La tempesta (Shakespeare-Angeli)/Atto secondo/Scena seconda

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William Shakespeare - La tempesta (1612)
Traduzione dall'inglese di Diego Angeli (1911)
Atto secondo - Scena seconda
Atto secondo - Scena prima Atto terzo



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SCENA II.


Un’altra parte dell’isola.


Entra Calibano. con un fastello di legna.

Si ode rumoreggiare il tuono.



                        Calibano.
Tutte le infezioni che dai botri,
dalle paludi, dalli stagni sugge
il sole, possan ricadere sopra
Prospero ed ogni pollice del suo
corpo coprir di pustole! Gli spiriti
suoi m’odono e pur debbo maledirlo.
Ma s’ei non lo comanda non verranno
a pungermi nè a spaventarmi in loro
visioni di demoni nè a farmi
cader nei fossi, o come fuochi erranti
a condurmi di notte fuori della
mia strada. Per la più piccola cosa
eccoli addosso a me! Simili a scimmie
qualche volta m’irridono col loro

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stridere e mi perseguono ed al fine
mi mordono; altre volte prendon forma
di porcospini che sul mio cammino
si arrotolano sì che le lor punte
mi feriscono i piedi, e spesso ancora
son circondato da serpenti, i quali
con la forcuta lingua sibilando
mi rendon pazzo. Ahimè, questo che viene
è uno dei suoi spiriti che certo
mi vorrà tormentar perchè son lento
a portare la legna. Vo’ cadere
disteso al suol, che forse non mi scorge.
Entra Trinculo.

                          Trinculo.1
Non c’è nè un cespuglio nè un alberello qua‐
lunque per ripararsi dalle intemperie ed ecco
che si prepara una tempesta: la sento bron‐
tolare nel vento e c’è laggiù una nuvola nera
— quella grossa là — che sembra un vecchio
otre il quale sia per spandere il suo liquido.
Se tonasse, come ha già fatto, non saprei nè
meno dove nascondere il capo: quella nuvola
là non ci risparmierà certo l’acqua a secchie!
Cosa c’è, qui per terra? Un uomo o un pesce?
È morto o è vivo? È un pesce: per lo meno
puzza di pesce, un puzzo rancido di pesce pas‐
sato; una specie di baccalà che non dovrebbe
essere nè meno tanto fresco. Che pesce buffo!

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Se fossi ora in Inghilterra, come ci sono stato
un tempo, e se avessi questo pesce solamente
dipinto, non un baggiano, nei giorni di fiera,
mi rifiuterebbe la sua moneta d’argento per
vederlo. In quel paese, questo mostro arric‐
chirebbe il suo uomo: ogni strana bestia ar‐
ricchisce il suo uomo laggiù. Certo, non da‐
rebbero un centesimo per soccorrere un po‐
vero stroppiato, ma ne sborserebbero dieci per
vedere un Indiano morto.2 Piedi come un uomo
e natatoie per braccia! In parola d’onore, è
caldo! Abbandono la mia prima opinione: la
congedo definitivamente: non è un pesce ma
un isolano che sarà stato colpito dal fulmine.
Si ode rumoreggiare il tuono.
Povero me, ecco la bufera che ritorna! Non
ho di meglio da fare che nascondermi sotto
il suo gabbano: non c’è altro riparo tutto in‐
torno! La sventura vi fa trovare curiosi com‐
pagni di letto! Mi nasconderò là sotto finchè
non sarà passato il tramestìo della tempesta.
Si nasconde sotto le vesti di Calibano.
Entra Stefano cantando
con una bottiglia in mano.

                        Stefano.
Non andrò più al mare, al mare,
sulla spiaggia vo’ morir....

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È un ritornello adattatissimo per il trasporto
di qualcuno: ma ecco la mia consolazione.
Beve.
Il Padrone, il nostromo, io stesso, i marinari
il cannoniere e il servente
Megg, Moll e Marietta amavano del pari
ma non si curavan niente
di Cate che un linguaggio aveva spudorato
e al marinar diceva di sovente
“Sii appiccato„.
Il gusto del catrame non le piaceva punto
né della pece il sapore
sì che un sarto qualunque potea graffiarla appunto
dove sentisse il prudore.
Dunque su, ragazzi, al mare
e lasciatela impiccare!
Anche questa è una canzone poco allegra: ma
ecco la mia consolazione.
Beve.

                        Calibano.
    Non mi tormentate.... oh.... `

                        Stefano.
Cosa c’è? Ci sono dei diavoli qui? È per
farci qualche burletta che vi travestite da sel‐
vaggi e da uomini dell’India, eh? Non mi son
salvato dall’affogamento per aver ora paura

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delle vostre quattro zampe; già che è stato
detto: “L’uomo più forte che mai sia andato
su quattro gambe, non cederà il terreno„ e si
ripeterà di nuovo, finchè Stefano respirerà col
suo naso.

                        Calibano.
Gli spiriti mi tormentano, oh....

                        Stefano.
Questo deve essere un qualche mostro a quat‐
tro zampe dell’isola, che avrà acchiappato la
febbre. Dove diavolo può avere imparato la
nostra lingua? Non fosse che per questo gli
vo’ recare qualche aiuto. Se mi riescirà a gua‐
rirlo lo addomesticherò e lo condurrò a Napoli
con me: sarà un regalo degno di ogni impe‐
ratore che avrà messo i piedi nel cuoio di
vacca.

                        Calibano.
Non tormentarmi, te ne prego, il legno
a casa porterò presto.

                        Stefano.
Deve avere un accesso perchè quello che dice
non è molto ragionevole. Gli farò assaggiare
la mia bottiglia: se non ha mai bevuto vino,

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questa bevuta sarà capace di levargli la feb‐
bre. Se potrò guarirlo e addomesticarlo, non
lo curerò mai abbastanza già che farà rientrare
il suo padrone nelle spese e presto, ve lo ga‐
rantisco io.
Dà da bere a Calibano.
Non sapreste dire chi è il vostro amico: apri
bocca un’altra volta.
Gli dà di nuovo da bere.

                        Calibano.
                                   Un gran male
non mi farai, ma ancora un poco certo:
lo veggo al tuo tremor; Prospero agisce
sopra di te.

                        Stefano.
Vieni qua: apri bocca. Ecco qualcosa che ti
snoderà la lingua, gatto mio. Apri bocca: ecco
una cosa che ti leverà di dosso i brividi, te
lo garantisco io.
Gli dà da bere.
Su, apri bocca.

                        Trinculo.
Riconosco questa voce: dovrebbe essere....
ma è affogato quello. Questi sono diavoli. Aiuto!

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                        Stefano.
Quattro zampe e due voci: un mostro stra‐
ordinario! La voce davanti è per dir bene del
suo amico, senza dubbio, e quella di dietro per
maledire e dire delle oscenità. Fosse pur ne‐
cessario tutto il vino della mia bottiglia, lo gua‐
rirò. Vieni qua.
Gli dà di nuovo da bere.
Amen. Voglio versarne un poco anche nell’al‐
tra bocca.

                        Trinculo.
Stefano!

                        Stefano.
L’altra tua bocca mi chiama per nome? Aiuto!
Aiuto! Questo è un diavolo e non un mostro.

                        Trinculo.
Stefano! Se tu sei Stefano toccami e parlami
perchè io sono Trinculo: non aver paura, sono
il tuo buon amico Trinculo.

                        Stefano.
E se tu sei Trinculo, vieni fuori. Ti tirerò
per le gambe più corte: perchè se fra tante
gambe ci sono le gambe di Trinculo, quelle
sono le più corte.

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Tira fuori Trinculo di sot‐
to il mantello di Calibano.
Sei proprio Trinculo per davvero! Come dia‐
volo hai fatto a servire di sedile a questo vi‐
tello? O che forse peta Trinculi?

                        Trinculo.
Credevo che fosse stato fulminato. Ma tu
non sei affogato, Stefano? Io spero che tu non
sia affogato. Mi ero nascosto sotto il gabbano
di quel vitello, per paura della tempesta. E tu
sei vivo, Stefano? O Stefano, due Napoletani
salvi!

                        Stefano.
Ti prego, non mi girare così intorno: il mio
stomaco non è troppo solido.

                        Calibano.
da sè.
                   Sono esseri assai belli
se pur non sono spiriti. È un gran Dio
costui che reca un suo liquor celeste.
Mi voglio inginocchiare.

                        Stefano.
E come te la sei scampata? Come sei arri‐
vato quì? Giurami su questa bottiglia come sei
arrivato qui. Io mi son salvato sopra un barile

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di Xeres che i marinari avevano buttato in
mare: lo giuro per questa bottiglia che mi son
fabbricato con la scorza d’albero appena giunto
a terra.

                        Calibano.
                                     Ed io su questa
bottiglia giurerò d’esserti fido
suddito: che non è cosa terrena
il suo liquore.

                        Stefano.
Su via: raccontami come ti sei salvato.

                        Trinculo.
Nuotando come un’anitra, ragazzo mio. Io
posso nuotare come un’anitra: te l’ho giurato.

                        Stefano.
E allora, qua: bacia il vangelo.
Gli dà da bere.
Se bene tu possa nuotare come un’anitra, non
vuol dire che tu non sia fatto come un’oca.

                        Trinculo.
O Stefano, ce ne hai dell’altro?

                        Stefano.
Tutto il barile, ragazzo mio. La mia cantina
è in una grotta, sulla spiaggia del mare dove

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ho nascosto il mio vino. Come va, vitello, ti
è passata la febbre?

                        Calibano.
                   Sei sceso dal cielo?

                        Stefano.
    Dalla luna, te lo dico io. Ero io che facevo
l’Uomo nella luna.

                        Calibano.
Io ti ho visto e ti adoro. La padrona
mia m’insegnò a vederti ed il tuo cane
e il fastello di spine.

                        Stefano.
    Vieni qua: giuramelo e bacia il vangelo. La
riempirò di nuovo. Giura.
Dà da bere a Calibano.

                        Trinculo.
    Per questa buona luce: ecco un mostro di
poca intelligenza. Io aver paura di lui? Un mo-
striciattolo da niente! L’Uomo nella luna! Un
mostro credulone, via! Bravo mostro, succhi
bene.

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                        Calibano.
                                   Ogni più breve
spazio fertile in questa isola, io voglio
mostrarti. Ecco, ti bacio il piede: sii
mio Dio.

                        Trinculo.
    Per la luce: un mostro ubbriacone e pieno
di perfidia. Qundo il suo Dio si sarà addor-
mentato gli ruberò la bottiglia.

                        Calibano.
            Ti bacio il piede e d’esser tuo
suddito giuro.

                        Stefano.
    Vieni dunque qua: in ginocchio e giura.

                        Trinculo.
    Questo mostro dalla testa di cane mi farà
morir dal ridere. Un mostro spregevole: sen-
tirei quasi la voglia di picchiarlo.

                        Stefano.
    Vieni qua: bacia.
Gli dà da bere.

                        Trinculo.
    Il povero mostro è briaco: un abominevole
mostro.

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                        Calibano.
                   Le più fresche fonti
ti mostrerò, ti coglierò le bacche,
saprò pescar per te, per te bastante
legna metterò insieme. Che la peste
venga al tiranno che ora servo! Invece
verrò con te che sei meraviglioso.

                        Trinculo.
    Un mostro ridicolissimo, che trasforma un
povero ubbriacone in una meraviglia!

                        Calibano.
Lascia, ti prego, ch’io ti porti dove
sono i frutti selvatici; con l’unghie
mie lunghe ti saprò scavare i bulbi;
ti mostrerò dove la gazza ha il nido;
t’insegnerò come si prenda al laccio
la marmotta e saprò condurre te
nei folti d’avellane e poi per te
sniderò l’alche. E tu verrai con me?

                        Stefano.
    Su via: apri il cammino senza più chiacchie-
rare. Trinculo, siccome il Re e tutto il resto
della compagnia sono affogati, noi ereditiamo
quest’isola. Qui, portami la bottiglia: compa-
gno Trinculo, fra poco la riempiremo.

[p. 85 modifica]

                        Calibano.
cantando con voce da ubbriaco.
        Addio padrone! padrone addio....

                        Trinculo.
    Un mostro cialtrone: un mostro ubbriaco!

                        Calibano.
        D’ora in avanti non più penare
            per pescare
        non più fardelli pe’l focolare.
        Piatti e stoviglie messi in cantone
             ban, ban Caliban
        ha nuovo servo nuovo padrone.
Libertà hey-dà; hey-dà libertà, libertà hey-dà-li-
bertà....

                    Stefano.
    Da bravo, mostro, apri il cammino.
Exeunt.

Note

  1. [p. 184 modifica]Il nome di Trinculo deve essere stato suggerito a Guglielmo Shakespeare da qualche canzone di marinaio napoletano. Benedetto Croce mi faceva osservare, infatti, un vecchio ritornello dialettale che suonava così:

    Tríncule, míncule
    spilli e spillone....

  2. [p. 184 modifica]Verso la fine del secolo XVI era tornato dal Catay dove aveva compiuto un avventuroso viaggio il Frobisher, e aveva portato con sè alcuni indigeni di quel regno lontano, i quali devastavano una grande curiosità fra gli abitanti di Londra: ma per un raffreddore preso sulla nave che li conduceva in Europa morirono quasi subito appena furono sbarcati in Inghilterra. La relazione di quel viaggio e la descrizione di quelli indiani con relativa storia della loro morte fu pubblicata in un volume in-4º dal Frobisher, nel 1578.