanti tracce, si erano messi a correre attraverso la foresta colla speranza di trovare un nascondiglio sicuro.

Cercavano però soprattutto un creek qualunque, ossia un torrente, per far perdere agl’indiani le loro tracce, sapendo per esperienza quanto fossero abilissimi cercatori di piste, superiori perfino ai migliori cani.

Rimontando la corrente avrebbero potuto ingannarli facilmente.

Di passo in passo, mentre salivano la gigantesca catena, la foresta diventava sempre più maestosa, sempre più imponente. Niente aveva ormai da invidiare a quelle famose della grande sierra californiana.

I famosi baobab del Senegal e dell’Africa centrale, che sono i più colossali per vastità di rami e per grossezza di tronchi, sfigurano in confronto alla magnificenza dei big-trees americani, che sono alti come torri, con tronchi enormi, vecchi di migliaia e migliaia d’anni e saldi come le montagne nelle quali hanno affondate le loro poderose radici.

Essi hanno veduto, dall’alto delle loro cime immense, l’uomo preistorico, e fors’anche i grandi animali antidiluviani come i mastodonti, gli enormi iguanodonti e gli spaventosi megaterium che potevano giungere, alzandosi sulle zampe deretane, fino alle finestre dei terzi ed anche dei quarti piani delle nostre case moderne.

Studi recenti compiuti da coscienziosi botanici, hanno assegnato a questi big-trees, meglio conosciuti sotto il nome di sequoja, una età rispettabilissima di ottomila anni!... Ciò vuol dire che quei giganti americani esistevano già ed erano altissimi quando i Faraoni rizzavano le loro meravigliose piramidi.

È facile contare gli anni di ogni albero, poichè basta esaminare gli anelli concentrici del tronco, i quali, suppergiù, corrispondono ciascuno ad un anno di vegetazione.

Uno, tagliato sulle falde della Sierra Nevada ed esaminato da parecchi scienziati, ne contava ottomila e sessantasei!...

Forse Noè, in quell’epoca, non era ancora esistito e non aveva trovato il modo di preparare il vino.

Tutti i big-trees hanno dimensioni colossali, sorgono sui fianchi della Sierra Nevada, o delle Montagne Rocciose o dei Laramie.

Sono pini giganteschi, colla corteccia di colore rossastro, grossa sovente perfino mezzo metro, dal legno durissimo.

È tutta una scanellatura, sovente arrestata da nodi enormi, i quali non sono altro che cicatrici perfettamente guarite, dovute ad incendi parziali causati non si sa da che cosa e che datano da migliaia d’anni.

Producono delle frutta che contengono da centocinquanta a duecento semi, simili ai carrubi, e che impiegano tre anni a giungere a perfetta maturazione.

Gl’indiani ne usano per formare una specie di farina abbastanza nutritiva. [p. 93 modifica]

Di questi colossi non pochi crescono sulle balze dei Laramie, ma è sempre la Sierra Nevada che conta i più famosi.

Celebri sono il Grizzly Giont, il Generale Shermont, il vecchio Matusalem ed il Columbia.

Tutti superano i centoventi metri d’altezza, hanno una circonferenza che varia fra i trent’otto ed i quaranta metri, ed i loro rami sono così enormi che il primo del Grizzly, che esce dal tronco a quaranta metri dal suolo, misura la bagattella di metri sei e sessanta centimetri!...

Gli americani hanno scavato alla loro base parecchi di quei colossi, aprendo delle vere sale, dove talvolta si danno non solo dei banchetti, bensì anche delle feste da ballo, alle quali possono prendere comodamente parte una ventina di coppie.

Altri invece sono stati attraversati da parte a parte con un tunnel sotto il quale passano perfino le corriere coi rispettivi cavalli.

Altri ancora sono stati segati per formare delle tavole monumentali tutte d’un pezzo.

Il miliardario Astor per esempio ne possiede una capace di servire per cento coperti!...

Anche gl’indiani non hanno lasciato in pace quei colossi, i quali d’altronde non mostrano di soffrire affatto per quelle profonde ferite, e vi si scavano sovente degli asili sicurissimi, dissimulati con grande arte, perchè l’entrata è sempre formata da un enorme pezzo di corteccia che combacia perfettamente.

Come abbiamo detto, i quattro avventurieri, assai impressionati per l’avvicinarsi della Scotennatrice e dei suoi guerrieri, si erano dati ad una pazza corsa attraverso la gigantesca foresta, salendo sempre più la montagna colla speranza di trovare un creek da rimontare contro corrente od un cañon per nascondervisi dentro.

Le loro capigliature erano in giuoco, precedute dal terribile palo della tortura.

Minnehaha non avrebbe certamente risparmiato nessun martirio all’indian-agent, che nella sanguinosa giornata di Sand-Creek le aveva scotennata la madre, la superba Yalla, nè i due scorridori di prateria che ella accusava di essere complici del colonnello Devandel nella fucilazione dell’Uccello della Notte.

Gli alberi si succedevano agli alberi, sempre più maestosi, sempre più giganteschi, avvolti talora da un manto meraviglioso di liane, le quali cadevano da tutte le parti, contorcendosi come miriadi d’immani serpenti, ogni volta che dalle alte gole della montagna scendeva qualche improvvisa raffica.

Quella corsa, poichè si trattava di una vera corsa e non già d’una marcia, su pei fianchi scabrosi della grande catena, durava da una buona ora, sempre più affannosa, quando i quattro avventurieri si trovarono improvvisamente dinanzi ad un cañon nel cui fondo rumoreggiava, balzando e rimbalzando fra le rocce, un creek. [p. 94 modifica]

― Finalmente!... — esclamò Turner, tirando un gran respiro. — Potremo far perdere le nostre tracce.

«Credete che siano ancora lontane le pelli-rosse, John?

― I mustani sono splendidi corridori sulla prateria e pessimi invece sulla montagna — rispose l’indian-agent. — Abbiamo una buona ora di vantaggio sui guerrieri di Minnehaha ed i cavalli non la sapranno conquistare così presto, finchè sono costretti ad arrampicare.

― Credo che abbiate ragione, John. Tuttavia non perdiamo tempo e cerchiamo di far sparire le nostre tracce.

Scesero nel cañon, i cui fianchi erano ombreggiati da gruppi di giganteschi mogani e da mangli selvatici carichi di fiori bianchi che esalavano dei profumi acutissimi, e senza perdere tempo a togliersi le scarpe e le uose, entrarono nel torrente le cui acque, quantunque rapidissime, non superavano il mezzo metro.

Dei pesci, specialmente delle grosse trote nere di montagna, che facevano venire l’acquolina in bocca a Giorgio, sfuggivano sotto i loro piedi, guardandosi bene dal lasciarsi prendere, correndo a rifugiarsi sotto le rocce che coprivano la riva. In alto volteggiavano invece dei grossi falchi pescatori, i quali avevano piantati i loro nidi sulle estreme punte dei mogani.

I quattro avventurieri risalirono il creek per una buona mezz’ora, poi presero terra dinanzi ad una ripida scarpata che scalarono non senza fatica.

I quattro avventurieri risalirono il creek per una buona mezz’ora...

Al di là ricominciava la gigantesca foresta dei sequoja, sepolta sotto un’ombra così cupa da poter gareggiare vantaggiosamente con quella della famosa Valle dell’Inferno della Selva Nera.

Stavano per rimettersi in marcia, quando John, che guidava il drappello, si fermò di colpo curvandosi verso il suolo che era scoperto di erbe.

— Ah... diavolo!... — brontolò.

— Che cosa avete scoperto? — chiese Turner, armando per ogni buon conto il rifle. — Avete trovato qualche pepita? La mia tasca è pronta a riceverla.

— Altro che pepita!... Di qui è passato, e da poco tempo, poichè le tracce sono freschissime, un grizzly.

— Buon viaggio.

— Adagio, signor mio. Con quei bestioni vi è poco da ridere, e non si affrontano a colpi di coltello.

«Ora, se ci capitasse dinanzi, noi saremmo costretti a servirci dei rifles e gl’indiani saprebbero dove cercarci.

— Non dico di no, e perciò?

John guardò sotto le altissime piante, temendo di veder apparire, da un momento all’altro, il mostruoso animale, poi disse:

— Bah!... Forse a quest’ora si è rimpinzato di pinon ed è già lontano. Andiamo innanzi. [p. 95 modifica]

Si erano rimessi in marcia, procedendo sospettosamente, poichè il grizzly non era meno pericoloso delle pelli-rosse, ma dopo aver percorsi circa duecento passi, tornarono ad arrestarsi mandando un grido di gioia.

Si erano trovati improvvisamente dinanzi ad un big-tree di proporzioni colossali, poichè misurava alla sua base non meno di quaranta metri di circonferenza, mentre la sua cima sorpassava le più alte torri del mondo, e che presentava a fior di terra un’apertura perfettamente rettangolare.

Un pezzo di corteccia, dello spessore di quasi mezzo metro, della medesima forma, giaceva a poca distanza. Doveva essere la porta di quella caverna vegetale.

— Ecco una fortuna che non giunge tutti i giorni!... — esclamò Turner, allegramente. — Chi può aver scavato questo rifugio in mezzo a questa foresta disabitata?

— Forse qualche bandito del Far-West — rispose John. — Un tempo si lavoravano certi placers dei Laramie ed i briganti pullulavano per alleggerire, senza troppa fatica, i minatori delle loro raccolte.

«Può anche essere stata qualche famiglia indiana. Lo sapremo subito da quello che troveremo là dentro se...

L’indian-agent si era interrotto bruscamente ed aveva fatto un salto indietro, abbassando e puntando il rifle verso l’entrata del rifugio.

— Che cos’hai veduto, John? — chiese Harry, il quale si era affrettato ad imitarlo.

— Non vedi impresse sul suolo le orme del grizzly? Guarda: si dirigono verso il big-tree.

— Corpo d’una saetta!... Che l’orso abbia preso il posto dei banditi o degli indiani?

— Non mi stupirei affatto — disse Turner. — In questa foresta, così ampia e così tranquilla, gli orsi grigi dovrebbero trovarsi molto bene.

— E così? — chiese John.

— E così noi andremo a vedere se quel signore si trova là dentro e lo pregheremo di lasciarci l’alloggio che ha occupato senza averne diritto, poichè gli orsi non si sono mai scavati simili tane, che io sappia.

— Saremo costretti a far uso delle nostre armi e Minnehaha ci lancerà addosso i suoi guerrieri.

— E noi ci rifugeremo dentro l’albero, mio caro John, e rimetteremo a posto la porta che quell’imbecille d’orso non è mai stato capace di utilizzare — rispose il campione degli uccisori d’uomini. — Non riuscirà facile agl’indiani trovarci in mezzo a tanti alberi, ora che abbiamo fatte smarrire le nostre tracce.

— È vero — dissero Giorgio ed Harry, sempre pronti, da veri scorridori, a scaricare i loro rifles.

John tentennò la testa e guardò in aria. Se il vecchio indian-agent che aveva passata la sua intera esistenza nelle praterie e nelle Sierre, non si mostrava affatto rassicurato, doveva avere le sue buone ragioni. [p. 96 modifica]

Non si poteva ammettere che avesse paura ad affrontare un orso, fosse pure un grizzly, il più formidabile della famiglia, tanto più che era spalleggiato da tre carabine famose che non avrebbero mancato il bersaglio al momento opportuno.

― Che cosa cercate in alto, John? — chiese Turner.

— Il nostro orso — rispose l’indian-agent. — Io sono più che convinto che si trovi su qualche big-tree anzi che là dentro.

― Ragione di più per prendere d’assalto il suo rifugio — disse Harry.

— Proviamo — concluse John. — Tu con Giorgio impadronisciti della porta e vediamo se combacia.

«Signor Turner, apriamo la via.

Si spinsero innanzi lentamente, tenendo le carabine imbracciate e con gli occhi fissi dentro la tenebrosa apertura che s’affondava nell’albero gigante. Harry e Giorgio avevano presa la porta la quale poteva diventare uno scudo molto efficace, resistente anche agli artigli poderosi d’un grizzly.

― Udite nulla, John? — chiese Turner, quando furono giunti a pochi passi dall’apertura.

— Assolutamente nulla — rispose l’indian-agent, alzando la carabina. ― Il vecchio Jonathan non si trova là dentro.

— E dove sarà allora?

— Chi lo sa? Intanto occupiamo il suo alloggio giacchè se n’è andato.

«Quando tornerà gli diremo che è occupato e lo manderemo a farsi uccidere altrove.

«Entriamo liberamente: non vi è alcun pericolo da affrontare almeno per ora.

«Chi ha un pezzo di torcia d’ocote?

— Ne ho due ancora nel mio sacco — disse Giorgio.

— Accendine una e andiamo a prendere possesso del nostro palazzo.