Le Metamorfosi/Libro Nono

Da Wikisource.
Libro Nono

../Libro Ottavo ../Libro Decimo IncludiIntestazione 20 dicembre 2008 75% Letteratura

Libro Ottavo Libro Decimo

 
Teseo, ch’ode i sospiri, e ’l pianto vede,
Ch’ asconder cerca il Calidonio fonte,
Lascia, che si rihabbia alquanto, e chiede
Con modi, e con parole accorte, e conte,
Qual sia l’aspro dolor, che ’l cor gli fiede,
E chi d’un corno gli privò la fronte.
Ei l’ inornato crin prima raccoglie
Fra canne in cerchio, e poi la lingua scioglie.

Dura gratia mi chiedi in questa parte,
E gravar non mi puoi di maggior pondo:
E chi conteria mai quel flebil Marte,
Dove da solo à sol fu posto in fondo?
Pur ti conterò tutto à parte à parte,
Perche fu il vincitor si raro al mondo:
Ch’à tanto incarco il perder non m’arreco,
Quanto ad honor l’haver pugnato seco.

Credo, ch’inteso havrai (che non è molto)
Che d’Eneo Re di Calidonia nacque
La bella Deianira, il cui bel volto
À mille amanti, e al forte Hercole piacque.
Ne de suoi dolci nodi io restai sciolto,
Ma del foco d’ Amore arsi in quest’ acque.
Comparsi poi, che ’l mio lume la vide,
Dov’era il padre, e con mill’altri Alcide.

Di quei, che lei volean chieder consorte,
Presi da le bellezze uniche, e nove,
Non vi fu alcun si coraggioso, e forte,
Che non cedesse al gran figlio di Giove.
Solo io volli con lui tentar la sorte,
E de le forze sue veder le prove.
E in presenza d’Alcide mi conversi
Al Re suo padre, e genero m’offersi.

Mi riguardò il rival con qualche sdegno,
Poi volto al vecchio Eneo l’affetto e ’l zelo,
Fà de la figlia tua me (disse) degno,
Degna, che socero habbia il Re del cielo.
E qui contò le forze, e ’l grande ingegno,
Che tanti mostri havean fatti di gielo,
E c’havea superata ogni maligna
Impresa, imposta à lui da la matrigna.

Gli dico à l’incontr’io, ch’un huom mortale
Fà grand’error, se si pareggia à un Dio.
Non l’havea anchora il suo corso fatale
Fatto di quei del regno eterno, e pio.
Io son signor d’acqua infinita, e tale,
Che fa chiaro per tutto il nome mio,
E vò per lo tuo regno illustre, e altero,
Ne genero di te sarò straniero.

E s’ei si gloria haver con mille mostri
Durata per Giunon tanta fatica:
Tutto il suo dir non vò, ch’altro ti mostri,
Se non, ch’egli ha la Dea del ciel nemica.
Non noccia almeno à gli altri merti nostri,
S’ho sempre à voti miei Giunone amica:
Ne mi convien per obedire à lei
Espormi à mille danni ingiusti, e rei.

Se per far tue le sue membra leggiadre,
Tu per la nobiltà vuoi farti avanti,
Se la mogle d’Anfitrio à te fu madre,
Come vien tu à regni eterni, e santi ?
Che se vuoi dir, che Giove ti sia padre,
Disceso d’adulterio esser ti vanti.
E se pur vuoi negar d’esser bastardo,
Ti fai del maggior Dio figliuol bugiardo.

Mentre il cerco abbassar con questo oltraggio,
Volge ver me la vista oscura, e fella,
E nel parlar di me più parco, e saggio,
Senza dar biasmo à me cosi favella.
La forza à me servir suole, e ’l coraggio,
E più pronta ho la man, che la favella,
E pur, ch’abbatta te con questa palma,
Habbi pur tu nel favellar la palma.

Tutte ignude egli havea le braccia, e ’l petto.
Sol d’un fero Leon si copria il dorso.
La cui testa crudel con crudo aspetto
Gli armava il capo, e quel tenea co’l morso.
La pelle inferior copria l’obbietto,
Che vergognoso fà l’human discorso.
Cosi vestito, e tutto il resto ignudo
Ver me si mosse impetuoso, e crudo.

Io, che conosco in lui l’accese voglie,
C’ha di mandarmi perditore in terra,
Per guadagnar la desiata moglie
Non con altra ragion, che con la guerra,
Getto dal dosso mio le verdi spoglie,
E ciò, che con la man meglio s’afferra,
E sol lascio al mio corpo tanta fronde,
Che quel, che debbe ogni huom celar, m’asconde.

Le gambe allargo, e in terra ben le fondo,
E oppongo (poi che non habbiam altr’arme)
Le braccia, e in ogni parte altier rispondo,
Ne lascio al fero aspetto spaventarme.
E giro il corpo, e l’occhio, e fo secondo
Veggo aggirarsi lui per afferrarme,
Ne men di lui disposto à la contesa
Cerco d’esser il primo à far la presa.

Poi che si vede haver tentato in vano
D’imprigionarmi hor l’uno hor l’altro braccio;
Però ch’à lui fà sdrucciolar la mano
Il continuo sudore, ond’io mi sfaccio:
Alquanto si ritrahe da me lontano,
E, perche più il mio humor non gli dia impaccio,
China le mani à terra, e si risolve
V’empir le palme sue di secca polve.

Anch’io mi chino, e coraggioso il guardo,
E con la terra fo la man più franca.
Per afferrarmi ei vien fero, e gagliardo
Hor con la destra palma, hor con la manca.
Le braccia oppongo, e in lui fermo lo sguardo,
Acciò che non mi stringa ò ’l collo, ò l’anca;
E mentre l’un con l’altro s’ incatena,
Ei me di polve, io lui spargo d’arena.

Egli, che del lottare era maestro,
E sapea dove più s’offende altrui,
M’annoda con la manca il braccio destro,
Stringo io co’l pugno destro il manco à lui.
E ben, ch’ io sia più grave, egli è più destro,
E meglio scorge gli avantaggi sui.
Hor mentre l’inimico ogn’un rispinge,
L’un braccio sciolto, e l’altro anchor si stringe.

Facciam larga la lotta, e ogn’un le piante
Ben fonda in terra, e stassi in su l’aviso.
Egli mi spinge, e mentre io sto costante,
E lui rispingo, mi coglie improviso,
E con gran scossa à se co’l capo avante
Mi tira, e fui per dare in terra il viso,
Con tal forza ver se la scossa diede,
Pur la gravezza mia mi tenne in piede.

Ci ritiriamo alquanto ogn’un da parte,
Per interrar la ruggiadosa palma:
Dapoi torniam di novo al fero Marte,
E ci abbracciam per riportar la palma.
Gamba ei con gamba annoda, e con quest’arte
Cerca atterrar la mia più grave salma,
E poi, che questa lotta non gli giova,
Diversi modi un dopo l’altro prova.

Come il furor de l’onde il duro scoglio
Ribatte, e ’l peso proprio il fa sicuro:
Cosi ribattev’ io l’acceso orgoglio
D’Alcide, e stava ponderoso, e duro.
Un’altra volta anchor da lui mi scioglio,
E poi di raffrontarlo m’assicuro;
E in questo membro, e in quello il pugno incarno,
E cerco d’atterrarlo, e sempre indarno.

Come toro con toro ardito, e forte,
E due, e tre volte ad incontrar si torna,
Per guadagnar frà molte una consorte,
Ch’assembra lor d’ogni belta più adorna;
Stan gli armenti à guardar la dubbia sorte,
E chi di lor più dure havrà le corna,
Chi farà il ciel de la vittoria degno
Di tanto amato, e pretioso regno:

Cosi ciascun di noi per quella sposa,
Che ne par sopra ogni altra unica, e bella.
Si stacca due, e tre volte, e poca posa,
Che cerca d’attaccar pugna novella.
Il padre de la vergine amorosa
Stava intento à mirarci, e v’era anch’ella.
E con la corte sua stava in pensiero
Chi la vittoria havria di tanto impero.

Fà tanto al fin, ch’al mio collo s’appiglia,
E con le forti man l’annoda, e tira.
Mi guasta la corona, e mi scapiglia,
E già si forte à la vittoria aspira,
Ch’ogn’un, ch’è intorno, mormora, e bisbiglia,
Ch’io perderò la lotta, e Deianira:
Che le sue man, che fean chinar la fronte,
Tal peso havean, ch’era men greve un monte.

Respirar non mi lascia, e ogni hor più il collo
M’aggrava, e con maggior vigor l’afferra.
Io pur m’aiuto, e m’affatico, e crollo,
Perche l’honor non habbia ei de la guerra.
Qui convien dire il ver, l’ultimo crollo,
Ch’egli mi diè, mi fè baciar la terra.
E non senza rossor di rabbia acceso
À giacer mi trovai lungo, e disteso.

Tosto, che di cadere Hercol mi sforza,
À l’arte propria mia la mente intendo,
E se ben sono inferior di forza,
Non però mi pacefico, e m’arrendo.
Mi cangio quella, c’hor mi vedi, scorza,
E d’un crudo serpente il volto io prendo,
E di man gli esco sibilando, e ardente,
E gli armo contra à un tratto il tosco, e ’l dente.

Quando un dragon mi scorge essere Alcide,
E contra il suo valor movere altr’arme,
Mi guarda, e schiva il mio morso, e sorride,
E mi dice. Acheloo, che credi farme?
Fanciullo essendo anchor mia madre vide,
Ch’ io seppi da due serpi liberarme.
Questa tua forma à la mia destra è nulla,
Ch’i serpenti domai fin ne la culla.

E ben, che si gran serpe hora ti mostri,
Ch’i più lunghi dragon vinci d’assai,
Qual parte sarai tu de crudi mostri,
Ch’ io nel lago Lerneo vinsi, e domai?
Tu con un capo sol qui meco giostri,
L’Hidra cento n’havea, ne la stimai;
E per ogn’un, ch’ io ne troncai di cento,
Ne vidi nascer due di più spavento.

Se ben cadere à lei più capi scorsi,
Non mai n’ancisi alcun senza due heredi:
Ogn’ hor, ch’ io l’oltraggiai, favor le porsi,
Ch’à me nemici, à lei soccorso diedi.
Fin posi al fine à suoi infiniti morsi,
E morta me la fei cadere à piedi,
Se bene hebbe dal fato, e da la sorte,
Che più che si feria, venia più forte.

Se l’Hidra, che prendea forza dal male,
Domata, e senza luce al fin rendei,
Ben di te havrò la palma trionfale,
Ch’una minima parte sei di lei.
E più, che la tua forma non è tale,
Ma dragon falso, e trasformato sei.
Se contra i serpi naturali ho vinto,
Che farò, s’havrò contra un serpe finto ?

Hor mentre il falso mio vipereo morso
S’arma contra il valor via più c’humano,
E serpendo ver lui spiego il mio corso,
Et ei mi schiva, e ’l mio pensier fa vano:
Cerca di pormi entro à la bocca un morso,
E chiusa al dente mio stende la mano.
Io vò per afferrarla, e di lungo erro,
Ch’egli apre il pugno, e fa, ch’un lino afferro.

Del manto del Leon credo, che tolse
Quel lin, c’havea dentro al suo pugno ascoso.
Dapoi, ch’ imprigionò secondo ei volse
La tela opposto il dente insidioso,
Fra le due man mi strinse il collo, e avolse;
E mi diè quasi à l’ultimo riposo.
Parea, ch’ una tenaglia mi stringesse,
Talmente mi tenea le fauci oppresse.

Io con la coda pur m’aiuto, e scuoto,
Per uscirgli di man con molta rabbia,
E l’ indurate gambe gli percoto,
Ne posso trovar via, ch’ à lasciar m’habbia.
Al fin cangiando forma mi riscuoto,
E già co’l pie del bue stampo la sabbia.
S’allarga il volto, e fà, ch’egli apre il pugno,
Et io co’l corno altier di novo pugno.

Tosto, ch’ un’altra forma mi possiede,
E c’ho di bue le corna, il volto, e ’l pelo,
Affretto contra lui l’irato piede,
Per torlo su le corna, e darlo al cielo.
Di novo ei ride subito, che vede,
Ch’io copro l’alma mia sott’altro velo,
E mostra al riso, e al ciglio men di prima
Tener del corno mio cura, ne stima.

Mentre, ch’ io corro, ei stà fermo à l’incontra,
Ma come appresso à lui condotto ho il passo,
Si trahe da parte, e meco non si scontra,
Tal, ch’io per forza trasportar mi lasso.
Poi che ’l primo disegno non m’ incontra
D’alzarlo al ciel, perche ruini abbasso;
Penso voltarmi, e ritentar di novo,
Ma un corno nel voltar prigion mi trovo.

Che trascorso, ch’ io fui, dietro mi venne,
Tal, che mi giunse, et afferrommi un corno.
Subito ch’io sentij, che ’l pugno il tenne,
Mi scossi, e in van girai la fronte intorno,
Ne di poterla sprigionar m’avenne,
Anzi per doppio mio tormento, e scorno
Nel raggirarmi l’altro corno prese,
E al fin per forza in terra mi distese.

Io, che cangiarmi più non posso il manto,
Cerco drizzarmi, e liberar la testa,
E contra il suo poter mi scuoto tanto,
Ch’egli mi rompe un corno, e in man gli resta.
Mentre egli l’alza à l’occhio, e ’l mira alquanto,
Ne van le ninfe à lui con prece honesta,
E impetrano al mio mal gratia, e perdono,
E ’l corno tolto à me, chieggono in dono.

Hercole altier de guadagnati honori
Ver me fu pio, verso le ninfe grato.
Elle lui coronar di palme, e allori,
E ’l celebrar con verso alto, et ornato.
Di fuor poi il corno ornar d’herbe, e di fiori,
E dentro d’ogni frutto più pregiato,
D’ogni più grato don, ch’ offre, e dispensa
L’Autunno in copia à la seconda mensa.

La più prudente Ninfa, e meglio ornata,
Coronata di fior lo sparso crine,
Da le più belle Ninfe accompagnata
Sacra con cerimonie alme, e divine
Il mio corno à la Dea fertile, e grata,
La cui felice copia è senza fine.
Tal che la Dea contraria de l’ inopia
Dal corno mio più ricca hoggi ha la copia.

Io mi trovai scornato, e senza moglie,
Con doppio dishonor, con doppio affanno,
Ben c’hoggi con corone, e canne, e foglie
Di salce ascondo alla mia fronte il danno.
La notte ascose havea l’accese spoglie
Del biondo Dio col tenebroso panno,
Quando honorò con gli altri il grato Fiume
Teseo co’l cibo pria, poi con le piume.

Ben che promise lor nel novo giorno
Di contar quel, ch’avenne al forte Alcide,
Ma come fuor del mar di raggi adorno
L’apportator del dì da lor si vide,
Far più non si curar seco soggiorno,
Poi che lor l’onda il passo non recide.
Teseo con gli altri al suo camin si tenne,
Senza udir quel, che poi d’Hercole avenne.

Però che se ben’ Hercol fù si forte,
Che vinse in guerra il Calidonio Dio,
E per premio acquistò quella consorte,
Che potea far più lieto il suo desio:
Da la non saggia moglie hebbe la morte,
Nel celebrare al ciel l’officio pio,
Ch’un dubbio, onde ella assicurar si volse,
À se il marito, à lui la vita tolse.

De la nova vittoria Hercole altero
Tornava con la sposa al patrio regno:
Ma l’onda Evena gli tagliò il sentiero
Superba uscita allhor fuor del suo segno.
Egli per tutto dà l’occhio, e ’l pensiero,
Se v’è per passar lei ponte, ne legno:
E mentre cerca in ogni parte il lido
Nesso incontra gli vien Centauro infido.

Nesso non men d’Alcide haveano preso
I bei lumi di lei, le chiome bionde,
E ver lui disse à l’empia froda inteso,
S’à nuoto ti da il cor passar quest’onde,
La donna tua per me fia leggier peso,
E per tuo amor darolla à l’altre sponde.
Hor se di te non hai, ma di lei tema,
Fà, che la donna à me la groppa prema.

Hercol, che non temea per se de l’acque,
Ma bramava per lei trovar soccorso,
Poi che passarla al rio Centauro piacque,
L’assise sopra il suo biforme dorso.
Questo à la donna suo pensier dispiacque,
Che del fiume temea l’horribil corso.
Ne men del mostro rio temenza havea,
Che sapea, che per lei d’amore ardea.

Ma come saggia non essendo certa,
Ch’ei dovesse mancar de la sua fede,
Non volle al suo consorte fare aperta
La piaga, ch’al Centauro amor già diede.
Per ischivar qualche battaglia incerta
Su la sua groppa timida si siede.
E prega, mentre passa, i sommi Dei,
Che rendan salvi il suo marito, e lei.

Hercol con gran vigor la mazza, e l’arco
Getta, e volar gli fa ne l’altra sponda;
Poi del Leone, e del turcasso carco
À nuoto va contra il furor de l’onda:
Ne cerca dove è piu sicuro il varco,
Ma dove di più giri il fiume abonda,
E ad onta de la piena alta, e sonante,
Ne la ripa di là ferma le piante.

Ripreso l’arco, e la superba trave,
De la sua fida sposa ode la voce,
E vede il mostro rio, ch’ in groppa l’have,
Che via fugge con lei crudo, e veloce
Tosto lo sguardo suo severo, e grave
Diventa oscuro, horribile, e feroce.
Lo strale incocca, e dietro al mostro infido
Move l’offeso piè con questo grido.

Dove fuggi ladron, dove ti porta
Del tuo piè cavallin la falsa spene?
Dove porti crudel la vera scorta
D’ogni riposo mio, d’ogni mio bene ?
E pur ti dovrian far la mente accorta
Del padre ingiusto tuo l’eterne pene,
Che per lo suo adulterio ne lo inferno
Rotato ha sempre, e roterà in eterno.

Se pensi di fuggir, molto t’inganni
Co’l tuo cavallo il meritato male,
Che s’io non ti potrò giungere, i vanni
Ti giungeran del mio veloce strale.
Perche la donna sua fugga quei danni,
Che le può dare il suo dardo mortale,
Prende sopra la sposa alta la mira,
E l’arco più, che puote, incurva, e tira.

Sopra i capei de la sua donna bella,
Mentre il Centauro rio più il corso affretta,
Nel tergo humano avelenata, e fella
Fere la velocissima saetta.
Com’ei sente lo stral, fra se favella,
Non vò però morir senza vendetta:
Gl’insanguinati lini al dosso toglie,
E cosi inganna poi l’Herculea moglie.

Questa del sangue mio vermiglia spoglia
Ha in se virtù mirabile, e valore,
Che verso chi la dona, accende, e invoglia
Chi in don l’ottien del suo possente amore.
Hor se giamai da l’amorosa voglia
Sarà per tempo alcun preso il tuo core,
Dona à quel, ch’ami, il mio sangue qui sparso,
E ’l vedrai dal tuo amor legato, et arso.

Che pur che da tua parte il dono ei prenda,
Sarai de l’amor suo fuor di sospetto,
Che sol di te forz’è, ch’Amor l’accenda,
E che d’ogni altro amor privi il suo petto.
Perche ’l tuo dubbio cor veda, et intenda
Quanto fosse ver te caldo il mio affetto,
Innanzi al mio morir, cui vicin sono,
T’ho voluto arricchir di questo dono.

La semplice d’Eneo credula figlia,
Che la virtù mentita al mostro crede,
Il falso don dal rio Centauro piglia,
E in parte il chiude poi, che non si vede.
Il figlio d’Ission chiude le ciglia,
E manda l’alma à la tartarea sede.
Giunge Alcide à la sposa, e via la mena
Ver la città, che bee de l’onda ismena.

Passati non che gli anni erano, i lustri
Dal dì, ch’ei giunse sposo à la sua terra,
E già facean d’Alcide i fatti illustri
Stupir del suo valor tutta la terra:
Ch’ovunque avien, ch’Apollo il mondo illustri,
Chiare memorie havean de la sua guerra.
Ne sol pugnato havea per tutto, e vinto,
Ma l’odio anchor de la matrigna estinto.

Quando ei tornato vincitore un giorno,
Vinta l’Ecalia, e la città d’Erito,
Sopra il monte Ceneo l’altare adorno
Di Giove intendea farvi il sacro rito.
E già la fama havea sparso d’ intorno,
Ch’Alcide in quella pugna havea rapito
Detta per nome Iole, una donzella
Sopra ogni altra fanciulla adorna, e bella.

Hor quando vuol dopo tanta fatica
Rendere honor co’l sacrificio al padre,
Che fè tanto di lui la sorte amica,
Che potè superar l’Ecalie squadre;
Fà un fedel servo suo, nomato Lica,
Gir per le vesti pie, ricche, e leggiadre,
Che servate gli havea la moglie intanto,
E ch’al culto servian fedele, e santo.

La gelosa consorte, c’havea inteso
Da la bugiarda ogn’hor cresciuta Fama,
Che havea del suo marito il petto acceso
La gran beltà de l’acquistata dama:
Pria, che ’l servo leal gravi del peso
De panni, che ’l consorte aspetta, e brama,
Chiede, se Iole è bella, e con qual modo
Preso habbia Alcide à l’amoroso nodo.

Per torle il servo accorto ogni sospetto,
Tosto, che ’l cor di lei geloso vede,
Giovane (disse) è d’un gentile aspetto,
Non però di bellezza ogni altra eccede:
Ne pare à gli occhi miei si raro obbietto,
Ch’ ei debba à voi per lei mancar di fede.
Quel, che ne pensa far, dir non saprei,
Ne che n’arda d’amor, creder potrei.

Se ben pensa di dar qualche conforto
À la sospetta donna il messo fido,
Non può far, che non creda, e forse à torto
Quel, che sparso n’havea la fama, e ’l grido.
Per non far del suo pianto il servo accorto,
Mentre intende biasmar lo sposo infido,
Và in parte, (e dice à lui, ch’ ivi l’attenda)
Ú si possa doler, ch’ei non intenda.

Dunque è pur ver, che questa Iole serba
Per sue delitie il mio stolto marito?
Ch’essendo bella, e ne l’eta più acerba,
Può dar ricetto al suo folle appetito.
Et una infame andrà lieta, e superba
D’un amante si forte, e si gradito ?
Et io, che son la sua pudica moglie
N’andrò priva di lui, colma di doglie?

Non tien con questo dire il viso asciutto,
Ma sparso, e pien di copioso pianto:
E chiama il suo consorte ingrato in tutto,
E gli dà fra gl’infidi il primo vanto.
Disse (vedendo poi senz’alcun frutto
Le lagrime, onde è molle il viso, e ’l manto)
Non moverà il mio lutto Hercole à pieta,
Ma la nemica mia farà ben lieta.

Miglior rimedio qui trovar conviene.
Qui il pianto in tutto ho da lasciar da parte.
Ne debbo io far querela? ò pure è bene,
Ch’io taccia? et usi anch’ io la froda, e l’arte?
E come il tempo commodo mi viene,
Vendichi à pien le lagrime, c’hò sparte?
Ma debbo intanto al Calidonio regno
Tornarmi? ò passar qui l’ ira, e lo sdegno?

Ma non debbo mostrar, com’ io son quella,
Che nacqui già de la crudele Althea?
E che di Meleagro io son sorella,
Che fe bere à due zij l’onda Lethea?
Non debbo io far ver lui l’alma rubella,
S’egli ha ver me la mente ingiusta, e rea?
S’ella uccise già il figlio, il figlio il zio,
Ben torre à due stranier l’alma poss’io.

Se l’effetto sarà, come io vorrei,
E farà l’error mio pare à la voglia,
Farò vedere al mio marito, e à lei
Quel, che può far la muliebre doglia.
Ne mi torrò da i novi pensier miei,
Ch’à le lor membra l’anima non toglia.
Mostrerò lor con più d’un corpo essangue,
Quel, ch’è far’ onta al Calidonio sangue.

Ma non è degno, ch’io del mio consorte
(Senza tentar qualche parer più giusto)
Dia cosi tosto à la spietata corte
Di Stige l’alma, et à la tomba il busto.
S’han rimedij à tentar di varia sorte
Per torlo à questo amore indegno, e ingiusto:
E s’avien poi, che pur la tenga, e l’ami,
Tutti i modi à tentar s’ hanno più infami.

Dopo vario pensar le cade in mente
De la camicia, c’hebbe dal Centauro,
La cui virtù per quel, ch’ella ne sente,
Può dare al morto amor forza, e ristauro.
Già molto prima ad una sua servente
L’havea fatta adornar di seta, e d’auro:
Il cui ricamo d’or, d’ostro, e di seta
Lo sparso sangue à l’occhio asconde, e vieta.

Poi, che la donna dal Centauro intese,
Che ’l sangue al morto amor potea dar forza,
Perche non fosse schiva à l’occhio, prese
Parer di dare al sangue un’altra scorza.
E con vermigli fior tale il lin rese,
Ch’ogni occhio à creder, che vi guarda, sforza:
Che i vaghi, e sparsi fior, ch’ornano il panno,
Non denno altrove star, che dove stanno.

Morì da poi la misera donzella,
C’hebbe del suo lavoro il panno pieno.
Ma la figlia d’Eneo si pensò, ch’ella
Morisse d’altro mal, che di veleno.
Quando la freccia avelenata, e fella
Passò il Centauro rio del tergo al seno,
Del tosco empio de l’hidra il sangue sparse,
E questo fu il velen, che la donna arse.

Celò per vendicarsi il mostro il vero,
E la veste, che vide avelenata,
Diede à la donna incauta con pensiero,
Che se mai gelosia fosse in lei nata,
L’havesse à dare al suo marito altero,
Per esser più da lui d’ogni altra amata.
Per questa strada il mostro empio previde
Di far morire il suo nemico Alcide.

Misera il tanto lagrimar, che giova?
Ond’è, che turbi il tuo stato tranquillo?
Questa, ch’amica fai d’Alcide nova,
Sposa al comun figliuol sarà dett’ Hillo.
Deh non venire à la dannosa prova,
Che de la morte sua cerchi vestillo.
Che come Lica à lui porti le spoglie,
Misera perderai d’esser sua moglie.

La gelosa consorte al fin conchiude
Di dare al servo l’ infelice manto,
Ne sà, che quelle vesti inique, e crude
Non son cagion d’amor, ma ben di pianto.
La porta Lica, e su le carni ignude
Per celebrare il sacrificio santo
Ponsela Alcide, come à lui rapporta
Il messo de la donna poco accorta.

Vestito c’ ha l’avelenato lino
La selva splender fa sù i santi marmi,
E ’l core, e gli occhi al pio culto divino
Intende, e canta i gloriosi carmi.
Sparso à pena v’havea l’incenso, e ’l vino,
Che ’l punser del velen le spietate armi.
Dal foco acceso, e dal calor del petto
Scaldossi, e prese forza il lino infetto.

La forza del venen più ogn’hor s’accende,
E con più rabbia le sue membra assale,
Ne sol la pelle à l’ infelice offende,
Ma passa insino à l’ossa empia, e mortale.
Co’l solito valore ei si difende,
E tace, e superar pur cerca il male.
E pur vorria dentro al carnal suo nido
Tener per forza in freno il pianto, e ’l grido.

Ma fù talmente al fin piagato il dorso
Dal crudo ardor de l’ infettato velo,
Ch’à la bocca allentò per forza il morso,
E lasciò andar l’ irate strida al cielo.
Licinnio, e un’ altro poi move co’l corso
Ver le risposte del signor di Delo,
Per impetrar rimedio à l’empia peste,
Che rende al corpo suo l’ ignota veste.

Vinto poi dal dolor, l’ignoto panno,
Dal corpo offeso suo stracciar si sforza,
E in vece di giovar maggior fa il danno,
Che straccia seco anchor l’humana scorza.
Cresce al miser mortal l’ ira, e l’affanno,
Cresce al crudel velen l’ odio, e la forza.
E con tal foco à lui piaga la pelle,
Che fa le strida andar fin’ à le stelle.

Tende poi verso il sempiterno regno
Con questo dir l’addolorata palma,
Godi Giunon del mio tormento indegno,
Di vedermi disfar la carnal salma.
Satia il tuo crudo cor, satia il tuo sdegno,
Vedi patir la miserabil alma.
Godi vedendo il mio fine, empio, e rio
Haver risposto in tutto al tuo desio.

E s’impetrar pietà l’empia mia sorte
Puote anchor da quel cor, ch’odio mi tiene,
Tu, che d’ogni empio cor m’odij più forte,
Togli quest’alma afflitta à tante pene.
Però che ’l don, ch’ io chieggio de la morte,
È don, ch’à la matrigna si conviene.
Non mi mancar poi che ’l mio male è tanto,
Che può impetrar fin da nemici il pianto.

Dunque in Egitto debellai quell’empio
Busiri, c’havea il cor si crudo, e strano,
Che i peregrin facea morir nel tempio,
E tutto lo spargea di sangue humano?
Dunque feci d’Anteo l’ultimo scempio
Ch’era non men di lui crudo, e profano?
E tolsi al seme human danno si certo,
Per haverne dal ciel poi questo merto?

Uccisi pur quel forte Gerione,
Che con tre corpi à l’huom solea far guerra.
Domato il can trifauce di Plutone
Rendei, quando passar volli sotterra.
Le ricche poma d’or tolsi al dragone
Quando co’ piè calcai l’Hesperia terra.
E tante prove, e imprese alte, e divine
Mertan d’haver si miserabil fine?

Non superai quel bue nel Ditteo sito,
Che die tant’alme al regno atro, e profondo?
Non sa l’Elide quel, ch’io fei d’Erito,
Che distruggea co’l suo crud’arco il mondo?
Non sa l’Arcadia, e lo Stinfalio lito,
S’io tolsi lor l’ insopportabil pondo
De gli augei, che di ferro havean le piume,
Le cui grand’ale al Sol toglieano il lume?

Faccia il bosco Parthenio per me fede,
Faccialo ogni pastor, ch’ivi soggiorna,
C’hebbi più forte il cor, più presto il piede
Del cervo, ch’ivi d’oro havea le corna.
À chi reggea ne l’Amazonia sede
Tolsi la cinta, e l’oro, ond’era adorna.
Domai i Centauri non domati unquanco,
E tolsi l’alma al lor biforme fianco.

Condussi ad Euristeo vivo il cinghiale,
Che de la bella Arcadia era il flagello,
E fu la vista sua superba tale,
Che s’ascose Euristeo per non vedello.
Quel serpe, che prendea forza dal male,
Vinsi, che per lo danno era piu fello,
Che raddoppiava ogni hor l’ancise creste,
E d’un’alma privai ben mille teste.

Non vidi io quei cavalli alteri, e crudi,
Ch’in Tracia si pascean di carne humana?
E mille corpi lacerati, e ignudi
Giacersi entro à la lor nefanda tana?
Non tolser l’alte mie fatiche, e studi
À loro et al lor Re l’alma profana?
Non fu cagion questo medesmo Alcide,
Che ’l lor presepio più quel mal non vide?

Queste medesme braccia non fur quelle,
Che fecer, che ’l leon Nemeo morio?
La cui superba, e smisurata pelle
Fu tal, che fece un manto al corpo mio?
Non fei passare à l’ombre oscure, e felle,
L’alma di Caco à ber l’eterno oblio?
E se ’l ciel va di tante stelle adorno,
No ’l sostenni io sù queste spalle un giorno?

L’irata empia ver me moglie di Giove
Homai di tanto comandarmi è stanca;
Et io, che fei le comandate prove,
L’alma hò più al far, che mai disposta, e franca.
Ma queste pesti mie crudeli, e nove
Fan la forza del corpo inferma, e manca.
Ne l’arme, e le man pronte, e l’alma ardita
Ponno al mio novo mal porger aita.

Io dunque, ò Dei de la celeste corte,
Che di mostri si rij purgato ho il mondo,
Debbo con si infelice, e cruda morte,
Passar dal primo al mio viver secondo?
E godrassi Euristeo valido, e forte
Un tranquillo riposo, almo, e giocondo?
Il qual non solo à mostri non fa guerra,
Ma ogni hor di nove infamie empie la terra.

E sarà poi quà giù chi creder possa,
Che siano Dei? che sia ragion nel cielo?
Sente in questo l’ardor, ch’è giunto à l’ossa,
Dar più duolo, e piu danno al carnal velo.
Qual toro, che sentita ha la percossa,
E sente anchor su’l dosso affisso il telo,
Ne vede il feritor, s’aggira, e scuote,
Ne da torsi à quel mal via trovar puote.

Cosi ne va l’addolorato Alcide
Per torsi à tanto mal girando il monte,
E schianta abeti, e cerri, e corre, e stride,
E le man verso il cielo alza, e la fronte.
In questo à caso Lica ascoso vide,
Che per quel mal facea d’ogni occhio un fonte.
Lica ascoso il seguia fido, e leale,
Ne ’l potendo aiutar, piangea il suo male.

E secondo il dolor, che ’l punge, e fiede,
Mossa havea dentro al cor l’ira, e la rabbia,
Move in fretta ver lui l’ irato piede,
E in questo empio furore apre le labbia.
Dunque tu Lica, in cui maggior la fede
Havea, m’hai dato un don, ch’à morir n’habbia?
Si scusa Lica, e trema, e s’ inginocchia,
E cerca humil baciar l’alte ginocchia.

Non ascolta ei le scuse, e non l’ intende,
Ma da se in tutto ogni pietà remota,
Vinto dal duol, per un de piedi il prende,
E quattro, e cinque volte in aria il rota,
Poi con ogni poter le braccia stende,
E dona al ciel l’ impallidita gota.
Ne ’l disco con tal furia al cielo aspira,
Quando al fin del girar la fromba il tira.

Come in aria tal’hor l’humida pioggia
Da venti freddi si congela, e indura;
Tal Lica mentre al ciel per l’aria poggia,
Per lo freddo, ch’egli ha da la paura,
Gelando và con disusata foggia
L’ humide vene, e la carnal natura:
E poi nel mar d’Eubea cadendo à basso
Per l’havuto timor giunge di sasso.

Dov’ anc’hoggi si vede in mezzo à l’onde
Un breve scoglio d’elevato aspetto,
Ch’à la forma de l’huom tutto risponde,
E si conosce il volto, e ’l fianco, e ’l petto.
Il resto del colosso il mare asconde,
E come havesse il senso, e l’intelletto,
Teme il nocchier toccarlo, e’l chiama anchora
Lica, ma tien da lui lunge la prora.

Com’ Hercole ha nel mar lo scoglio posto,
Dal rimedio fatal Licinio viene.
E dice, che l’oracolo ha risposto.
Se vuol dar fine Alcide à le sue pene,
Vada su’l monte Eteo più, che può tosto,
E quivi havendo al ciel volta ogni spene,
Faccia un rogo superbo alto, e funesto,
E dopo lasci al ciel cura del resto.

Come ei sa de gli Dei la santa mente,
Con Filottete figlio di Peante
Passa non molto mar verso ponente,
E sopra il monte Eteo ferma le piante.
Dove la scure, e la sua voglia ardente
Fa giù cader le più superbe piante.
E secondo gl’ impon lo Dio di Delo
Fa superba una pira alzare al cielo.

Ma non manca pero l’ intensa doglia,
Che rende al cor lo smisurato ardore.
Anzi il velen de l’odiosa spoglia
Par, c’hor cominci à star nel suo vigore.
Tal, che la fatta pira Alcide invoglia
À mandar l’alma del suo albergo fuore;
Già de le piaghe sue la cupa fossa
Lascia in parte veder le sue grand’ossa.

Stride il liquor, che da le piaghe abonda,
E per lo corpo misero camina,
Come quando si pon ne la fredd’onda
Il ferro tratto allhor de la fucina.
Tal, ch’ogn’hor vien più larga, e più profonda
La piaga, e tende à l’ultima ruina.
Tutto l’occulto foco il coce, e strugge,
E ’l miser sangue suo divora, e sugge.

Discorre al fin nel suo pensier profondo,
Che l’ alto rogo il ciel gli habbia commesso,
Acciò ch’ardendo il suo terrestre pondo,
Voli l’eterno al ben dal ciel promesso.
Ond’ei, c’havea già scorso, e vinto il mondo,
Volle anchor nel suo fin vincer se stesso,
E diede à Filottete i dardi, e l’arco,
Che dovean far di novo à Troia incarco.

E dolce disse, ò caro amico, e fido
Ti do de l’amor mio questo per pegno,
E tosto ch’ io su’l rogo il fianco annido,
Co’l foco alluma il fabricato legno.
Però che del mio padre il santo grido
Chiama il mio spirto al sempiterno regno.
Bacia il suo amico, il qual piangendo il mira,
Poi con invitto cor monta la pira.

La pelle del Leon sopra vi stende,
Sopra la clava poi la guancia posa,
E con quel lieto core il foco attende,
Co’l qual suolsi aspettar la nuova sposa.
La pietra Filottete, e ’l ferro prende,
E la favilla trahe nel sasso ascosa:
Poi di più ardor se stesso il fuoco adorna,
E contra chi lo sprezza, alza le corna.

S’alza la vampa al ciel sempre maggiore,
Crescon per ogni via le fiamme nove.
Quando vider gli Dei con tanto ardore
Il fuoco andar contra il figliuol di Giove,
Sentir di lui pietà, noia, e timore,
Che ’l mondo liberò con tante prove:
E mostrando ciascun pietoso il ciglio,
Raccomandaro à Giove il proprio figlio.

Il Re del ciel, che vede il grato affetto,
Che mostra al figlio il choro alto, et eterno,
Disse. Sommo piacer m’ ingombra il petto,
Per la grata pietà, ch’ in voi discerno.
Immensa sento al cor gioia, e diletto,
Che ’l gran rettor del regno almo, e superno
Sia con suo grande honor da ogn’un chiamato
Padre, e rettor d’un pio popolo, e grato.

Mi piace, che la mia divina prole
Anchor sicura sia col favor nostro.
Ma la salute sua poi, che ve’n dole,
Sta per torvi il timor nel pensier nostro.
E quel, c’ha superato, ovunque il Sole
La terra alluma, ogni periglio, e mostro,
Questo novo tormento estima poco,
E vuol la forza anchor vincer del foco.

La parte, che ritien grave e materna
Può sol sentir la forza di Vulcano.
Ma quella parte, c’ hà dal padre interna,
Non può perire, e l’arde il foco in vano.
Però ch’è inviolabile, et eterna,
E bramo torla al suo carcere humano,
Acciò ch’al al regno, ond’ ha principio, torni,
E del suo chiaro lume il cielo adorni.

E come la sua invitta, e nobile alma
Scarca sarà dal suo mortal tormento,
Vo, che venga à la patria eterna, et alma,
E credo, ch’ ogni Dio ne sia contento.
Che s’ei portò là giù per noi la palma
Di mille imprese carche di spavento,
Giusta cosa mi par, che ’l suo gran lume
Nel ciel risplenda, e sia celeste Nume.

E s’avien, ch’alcun Dio quà sù si doglia,
Che egli fra gli altri Dei splenda anchor Dio,
Ben potrà de’ suoi premij haver gran doglia,
Ma non già mover me dal pensier mio.
E farò, che ’l vedrà contra sua voglia
Starsi fra quei del regno eterno, e pio;
E ’l merto anchor saprà, ch’al cielo il chiama,
E l’approverà Dio, se ben non l’ama.

Gli Dei tutti assentir con lieto volto
À quel, che far d’Alcide il padre elesse.
Giunone anchor mostrò piacerle molto,
Mentre affermò, ch’entro à le fiamme ardesse.
Ma quando udì, ch’ in ciel fosse raccolto,
E che di stelle anch’ei vi risplendesse,
Tra se biasmò lo Dio de gli altri Dei,
Che vide, che nel fin sol disse à lei.

L’ardente fiamma havea distrutto intanto
Tutto quel, che Vulcan strugger potea,
E già lasciato Alcide il carnal manto
Più la materna effigie non havea.
Sol quel, che stava in lui perpetuo, e santo,
Del suo lume divin tutto splendea,
E lasciavan veder le forme nove
Sol la divinità, c’hebbe da Giove.

Come se ’l dosso suo la serpe priva
Del manto, c’havea già, si rinovella,
E tolto il vecchio vel, che la copriva,
Vien più forte, più giovane, e più bella:
Tal l’effigie d’Alcide, eterna, e diva,
Tolto il vel, che copriva l’ interna stella,
Più illustre appar di pria, si fà maggiore,
E merta più, ch’ogn’un le faccia honore.

Come restar de la terrena veste
Vede il rettor del cielo il figliuol privo,
Ver Borea il chiama al regno alto, e celeste
Su’l carro trionfal pomposo, e divo.
À la Lira vicin di stelle il veste,
Secondo andò mentre qua giù fu vivo.
Co’l piè sinistro il capo al drago aggrava,
Tien l’un pugno il leon, l’altro la clava.

Come l’alme locar celesti, e sante
La nova effigie sua nel più bel mondo,
Gravò tanto le spalle al vecchio AtIante,
Che quasi sostener non potè il pondo.
Se ben non disse il figliuol di Peante,
Che passò Alcide al suo viver secondo,
Com’ei gli havea commesso, il mondo accorto
Quando più no’l rivide, il tenne morto.

Che portato la fama havea per tutto
Non senza universal cordoglio, e pieta,
Dove il don di quel lin l’havea condutto,
E come, e con chi andò nel monte d’Eta.
Non si seppe altro poi: comun fu il lutto:
Sol ne mostrò Euristeo la fronte lieta,
Che per la gelosia, c’havea del regno,
Mostrò d’esserne allegro à più d’un segno.

Ne sol di questo ei sol s’allegra, e ride,
Ma sol persegue anchor mortal nemico
I figli, che restar del forte Alcide,
Ch’eran fuggiti al Regno di Ceico.
Quando la madre sua priva esser vide
De nipoti, e di lui l’albergo antico,
Di si degno figliuol pianse la morte,
De nipoti l’essilio, e l’empia sorte.

Sol ne l’albergo havea la mesta Iole,
Che d’Hillo figliuol d’Hercole era moglie,
La qual nel grave sen tenea la prole,
E già temea de le proprinque doglie.
Hor mentre Almena misera si dole,
Ch’à tanto mal la morte non la toglie;
Vede guardando il sen, c’havea la nuora,
Che del suo partorir vicino è l’hora.

E havendo in mente anchor l’aspro tormento,
Che sentì quanto al mondo Hercole diede,
Disse, tenendo in lei lo sguardo intento.
Prego ogni Dio de la superna sede,
Che di placar Lucina sia contento,
C’habbia nel partorir di te mercede.
Che non habbia ver te quell’empia mente,
C’hebbe ver la tua socera innocente.

Apollo il fin premea del nono segno
Dal dì, che mi fe grave il maggior Nume,
E giunto era quel tempo illustre, e degno,
Che dovea dare il grande Alcide al lume.
Et io, c’havea nel sen si raro pegno,
Con immenso dolor premea le piume,
E ben vedeasi al ventre ampio, e ripieno,
Che Giove era l’auttor di tanto seno.

Era dal troppo duolo homai si vinta,
Ch’io non potea più sofferir le pene,
E non so come io non rimasi estinta,
E tremo anchor qualhor me ne soviene.
Sette volte havea il Sol la terra cinta,
Dal Gange andando in ver l’Hesperie arene;
Sette volte la Dea, ch’oscura il giorno,
Menato il carro havea stellato intorno:

E anchor l’ insopportabil mio dolore
Mi facea al cielo alzar continuo il grido,
Ne v’era modo à far, che ’l parto fuore
Potesse uscir del suo materno nido.
Ben chiamava io Lucina in mio favore
Le man tendendo al Regno eterno, e fido.
E ben corse Lucina à tanto affanno,
Ma non già per mio ben, ma per mio danno.

Fu da Giunon mandata allhor costei.
Giunon per gelosia m’odiava à morte,
Che non volea, che i novi parti miei
Dovesser poi goder la fatal sorte.
Tu dei saper, ch’un giorno à gli altri Dei
Disse il rettor de la celeste corte.
Quel, che verrà nel tal tempo à la luce,
Sarà de l’alma Grecia il maggior Duce.

Onde Giunon, che non volea, che ’l figlio,
Ch’uscir dovea di me tal fato havesse,
Fra se discorse, e prese al fin consiglio
Di far, che ’l parto mio rinchiuso stesse
E lei non senza mio mortal periglio
Mandò, che ’l mio figliar tardar dovesse,
Fin tanto, che ’l figliuol di Steneleo
Nascesse, che fu poi l’empio Euristeo.

Lucina in forma d’una vecchia viene
Per esseguir di Giuno il crudo aviso,
Siede su l’uscio, e incatenate tiene
Su’l ginocchio le man, su’l pugno il viso.
E senza haver riguardo à le mie pene,
Perche ’l parto da me non sia diviso,
Dice il verso opportuno, il qual forz’have
Di far, che ’l fianco mio mai non si sgrave.

Io pur mi sforzo, e chiamo ingiusto, e ingrato
Giove, che ’l suo figliuol da me non toglie,
E colma di dolor bramo, che ’l fato
Mi toglia con la morte à tante doglie.
Ma tutto è in van, che ’l core havea indurato
Del maggior Dio l’ invidiosa moglie.
E pure i miei lamenti, afflitti, e lassi
Movean di me à pietà le mura, e i sassi.

Ogni madre più nobile, e più degna,
Ch’albergar suol ne la cittate Ismena,
Prega ogni Dio di cor, che nel ciel regna,
C’habbia pietà de l’ infelice Almena.
Cerca ogn’una darm’animo, e s’ingegna
Per varie vie d’alleggerir mia pena.
Ma Lucina si stà secondo l’uso,
E tiene il pugno incatenato, e chiuso.

Galantide ministra ardita, e accorta
Del mio fedel marito Anfitrione,
Che sapea in parte l’odio, che mi porta
Per gelosia la querula Giunone;
Vedendo star colei fuor de la porta,
Prese fra se qualche sospitione,
E più, che stava assisa, e havea raccolto
Tutto in un gruppo il seno, il pugno, e ’l volto.

Cade à questa ministra ne la mente,
Che sia qualche malvagia incantatrice,
E tanto più, che mormora fra ’l dente,
E non si può sentir quel, ch’ella dice:
Se n’entra in casa pria, come prudente,
Tutta lieta esce poi, tutta felice,
E con l’allegra sua favella, e vista
La vecchia in un momento inganna, e attrista.

Qual tu ti sia, cui noto era il periglio,
Ch’à la padrona mia dovea tor l’alma,
Stà lieta homai, c’hor hora ha fatto il figlio,
Et ha sgravato il sen di si gran salma.
La Dea per maraviglia inarca il ciglio,
E vuol levarsi, e batter palma, à palma,
E l’una, e l’altra man mesta divide,
Et io do fuora il mio fgliuolo Alcide.

Tosto, che la ministra esser la vede
Levata, e non star più ferma in quell’atto,
Se n’entra, e trova il figlio uscito, e crede,
C’habbia giovato à me quel, ch’ella ha fatto.
Subito lieta fuor ridendo riede,
E trova il volto antico, e contrafatto,
E la deride, e chiama vecchia, e insana,
E strega, e incantatrice inetta, e vana.

La chioma sua la Dea sdegnata prende,
Come il suo riso, e ’l suo disprezzo mira,
E furiosa in terra la distende,
E quinci, e quindi la strascina, e tira.
Con pugni, e calci poi la batte, e offende.
E sfoga il cruccio muliebre, e l’ ira.
Si vuol levar la misera, e si trova
Una persona haver picciola, e nova.

Le braccia si fan piè, la chioma bionda
D’un biondo, e vago pel la fa coprire:
La figura del corpo, e lunga, e tonda,
Et ha poca persona, e molto ardire.
E, perche la sua pena corrisponda
À la bugia, ch’ à lei fè il pugno aprire,
Nel partorir la Dea sdegnata vuole,
Ch’onde uscì la menzogna, esca la prole.

Odo, ch’altrove Donnola si chiama,
Mustella qui da gli huomini fu detta.
Le nostre case anchor frequenta, et ama,
E molto de la caccia si diletta.
E si l’honor ne le sue imprese brama,
Ch’ insino à crudi serpi impugna, e aspetta.
E per quel, ch’alcun rustico mi dice,
Sopra ogni augello ha in odio la cornice.

M’ increbbe in vero assai de la sua sorte,
Ch’oltre, ch’ io la tenea come sorella,
M’havea rubata à l’evidente morte
Con la sagace sua mente, e favella.
Hor preghiam figlia la celeste corte,
Che quella, che farai, prole novella
Esca à goder senza tua doglia il mondo,
E ’l favor di Lucina habbia secondo.

Preghiam, diss’ella, anchor l’eterna cura,
Che l’odio di Giunon ver noi sia spento,
Si che la prole mia nasca sicura,
Che già nel sen matura haver mi sento.
Ma colei, che cangiò forma, e natura,
Rinovella il mio duolo, e ’l mio tormento:
Che mia sorella Driope mi rimembra,
Ch’ innanzi à gli occhi miei prese altre membra.

E poi che posson te commover tanto
D’una ministra tua le forme nove,
Non ti maravigliar del molto pianto,
Che ’l mio dolente cor per gli occhi piove.
Ch’una sorella mia sott’altro manto
Io vidi, e vò contarti, e come, e dove,
Se l’ intenso dolor, che ’l cor percote,
Potrà dar luogo à l’affannate note.

Hebbe il mio padre Eurito un’altra figlia
Driope, ma non però de la mia madre:
Stupir faceano ogn’un di maraviglia
Le sue rare bellezze alme, e leggiadre.
Pria che facesse à lei cangiar famiglia
Il troppo tardo à maritarla padre,
Il biondo Dio, ch’à noi distingue l’hore,
La vide, e ’l virginal le tolse honore.

Ma fu di sì sublime, e raro ingegno,
Di sì gentile, e glorioso aspetto,
Ch’ogni huom d’ Echalia, ò d’altro esterno regno
Bramava haverla, e far comune il letto.
Fra rnolti al fin ciascun più illustre, e degno
Andremon fu da miei parenti eletto,
Cui piacque tanto seco esser legato,
Che sopra ogni huom dicea d’esser beato.

Limpido ne l’ Echalia un lago siede
Cinto di dolci, e ameni colli intorno,
Lo cui lito fecondo esser si vede
D’arbori, e valli, e vaghi prati adorno.
Cominciando de colli al basso piede,
Fin dove più superbo alzano il corno,
Son mirti, e fanno un cerchio ameno, e vago,
À guisa d’un theatro, intorno al lago.

Era venuta Driope à queste sponde
Per honorar co’l cor devoto, e grato
Con ghirlande di fior tessute, e fronde
Le Dee, c’habitan l’onda, il colle, e ’l prato,
Calcando i fiori già vicino à l’onde
Con un figliuol, che in sen s’havea portato,
Ch’anchor l’anno primier non havea pieno,
Soave peso al suo candido seno.

Mentre à veder del monte il piano, e l’erto
Le luci vaghe sue move per tutto,
Trova, che ’l piè del gran periglio incerto
Vicino à un Loto ha il suo mortal condutto,
Che ’l bel purpureo fior havea già aperto
Speme à mortai del suo futuro frutto.
Stende ella il braccio, e prende il fior vermiglio
Per dar trastullo al suo vezzoso figlio.

Volli io, che v’era, far lo stesso, e porsi
La man per corre un ramuscel col fiore,
Ma dove ruppe Driope, il ramo scorsi,
Che spargea il sangue à spesse goccie fuore.
Com’io di tanta novità m’accorsi,
Divenni un giel, tremò la mano, e ’l core:
Il fusto, e i rami suoi tremar non manco,
E venne il fior purpureo infermo, e bianco.

Loto una Ninfa era in quel tronco ascosa,
Secondo poi contaro i tardi agresti,
Che senza farla il Re de gli horti sposa
Volle seco tentar gli atti inhonesti.
Ella à la parte eterna, e gloriosa
I preghi suoi mandò santi, et honesti.
In quel troncon gli Dei l’humane some
L’ascoser, che di lei poi tenne il nome.

Come la mia sorella il ramo schianta,
E che si vede insanguinar la palma,
Che non sapea, che la fiorita pianta
Desse nel sangue il proprio albergo à l’alma:
Chiede perdon con prece honesta, e santa,
Poi svolger vuol da lei la carnal salma,
E nel girar del corpo, e de la testa,
Trova, ch’una radice il piè l’arresta.

D’alzar pur ella il piè si prova, e sforza,
Ma comportar no’l vuol l’avida terra:
Anzi le barbe sue fa con più forza
Abbarbicarsi, e penetrar sotterra.
Già il novo legno, e l’importuna scorza
Le gambe in un troncone asconde, e serra.
Più ogn’hor la carne, e ’l sangue si disperde,
E trave, e scorza vien succosa, e verde.

Quando ella guarda, e vede il crudo effetto,
Che sotto novo manto i piedi asconde,
Con l’una mano accosta il figlio al petto,
Vuol con l’altra stracciar le chiome bionde,
E trova d’ira accesa, e di dispetto,
Che trahe dal crin la man piena di fronde:
Poi che dal ramo il crin si vede tolto,
Fa più, che puote oltraggio al seno, e al volto.

Il picciol figlio, à cui dier nome Anfiso,
Che sol co’l pianto pio, chiede, e favella,
Al suo solito seno accosta il viso,
E sugge in van la ruvida mammella.
Tutto vidi io, ma qual prendere aviso
Per salvar te potea cara sorella?
Pur con le braccia pie ti tenni avinta,
E teco esser bramai dal tronco cinta.

Col nostro padre in questo il suo consorte
Giunser, che ’l camin nostro havean seguito.
Chieggon di Driope, et io l’empia sua sorte
Breve racconto, e lor l’arbore addito.
Subito al pianto, e al grido apron le porte
Gli sconsolati suoi padre, e marito.
Le braccia danno al mezzo arbore intorno,
Baciando il viso anchor bello, et adorno.

La sventurata Driope, come vede
Versar da gli occhi in tanta copia il pianto
Al padre, à la sorella, à chi le diede
Già per consorte il matrimonio santo;
Con l’occhio, ch’ancor libero possiede,
Sparge un rivo maggior su’l novo manto.
E poi ch’al dir la via non l’è anchor chiusa,
Con questo amaro duol se stessa scusa.

Vi giuro per l’eterno alto motore,
Ch’io non ho fatto à quella Ninfa torto,
E ch’innocentemente io colsi il fiore,
E contra ogni ragion tal pena io porto.
S’ io mento, piova in me tanto d’ardore,
Che resti l’arbor mio sfrondato, e morto;
E l’huom, che primo arriva in questo loco,
M’offenda con la scure, e doni al foco.

Prendete in tanto il mio picciolo infante,
Che nel ruvido sen, non ben sostegno,
Che servando il costume de le piante,
Le man son rami, e al ciel s’alzan di legno.
Pur tengamel qualchun sempre davante,
Mentre il molle occhio mio del lume è degno;
E fate poi, che sotto à questa frasca
La nutrice, c’ havrà, sovente il pasca.

E quando andar potrà picciol fanciullo
Tosto, ch’ogni scholar la schola sgombra,
Fate, ch’à prender venga il suo trastullo
Presso à la madre sua, sotto quest’ombra:
E che ’l mio volto human qui venne nullo
Ditegli, che quest’arbor me l’ingombra.
E mi saluti, come madre, e dica,
Quel bosco la mia madre asconde, e implica.

E perche à lui non sia cangiato il busto,
Quando gli accade andar tal volta attorno,
Dite, che verso gli arbori sia giusto,
Ne cerchi, che il lor ramo il faccia adorno:
E tenga certo pur, che in ogni arbusto
L’alma di qualche Dea faccia soggiorno.
E per salvar le sue membra leggiadre,
Pensi à quei fior, che già colse la madre.

Dolce consorte mio, padre, e sorella
Da me prendete l’ultimo saluto,
Che già mancar mi sento la favella,
Per l’arbore, che troppo è in su cresciuto.
Hor se non vuol la mia forma novella,
Che ’l volto inchinar possa anchor non muto,
Alzate voi le membra al bacio mio
Co’l figliuol, che già fei, che ’l baci anch’io.

E se qualche pietà vi move, e regge,
Fate le nove mie membra sicure
Con la fedel custodia, e con la legge
Da la man, da la falce, e da la scure.
E gli armenti lontan stiano, e le gregge,
Ne sian le fronde mie le lor pasture.
Rendete il verde legno, ov’io mi serro,
Dal morso, e da la man salvo, e dal ferro.

Non vi posso altro dir, che me ne priva
La scorza, che fa à l’alma un’ altro chiostro.
Togliete da la mia luce anchor viva
La man, che senza il santo officio vostro
Vien per chiuderla il legno, il qual già arriva
Al mento, e tutto asconde il corpo nostro.
E in questo perde il dir, ne più si dole,
E lascia à noi le strida, e le parole.

Mentre la mesta, e lagrimosa figlia
D’Erito il suo dolor conta, e rinova,
E l’asciuga la socera le ciglia,
Anchor che l’occhio suo non meno piova;
Una improvisa, e rara maraviglia
Fa ch’un congiunto lor, ch’ivi si trova,
In un momento un’altra forma prende,
E in mezzo del dolor liete le rende.

Era questi Iolao canuto, e bianco
Che fu ne’ tempi suoi di gran valore,
Ne potea fare à l’Hidra essangue il fianco
L’altier suo zio senza il costui favore.
Hor mentre, ch’ei si sta debile, e stanco,
La gioventù racquista, e ’l primo honore,
E forte, e altier si trova à l’ improviso
Con la prima lanugine nel viso.

Ne sol si trova haver novo l’aspetto,
Ma con novo disio, novo pensiero,
E dove esser solea pien di sospetto,
Timido, tardo, avaro, aspro, e severo;
Brama hor la compagnia, cerca il diletto,
E sprezza l’util suo vano, e leggiero;
E chi il vuol guadagnare, e piacer farli,
Sol de l’honore, e del piacer gli parli.

Questa comparsa subito ventura
Tolse à le meste donne il duolo, e ’l pianto,
Poi che la sua miglior forma, e natura,
Splender farà l’albergo Herculeo alquanto.
Alcide fu, che in ciel si prese cura
Di torre ad lolao l’infermo manto.
Alcide in terra, e in ciel l’amò si forte,
Ch’ottenne questo don da la consorte.

Poi ch’Hercol privo fe del mortal velo
La forza di Vulcan nel monte d’Eta,
L’eterno Dio nel più beato cielo
Con fronte l’abbracciò benigna, e lieta.
Da poi parlò con tanto affetto, e zelo,
Che fe Giunone intenerir di pieta,
Et accettò per figlio Alcide, e in fede
D’amor la figlia sua sposa gli diede.

Giunone hebbe una figlia senza padre,
Bella quanto altra il ciel giamai ne vide.
Le cui rare bellezze alme, e leggiadre
Fan, che la gioventù governi, e guide.
Questa in segno d’amor legò la madre
Co’l Nume fatto in ciel beato Alcide.
E l’odio, che l’accese un tempo il core,
Tutto fu poi concordia, e vero amore.

Fatte le nozze, e quel diletto preso,
Che può dare una Dea bella, et eterna,
Com’ ha da la consorte Hercole inteso,
Ch’ella la gioventù guida, e governa;
Verso il congiunto suo d’amore acceso
Scopre con preghi à lei la voglia interna,
Che poi, ch’ella dà legge à i più begli anni,
Privi Iolao de suoi canuti affanni.

Non nega di Giunon la bella figlia
Il primo don, ch’à lei chiede il consorte,
Ma con di tutti invidia, e maraviglia
Fà venire lolao giovane, e forte.
Ma ben per l’avenir partito piglia
Di non romper mai più la fatal sorte,
E de la gioventù tener ben cura,
Ma lasciar fare il corso à la natura.

Hor mentre co’l giurar chiuder la porta
Vuol per ogni mortale à tanto dono,
S’oppon la fatal Themi, e no’l comporta,
E dice. Non giurar, ch’anchor vi sono
Due figli infanti, il cui fato non porta,
Che sian dal ciel lasciati in abbandono;
Anzi egli vuol, quando fia ’l tempo giunto,
Che vengan forti, e giovani in un punto.

E tosto fia, che se chinate il viso,
Già Polinice à Thebe il campo ha spinto,
Ú sendo l’un fratel da l’altro ucciso
Ogn’un del par fia vincitore, e vinto.
Dove, perche più il ciel non sia deriso,
Sarà il fier Capaneo da Giove estinto.
Le cui superbe, e soprahumane prove
Altri non potrà mai vincer, che Giove.

Anfiarao profeta illustre, e degno,
Ch’andrà contra sua voglia à quella guerra,
Sarà inghiottito, e dato al basso regno
Da la subito aperta, e chiusa terra.
Dove non senza suo dolore, e sdegno
Vivi i due Genij suoi vedrà sotterra,
E ’l foco, ch’arderà la carnal salma,
Rogo al corpo sarà, tormento à l’alma.

Indi il figliuol de l’ inghiottito mago,
Nominato Almeon, quand’havrà scorto
Da la terrena, e subita vorago
Restare il padre suo sepolto, e morto,
Ucciderà de la vendetta vago
Per vendicare un torto con un torto
La madre, e sarà in un pietoso, e rio,
Ne la madre crudel, nel padre pio.

Però, che quando havrà il profeta letto,
Ch’in quella impresa ei doverà morire,
S’asconderà per non esser costretto
D’andare à farsi subito inghiottire;
Ma l’avaritia ingombrerà si il petto
À Erifile sua moglie, che scoprire
Le farà il loco, ov’ei sarà coperto,
Per un ricco monil, ch’à lei fia offerto.

Quel bel monil, che fabricò Vulcano
Con tante gemme, pretiose, et arte,
E ch’à la sposa diè del Re Thebano,
Che fu figlia di Venere, e di Marte,
E d’Argia moglie capitato in mano
Di Polinice, et ella l’ ha in disparte
Ad Erifile offerto con proposto,
Che mostri Anfiarao, dov’è nascosto.

E poi c’havrà scoperto il suo consorte
Erifile, e sarà dal figlio uccisa,
Il crudo auttor de la materna morte
La mente da se stesso havrà divisa,
E con le Dee de la tartarea corte
L’ombre materne il pungeranno in guisa,
Che fuor del senno, e de la patria uscito
Un tempo andrà, poi si farà marito.

La bella Alfesibea saggia, e gioconda
Dotata d’ogni ornato, e bel costume
Di Flegeo figlia il purgherà ne l’onda
Paterna, e poi godrà seco le piume.
Et ei, perche ’l suo amore à quel risponda,
Ch’ al suo intelletto havrà renduto il lume,
Di quel monil faralle il collo avolto,
C’havrà con l’alma à la sua madre tolto.

Poi quando un tempo havrà il suo amor goduto,
E spento in parte il desiderio ardente,
Non gli parendo anchor d’esser venuto
Al san pensier da la sua prima mente,
À l’oracol n’andrà per novo aiuto,
Et ei risponderà, che ’l mal, che sente,
Convien, se vuol, ch’à lui la mente sgrave,
Che nel fiume Acheloo si purghi, e lave.

Onde Almeon, che del suo primo honore
Vorrà integrar lo stupido intelletto,
S’andrà à purgar nel Calidonio humore,
Dove l’ accenderà novello affetto.
Che ’l vago viso il faretrato Amore
Farà vedergli, e piagheragli il petto
De l’ignuda Calliroe, come nacque,
Mentre à nuoto godrà le patern’acque.

E non si partirà da quelle sponde,
Che per isposa l’otterrà dal padre;
E poi purgato da le socere onde,
Si godrà le bellezze alme, e leggiadre.
E le sue membra essendo atte, e feconde,
La farà in breve di due figli madre,
Detto Acarnana l’un, l’altro Anfotero,
Ch’ in un dì acquisteran gli anni, e ’l pensiero.

E poi, ch’ ella del bello havrà sentito
Monil, ch’à l’altra moglie il collo adorna,
Pregherà dolce il suo dolce marito,
Che de l’oro fatal la faccia adorna.
Hor mentr’ei per haverlo andrà in quel sito,
Dove la prima sua moglie soggiorna,
Da figli di Flegeo, c’havuto aviso
Del novo amore havran, per via fia ucciso.

Temeno, et Assione ambi fratelli,
Poi ch’Almeone havran dato à l’inferno,
Calliroe alzando i rai languidi, e belli,
Esclamerà con preghi al padre eterno,
Che doni à figli suoi, c’han gli anni imbelli,
Gli anni, c’han forza, ardire, ira, e governo:
Perche chi vendicò del padre il torto,
Non stia, s’ha figli, invendicato, e morto.

E per giusta cagion quel Dio, che fuora
Suol dar ne’ tempi suoi gli alti secreti,
Quel, che può dar la sua figliastra, e nuora
Vorrà, che di Calliroe il pianto accheti.
E di quel, che ne’ figli allhora allhora
Più brama, ella vedrà gli occhi suoi lieti:
Gli vedrà in un balen robusti, e forti,
Da poter vendicar del padre i torti.

Si ch’Hebe non giurar, che l’alta cura
Mossa talhor da prieghi, e da rispetti,
Suole il corso impedir de la natura,
E far de gli altri sopr’humani effetti.
Come ha la metamorfose futura
Narrata Temi à i puri alti intelletti,
E che si cangi altrui tal volta il pelo,
Gran mormorio s’udì per tutto il cielo.

Che s’à la nuora regia era permesso
Di dar tal volta altrui l’età più bella,
Si dolean tutti in ciel, perche concesso
Non era à ognun quel, che potea far’ ella.
Et altri rinovar volea se stesso,
Chi ’l padre, ch’il cugin, chi la sorella:
E parlavan tra lor non senza sdegno,
Ch’era già il ciel tirannide, e non regno.

E che sol Giove, e ’l figlio Hercole, et Hebe
Potean far chi volean de gli anni altero,
E far maravigliar Calliroe, e Thebe,
D’Iolao, d’Acarnana, e d’Anfotero.
E diceano i più illustri, e anchor la plebe,
Che Giove era partial, non giusto, e intero:
E dal proprio interesse ogn’un tirato
Parlava contra Giove, e contra il fato.

Saturno si dolea d’esser si stanco,
Si vecchio, freddo, inutile, e mal sano,
Che mal potea più trar l’antico fianco
Per lo viaggio suo tanto lontano.
Vedendo il suo Titon canuto, e bianco
L’Aurora, le parea pur troppo strano,
Si bella essendo, e di si vago aspetto,
D’havere huom si disutile nel letto.

Cerere à Iasio suo l’antiche membra,
Che nel suo primo fior tanto le piacque,
Cerca rinovellar, che si rimembra
Del tanto dolce amor, che da lui nacque,
Riguardando Erittonio, à Vulcan sembra,
Che s’lolao si vecchio al zio dispiacque,
Si vecchio il figlio à lui dispiace anchora,
E chiama Giove ingiusto, e la sua nuora.

Quella Dea anchora à questa parte arrise,
Cui colse in fallo quel, che ’l mondo aggiorna,
E volea anch’ella patteggiar d’Anchise,
Di poter dare à lui l’età più adorna.
La gran sedition, che in ciel si mise,
Piu ogni hor contra di Giove alzò le corna,
Ogn’uno havea parenti, ò amici imbelli,
À quai bramava dar gli anni più belli.

E vi fu qualche Dio forte, e robusto,
Ch’ osò di dir, ma ne’ cerchi in disparte,
Privisi homai quel Re d’essere Augusto,
Che le gratie del Ciel si mal comparte;
Et eleggasi un Re, che sia più giusto.
Ma Giove havendo appresso Hercole, e Marte,
Con fronte irata à tutti il parlar vieta,
E con queste parole ogn’uno accheta.

S’alcuna riverentia al Re si porta,
Tacete, e date à me l’orecchie intanto,
Ditemi ciechi, e dove vi trasporta
L’ambition nel regno eterno, e santo?
Puot’ esser mai, che la celeste porta
Chiud’alma, che di se presuma tanto ?
Ch’osi parlar ne’ regni alti, e beati
Di voler superar gli eterni fati ?

Da che fu l’alto ciel, fu il fato eterno,
E ’l fato è quel, che in Thebe ha fatto oprarme,
Che giovane Iolao gli anni, e ’l governo
Rihabbia anchor, non la superbia, e l’arme.
Vuol del fato il decreto alto, e superno
(Come ha di Theme à noi predetto il carme)
Che i figli d’Almeon troppo per tempo
Debbian far forza à la natura, e al tempo.

Voi regge il fato, e me, per far, che meglio
Ve ’l comportiate, e contra andar non posso,
Ch’à Radamanto, e ad Eaco infermo, e veglio
La troppa età non curverebbe il dosso.
E s’amate di ciò più chiaro speglio,
Volgete gli occhi alquanto al re Minosso,
Che vecchio, e infermo oppresso è da la guerra,
E fe col nome sol tremar la terra.

E se rivolgerete à Creta il ciglio,
Vedrete come ogn’un schernisce, e sprezza
Il mio impotente, e abbandonato figlio
Per l’affannata, e debile vecchiezza.
Che quando à gli anni dar potessi essiglio,
Farei tornarlo à la sua prima altezza;
Ne Mileto ardirebbe il suo cognato
Di volergli involar l’alma, e lo stato.

Ma s’egli guerreggiar per li tropp’anni
Non può, farò, che co’l favor del cielo
Sarà provisto à suoi Cretensi danni
Co’l più rapido ardor, che spegna il gielo.
Subito monta i più sublimi scanni,
Dove è riposto il più dannoso telo,
E fatto innanzi al tuon splendere il lampo,
Aventa irato, ov’ ha Mileto il campo.

Quando da pria gli Dei volser la luce
Ver Creta, e vider disprezzato, e abbietto
Quel Re, che fu si chiaro, e invitto Duce,
Ogni sedition scacciar dal petto.
E si piegar di non dare à la luce
Quel, che già detto havean, c’hebber sospetto;
E tanto più, quand’ei s’armò la mano
De l’arme inevitabil di Vulcano.

Mandato Giove un folgor ne rafforza
Un’ altro, e un’ altro, e via balena, e tuona,
E dando al forte braccio ogni hor più forza,
La terra d’ogni intorno, e ’l cielo introna.
Tal, che Mileto, e ’l campo al corso sforza,
Ognun le squadre, e gli ordini abbandona.
E ’l foco, che dal ciel si ardente piove,
Ognun cerca fuggir, ma non sa dove.

L’uno abbandona l’altro, e per salvarsi
Corron, chi quà, chi là per varij lochi,
E molti in varie forme restano arsi,
Secondo varia il ciel le pietre, e i fochi.
Quei, che vivi anchor, son trovansi sparsi
Tutti chi quà, chi là smarriti, e pochi.
Mileto vede ben, che quel flagello
Gli vien, perch’al cognato egli è ribello.

Tosto, che manca il fulminar de l’aria,
La poca gente sua, che viva resta,
Vedendo la fortuna haver contraria,
Per andar verso il porto insieme appresta.
E trova, che la fiamma empia aversaria
Con la fervente, e subita tempesta
Distrutte ha le galee, rotte le navi,
L’asse, l’antenne, e l’elevate travi.

Fra tutti i grossi legni, e le triremi,
Che ’l fulminar del ciel distrutti havea,
À pena tanta ciurma, e tanti remi
Trovò da porre in punto una galea.
Di quei, che non restar de l’alma scemi
Da la fiamma del ciel crudele, e rea,
Fatta una ciurma à una galea s’attenne,
C’havea anchor salvi gli arbori, e l’antenne.

L’armata havea nel porto di Fenico,
Però c’havendo preso il regno tutto,
Vicino à questo porto il suo nemico
In un forte castel s’era ridutto.
Da questo porto misero, e mendico,
Poi che ’l foco del ciel l’have distrutto,
Sol con una galea forz’è che lasse
Quel regno, ch’assaltò con tanta classe.

Di notte, come porta il suo destino,
Fà vela, e à mezzo dì drizza la prora,
E passa il capo, c’ ha nel suol mancino,
Pria, ch’à splender del ciel venga l’Aurora.
Verso levante poi prende il camino,
Et havendo al suo fin propitia l’ora,
Si trova giunto à l’apparir del lume
Sopra la bocca del Messalio fiume.

Poi che scacciato dal celeste grido
Mileto fu di Creta; haveasi eletto
Passar, come premea di Cuma il lido,
Dove ha Meandro il raggirato letto.
E quivi intendea farsi un novo nido
Per qualche suo particolar rispetto.
E conveniale costeggiare intorno
Creta, dov’ella è volta al mezzo giorno.

Come ha dunque passato Psichione,
Drizza à Greco il camin co’l vento à l’orza,
E mentre il promontorio di Leone
Cerca acquistare, il vento alza, e rafforza,
Tanto, ch’ in poppa à la galea si pone,
E gonfia il teso lin con tanta forza,
Che speran pria, che venga oscuro il cielo,
Passar se non, Itano, almeno Ampelo.

Già si chinava il Sol verso la sera,
E potea star tre hore à restar morto.
E l’aura era restata si leggiera,
Che ’l lino havean di già piegato, e attorto.
E già il legno ad Ampelo arrivat’ era,
Ma sorger non volea, ne pigliar porto.
E gir piuttosto al buio, e con fatica
Volea, che prender l’ isola nemica.

Ma intanto un Greco spaventoso, e tetro
Ingrossa il mare, e move al legno guerra,
E dubio il fà, se dè tornare indietro,
Ó dè afferrarsi à la nemica terra.
Ma del mar grosso il paventoso metro
Gli mostra, ch’è men mal, s’egli s’afferra.
Però che correria per l’aria bruna
Con troppo gran periglio la fortuna.

Hor mentre di dar fondo il buon nocchiero
In qualche sen coperto si procaccia,
Da tramontana sorge horrido, e altero
Un vento, che da l’ isola lo scaccia.
Subito il buon nocchier cangia pensiero,
E volta verso l’Africa la faccia.
E fa camin contrario al suo disegno
Per dar men noia al combattuto legno.

La traversia di Greco in tutto manca,
E vien sol da maestro, e tramontana.
E l’onda sempre più rompe, et imbianca,
E ’l legno più da l’isola allontana.
Men di quel, che vorria, tiensi à man manca
Per la forza di Circio iniqua, e strana
Il misero nocchier, ch’accorto, e saggio
Si toglie men che può dal suo viaggio.

Con poca vela và ristretta, e bassa,
Et à l’arbor maggior dà sol quel vento,
Che fà, che la galea divide, e passa
Le gran botte del mar con men tormento.
De l’humil turba sbigottita, e lassa
Star al suo officio ogn’un si vede intento.
Stà ogn’un pronto al servitio, al quale è buono
Per obedir (pur che s’udisse) al suono.

Ma tanto orgoglio, e horror ne l’aria freme,
Si grande è ’l mormorio de le rott’onde,
Del grido human, de la galea, che geme
Ne la prua, ne la poppa, e ne le sponde
Co’l romor de le corde unito insieme,
Che del fischietto il suon fra lor s’asconde,
E non, che in prora quei, ch’à lui son presso,
No’l ponno udir, ne quel, che ’l suona istesso.

Ma dove il suon non val, supplisce il grido.
E perche il mar già qualche remo ha rotto,
Accenna con la mano, alza lo strido,
Che dentro il palamento sia ridotto.
Lo stuol poi ver la prora schiavo, e infido
Fà sferrar tutto, e imprigionar di sotto,
Perche sferrato insieme non s’ intenda,
E per la libertà l’arme non prenda.

L’onde una appresso à l’altra eran si spesse,
E tanto alcun talhor tenean coperto,
Che non havea donde spirar potesse,
E fur cagion, che ’l capitano esperto
Di sferrar sol quei de la prora elesse,
Ma non, che stesser franchi al discoperto.
E tanto più, c’havean gli ondosi torti
Già dentro à la galea due schiavi morti.

Anchor che chiusi sian tutti i portelli,
E stian di sotto à lume di candela;
Se ben v’ han sopra le bovine pelli,
Onde ogni fesso lor meglio si cela;
Pur quando entran del mar gli aspri flagelli,
Qualche poco d’humore indi trapela:
Ma quei di sotto v’ han gli occhi, e l’orecchie
E con sassole, e spugne empion le secchie.

Con occhi d’Argo guardan quei di sopra,
Ch’ogni rimedio lor sia fatto à segno.
E che per gettar l’acqua il balcon s’opra,
Quando men nocer può l’ondoso sdegno.
Gettato il mar nel mar fan, che si copra,
Inchiudan poi le pelli sopra il legno
Con chiodi, che non fan nel legno fossa,
Ma saltan tutti fuor con una scossa.

La notte già co’l tenebroso manto
Per tutto l’aere havea renduto oscuro,
E ’l vento, e ’l mar cresciuto era altrettanto,
E fatto il lor periglio men sicuro:
Solo un conforto è à lor rimaso in tanto
Notturno stratio, periglioso, e duro,
C’hanno il mar largo, e per l’ondoso orgoglio
Trovar non ponno insino al giorno scoglio.

Vuol ne la prima guardia de la notte
Il comito alternar la poggia, e l’orza,
E mentre il credon far, del mar le botte
Copron la ciurma, e ’l vento alza, e rafforza,
Tanto, che fa cader l’antenne rotte,
E tanto del cader grande è la forza,
Che storpia, e uccide, e fà, ch’ in poppa, e ’n prora
Il legno morto un’altra volta mora.

Fà il buon padron con l’affannato, e roco
Strido levar la vela del trinchetto,
Et appresso al grand’arbor le dà loco
Per far minor, che puote il suo sospetto,
E del rabbioso vento sol quel poco
Prende, ch’à lui può far più fido effetto,
E intanto il rotto mar rompendo passa
Con la poppa, e la prora hor alta, hor bassa.

Il romore è infinito, e l’aria è nera,
E non si vede il cenno, e non s’ intende,
Ne si può riparare à l’onda altera,
Ch’ogn’hor con più furor freme, et offende.
Ma il balenar, che fa l’etherea spera
Di cosi spessi fuochi il cielo accende,
Che scopre il mare, e ’l cielo d’ogn’intorno,
E splender fà di mezza notte il giorno.

Ma ’l notturno splendor mostra il lor danno,
Che se ’l verno crudel molto anchor dura,
Far resistenza al mar più non potranno,
Che già la morte lor veggon sicura.
Veggon, che tutto il morto perdut’ hanno,
Ne potrà riparar l’humana cura,
Da poi, che ’l mar lor tutto il morto ha tolto,
Che ’l vivo anchor non resti al fin sepolto.

Veggon, mentre arde il lampo in ogni parte,
Del legno impressa l’ultima ruina,
Lo schifo tolto, e rotte antenne, e sarte
Da l’atra tempestosa onda marina.
Pur quel, ch’ in poppa gli officij comparte,
Chiede à la gelosia, che gliè vicina,
Come fa la trireme acqua di sotto,
E s’alcun legno v’è sdruscito, ò rotto:

Quel, che sotto à la poppa in guardia siede,
Dimanda à quel di mezzo il punto istesso,
La camera di mezzo ne richiede
La stanza de la prora, che gliè appresso.
Da prora à poppa la parola riede,
Che legno non v’è anchor rotto, ne fesso.
Gran ventura è la lor, poi che si trova
Esser la lor galea spalmata, e nova.

Se bene in su’l mancar de l’aer chiaro
Per haver men travaglio il buon nocchiero,
Diè molte cose al mar crudo, et avaro
Per far restare il legno più leggiero:
Hor si difficil vede il suo riparo,
E ’l vento si rabbioso, e ’l mar si altero,
Ch’ogni più ricca merce, ond’egli è onusto,
Dona à l’ondoso orgoglio avido, e ingiusto.

L’Aurora già per fare al giorno scorta
Il volo havea ver l’oriente preso,
Ma il volto oscuro, e l’habito, che porta,
Non ha il suo bel color vario, et acceso.
Mostra il ciglio dolor, la guancia ha smorta,
Gravi ha le vesti, e ’l crin d’humido peso.
E l’ali nuvolose, ond’ella poggia,
Minaccian per quel di grandine, e pioggia.

Si levò il Sol, ma mesto, e lagrimoso,
Cinto di nubi, e mezzo ascoso il lume,
E nel levarsi alquanto di riposo
Presero i venti, e le salate spume.
Ma rivolgendo il buon nocchier dubbioso
Per lo confuso ciel l’afflitto lume,
Se bene il vento, e ’l mar non è tant’alto,
Par, che trema entro al cor di novo assalto.

Bonaccia à poco à poco il mare, e ’l vento
Men grave l’aura vien, men’ alto il mare.
Tanto, ch’un resta muto, e l’altro spento;
Di sopra il Sole, e ’l ciel lucido appare.
Fà il nocchier metter fuora il palamento,
E la ciurma di sotto sprigionare.
La toglie sotto à la prigion di cerro,
E dalla sopra à la prigion di ferro.

Nel conquassato legno me’ che sanno
Dan luogo à remi, e fan drizzar la prora.
Fra Circio, e Tramontana, e via ne vanno
Fin che ministra al Sol vien la terza hora.
Et ecco vien per loro ultimo danno
Un superbo Austro impetuoso fuora,
Le nubi sparse subito d’ intorno.
Tolgono à gli occhi loro il cielo, e ’l giorno.

Rafforza il vento rio torbido, e fero,
E in un momento il mar rompe, e confonde.
Alza l’ irato mare il grido altero,
E manda fin’ al ciel superbe l’onde.
Apron le nubi il panno oscuro, e nero,
E danno il passo à le celesti gronde.
E mentre freme in giù la pioggia, e ’l gielo,
Di mille tuoni, e fuochi avampa il cielo.

Tosto con minor vela il vento prende
In poppa il legno stanco, afflitto, e rotto,
E dentro il palamento si distende,
E ciò, che ’l nocchier dice esperto, e dotto.
Sciolta dal ferro poi la turba rende,
E falla ad un ad un serrar di sotto,
E tutto in opra pon l’ ingegno, e l’arte
Per vincer contra il mar si fero Marte.

Dal giel, da la procella, e da la pioggia,
E da l’onda superba, et inhumana
Percosso il miser legno hor cade, hor poggia,
E prende il camin dritto à tramontana.
Quattr’hore andò con la gonfiata poggia
Con l’onda ogni hor più incrudelita, e strana
Dal cominciar de la seconda guerra
Senza scoprir la desiata terra.

Quel gran camin, ch’ in una notte corse,
Il giorno racquistò tutto in poc’hore,
Che mentre dal sentier dritto si torse,
Men che potè il nocchier, si spinse in fuore.
Ma poi che gire al suo camin s’accorse,
E in tanto male il vento hebbe in favore,
L’antenna da rispetto al tronco strinse,
E con vela maggior la quercia spinse.

Dapoi che di lontan vide lo scoglio,
Cercò il padron d’avicinarsi al lito,
E mentre, che fendean l’ondoso orgoglio,
Discorreano fra lor qual fosse il sito.
Carpato disse alcun, ma fe su’l soglio
Conoscer, ch’era Caso, il più perito.
Si spinge à quella volta il buon nocchiero,
Per discoprir quel, che s’ è apposto al vero.

Non molto và, ch’un’Isola à man manca
Riconosce il nocchier molto maggiore,
Per dar riposo à l’alma afflitta, e stanca
La prima, e più propinqua, ma minore.
Ma per quel, ch’al distrutto legno manca,
L’altra, ch’ è detta Carpato, è migliore.
Ne molto dal camin torcendo il legno
Solca ver la miglior l’ondoso sdegno.

Co’l vento, e la fortuna in poppa stare
Non potea un’hora il legno à prender terra,
Quando ecco vien crudel la botta, e ’l mare,
E ’l misero timon dal legno sferra,
Ne più potendo la galea voltare
La vela per traverso il vento afferra,
E grava l’arbor tanto, e ’l fà si chino,
Che ’l rompe, e dona al mar l’arbore, e ’l lino.

Ben si veggon perduti il mare, e ’l vento,
E più che fosse mai superbo, e grave,
L’altro timon, le grosse onde, e ’l tormento
Tempo non dan, ch’al suo luogo s’ inchiave.
Hor mentre fa ciascun certo argomento,
Che ’l mar gli affondi, e stà piangendo, e pave;
S’apron le nubi, e danno al Sol passaggio,
Et ei ne la galea splender fa il raggio.

Quando Mileto il vivo ardor paterno
Ne la morta galea risplender vede,
Le mani alza, e le luci al regno eterno,
E al Sol mercè con queste note chiede.
Padre se pure è ver, che ’l sen materno
Del tuo seme divin quà giù mi diede,
Rivolgi alquanto à me pietoso il lume,
E salva il sangue tuo da queste spume.

Il Sol, ch’al suo viaggio intento, e fiso
Talhor non guarda à l’opre de’ mortali,
Quando apre l’occhio al doloroso viso
Del figlio, e scorge i suoi propinqui mali,
Mosso à pietà con ben fondato aviso
À tre de raggi suoi fa batter l’ali,
E ne manda uno ad Eolo, e l’altro dove
Alberga il Re del mare, e ’l terzo à Giove.

Giove, che scorge liberata Creta,
Vuol, ch’à lo Dio del lume si compiaccia,
E con la vista sua gioconda, e lieta
Tutte à un tratto dal ciel le nubi scaccia.
Compiace ancho Eolo, e i venti irati acqueta,
E lascia in un balen l’aere in bonaccia.
Manda Triton lo Dio del salso regno,
Che faccia ritornar l’onde al suo segno.

Prende tosto Triton la concha attorta
Pronto verso il suo Re devoto, e fido,
E donando lo spirto à l’aura morta,
Fà da l’un polo à l’altro udire il grido.
Poi rende con la voce ogni onda accorta,
Che debbia ritornare al proprio nido.
Si spiana l’onda à poco à poco, e tace,
E lascia il legno in mar del tutto in pace.

Come manca del mar l’aspro tormento,
Metton senza indugiar l’altro timone,
E, perche soffia in aere un dolce vento,
C’ha volto il soffio ver Settentrione,
Legan la rotta antenna in un momento
Al tronco, che restò de l’artimone,
E di più pezzi di legnami, e tele
Rifan l’antenne, gli arbori, e le vele.

Giunti che sono à Carpato il pavese
Legano insieme, e ’l fan notar ne l’onde,
Che poi che ’l mar per se lo schifo prese,
Via da smontar non han migliore altronde.
Vi calar poi più d’un, ch’in terra scese,
E legò il laccio à le propinque sponde.
Qui il legno si fornì parte per parte
Di vele, antenne, remi, arbori, e sarte.

Dal lito con buon tempo il lin poi sciolse
Il provido nocchiero, et uscì fuori,
E al vento maestral la mira tolse,
E solcando andò il mar fra Sime, e Dori.
Passato c’hebbe Gnido egli rivolse
À gli Scithi la prua, la poppa à Mori,
E via solcando il liquefatto vetro
Lasciò mille isolette, e scogli à dietro.

Da man destra lasciò Nisiri, e Claro,
E Leria, e Patmo, e à quel lido pervenne,
Dov’Icaro del ciel soverchio avaro
Sforzò à cader le troppo alzate penne.
E havendo il mar tranquillo, e ’l tempo chiaro
In breve nel canal di Scio si tenne.
Ver Greco solcò poi l’ondosa spuma,
Et in Eolia al fin pervenne à Cuma.

Dopo tanto viaggio, e tanta guerra
Sentita hora dal foco, hora da l’acque
Smonta Mileto à Cuma, e và per terra,
E di fermarsi in Frigia al fin gli piacque:
Dove il Meandro si s’aggira, et erra,
Che par, che torni spesso, ove già nacque.
E una città, ch’in breve fu perfetta,
Fondò, che fu da lui Mileto detta.

Hor caminando per diporto un giorno
Per l’aggirate vie del patrio fiume,
Incontra un volto angelico, et adorno,
E vien seco à incontrar lume, con lume.
Le parla, e ’n solitario entran soggiorno,
E premon l’herbe in vece de le piume.
Figlia era di Meandro la donzella
Detta per nome Ciane adorna, e bella.

Hebbe di questa una gemella prole
Dotata d’ogni gratia illustre, et alma,
E si le lor bellezze uniche, e sole
Crebber, che sopra tutte hebber la palma.
E ben del sangue uscita esser del Sole
D’ambi parea la carnal veste, e l’alma,
Tanto saper, tanto splendor raccolto
Havean nel lume interno, e nel bel volto.

L’un fu garzone, e Cauno fu nomato,
L’altra fu detta Bibli, e fu fanciulla.
E s’ei d’ogni bellezza era dotato,
Ella ogni altra beltà fea parer nulla.
E da che l’uno, e l’altro hebbe lasciato
La prima età del latte, e de la culla,
S’amar d’un vero amor si caldo, e interno
Quanto altri mai, d’amor però fraterno.

La donna, che ne l’odio, e ne l’amore
L’huom di natura, più costante avanza,
Havea più del fratello acceso il core,
Però di buona, e lecita speranza.
Pur non pensando à dishonesto ardore,
Tal volta si prendea troppo baldanza,
E per dar gratia à la camicia, e al manto,
Trovava via d’avicinarsi alquanto.

Venere contra ogn’un grand’odio havea,
Che traheva dal Sol l’alma, e la carne,
E come occasion se le porgea,
Non volea mai senza vendetta andarne.
Hor quando vide, ch’à costei piacea
Tanto il fratel, volle più stratio farne,
Che non fè de la zia quando amò il toro,
Per dar maggiore infamia al sangue loro.

Subito entrar ne gli occhi del fratello
L’irata Citherea fa il suo Cupido.
Và la sorella misera à vedello,
Mossa da santo amor fraterno, e fido;
Rimira l’occhio gratioso, e bello,
Ne sà, ch’allhora Amore ivi habbia il nido.
L’arco scocca ver lei subito Amore,
E fa lo stral passar per gli occhi al core.

Bibli non sà, che l’amoroso dardo
L’habbia di reo desio piagato il petto,
E quando à riveder torna il bel guardo,
Pensa, che vero sia fraterno affetto.
Hor mentre cieca del pensier bugiardo
Corre à l’ irragionevole diletto,
S’adorna prima, e poi dolce favella,
E parer brama à lui faconda, e bella.

E se tal volta à sorte il fratel vede
Qualch’altra vagheggiar bella fanciulla,
E per acquistar gratia, amore, e fede,
Seco con modi honesti si trastulla,
L’ha invidia: e se in disparte il fratel siede,
S’accosta, e ’l bel de l’altra in tutto annulla.
E dice ogni difetto, e forse vero,
C’have colei nel volto, e nel pensiero.

Voi, cui la Cipria Dea non è nemica,
Da questo infame amor prendete essempio,
E fate, che la mente alma, e pudica
Scacci da se l’amor nefando, et empio.
Chi cerca farsi di sorella amica,
Acquista de l’infamia il grave scempio.
E non si può scusar, come costei,
Ch’al san pensier contrarij hebbe gli Dei.

Locate il natural caldo desio
In quel fedel amor beato, e santo,
Ch’approva il mondo, la natura, e Dio,
Onde Himeneo ne forma il carnal manto.
Ogni altro amore è scelerato, e rio,
E scorge l’alma al sempiterno pianto,
E innanzi à quei, ch’anchor godono il giorno,
Macchia l’honore altrui d’eterno scorno.

Non si conosce Bibli, e non sà il fine,
Al qual l’occulta sua facella intende.
Ma loda le bellezze alme, e divine,
E dentro maggiormente Amor l’accende.
Dà diversi ornamenti al manto, e al crine,
E ogni hor bella al suo fratel si rende.
Signor già ’l chiama, e da signor già il pregia
E i nomi, che dà il sangue, odia, e dispregia.

Quando ode, che ’l fratel soror la chiama,
Infinito dolor nel suo cor sente,
Che le rimembra quel, ch’ella non brama,
Quel nodo, c’han dal medesmo parente.
Pur se ben tanto il mira, e tanto l’ama,
Desta ha dal rio pensier vota la mente.
Non osa mentre il dì viva la tiene,
Di dare albergo à la nefanda spene.

Ma quando avien, che le cadenti stelle
Spargon sopra di noi l’onde di Lete,
E tutte l’attioni, e le favelle
Fan per tutto restar sopite, e quete:
E Bibli da le luci amate, e belle
Si parte, e dassi anch’ella à la quiete.
Secondo che ’l desio la punge, e fiede,
Sovente l’Amor suo nel sogno vede.

Ne sol le par d’amarlo, e di vedello,
E di stupir del suo divino aspetto,
Ma d’abbracciarlo, e poi girsen con ello,
E goder seco al fin l’ infame letto.
Pur si rimembra in quel, che l’è fratello,
E ben che ’l sonno anchor l’ ingombri il petto,
Per la vergogna fa vermiglio il volto,
E fa restare il cor dal sonno sciolto.

Da poi, ch’insieme il sonno, e ’l sogno sparve,
Stette un gran tempo sbigottita, e muta.
E poi ch’entro à la sua memoria apparve
L’imagin, che sognando havea veduta;
Dove quella beltà goder le parve,
La qual non havea mai desta goduta,
La biasma, la rimembra, e la rappella,
E dentro al dubbio cor cosi favella.

Misera me, che sogni iniqui, e rei
Turban la mente già pudica, et alma?
E fanno ingiusti i casti pensier miei,
E d’illecito amor m’accendon l’alma?
Giamai non piaccia à sempiterni Dei,
Ch’ io gravi l’honor mio di si ria salma.
Non piaccia al glorioso alto governo,
Ch’altro sia l’amor mio, ch’amor fraterno.

È bello sopra ogn’altro, e in vero è tale,
Che costringe il nemico ancho à lodarlo,
E se fratel non fosse al mio mortale,
Sposo potrei meritamente amarlo.
Fugga pur via l’affetto empio, e carnale,
Non mai più il sogno rio venga à destarlo.
E resti quell’amor fido, e pudico,
Che l’ama haver fratello, e non amico.

Ma pur, c’habbia il pensier lodato, e santo,
Mentre contemplo il dì la sua bellezza,
Perche debb’io spregiar quel sogno tanto,
Che m’hà fatto sentir si gran dolcezza?
Senza, ch’offenda il mio terreno manto,
Mi dà il sogno quel ben, che più amor prezza.
Ne può al mio amor trovarsi il più bel modo,
Che ’l cor non pecca, io non offesa il godo.

S’al soave d’amor sommo diletto
Non si pervien, se non à coppia à coppia,
Poi che v’è necessario più d’un petto,
Con testimonij amor gli amanti accoppia.
Ma senz’arbitro alcun, senza sospetto
Il sogno co’l mio amor mi lega, e addoppia.
Lontano è il testimonio al mio trastullo,
Ma l’ imitato amor non è già nullo.

Ó dolce sogno, ò Venere, ò Cupido
Quanto fu il mio piacer, quanto il mio bene,
Mentre hebbe il sonno entr’al mio petto il nido,
E fe del dolce fin lieta la spene.
Ó quanto anchor piacer nel core annido,
Quando di parte in parte me’n soviene.
Fu breve il mio diletto, ma si grato,
Che più nel ciel gli Dei non l’han beato.

Ó invidiosa al mio stato felice
Alba, ch’apristi à miei lumi le porte.
Ó quanto erra d’assai ciascun, che dice,
Ch’una imagine il sonno è de la morte.
Che l’esser desto è una morte infelice,
Soggetta ad ogni estrema, et empia sorte.
Scarca d’affanni almen la notte ho posa,
E viver mi fa il sonno allegra, e sposa.

Fu ’l mio beato sogno breve, e finto,
Ma ’l vegghiare, e ’l dolore è lungo, e vero.
Hor s’è si dolce un ben corto, e dipinto,
Che mostra il sogno al non desto pensiero,
Che saria, se ’l mio amor tenessi avvinto
Gran tempo, quando ho sciolto il senso, e intero?
Ben da me posso imaginarmi quanto
Sia il ver piacer d’amor, se ’l finto è tanto.

Deh torna dolce sonno, e da anchor loco
Con quel finto trastullo al grande ardore.
Ma mentre son ne l’amoroso gioco,
E godo il maggior ben, che porga amore;
Del mio tanto piacer ti caglia un poco,
Lascia dentro sfogar l’acceso core.
Se in sogno sposa à lui vivo, e respiro,
Non far, ch’ io porti invidia al Tasso, e al Ghiro.

S’io provo nel vegghiar noia, e tormento,
Che ’l mio error vero scorgo empio, e mortale,
E se ne la quiete ho il cor contento,
E un piacer finto annulla ogni mio male,
Sia tutto finto ciò, ch’io veggio, e sento,
E ’l ver lunge da me dispieghi l’ale:
Et ogni opra, ch’ io scorgo, ò d’altri, ò mia,
Sia tutta fittion, tutta bugia.

Ó s’ io finger potessi in qualche modo,
Dolce amor mio, di non t’esser sorella,
Co’l dolce d’Himeneo legame, e nodo
Godrei la vista tua soave, e bella.
Che la beltà, che tanto ammiro, e lodo,
Non saria ver la sposa empia, e rubella.
Ne spregieresti farti al padre mio
Genero, ch’è figliuol del più bel Dio.

Ohime, perche non fer gli eterni dei
Fra noi comune ogni fortuna, e cosa
Da padri in fuor, che ben trovar saprei
Modo da farmi à te compagna, e sposa?
Ó che rara fortuna havrà colei,
Beata sopra ogni altra, e gloriosa,
Che godrà le tue membra alme, e leggiadre,
Mentre far la vorrai consorte, e madre.

Hor, che importano, ohime, che dir vorranno
L’imagini, che ’l sonno mi dipinse?
Han forsi i sogni forza? e se pur l’hanno,
Qual forza ha quel, che col mio amor mi strinse?
Se fessero i mortai quel, ch’ in ciel fanno,
Io potrei giudicar, che ’l ver mi finse,
Che ’l sogno, ch’al mio amor stretta m’avolse,
I futuri Himenei dimostrar volse.

Ma poi che non è lecito à mortali,
Che co’l fratel la donna s’accompagni,
Voglion dir forse i miei venuti mali,
Che di già fan, ch’ io mi lamenti, e lagni.
E dier luogo à gli affetti almi, e carnali,
Perche di maggior pianto il volto io bagni.
E m’han fatto goder di tanta gioia,
Perche priva di lei senta più noia.

Quanto è miglior de la terrena legge
Quella, che serva la celeste corte,
Che per quel, che di lor chiaro si legge,
Sposan le lor congiunte d’ogni sorte.
Volle quel Dio, che l’universo regge,
De la sorella propria esser consorte.
Fe sposa Opi Saturno, e l’Oceano
S’unì con Teti, e pur l’era germano.

Ma che cerco io dal ciel prendere essempio?
Non son fra ’l cielo, e noi le ragion pari.
Non dobbiam venerar nel divin tempio
L’opre de gli alti Dei su i loro altari.
Ma à voler fare un’ atto infame, et empio,
Da quel, che fan gli Dei, già non s’ impari.
Che dar non ponno i nostri animi erranti
Ragion de lor misterij eterni, e santi.

Io vò per ogni via scacciar dal core
Questo nefando, e scelerato affetto.
Ó se far no’l potrò, cresca il dolore,
E de l’aura vital privi il mio petto.
Che senza biasmo mio, senza disnore
Quando sarò dentro al funebre letto,
Del mio dolce fratel l’ostro, e ’l cinabro
Darà gli ultimi baci al morto labro.

Hor sù poniam, ch’ io discacciar non voglia
Dal petto il folle amor, che ’l punge, e fiede;
Convien, che in un voler cada la voglia
Di due, se vuole Amor la sua mercede.
Come farà il desio, ch’à ciò m’ invoglia,
C’habbia l’amato mio la stessa fede ?
Parrà à me giusto, e ’l pregherò, che m’ame,
Nefando à lui, ne vorrà farsi infame.

Son saria però il primo, il quale osasse
Nel letto entrar de la sorella propia.
Si dice pur, che Macareo v’entrasse,
E ch’ella del suo amor le fesse copia.
E s’anchor Bibli il suo fratel tentasse,
Forse di se non li farebbe inopia.
Ma stolta, che vado io cercando essempi,
Che son da ognun tenuti infami, et empi?

Fuggan pur via da me gl’ infami ardori,
E s’armi il cor di voglie honeste, e sante,
E dando essilio à dishonesti amori,
S’ami come fratel, non come amante.
Ben potrei haver pietà de suoi dolori,
S’havesse egli il mio amor bramato avante.
E bene il core haveria troppo empio, e fello
Chi lasciasse perire il suo fratello.

Hor se non saria honesto, ch’ io soffrissi
Di veder consumare il mio germano;
Perche, s’io l’amor mio gli discoprissi,
Non dovrebbe ei ver me mostrarsi humano?
Meglio saria per me, se farlo ardissi,
Ch’io medesma il mio amor gli fessi piano.
Ma potrai tu parlar? ben poco accorta
Sei, se palesi un mal, che tanto importa.

Ma vò parlargli, e seguane che vuole,
E dirgli, che ’l suo amor sol bramo, e pregio.
Ma potrà mai la nipote del Sole
Macchiar la luce sua di si gran fregio ?
Chi ti darà la voce, e le parole
Da indurre à tanta infamia il sangue regio?
Non vedi tu, ch’ei si pregiato, e raro
Havrà rispetto al suo sangue si chiaro?

Non però di pieta sarà si ignudo,
C’habbia à lasciar morir la sua sorella,
Che sa ben, che non vale elmo, ne scudo
Contra l’empie d’amore arme, e quadrella.
Se non potrà mostrare il colpo crudo
La debil voce, e timida favella;
Pregherò tutta humil la penna, e ’l foglio,
Che scoprano in mio nome il mio cordoglio.

Quest’ultimo parer, che la consiglia,
Vince la dubbia innamorata mente.
Lascia le piume à un tratto, e ’l manto piglia,
E se l’ammanta intorno solamente.
E senza ornare il bel crine, e le ciglia,
La seta, il panno, l’or, la guancia, e ’l dente,
Spinta dal grande ardor, che la consuma,
Prende una man l’acciar, l’altra la piuma.

Dove ha da scriver commoda s’asside,
E la manca appoggiata alza la penna,
La destra fa, che ’l ferro la divide
Nel mezzo de la gola, ù l’occhio accenna.
In forma d’obilisco la recide,
E poi che l’ ha ben rasa la cotenna,
Sù l’unghia manca grossa il dital prende,
Dove co’l ferro poi la spunta, e fende.

Nel vaso, ov’è l’ inchiostro, indi la tinge,
E havendo sopra il foglio i lumi intenti,
Ambi i gombiti appoggia, e ’l foglio pinge,
E in varij modi accoppia gli elementi.
Le sillabe, che unite insieme stringe,
Dimostran le parole, e i loro accenti,
E come il suo concetto ha in un congiunto,
Non manca del suo segno, e del suo punto.

È ver, che ’l cassa poi, che non le piace,
E raccoglie à discorrer l’ intelletto.
Come ha pensato alquanto, e si compiace,
Spiega nel foglio il suo novo concetto.
Non molto stà, che ’l novo anchor le spiace,
E qualche altro pensier fa dubbio il petto.
D’un vergognoso ardir ha il volto acceso,
E ’l pugno scrive, trema, e stà sospeso.

Ella stessa non sà quel, che si vuole,
Ne forma può trovar, che non la mute,
La carta ne le sue prime parole
Cosi parlò con voci aperte, e mute.
Se ben scrivendo tua sorella suole
Mandarti da principio la salute.
Poi il nome di sorella non vi brama,
E pone in quella vece una, che t’ama.

Poi che più cose ell’have aggiunte, e tolte,
Secondo il caldo amor le persuade,
La legge tutta quattro, e cinque volte,
E quattro, e cinque volte aggiunge, e rade.
Poi la riscrive in note aperte, e sciolte.
E quel, ch’aggiunse, in tal sententia cade;
Non ha per hor salute, onde ti scriva,
Ch’ogni salute sua da te diriva.

Piacesse al ciel, che senza il nome mio
Potesse questa mia causa trattarsi,
E certa fossi pria del tuo cor pio,
Che venisse il mio nome à palesarsi.
Hor s’haver non può luogo il mio desio;
Se i versi miei son del mio nome scarsi,
Bibli è colei, che te nel suo cor tiene,
E c’ ha fondato in te tutta la spene.

Ella è colei, che t’ ama, e c’ ha scolpita
Nel cor l’ imagin tua divina, e bella.
Ella è, che t’ama più de la sua vita,
D’amor più caldo assai, che di sorella.
E ben mostrai, c’havea l’alma ferita
Al volto smorto, al pianto, e à la favella.
E i tanti baci, e le parole tante
Non fur già di sorella, ma d’amante.

E ben, ch’ io mi sentissi accesa l’alma,
E strugger dentro il già ferito core;
Con la virtù già mia pudica, et alma
Pugnai per discacciar si fatto ardore:
Ma al fine amor ne riportò la palma,
Che posson troppo in noi l’arme d’Amore.
Pur te’l dican per me gli eterni Dei,
Che resister cercai più, ch’ io potei.

Fei più, che far non puote una fanciulla
Contra il colpo d’Amor possente, e crudo,
Ma quel poter, ch’ogni potenza annulla,
Più forte hebbe il suo stral, ch’ io lo mio scudo.
E la gratia, ch’ io vò, non saria nulla,
Se tu ’l il mio cor veder potessi ignudo.
Ch’à la bontà vedresti ivi dipinta,
Che contra il mio voler mi chiamo vinta.

Con quel timore, et humiltà, che deggio,
Ti discopro il mio colpo aspro, e mortale,
E sol quella pietà di cor ti chieggio,
Che può dar la salute à tanto male.
Sol la beltà, che in te contemplo, e veggio,
Sanar può il cor da l’amoroso strale.
Eleggi tu, che in te sta la virtute,
Che mi può dar la morte, e la salute.

Colei non t’è nemica, che desia,
Che ’l prego, che ti manda, approvi, e lodi.
Ma brama per congiunta, che ti sia,
Che la leghin con te più stretti nodi.
Sappiano i vecchi la ragion più pia,
Che vuol, che santo amor gli sposi annodi.
Ma non vuol l’età nostra altro consiglio
Se non quel, che ne dà Venere, e ’l figlio.

Cerchino i vecchi il lecito, e l’ ingiusto,
Qual via s’ ha da tener, qual da fuggire.
Ma l’anno più possente, e più robusto
Al dolcissimo Amor deve obedire.
Il vecchio poi che l’alma ha inferma, e’l busto,
Quel, che più far non può, vieta co’l dire.
Che sappiam noi, ch’Amor sia il santo, ò l’empio?
Seguiam pur de gli Dei l’eterno essempio.

Forse, che noi dovremo haver sospetto
Del padre, de’ congiunti, e de l’honore?
Tu vedi quel, che ne l’altrui cospetto
N’è lecito di far senza rossore.
Sol ne manca il dolcissimo diletto,
Che dà il più dolce pregio, c’habbia Amore.
E ’l piacer, che n’havrem, soave, e certo
Sotto il fraterno amor terrem coperto.

Gli abbracciamenti, i baci, e le parole
Son nulla senza il lor più dolce frutto.
Sol ne manca quel bene, onde Amor sole
Render, chi ’l puote haver, beato in tutto.
Deh veramente scesa alma dal Sole,
Habbi pietà d’un core arso, e distrutto.
Ne creder, che ’l suo amor ti confessasse,
Se ’l forte ultimo ardor non lo sforzasse.

Quel ben, c’ ha posto in te l’alma natura
Per bear qualche donna amata, e bella,
Di che prender maggior dovrebbe cura,
Che di bear la sua cara sorella?
Quel ben, c’ ha in se la giovinil figura
Di questa accesa, e misera donzella,
Se dè beare un bel sembiante humano,
Chi meglio dè bear, che ’l suo germano?

S’à l’eta giovinile havrai riguardo
Del bel sangue del Sole illustre, e regio,
E se nel volto mio terrai lo sguardo,
Vedrai, ch’io non son donna da dispregio.
E se vuoi dir, che s’ io sfavillo, et ardo,
Vien per lo bel, ch’è in te di maggior pregio,
Non è però si vil la mia bellezza,
Che non v’habbi à trovar gioia, e dolcezza.

Deh non chiudiamo à quel gran ben le porte,
Che di due la beltà può dare à dui;
E se possiam bear la nostra sorte,
Non ci curiam bear la sorte altrui.
Deh non ti far cagion de la mia morte,
Che non t’ habbi à doler poi di colui
Che scriverà. Sta Bibli in questo avello
Da l’empio core uccisa del fratello.

Poi c’hebbe pieno il foglio in ogni parte,
E la sua voluntà contata intera,
Piegò l’ infami, e dolorose carte;
E con la gemma poi segnò la cera.
Trova un ministro, e diceli in disparte,
(Il volto vergognosa, e la maniera)
Tò porta questa al mio, ma al fin non giunge,
E dopo tempo assai, fratel, v’aggiunge.

Mentre la carta al suo ministro porge,
Ei non la prende à tempo, e cade in terra.
Come cader la misera la scorge,
Prende augurio entro al cor di nova guerra.
Il ministro s’ inchina, indi risorge
Co’l foglio, che l’error nefando serra.
Ritrova Cauno, e ’l rende irato, e mesto
Co’l verso, che vorria l’infame incesto.

Il pudico fratel da l’ ira vinto,
Letto, ch’egli ha l’ indegno, e rio cordoglio,
Di rabbia, e ardore il bel viso dipinto,
Straccia, e via getta in mille parti il foglio,
E quel miser ministro havrebbe estinto,
Se l’honor non tenea l’acceso orgoglio.
Pur per coprir l’error de la sorella
Al ministro di lei cosi favella.

Fuggi malvagio, e rio da la mia vista,
Osi con tanto error venirmi avanti?
E dì, ch’io la farò dolente, e trista,
E che la pena havrà de l’altre erranti,
Se quel, ch’ella ha perduto non racquista,
E poco le varran le scuse, e i pianti.
Timido ei fugge, e tien, che ’l suo disdegno
Nasca da qualche suo perduto pegno.

Hor mentre ella si veste, e ’l crine adorna,
Et à lo specchio tien la fronte opposta,
E per mostrarsi à lui più bella, e adorna
Fà, ch’ogni gemma sua sia ben disposta:
Il servo, che portò la carta, torna,
E le rapporta la crudel risposta,
E come egli stracciò le notte impresse,
E quel, che disse à lui, che le dicesse.

Come ode Bibli le repulse, e l’onte,
E c’ ha compreso ben quel, ch’ei dett’have,
Si sente impallidir la mesta fronte,
E trema tutta, e vien di gielo, e pave.
Dona comiato al servo, e fa, ch’un fonte
Di lagrime il bel viso, e ’l sen le lave.
Come la mente poi torna, e rispira,
Torna anchora il furor, l’ardore, e l’ira.

Tosto da l’ira mossa, e da l’ardore
Con lo spirto vital l’aere percote,
E fa sonar la debil voce fuore
In queste meste, e dolorose note.
Meritamente sprezza egli il mio amore,
Temeraria, ch’io fui, perche fei note
Quelle fiamme impudiche, e scelerate,
Che nel mio cor dovea tener celate.

Troppo fui presta, misera, à far pieno
Di tanto errore il foglio infame, et empio.
Dovea prima, ch’aprir l’acceso seno,
Con qualche finto altrui tentarlo essempio.
Pria, ch’allentare à la mia vela il freno,
S’amava in mar fuggir l’ultimo scempio,
Pensar dovea con più d’uno argomento
Al camin dubbio, à la stagione, e al vento.

Non posso hor più fuggir l’ira, e l’orgoglio
Del vento empio, e del mar l’ultimo sdegno.
Hor à percoter vò nel duro scoglio,
Non ho più in mio poter la vela, e ’l legno.
Ó folle amore, ò scelerato foglio,
Come scopristi altrui pensier si indegno?
Ó non prudente, e scelerata mano,
Come ardisti un’ amor notar si insano?

Da i tristi augurij, oime, mi fu disdetto,
S’havessi havuto il senno in poter mio,
Di compiacer à lo sfrenato affetto,
Di palesar l’ illecito desio.
Dovea pure à l’augurio haver rispetto,
Cader vedendo il foglio ingiusto, e rio,
E dovea sceglier più felice giorno
Per trarlo à l’amoroso mio soggiorno.

Non dovea far giamai vedere impressa
La mente mia ne l’odiose carte,
Dovea la mente mia scoprire io stessa
In qualche luogo commodo in disparte.
Che da soverchio amor l’alma mia oppressa
Veduto havria da l’onde, c’havrei sparte.
E da sospiri, e da la vista esterna
Veduta à pieno havria la fiamma interna.

Potea molto più dir la mia favella
Di quel, che cominciò lo scritto carme,
E s’al mio amore havea l’alma rubella,
Potea in aiuto mio movere altr’arme.
Potea abbracciar la gola amata, e bella,
E s’egli volea pur da se scacciarme,
Potea atterrarmi à suoi piè tramortita,
Et impetrare à i morti spirti aita.

Havrei provato ogni sorte opportuna,
Mostrata à me da l’amorosa speme,
E se pur no’l moveano ad una ad una,
Mosso forse l’havriano unite insieme.
Ma forse colpa v’ ha l’aspra fortuna,
Forse, ch’altro pensier l’alma hor gli preme,
Ne aspettar seppe il mio messo indiscreto,
C’havesse il cor più libero, e più lieto.

Questo è quel, ch’à me nocque, e ch’à lui spiacque,
Che fu il ministro mio male avertito,
E gli presentò il foglio, e non si tacque,
Mentre ch’ egli hebbe l’animo impedito.
Che però d’una tigre egli non nacque,
La madre d’un leon non l’ ha nutrito,
Non però mostra il suo nobil sembiante
Haver di ferro il cor, ne di diamante.

Ma vò, che resti ad ogni modo vinto.
Vò di novo con lui tentar la sorte,
E mentre l’alma il cor non lascia estinto,
Io vò seco pugnar costante, e forte.
Poi che ’l foglio il cor rio mostrò dipinto,
Vò l’impresa seguir fin’ à la morte.
Non dovea cominciar, ne ’l core aprire,
Ma poi che cominciai, convien seguire.

Che se ben lascierò la ingiusta impresa,
Non però appresso lui sarò qual’ era,
Li farà ogn’hor ver me la mente accesa
L’alma, ch’in me vedrà non casta, e intera.
E ne sarò schernita, e vilipesa
Come inhonesta, instabile, e leggiera.
Terrà, ch’altro in suo luogo habbia tentato,
E sia con fraude giunta al voto amato.

Non crederà, che quel possente Dio,
Che con si ardente fiamma arde il mio petto,
Quel caldo habbia creato in me desio,
Che m’ ha fatto scoprir l’ ingiusto affetto:
Ma ch’à l’amor cedessi iniquo, e rio,
Vinta da la lussuria, e dal diletto.
E quel, che non potei già haver da lui,
Con fraude, ogn’hor, ch’io vò, l’habbia d’altrui.

Già non potrò mai più dirmi innocente
Di quello error, che fa l’alma impudica.
Che se non peccò il corpo, errò la mente,
E di sorella amai di farmi amica.
E se ben hora il cor se’n duole, e pente,
L’alma in tutto però non ho pudica,
Ne mai d’error si dirà in tutto sciolta
L’anima, che peccò sol’ una volta.

E scrissi, e dimandai di far l’incesto,
Se possa far, che putta ei non mi chiame.
In tutto è violato il core honesto,
E anchor che più non pecchi, io sono infame.
Meglio è, ch’ io provi lui far dishonesto,
E ripregar, che m’accarezze, e m’ame.
Ch’ io non havrò à temer la sua rampogna,
Se parte anch’egli havrà ne la vergogna.

È pochissimo error quel, ch’à far resta,
Grandissimo è l’acquisto, s’io ’l commovo.
Ó donna insana, e che discordia è questa,
Che nel tuo ingiusto cor discorro, e trovo?
Ti penti de l’ illecita richiesta,
E pur ti piace ritentar di novo.
Solo il ritrova, e move il flebil metro,
E mille volte è ributtata indietro.

Quando il fratel la vede in tutto insana,
Fuggendo al sangue proprio fare oltraggio,
Lascia insieme la patria, e la germana,
Poi che ’l pensier di lei non può far saggio.
Da lei secretamente s’allontana,
E ferma al fine in Caria il suo viaggio.
E fonda per fuggir l’incesto indegno
Lontan da lei nova cittate, e regno.

Quando più Bibli il suo fratel non vede,
E de la sua partita à pieno intende,
Ne la camera sua secreta riede,
E dà fuor quel dolor, ch’ entro l’offende.
Straccia l’aureo capello, e ’l petto fiede,
E muta più, che può, lo strido rende.
Che non è anchor si fuor de l’ intelletto,
Che scoprir voglia altrui l’ infame affetto.

Più ch’ella puote, affrena il grido, e ’l pianto,
Ma pensa ben partir secretamente,
Come il ciel mostri lo stellato manto,
E seguir lui fra la straniera gente.
E pianger per le selve, e strider tanto,
Che sfoghi à pien la dolorosa mente.
Pur mentre è il giorno, il suo dolor raffrena,
Che teme i ceppi, ò i ferri, ò maggior pena.

Come col nero vel la notte adombra
Il nostro almo hemisperio de la terra,
E che ’l sonno à mortali il senso ingombra,
Mentre dan posa à la diurna guerra;
Di se la donna il patrio albergo sgombra,
E sola, e muta và fuor de la terra.
E allontanata in solitario lido
Da luogo à le querele, al pianto, e al grido.

Per la via dubbia va la notte tutta
In tutto fuor de’ suoi regij costumi,
E stride, e passa misera, e distrutta
Per selve, e per ombrosi hispidi dumi.
E come da la via varia è condutta,
Hor guazza, hor sopra i ponti passa i fiumi.
E per quel, c’hebbe del fratello aviso,
Tien sempre al mezzo dì voltato il viso.

Ben conosce ella à le stelle diverse,
Che cerca in ciel, qual sia la parte australe.
Ma poi che l’avo suo si discoperse,
E al giorno per lo ciel fe batter l’ale,
Dal Sole entro à le selve si coperse
Sempre stridendo il suo dolore, e male,
E se ’l digiun l’assal, le frutte acerbe
Le danno il cibo, e le radici, e l’herbe.

Più ch’ella può da gli huomini s’asconde,
Sol si palesa à qualche pastorella,
À le dimande altrui poco risponde,
E con lo strido sol piange, e favella.
Straccia con ambe man le chiome bionde,
E dopo il petto misero flagella.
Ben veggon tutti à gl’ atti, al volto, e al panno,
Ch’ ella è gran donna, e soffre un grand’affanno.

La cercan consolar, le fanno honore,
Le danno il cibo, e ’l rustico conforto.
Di palesar l’amor già dubbio ha il core,
Acciò ch’ogn’una al suo fratel dia torto.
Pur si raffrena, e dove il suo dolore
La guida, va tosto, che ’l giorno è morto.
E passa il fiume, e scorre il monte, e ’l piano,
Ver dove trovar crede il suo germano.

Patisce dal digiuno, e perde il sonno,
E ’l dolor sempre in lei si fa più intenso.
Tal, che le membra afflitte andar non ponno,
Come comanda, e vuol l’ardore immenso.
Tanto, che ’l senno al fin non è più donno
De la ragion, ma si da in preda al senso.
E scopre, s’altri ben non gliel dimanda,
L’ardor de la sua mente empia, e nefanda.

Stride, e chiama il fratello ingiusto, et empio,
E chiede, e vuol, ch’ogn’un le dia ragione.
E fa stupir del suo nefando essempio
Le Bubaside nuore, e le matrone.
L’intelletto perduto, e ’l duro scempio
Ben mover à pietà può le persone.
Ma il non concesso amor le da tal fregio,
Che se ben n’ han pietà, l’hanno in dispregio.

Con quel furor, che le baccanti vanno
Di pampino, e di frondi ornate, e d’hasta,
Quand’honor fanno à Bacco ogni terz’anno,
E la mente han dal vin corrotta, e guasta;
Stridendo ella ne và carca d’affanno
Senza la mente haver saggia, ne casta.
E scopre con quei modi il suo dolore,
Che si conviene à chi del senno è fuore.

Già l’armigero Lelega lasciato,
E la Caria s’havea dietro à le spalle,
Crago havea in Licia, e Limire passato
Di Xanto anchor la fruttuosa valle;
E co’l piè proprio il suo mortal portato
Havea per aspro, e faticoso calle,
Fin dove la Chimera fa quel monte,
C’ ha di leon la mostruosa fronte.

Passato il monte, che ’l supremo aspetto
Ha d’un crudel leon, che ’l foco spira,
E c’ ha di capra il pel, c’ ha sotto al petto,
E d’un crudo dragon la coda agira;
Si dà fuor de le selve al verde letto
Dal camin stanca, dal dolor, da l’ ira;
E ben, che dia riposo al carnal manto,
Non per questo può darlo al duolo, e al pianto.

Cercar l’accorte Naiade sovente
Di tor l’afflitto corpo à l’herbe, e à fiori,
E dar conforto à la stordita mente,
E pio rimedio à i desiati amori.
Giace ella muta, stupida, e dolente,
E gli occhi un rio perpetuo spargon fuori;
E mentre in pianto il duol si disacerba,
S’ irrigan del suo pianto i fiori, e l’herba.

Le Naiade, vedendo in tutto privo
Di forza il corpo suo languido, e stanco,
Per fare il nome eternamente vivo,
Dov’ella stese il travagliato fianco,
Fer del suo pianto il copioso rivo
D’onde abondar, che mai non venner manco,
Sopposero al suo pianto una gran vena
D’onde, che fosse ogni hor fertile, e piena.

Qual de la scorza incisa esce la pece,
Qual de la terra gravida li bitume,
Qual l’onda, che già neve il verno fece,
L’Austro co’l caldo Sol fonde, e consume:
Tal la misera Bibli si disfece,
E ’l pianto co’l sudor cangiolla in fiume.
Ritien la fonte il nome, e quelle valli
Con puri irriga, e liquidi cristalli.

La fama de l’ ingiusto, et empio affetto,
Onde Bibli fratel tentato havea,
E del suo trasformato in fonte aspetto,
Che ’l sorso al Licieo rustico rendea,
Tutto maravigliar fe il mondo, eccetto
La donna, e l’huom de l’ isola Diteta.
Per più ragioni il bel regno di Creta
Maraviglia di lei non hebbe, ò pieta.

La prima fu, ch’ogn’un sapea del regno
L’odio, ch’ al padre havea, l’alto motore.
E tenean certo, che ’l celeste sdegno
Havesse infuso in lei l’ ingiusto ardore.
Ne men n’hebbe pietà per l’atto indegno,
Che fe Mileto contra il lor Signore,
Che vedendolo infermo, s’era armato
Per torre il regno al suo proprio cognato.

L’altra ragion, che non diè maraviglia
À l’isola Dittea, che sotto il monte,
C’ ha il capo di leon, la stanca figlia
Si fosse assisa, e trasformata in fonte,
Fu, ch’ in una plebea casa, e famiglia
Donna senza cangiar l’humana fronte
Sforzò nel regno stesso la natura,
Come piacque à la Dea, che n’hebbe cura.

Hor se’l fonte Bibleo novo, e fecondo
À tutto il mondo maraviglia porse,
Eccetto à Creta, fu, che tutto il mondo
Non vide quel, che Creta sola scorse.
Per isgravar tre donne d’un gran pondo
Iside à tempo apparve, e le soccorse:
La qual fe si gran dono à una fanciulla,
Che Creta più non si stupì di nulla.

Vivea nel territorio allhor di Festo
De la plebe un buon’ huom nomato Litto.
Fù d’ incolpata vita, accorto, e honesto,
Ma far per povertà volle un delitto.
Hor quanto fu incolpevole nel resto,
Tanto questo à gran biasmo gli fu scritto,
Poi che quel mal co’l tempo venne in luce,
Al qual la povertà volle esse duce.

Vedendo grave à la sua moglie il fianco
Con questo suon l’orecchie le percote,
Due voti io bramo: un faccia il tuo sen franco
Senza sentir le dolorose note;
L’altro è, che ’l parto tuo non habbia manco
Quel don, che ’l pel donar suole à le gote.
E come il terzo lustro habbia fornito
Sia buon per prender moglie, e non marito.

Tu sai di quanto peso è una citella,
Quanto la povertà ne da tormento.
Hor se pur vuol la sorte iniqua, e fella,
Che ’l parto non prometta il pelo al mento;
(Perdonami, pietà) di lei rubella
Fatti, e fa il lume suo del lume spento.
E giunto à questo segno il parlar frange,
E chi parla, e chi ascolta, il danna, e piange.

Prega allhor Teletusa il suo consorte,
Che non sl fondi in si misera speme,
Che senza dare à la lor figlia morte,
Ben passeran le lor fortune estreme.
Stà l’huom nel suo parer costante, e forte,
E mentre il vuol ridir, piangono insieme.
Prega ella, che ’l suo mal vede vicino,
L’Egittia Dea del suo favor divino.

Mentre la mezza notte à cader mena
Le prime stelle apparse in oriente,
E ’l sonno à gli animai lo spirto affrena,
Onde altri non intende, altri non sente;
La donna vinta da l’acerba pena
Al sonno diè l’affaticata mente.
E vide, ch’al suo letto Iside apparve,
Ó se pur non la vide, almen le parve.

De gli ornamenti regij ella era adorna,
Che dan le cerimonie altere, e sante:
Le spighe, e l’oro, e le lunari corna
L’ornan la fronte, e ’l suo nobil sembiante.
Anubi il can fedel seco soggiorna,
Che suol custodia à lei star sempre avante.
V’è Bubasti la Dea, v’è quel bue santo
Api, c’ha cosi vario, e bello il manto.

V’è quel, ch’a labro suol tenere il dito,
Che mostra altrui, che pian l’aura respiri.
V’ ha anchor gli usati sistri, e v’ ha il marito,
Il non à pien giamai cercato Osiri.
La peregrina serpe il sacro rito
Non vuol, che senza lei s’osservi, e miri,
Hor à la mente sua qual fosse desta
La Dea con questo suon si manifesta.

Ó Teletusa mia devota, e fida,
Da parte poni ogni timore, e noia,
Ne ti curar farti al marito infida,
Quale il parto si sia, non far, che muoia.
Son Dea, ch’à chi nel mio poter confida,
Aiuto soglio ogn’hor portare, e gioia.
Ne d’haver ti dorrai l’altare ornato
Di lume, incenso, e mirra à un Nume ingrato.

Detto c’hebbe cosi la Dea, disparse,
E ’l sonno lasciò lei libera, e viva.
E tal fu la pietà, che ’l petto l’arse,
Che lasciata di se la piuma priva,
Piegate le ginocchia ov’ella apparse,
Prega di cor la gloriosa Diva,
Che quel, c’ ha il sogno à lei mostrato, approvi,
E al mal, che non vuol far, rimedio trovi.

Trova sua confidente una ostitrice,
E à pien del suo pensier la rende accorta,
Che servia anchor col latte di nutrice,
E lei vuol sola al letto arbitra, e scorta.
Crescon le doglie, e al giorno almo, e felice
Dal chiostro oscuro il peso si trasporta.
Figlia si trova, e la nutrice mente,
E fa creder, ch’è maschio al suo parente.

Il padre su’l altar fa batter l’ale
Al foco, e poi da l’avo Ifi l’appella.
La madre è lieta, poi che il nome è tale,
Che si conviene à l’ huomo, e à la donzella.
Ifi la madre sua propria, e carnale
Lascia, et ha da la balia la mammella.
La qual lontan dal padre la fanciulla
Tutti gli anni nutrì, ch’aman la culla.

Con pia fraude vetar l’infame oltraggio,
E fero al padre rio pietoso scorno.
E già nel mese il qual precede al Maggio
Dal dì, che ’l suo natal diede Ifi al giorno,
Tredici volte il pin, l’abete, e ’l faggio
Havean di nove chiome il capo adorno,
Et ei nel volto, ù fer le gratie il nido,
Havea Venere impressa, e ’l suo Cupido.

Pinga un’imagin Zeusi, un’altra Apelle;
E sian Venere vergine, e Narciso;
E ignude mostrin le lor membra belle,
E non manchi al lor corpo altro, che ’l viso:
Se l’aria à lor daran, che fer le stelle
Piover sopra costei dal paradiso,
Ognun dirà Narciso, e Citherea
Altro viso, che quel non vi volea.

Da poi, ch’à l’uso human la Dea Sicana,
Sopra duo lustri diè la terza arista,
Dal dì, che la sembianza alma, et humana
Il mondo allegro fe de la sua vista,
Il padre Litto la sua mente spiana,
E rende la consorte afflitta, e trista,
Mentre le dice allegro il core, e ’l ciglio,
C’ha dato moglie à lei, che crede un figlio.

Ho dice, al figliuol nostro hoggi trovata
Una sposa leggiadra, accorta, e honesta,
Nobil secondo il nostro stato, e ornata
D’ogni maniera affabile, e modesta.
È questa Iante di Teleste nata,
La cui bontate à tutti è manifesta.
Sì c’ habbi l’occhio à quel, che si richiede,
Che tosto esseguirem la data fede.

L’afflitta Teletusa il volto lieto
Mostra, ma dentro il cor sente la doglia.
Che teme, ch’à scoprir s’habbia il secreto,
Ch’ascoso stà sotto mentita spoglia.
Pur con giudicio subito, e discreto
Dice, ch’alquanto anchor pensar vi voglia.
Che ’l figlio è delicato, e desioso,
E ’n troppo verde età vuol farlo sposo.

Stassi nel suo parer costante Litto,
E vanme in tanto, ove il negotio il chiama,
E lascia la moglier co’l core afflitto,
Che d’allungar le nozze intende, e trama.
E ricorda à la Dea santa d’ Egitto
Quel, che già le promise, e quel, che brama,
E co’l ginocchio humil, co’l cor intenso,
Dona il foco à l’altar co’l sacro incenso.

Ifi, se ben sapea, ch’era donzella,
Non restava però d’arder d’amore
De la promessa à lei sposa novella,
E molto pria comune era l’ardore.
Era ciascuna à maraviglia bella,
Et ambe eran d’età su’l più bel fiore.
E da primi anni conversando insieme,
Reciproco l’amore era, e la speme.

Ifi mentre fingea d’esser fanciullo,
À più d’una donzella accese il petto.
E l’ultimo bramar seco trastullo,
Quel, che può dare amor maggior diletto.
Et Ifi il lor desio non rendea nullo
Co’l mostrarsi contrara al loro affetto,
Ma solea con parer ben finto, e saggio
Lascivo riscontrar raggio, con raggio.

Hor mentre per mostrar, che la sua gonna,
Che porta, come gli huomini, non mente;
Rende lascivo il guardo à quella donna,
Che del suo amor conosce essere ardente;
Passa per gli occhi al core, e vi s’ indonna
L’ imagine d’ Iante alma, e lucente.
E può si d’una vergine il sembiante,
Ch’una rende di se vergine amante.

Quel voler finger l’huom co’l tempo havea
Ne l’imagination potuto tanto,
Che ingannò anchor se stessa; e le parea
D’esser quel, che mostrava il viril manto.
Hor mentre, che d’amore ogn’una ardea,
Odon, che i padri il matrimonio santo
Giurato han per lor due su’l libro pio,
E fa crescer l’ardor d’ambe, e ’l desio.

Pari eran de l’angelica presenza,
Quanto à l’etate, ogn’una era fanciulla,
E pari anchor ne la benevolenza,
Da che le membra lor lasciar la culla.
Ma fur dispari ne la confidenza,
Ch’una molta n’havea, ma l’altra nulla.
Del par le strinse l’amoroso nodo,
Ma non si confidaro ambe ad un modo.

Si confidava ben la bella Iante
Ne la guerra d’amor lieta, e gioiosa
Di star al par del suo diletto amante,
E fare à pien l’officio de la sposa.
Ma l’altra, à cui quell’arma più importante
Mancava, che suol l’huom tenere ascosa;
Non havea fè ne l’amoroso invito,
Di fare à pien l’officio del marito.

E pur ardea di lei si caldamente,
Havea si acceso il cor d’ unirsi à lei,
Che ’l più caldo garzon, forte, e possente,
Ch’uscisse mai de’ regni Citherei,
Bramati non havria con più fervente
Ardore, e sete i promessi Himenei.
Poi vedendo il suo errore, e ’l suo difetto
Solea sfogare il cor con questo affetto.

Che fo, misera me, che fine attendo
Di questo mostruoso, e novo ardore ?
À che folle desio la mente intendo ?
Perche seguo io si manifesto errore ?
Me stessa con altrui del tutto offendo,
Co’l manto tinto altrui, me con l’amore.
Che ’l cor, che in una vergine si tiene,
Fonda in un’altra vergine la spene.

Deh sommi Dei de la celeste corte
Senza haver l’occhio à miei commessi errori,
Fatemi, prego, gratia de la morte,
E date fine à miei nefandi ardori.
Ó se per darla à le tartare porte
Non volete da me l’alma trar fuori,
Datemi un’altra pena, e anchor che dura,
Contra l’uso non sia de la Natura.

Se ’l toro contra il toro alza le corna,
Per la femina il maschio il cozzo attacca;
Ma la vacca non mai la vacca scorna
Per acquistar l’amor d’un’altra vacca.
Per una agnella amabile, et adorna
Il monton al monton le corna fiacca;
Ma non cozza giamai la lor sorella
Per guadagnar l’amor d’un’altra agnella.

L’amata sposa sua vagheggia il pardo,
E poi la ’nvita à l’amoroso gioco.
Rende à l’amata il bel colombo il guardo,
E dati i baci al lor desio dan loco.
Sente il delfin da l’amoroso dardo
In mezzo à tanto mar l’ardor del foco,
Lo stesso ardor la sua consorte preme,
E al fin del lor amor godonsi insieme.

Non so in terra trovar, ne in mar, ne in cielo,
Che femina di femina s’accenda.
Una non v’è, che l’amoroso zelo
Tutto à piacer al maschio non intenda.
Sol io di donna un bel corporeo velo
Bramo, che del suo amor lieta mi renda.
Sol’ io vorrei l’ardente mio desio
Sfogar con donna, e pur son donna anch’io.

Piacesse à gli alti Dei, ch’ io fossi nulla,
Ch’oltre, ch’ io fuggirei tanto tormento,
Non si diria, ch’ in Candia ogni fanciulla
À mostruoso amor drizza il suo intento.
La figlia di quel Dio, c’hebbe la culla
Da l’ isola di Delo, amò l’armento.
Per eterno disnor d’esto paese
L’amor folle d’un bue l’alma l’accese.

Ma pur men folle amor la figlia strinse
Del Sol, poi che nel maschio hebbe il pensiero;
Che ’l fabro al meno à lei la vacca finse,
E con tant’arte ascose al toro il vero,
Ch’à l’amoroso assalto al fin l’astrinse,
E fè, ch’ella il suo amor conobbe intero.
E potè almen sotto il mentito panno
Far’ adultero il bue co’l Greco inganno.

Ma inceri pur di novo egli le piume,
E ’l temerario vol drizzi al mio lito,
E passi il sal del tridentato Nume
Per dar rimedio al mio folle appetito,
Potrà mai del suo ingegno il raro acume
Di femina, ch’ io son, farmi marito?
Potrà mai l’arte sua con ogni cura
Far forza al gran poter de la natura?

Potrà mai l’arte sua, s’una è donzella,
Farla un fanciullo ? e te far maschio Iante?
Deh stolta homai la mente à te rappella,
E d’amor natural renditi amante.
Scaccia da te l’ardor, che ti flagella,
Non voler nel tuo male esser costante;
Ma te medesma à te propria confessa,
E se fai cieco altrui, non far te stessa.

Non dè saggio pensier fondar l’amore
Dove convien, che ’l fin sia ingiusto, e nullo.
E se donzella sei, fa vago il core
Di qualche innamorato, e bel fanciullo.
Che con santo Himeneo sfoga l’ardore,
Con quel, che più gli sposi aman trastullo,
E mentre anchor non hai l’amato bene,
Nutrito almen l’amor sia da la spene.

I dolci baci, e i cari abbracciamenti,
Che del maggior piacer contentan dui,
Ti toglie il fatto in se, non de parenti
L’asperità, non la custodia altrui.
Non del marito accorto i lumi intenti
Ti privan di quel ben, ch’ei vuol per lui.
Ella non t’è contraria, anzi ti chiama,
E lo stesso diletto attende, e brama.

Vuol meco il padre, il socero, e la sposa,
E ’l mio voler d’ogni volere è donno,
Ne la fiamma sfogar posso amorosa,
Facciano huomini, e Dei quel, che far ponno.
Ne à tanto mal son mai per haver posa,
S’al fin non l’ ho dal sempiterno sonno.
Che affligge il troppo ardor l’alma di sorte,
Che non può torle il duol se non la morte.

Che giova à me, se la virtù celeste
Comparte tante gratie al voler mio ?
Che ? se ’l benegno socero Teleste
Vuol co’l padre di me quel, che voglio io?
Che? se le belle membra amate, e honeste
Son pronte à compiacer il mio desio ?
Se la natura mi rispinge, e sforza,
C’ ha d’ogni altro favor più spirto, e forza.

Ecco vicino il desiabil giorno
Che da novelli sposi è si bramato,
N’aspetta il letto nuttiale adorno
Per darne il ben, ch’amor può dar più grato.
Pronta ella attende il coniugal soggiorno,
Per far lo sposo suo di se beato.
Starem nel letto, havrem le voglie pronte;
E ne morrem di sete in mezzo al fonte.

Gli sposi aman veder l’ardenti stelle,
Tosto, che l’alba desiata arriva,
Per godersi le membra amate, e belle,
Chi de l’amato suo, chi de la diva.
Sol io, misera me, non son di quelle,
C’habbia l’aria à bramar del giorno priva.
Ma pregherò, che ’l Sol più tempo aggiorni,
Perche da me medesma io non mi scorni.

Ch’oltre, che ’l finger mio sarà scoperto,
Non serverà la fè, c’hor mi mantiene,
C’hor, che ne spera l’amoroso merto,
M’ama, e desia d’unirsi à tanto bene.
Ma se l’inganno mio le sarà certo,
Non fonderà più in me l’amata spene.
Ne vorran le sue gratie alme, e divine
Amar senza speranza, e senza fine.

Pronuba Giuno, e voi sacri Himenei,
À che fin concorrete al nostro invito,
Poi che sposo io non son per menar lei,
Anzi noi ce n’andiamo ambe à marito?
Ó superna pietà, superni Dei,
Porgete aita al mio duolo infinito.
E se rimedio i miei desir non hanno,
Fate cadere in me l’ultimo danno.

Con questi, et altri assai gridi, e lamenti
Seguiti da le lagrime, e dal pianto,
Sfogava l’una sposa i suoi tormenti:
L’altra era ne l’amor calda altrettanto;
Ma non si dolea già con mesti accenti,
Anzi attendea quel dì beato, e santo;
Che non sapendo il mal, ch’à l’altra preme,
L’amor pascea con la creduta speme.

Sol dello Dio doleasi illustre, e biondo,
Che troppo trattenea ne l’aere il giorno:
Biasimava poi la Dea, ch’adombra il mondo,
Che troppo pigra già rotando intorno.
Et attendea quel dì grato, e giocondo,
Che con lo sposo far dovea soggiorno.
E chiamava Homeneo con quello affetto,
Che si richiede à tanto almo diletto.

Ma se la bella Iante il Sole accusa,
Che troppo tardo al fin del giorno giunge;
L’incolpa la dolente Teletusa,
Che troppo i suoi cavalli affretta, e punge:
E cerca tuttavia novella scusa,
Che l’aiuti à menar le nozze lunge.
Finge hor, che’l finto maschio alcun mal punga,
Hor con augurij, e sogni il tempo allunga.

Ma già gli augurij, i sogni, e ’l corpo afflitto,
Et ogni altra materia di bugia
Tutta havea consumata, e ’l dì prescritto
Esser dovea ne l’alba, che venia.
Ricorre al tempio à l’alma Dea d’ Egitto,
Et ha la mesta figlia in compagnia,
E chinata il ginocchio, e sparsa il crine,
Cosi prega le menti alte, e divine.

Ó santa Dea del Paritonio lido
Amica, e de la torre alta di Faro,
E del bel regno, ov’ ha quel fiume il nido,
Che và per sette bocche à farsi amaro;
Tu sai quanto ver te lo spirto ha fido,
Tu, che l’ interno cor vedi si chiaro,
Se ’l male è giunto à me dal tuo consiglio,
Provedi à me d’aiuto, e al finto figlio.

Quando per tua pietà ti concedesti
Con questi suoni in sogno al mio pensiero,
Conobbi queste insegne, e queste vesti,
E le lucide corna, e ’l cane altero,
La spiga, e l’oro, e ’l serpe, e tutti questi
Numi, che ’l tuo poter mostrano intero.
E al mio marito incauto il lume tolsi,
E le tue sante note esseguir volsi.

Costei, ch’innanzi à te la luce gode,
Per lo consiglio tuo spira, e favella,
Se punita io non son de la mia frode,
Vien da la tua ver me propitia stella.
Hor questa, che ti rende honore, e lode,
Salva dal mal, che l’ange, e la flagella.
Tu la salvasti già, salvala anchora,
Ne voler, ch’ io per obedirti mora.

Qui pose fine à suoi preghi devoti
La madre ver la Dea non senza pianto.
E in segno, che seguir doveano i voti,
Tremò del sacro altare il marmo santo.
Lasciar gli stupefatti sacerdoti
De sacri carmi il glorioso canto.
Tremar del tempio le gran porte, e i palchi,
E ’l suon dier fuora i sistri, e gli oricalchi.

L’argento, ond’ha la Dea la testa adorna,
De la Luna imitar volle l’essempio,
E venner luminose ambe le corna,
E ’l lume lor mandar per tutto il tempio.
La madre à la magion non certa torna
Del tutto di fuggir l’occulto scempio.
Pur dell’augurio buon l’alma ha più lieta,
E spera più ne la divina pieta.

Ifi segue la madre, e ’l passo molto
Move maggior del solito costume,
Et è più grande alquanto, e non ha il volto
Tanta delicatezza, e tanto lume.
Et ogni membro suo più forte, e sciolto
Sente, e volge à la madre il motto, e ’l lume.
Et ode, come il suo parlar mosso have,
La voce più robusta, e men soave.

La madre la sonora ode favella,
E incontra il guardo con la sua pupilla,
E vi trova quel ben, che la donzella
Suol ritrovar nella viril favilla.
La fronte sua, ch’à l’huom parria men bella,
À lei par più felice, e più tranquilla.
E mentre il guarda ben dal sommo al fondo,
Men pien ha ’l petto, e ’l crin corto, e men biondo,

Mentre stupiscon, lor l’orecchie fiede
Un suon, che vien da l’aere in queste note.
Non vi rallegri il cor timida fede,
Ma l’opre sante mie rendete note.
Come vero fanciullo esser si vede
Ifi, và con parole alme, e devote
Al tempio con la madre, e la nutrice,
E paga il voto, e ’l suo miracol dice.

Palesa à sacerdoti il suo don fido,
E pon l’asse à l’altar co’l carme scritto.
Nel tempio il sacerdote alza co’l grido
Il raro don, che fè la Dea d’Egitto.
La fama andò co’l vol di lido, in lido,
E mosse tutta l’isola à quel dritto.
E d’ogn’intorno il mondo anchor vi mosse,
E voller, che quel dì solenne fosse.

Intanto suona à Litto un’ altro carme,
Dove in disparte à l’opra intende agreste.
Non mover dice più timido l’arme,
Ne l’alme, che ’l tuo sangue incarna, e veste;
Fà, che à soffrir la povertà ben t’arme,
Ne diffidar de la pietà celeste.
Loda de la tua moglie il santo zelo,
Co’l gran favor, che l’ ha fatt’ hoggi il cielo.

Attonito il buon’ huom del pio consiglio,
Che parla à lui da la superna parte,
China il ginocchio, alza la mano, e ’l ciglio,
E rende gratia al cielo, e poi si parte.
Nel tempio poi, dov’è la moglie, e ’l figlio,
Ode il divin favor parte per parte.
E mentre ogn’un la Dea loda co’l canto,
Pentito, e chin la loda egli col pianto.

L’altro mattin dopo il solenne giorno
Havea già il Sole il mondo al mondo aperto,
Quando il notturno quei lasciar soggiorno,
Ch’ à l’amor dar dovean l’ultimo merto
Tosto, che ’l carro suo di stelle adorno
La notte havesse à gli huomini scoperto:
E pregaro Himeneo, Venere, e Giuno
D’ogni favor più proprio, e più opportuno.

Giunone, et Himeneo con Citherea
Lasciar quel giorno il mondo de le stelle,
E fè risplender l’una, e l’altra Dea
Con Himeneo le più chiare facelle.
Nel letto, che lo sposo usar solea,
Fer d’ambi entrar le membra ignude, e belle.
E co’l favor de l’alme elette, e sante,
Ifi godè fatt’huom la bella Iante.