Le Metamorfosi/Libro Secondo

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Libro Secondo

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Publio Ovidio Nasone - Le Metamorfosi (2 a.C. - 8 d.C.)
Traduzione dal latino di Giovanni Andrea dell'Anguillara (1561)
Libro Secondo
Libro Primo Libro Terzo

 
Il sublime, real, superbo tetto
Di lui, che ’l mondo alluma, informa, e veste,
È d’argento, d’avorio, e d’oro schietto,
Con gemme riccamente ivi conteste.
Ben’ opra par di divino architetto,
E non terreno intaglio, ma celeste;
E che val (di tal pregio è quel lavoro)
Più l’artificio, che le gemme, e l’oro.

Il muro in quadro è di massiccio argento,
D’or le superbe statue uniche, e sole,
Che fanno insieme historia, et ornamento,
E mostran tutti gli effetti del Sole.
Avorio è ’l tetto, e marmo il pavimento
De la superba, incomparabil mole.
Quel poi, che sporge in fuori, e che traspare,
Son tutte gemme pretiose, e rare.

L’elevate colonne, e i capitelli
Sporgon con tutto il fregio intere in fuore,
Di rubin, di zaffir, d’altri gioielli
Diversi d’artificio, e di colore.
Ricchi carbonchi, trasparenti, e belli
Ornan tutta la parte inferiore.
Son le colonne del più basso loco
Carbonchi, che fiammeggian come foco.

Posano queste senza base in terra
Di sette teste e d’un lavoro egregio.
Di tre colonne un van tra lor si serra,
Esse stan sotto à i triglifi del fregio.
Piovon più sotto quei triglifi à terra
Sei rare goccie d’incredibil pregio.
Più sotto il capitel rendono adorno
Gli uovoli, che gli fan corona intorno.

Fra colonna, e colonna compartiti
Distinse i fori il nobile architetto.
I mesi intorno à quei stanno scolpiti,
Che monstran tutti il lor diverso effetto.
À i corpi mezzo fuor del muro usciti
Fan l’architrave, e la cornice un tetto.
Adornan le metope in più maniere
Astrolabij, quadranti, horloggi, e sfere.

Di qui tolsero i Dori il bel lavoro,
Che Dorico hor si fa per tutto ’l mondo,
Come tolser gl’Ionij anchora il loro
Da la forma de l’ordine secondo.
Quì le colonne di diamante foro
Col capitel, che incurva i lati al tondo,
Ch’à ritirar la sua voluta in dentro
Diverso vuol tredici volte il centro.

Le seconde colonne un quarto meno
Son de le prime, ma col piedestallo
S’inalzan tanto, che ne più, ne meno
Vien l’ordine alto il medesmo intervallo.
Nove larghezze del cerchio più pieno
Dan lor l’altezza, e fan nel fregio un ballo
Fanciulli ignudi sì vaghi, e lascivi
Fra festoni d’allor, che paion vivi.

Intorno à l’ampie fenestre seconde
I segni splendon del zodiaco in oro,
E ciascun sopra il suo mese risponde
Co i proprij influssi, che piovono in loro.
Foco il Leon, ghiaccio l’Aquario infonde,
Sparge il mondo di fior l’Ariete, e ’l Toro.
Più quà sta il Cancro, e più là il Capricorno,
Questo fa un lungo, e quel fa breve il giorno.

L’ultimo adornamento, che sta sopra,
È poca cosa differente à quello,
C’hor detto habbiam: sol fan diversa l’opra
Le figure, le pietre, e ’l capitello.
Questo à fogliami par, che mostri, e scopra
Un artificio più svelto, e più bello.
Le pietre pretiose ivi conteste
Son di zaffiro, e di color celeste.

Par, che nel terzo fregio si dispicchi
Un viticcio, che va con varij giri,
E con questa e con quella herba s’appicchi,
E intorno à lor s’avolga, e si raggiri.
Fann’ orlo al fregio pretiosi, e ricchi
Robini in oro, smeraldi, e zaffiri.
Fior, fronde, e frutti ingombran dentro il loco,
Di lauro, cedro, girasole, e croco.

I terzi vani ingombran con grand’arte
Tutti i pianeti: e ciaschedun sta dove
Risponde à piombo sopra quella parte,
Che su’l suo segno del zodiaco piove.
Sopra Ariete e Scorpion si vede Marte,
Sta sopra Pesci, e Sagittario Giove.
Haver si veggon due case ciascuno:
N’ han sol Febo e Diana una per uno.

Non son l’altre facciate differenti
Dal’ordine di questa architettura.
È ben ver, ch’altre historie, et altre genti
Mostra in lor lo scarpello, e la scultura.
Son però tutte cose appartenenti
Al chiaro Dio, che di quel luogo ha cura.
Ma tutto è nulla à quel, che di sua mano
Ne la gran porta d’hor sculpì Vulcano.

Il mar vi fe, che circonda la terra,
Nel mar pose i marittimi divini,
Dove ogn’un lieto diportandosi erra
Sopra grand’Orche e veloci delfini.
Triton con la man destra il corno afferra,
Con l’altra affrena i suoi destrier marini.
V’è quel, ch’ innanzi il suo gregge si caccia,
E muta à suo piacer persona, e faccia.

Con le Nereidi v’è la madre Dori,
Ritratte in atti gratiosi e belli.
Questa coglie in un scoglio varij fiori,
E secca al Sole i suoi verdi capelli:
Quella sta sopra un pesce mezza fuori;
L’altra balestra i suoi marini augelli.
Tutte un viso non han, non vario molto,
Qual si convien fra le sorelle il volto.

Il mar la terra abbraccia, e la circonda;
Qui fa la terra un braccio, altrove il mare;
E giunti in un fan la sfera rotonda:
Ben che quì Pluto, ivi Nettuno appare.
La terra d’animanti in copia abonda,
D’huomini, e di città superbe, e rare
Di monti, e boschi, stagni, e laghi, e fiumi,
Di Ninfe, e mille suoi terrestri Numi.

Fetonte la facciata altera vede,
Che sotto à l’equator guarda à l’occaso,
Non cura l’altre, e ben degne le crede
Non men di quella, c’ha veduto à caso.
Alza, e pon sù la ricca soglia il piede
Da maggior cura spinto e persuaso,
E vede il Sol nel suo seggio giocondo
Vago di dar la nova luce al mondo.

À pena nel grande atrio entrò Fetonte,
Che la luce del Sol ne gli occhi il fere,
E per forza gli fa chinar la fronte,
E l’ansioso suo passo tenere.
Huomini, e donne assai leggiadre, e conte,
Che lo stanno à servir, cerca vedere;
E, per mirar quel, ch’à ciascun far tocchi,
De le sue proprie man fa scudo à gli occhi.

Ne l’atrio il Sol s’adorna per uscire,
Gli ammantan l’Hore il ricco vestimento.
Queste fanciulle son, c’hanno il vestire
Succinto per fuggir l’impedimento.
Han l’ali, e par, che stian sempre per gire,
E fan tutte le cose in un momento.
Stannovi anchora, e servitù gli fanno
Con gran prestezza il Giorno, il Mese e l’Anno.

Gli sta da la man destra una donzella,
Ne mai sta, che non rida, giochi, ò balli.
È la stagion, che verde ha la gonella
Sparta di bianchi fior vermigli, e gialli.
Di rose, e latte è la sua faccia bella;
Son perle i denti, e le labra coralli:
E ghirlande le fan di varij fiori
Scherzando seco i suoi lascivi amori.

Una donna, il cui viso arde, e risplende,
V’è, che di varie spighe il capo ha cinto,
Con un specchio, ch’ al Sole il foco accende,
Dove il suo raggio è ribattuto, e spinto.
Tutto quel, che percote, in modo offende,
Che resta secco, strutto, arso, et estinto.
Ovunque si riverberi, et allumi,
Cuoce l’herbe, arde i boschi, e secca i fiumi.

Stavvi un’ huom più maturo da man manca,
Dio de i tre mesi, i quai precede Agosto;
Che ’l viso ha rosso, e già la barba imbianca,
E sta sordido, e grasso, e pien di mosto.
Ha il fiato infetto, e tardi sì rinfranca
Chi vien dal suo venen nel letto posto.
D’uve mature son le sue ghirlande,
Di fichi, e ricci di castagne, e ghiande.

Un vecchio v’è, ch’ogn’un d’horrore eccede,
E fa tremar ciascun, ch’à lui pon mente.
Sol per traverso il Sol tal volta il vede.
Ei stà rigido, e freme, e batte il dente.
È ghiaccio ogni suo pel dal capo al piede,
Nè men brama ghiacciar quel raggio ardente;
E nel fiatar, tal nebbia spirar suole,
Ch’offusca quasi il suo splendore al Sole.

Un’ altro vecchio più grato, e più bello,
V’è molto amato, e conosciuto poco.
Ha l’ali, e vola ogn’hor, come uno uccello,
E par, che non si mova mai di loco.
Hor se ne sta col verno, hor col fratello,
Hor con colei, c’ ha ne lo specchio il foco,
Hor con l’allegra Primavera il vedi,
Nè mai tien fermi i suoi veloci piedi.

Con qualunque si stia, vuol mangiar sempre,
E cibi poco pretiosi gode.
D’acciaio ha i denti, e di sì dure tempre,
Ch’ogni spurcitia, ogni durezza rode:
Par, che ’l ferro, e l’acciar divori, e stempre,
E se si pon trovar cose più sode,
Ma molto più si pasca, e si nutrichi
Di statue rotte, e d’edifici antichi.

Se ben il Tempo è tanto ingordo vecchio,
Ch’à lungo andare ogni cosa consuma,
Egli è padre del vero, un lume, un specchio,
Ch’ogni interno pensier scuopre, et alluma.
Ha sì buon’ occhio, e sì sottile orecchio,
Che non bisogna, ch’alcun si presuma
Parlar mai sì secreto, ò mai far’ opra
Sì sol, ch’egli non l’oda, vegga, e scuopra.

Ciò, che i secoli suoi gli dan davante,
E i lustri, e gli anni, e i mesi, e i giorni, e l’hore,
S’ingoia, insino al porfido, e ’l diamante,
Non che ’l gaudio, e ’l dolor, l’odio, e l’amore.
Trangugghia le scritture tutte quante,
Mangia la gloria altrui, l’arme, e ’l valore:
Sol tre libri v’ha salvi ornati d’oro,
Incoronati di palma, e d’alloro.

Ha rosa à questo intorno la coperta,
Ma la corona non ha punto guasta.
S’ha mangiata la margine, e scoperta
La lettera, ch’anchor dura contrasta.
La scrittura si sta libera, e certa,
Che ’l suo rabbioso dente non gli basta.
Quivi son tutte l’opre de i migliori
Filosofi, Poeti, et Oratori.

Guarda quei libri di mal’occhio il Tempo,
E rodergli si sforza più che mai,
Poi fra se dice, e verrà bene il tempo,
Che di si saldi io n’ ho perduti assai.
Questo non sarà già così per tempo,
Nè le glorie già mai spegner potrai
Di quei prudenti Principi, e discreti,
Amici d’Oratori, e di Poeti.

Nè spegnerai, come di molti Heroi,
L’invitto nome d’Henrico Secondo,
C’ ha fatto l’alto Dio scender fra noi,
Acciò che dia più bella forma al mondo.
Cantan già molti i chiari gesti suoi,
Con sì felice stile, e sì giocondo,
Ch’à far, che restin divorati, e spenti,
Ti varran poco i tuoi rabbiosi denti.

Con gli occhi il Sole, onde illumina il tutto,
Onde scopre ogni dì tutte le cose,
Vide il figliuol, che Climene ha produtto,
Star con le luci basse, e vergognose;
Ó figliuol, disse, e chi t’ha qui condutto?
Chi tanto alto desir nel cor ti pose?
Chi t’ha dato l’ardire, e chi ’l governo
Di pervenire al bel regno paterno?

Ó padre, ei disse, s’ io non sono indegno
Di poterti chiamar per questo nome,
Per lo splendor ti prego illustre, e degno,
Che nasce da le tue lucide chiome,
Dammi qualche certezza, e qualche pegno,
Onde si vegga manifesto, come
Io sia vero à te figlio, à me tu padre,
Nè m’habbia il falso mai detto mia madre.

Il Sol, ch’ intende quella intensa voglia,
C’ ha fatto al figlio far sì gran viaggio,
Per poter meglio à lui parlar, si spoglia
Del suo più chiaro, e luminoso raggio.
Nè basta, che l’abbracci, e che ’l raccoglia,
E gli mostri nel viso il suo coraggio,
Per dimostrar, ch’egli è sua vera prole,
Disse lieto ver lui queste parole.

Non si potrà negar già mai Fetonte,
Ch’un ramo tu non sia dell’arbor mio
Per quel, che mostran l’animo, e la fronte,
Che ti scopron figliuol d’un grande Dio.
Non mente Febo, e Climene, et ho pronte
Le voglie ad empir meglio il tuo desio.
Chiedi pur quel, che più t’aggrada, e giova,
Che di questo vedrai più certa prova.

Circa il proposto mio fermo pensiero
Serva Palude stigia il tuo rigore;
Voglio, perche ei non dubiti del vero,
Ch’ in ciò mi leghi il mio libero core.
De la proferta il giovinetto altiero,
Troppo si confidò del suo valore,
E disse un giorno voler’ esser duce
Del suo bel carro, e de la sua gran luce.

Udito l’incredibile ardimento,
Subito il padre si venne à pentire
De la promessa e del gran giuramento,
Che l’impediano à potersi disdire.
Crollando il capo illustre, e mal contento
Disse, ò figliuol, questo è troppo alto ardire;
E se mancar potessi à i detti miei,
Questa domanda sol ti negherei.

Da questo figliuol mio ti dissuado,
Come quel, ch’antivedo i nostri danni.
Che mio tu periresti, e tuo mal grado,
E se credi altramente, tu t’inganni.
Quest’è troppo alto honor, troppo alto grado
Per le tue forze, e per sì teneri anni.
Questo pensier, dov’ hai l’animo inteso,
È per gli homeri tuoi troppo gran peso.

Figliuol, t’ha fatto il tuo destin mortale,
Ma quel, che cerchi, dal mortal si parte,
Che regger questo carro alcun non vale,
Fuor, ch’ io, che n’ ho l’esperienza, e l’arte.
Gli sfrenati destrier, le rapide ale
Non potria raffrenar Giove, ne Marte.
Giove, che aventa i folgori, e ’l ciel move.
E che si può trovar maggior di Giove?

Erta è la prima via sì, che à gran stento
I miei freschi destrier posson montarla.
Quando à l’altezza poi giunto mi sento,
E vengo con la mente à misurarla,
M’assal tanto timor, tanto spavento,
Ch’io non oso con gli occhi riguardarla,
E tremo, figlio, anchor solo à pensare
Quanto bassa allhor sia la terra, e ’l mare.

Quindi comincio à declinare al basso,
E tal furia à la china il carro mena,
E pommi in tal travaglio, in tal conquasso,
Che mi fa perder l’animo, e la lena,
E regger posso affaticato, e lasso
Con ambedue le man la briglia à pena,
Tal, che Theti tal’hor paventa, e teme
Non pera co i cavalli, e ’l carro insieme.

E più bisogna opporsi al ciel, che gira,
All’assiduo rotar del mobil primo,
Ch’ à forza in alto l’altre stelle tira,
Di via le toglie et le trabocca à l’imo.
Me dal viaggio mio già non ritira,
Gli vò sicuro incontro, e non lo stimo.
Ti dò il carro, i destrier, la sferza, el morso,
Pensi tu contra il ciel fare il tuo corso ?

Ne ti creder fra via prender ristauro,
Selve, e città del ciel poter godere,
Pensa pur pria, che giunghi al vecchio Mauro,
lnsidie attraversar d’horrende fiere.
S’ha da passar fra le corna d’un Tauro,
Che ’l piu terribil non si può vedere:
Questo mai del zodiaco non si parte,
E ne guarda di dodici una parte.

Si và dove saetta il Sagittario,
E dove rugghia il feroce Leone.
E ciaschedun di lor crudo aversario
A chi passa di là, tosto s’oppone.
V’è quel, ch’ incurva le branche al contrario
Di quel, che fa l’horrendo Scorpione,
Un piega, e l’altro sì stende le braccia,
Che fuor del segno suo la Libra abbraccia.

Ti pensi tu gli alipedi destrier,
Fatti arditi dal foco, e dal veneno,
Che sbuffan fuor, indomiti, et altieri,
Poter ben governar sotto il tuo freno?
Posso à pena farl’io, quando empi, e fieri
Per la gran fugga han maggior foco in seno.
Deh figliuol mio non m’astringer sì forte,
Perche l’auttor sarei de la tua morte.

Tu cerchi solo un fido pegno havere,
Per saper se da me disceso sei:
Questo tu puoi dal mio volto sapere,
Da la pietà, che sta ne gli occhi miei.
In lor puoi chiaro scorgere, e vedere,
S’ io ti son padre, ò nò; così vorrei,
Che penetrar potessi ne l’interno
Per veder meglio il mio pensier paterno.

Che mi preghi infelice, che m’abbracci
Per ottenere il temerario intento,
Che senza, che parola più ne facci,
Ho da servar lo stigio giuramento.
Mi spiace ben, che cosa ti procacci,
Ond’ io ne viva poi sempre scontento.
Cio, che chiedi, haverai: ma ben t’essorto,
Che più nel chieder tuo ti mostri accorto.

Ciò, che di ricco ha ’l ciel, la terra, e ’l mare,
Chiedi figliuol, che non ti si contende:
Ma questo, che detto hai, lascialo stare,
Ch’ogni ruina tua di quì dipende.
Quel desio, che ti fa tanto elevare,
Sol la bassezza tua cerca, et attende.
Quell’alto honor, che ’l tuo pensiero agogna,
Sarà la morte tua, la tua vergogna.

Havea già detto il Sole ogni ragione,
Che più dal suo desio potea ritrarlo;
Ma vuol Fetonte il carro, e se gli oppone,
E dice tuttavia, che vuol guidarlo.
Quando ei vide la stessa intentione,
E non poter da lei punto levarlo,
Condusse lui prendendol per la mano
Al carro, al dono egregio di Vulcano.

Di ricche gemme è quel bel carro adorno,
Et ha d’oro il timone, et l’asse d’oro.
Le curvature de le rote intorno
Da salda fascia d’or cerchiate foro.
I raggi son, che fan più chiaro il giorno,
D’argento, e gemme in un sottil lavoro.
E tutto insieme sì gran lume porge,
Ch’in ciel da terra il carro non si scorge.

Mentre mira il magnanimo Fetonte
Il nobil carro, il lavoro eccellente,
L’Aurora uscendo fuor de l’orizonte
Sparge di rose tutto l’oriente.
Fuggon le stelle, e si bendan la fronte
Tosto, ch’appar la stella più lucente,
Ch’anchor si mostra, e coprir non si vole,
Se fuor non vede pria spuntare il Sole.

Febo, che l’aria già farsi vermiglia
Vede, e fuggir le tenebre l’Aurora,
Comanda a l’Hore, che mettan la briglia,
E ciò, che fa mestier per uscir fuora.
Corre la velocissima famiglia,
E fa tutte le cose allhora allhora.
Tosto i freschi destrier d’ambrosia pieni
Sentiro al collo i lor sonori freni.

Il Sol pria, che Fetonte il lume prenda,
Gli unge di liquor sacro il capo, e ’l viso,
Che da la fiamma rapida il difenda,
E ’l faccia star da lei sempre diviso.
Gli veste i raggi, e fa che ’l carro ascenda,
E poi, che nel suo seggio il vide assiso,
Piangendo disse; Poi, ch’ ir t’apparecchi,
À quel, c’hor ti vo’ dir, presta gli orecchi.

La sferza co i destrier non usar troppo,
Ma fa, che sappi ben tenergli in freno,
Perche con l’ordinario lor galoppo
Faran questo viaggio in un baleno:
Attendi hor per non dar’ in qualch’intoppo
À quel camin, ch’ io ti discrivo à pieno.
Per quella zona hai da guidare il plaustro,
Ch’in mezzo sta fra l’Aquilone, e l’Austro.

Un cerchio obliquo questa zona cinge,
E per confin da questo, e da quel lato
Ha le due zone, che la nostra attinge.
In questo obliquo è il tuo camin serrato.
Il vestigio vedrai, che vi depinge
Il carro mio, che per tutto è segnato:
Ma fa, ch’à questo anchora habbi rispetto,
Ch’importa molto più di quel, c’ ho detto.

Per far la terra, e ’l ciel nel caldo eguali,
Fa, che troppo alto ò basso andar non tenti.
Se spieghi verso il ciel troppo alto l’ali,
Gli arderai tutti i suoi corpi lucenti:
Ma se troppo à l’ingiù t’atterri, e cali,
Con la terra arderai gli altri elementi.
Se ’l ciel vuoi salvo, e non arder la terra,
Fra l’uno, e l’altro il tuo camin riserra.

Io raccomando à la fortuna il resto,
Che meglio di te stesso ti consigli,
E di nuovo t’essorto, e ti protesto,
Che ’l periglioso freno in man non pigli.
Ma bisogna d’andar, ch’ io son richiesto
Da i colori del ciel, bianchi, e vermigli;
E già la notte fuggendo tal vista,
Ne l’Ocean sommersa è scura e trista.

Più non può starsi, eccoti il freno in mano,
O se pur è mutabile il tuo core,
Mentre anchor fare il puoi, discendi al piano,
E lascia guida me del mio splendore.
Ti metti ad un periglio sopra humano,
E da poterne uscir con poco honore.
Deh non voler andar, deh prendi figlio
Più tosto, che ’l mio carro, il mio consiglio.

Egli con giovinil corpo, e pensiero
Possiede allegro il bel carro paterno.
Allegro prende il fren d’ogni destriero,
Gli accoglie allegro sotto il suo governo,
E più, che fosse mai vano, e leggiero,
Ringratia il padre, che ’l dolore interno
Mostra col sospirar, ch’ogni hor rinova,
E con ogni attion, che ’l vero approva.

In tanto Eto, e Piroo, con gli altri augelli,
Che senton de la sferza il moto, e ’l vento,
Si movon, si raccolgon, si fan belli,
E co piè zappan tutto ’l pavimento.
Sbuffan fiamme, annitriscon, come quelli,
Che tutto hanno al volar l’animo intento.
Tolti tutti i ripari, e ’n aria alzati,
Trapassan gli euri in quelle bande nati.

Gioisce all’apparir del Sol la terra,
Levan’ allegre il capo l’herbe, e i fiori.
Cantando il vago augel s’aggira, et erra,
E saluta la luce, che vien fuori.
Superbo l’aureo serpe esce sotterra,
Che spera al Sol goder gli usati amori.
Godono huomini, e fiere intorno intorno,
Che veggon far si bel principio al giorno.

Ó cieca terra, ò miseri animali,
Non sapete, che mal il Sol v’apporti,
Ne men, c’hoggi saran tutti i mortali
Dal suo foco crudel distrutti, e morti.
Poco à te vago augel, gioveran l’ali,
Poco à voi serpi, esser’al Sol più forti,
E te terra, à cui par, che tanto giove,
Vedrò contra di lui dolerti à Giove.

Fendon le rare nebbie i destrier tutte
Co i piedi, con le penne, e con le rote;
È le fa tosto rimaner distrutte
L’impetuoso Sol, che le percote.
E leve il peso, et le rote condutte
Son da i destrier per regioni ignote,
Che non sentendo à l’uso il giogo grave,
Van come in mar mal governata nave.

Nave, che senza il peso, che richiede,
Sia combattuta dal vento, e dal mare,
Che sì sopra acqua il mar vagando fiede,
Che par, che sempre stia per traboccare,
Hor s’alza, hor si ribalta, hor torna in piede;
Così quel carro era costretto à fare,
E senza il peso suo con più d’un salto
Gir balzando per l’aria, hor basso, hor alto.

Gl’indomiti destrier, c’han fatto il saggio
Di questo novo lor più dolce morso,
Lasciano il noto lor trito viaggio,
E dove ben lor vien, drizzano il corso.
Fetonte se ne sta con mal coraggio,
Che non ha più consiglio, ne soccorso.
Non sà dove si vada, ò per qual via,
Ne se ’l sapesse, il fren regger potria.

Vaghi forse veder varij paesi
I cavalli cominciano à drizzarsi
Dove il giorno, e la notte è di sei mesi,
Dove si vede il Polo immobil starsi.
Già l’orse, e i buoi dal troppo caldo offesi
Nel prohibito mar voller tuffarsi,
E tu non men di lor tardo Boote
Fuggisti anchor con le tue pigre rote.

Quel pigro Drago, che dal freddo astretto
Non fu mai formidabile à nessuno,
Come sentì dal Sol scaldarsi il petto,
Diventò fiero, horribile, e importuno.
Già si prepara, e si mette in assetto
D’uccider quei cavalli ad uno, ad uno,
E s’oppon lor si spaventoso, e fiero,
Che gli fece cangiar strada, e pensiero.

Per fuggire i cavalli e danno, e scorno,
Voltan la groppa al Drago, e via se’n vanno
Tanto affrettando verso il mezzo giorno,
Che ’l Tropico del Cancro passat’ hanno.
Già non pensan gir là dal Capricorno,
Come nel noto lor viaggio stanno,
Ma per non gir, come havean fatto à caso,
Si drizzan per la pesta in ver l’occaso.

Hor come l’inesperto auriga, e stolto
Mira da l’alto ciel la bassa terra,
Trema, e diventa pallido nel volto,
E poco men, che non ruina à terra.
Già quel tanto splendor gli ha ’l veder tolto,
Che gli occhi contra il suo voler gli serra.
Vorria già haver creduto à la sua madre,
E non haver mai conosciuto il padre.

Gli Astrologi sagaci, et altri assai,
Se ben non sono in tal scienza instrutti,
Stupiscon, che i solari ardenti rai
Veggon da Polo à Polo esser condutti,
E più, che ardon si torridi, c’homai
Gli han quasi tutti quanti arsi, e distrutti,
Ma ben novo stupor allhor gl’ ingombra,
Ch’ all’austro il corpo lor veggon far ombra.

Che farà l’ infelice, ha già lasciato
Un gran spatio di ciel dietro à le spalle,
E già si vede à quel giogo arrivato,
Dove comincia à declinare il calle.
Ó voglia andar da questo, ò da quel lato,
Forza è calar ne la profonda valle:
Tien il fren, ma no’l regge, e non sa come
Gl’infiammati destrier chiamar per nome.

Mentre scorrendo il ciel piange, e sospira
Il timido garzon, ne sa, che farsi,
Molti horrendi animali incontra, e mira,
Che son per tutto ’l ciel divisi, e sparsi.
Fra’l Sagittario, e la Vergine il tira
Il carro intanto, et ecco appresentarsi
L’horrendo Scorpion, che sì s’estende,
Che ’l luogo di due segni ingombra, e prende.

Quando il pentito giovane s’accorge
De l’animal, che per ferir s’è mosso,
E ruggiadoso, et humido lo scorge
Di mortifer venen per tutto ’l dosso,
Che reflette la coda, e innanzi sporge
L’acute branche, e vuol venirgli addosso,
Per fuggir lascia il freno, e, più che puote
Con la sferza i destrier batte, e percuote.

Come i cavalli abbandonato in tutto
Sentono il freno, e battersi su’l dorso,
Schivan quell’animal nocivo, e brutto,
E ’l suo crudele, e venenoso morso.
Scorrono hor alto, hor basso, il ciel per tutto.
Che più no’l vieta l’ inimico morso,
Il misero s’appiglia ove hà più fede,
E più fermo, che può, su ’l carro siede.

Come il nocchier, che l’arbore, e ’l timone
Perde, risolve il suo dubbioso petto,
Contra il voler del mar più non s’oppone,
Che non può più salvarsi al suo dispetto:
Ma si da tutto à sua discretione,
Indi si volge à Dio con caldo affetto,
Tal’ ei, c’ ha il freno, e ’l suo camin perduto
S’arrende, e sol da Dio ricerca aiuto.

Tanto verso la terra il carro scende,
Che si trova da lei poco lontano.
Maraviglia, e stupor la Luna prende
Vedersi sotto i destrier del germano.
Fuman le nubi, e la terra si fende,
Arde già il monte, e tutto aperto è ’l piano.
I pascoli dal Sol percossi, e secchi,
Diventan tuttavia canuti, e vecchi.

Già le mature, e secche biade danno
Occasion, che vi si appicchi il foco,
E porgono materia al lor gran danno,
Ch’ad arder son le prime in ogni loco.
Gli arbori senza honor ne i monti stanno,
Già si veggon fumare à poco à poco.
Arde l’antica quercia, e la castagna,
E sembra un Mongibello ogni montagna.

Arde il già vivo frassino, e l’abete
Come faria lino incerato, ò paglia.
Tutto è foco Ida, et Emo, e Tauro, et Ete,
In Frigia, in Tracia, in Cilicia, in Tessaglia.
Freddi monti di Scithia, non potete
Far, che ’l vostro gran freddo hoggi vi vaglia;
Caucaso abbruggia, et Cinto, Olimpo, e Calpe,
Et ogni parte, ove dividon l’Alpe.

Il pien di nebbie, e silvoso Apennino,
E Pindo, et Ossa, e Parnaso s’accende.
Più basso arde il Tarpeio, e l’Aventino;
Di raddoppiate fiamme Etna risplende.
Indi prende nel pian forza, e domino
Il foco, e in ogni parte si distende.
Converte al fin, così terribil fassi,
In cener le città, le mura, e i sassi.

Vede il mesto Fetonte il mondo acceso,
E star di vive fiamme risplendente,
Non sa che far, ch’ogni hor più resta offeso
Dal cieco fumo, e dal calor, che sente.
Il metallo del carro ha ’l calor preso,
Che dà Vulcan ne la fucina ardente.
Confuso sta, ne sa dove andar debbia,
Cieco da la fumosa oscura nebbia.

Allhor si crede, ch’arso, e in fumo volto
Dal foco il sangue à la suprema carne,
L’adusto Ethiope sortisse quel volto,
E quel nero color venisse à trarne.
Allhor fu al terren Libio il vigor tolto,
Che mai potesse poi più frutto darne.
Le Ninfe allhor co i crin sparti, et inconti
Cercaro in vano i fiumi, e i laghi, e i fonti.

Beotia Dirce, et Efiro Pirene
Cercano, et Argo d’Amimmone l’onde.
Ne sol l’angusto fonte secco viene,
Ma i fiumi, che più larghe hanno le sponde.
Chi da i lati l’Europa, e l’Asia tiene,
In mezzo all’acque avampa, e si nasconde.
Xanto impara à gittar fiamme e faville,
Per saper arder ben poi contra Achille.

Arse in Armenia Eufrate, in Siria Oronte,
Il Gange, dove à noi nasce l’aurora.
Arse in Scithia il veloce Termodonte,
In Spagna il Tago, che ’l suo letto indora.
Nel mondo estremo la superba fronte
Nascose il Nil, che sta nascosta anchora;
E le sue parti già da l’acque ascose
Fur sette valli aduste, et arenose.

I fiumi de l’Hesperia non fur meno
De gli altri frati lor secchi, et asciutti.
Il Rodano restò senz’acqua, e ’l Reno,
E ’l Tebro altero Imperator di tutti.
Il mar, che suol haver sì gonfio il seno,
Allhor mancò de’ suoi superbi flutti.
Molti bracci di mar chiusi fra terra
Restar campi arenosi, arida terra.

Crescon per tutto ’l mar gli scogli, e i monti,
Che l’elevato mar tenea coperti.
Più non sono i Delfini agili, e pronti
À saltar sopra il mar tutti scoperti.
Altro pesce non v’è, che sopra monti,
Ne stan molti sù i liti arsi, e deserti,
Molti sopr’acqua i più grandi, e i più forti
Ne vanno à galla arrovesciati, e morti.

E come suona la fama nel mondo,
Il dubbio Proteo, e le Nereide, e Dori
Trovar del mare il più sepolto fondo,
Sotto i men caldi, e men nocivi humori.
Nettuno in volto irato, e furibondo
Infino al petto uscì tre volte fuori,
E tre volte attuffossi, e non ste saldo,
Per non poter soffrir le luce, e ’l caldo.

Ha fessure, e voragini la terra,
Che scuopron dentro ogni suo luogo interno,
Tal che ’l raggio solar, ch’entra sotterra,
Fa lume al Re del tenebroso inferno.
Teme ei, che ’l ciel non gli habbia mosso guerra
Per privarlo del suo Stigio governo.
Percote Erinni il petto afflitta, e mesta,
E ’l capel viperin si straccia in testa.

L’alma gran Terra, ch’è cinta dal mare,
Non può vetar, che ’l foco empio non entre
Dove son seco ritirati à stare
I fonti nel materno ombroso ventre.
Alza il fruttifer volto per parlare,
Oppon la mano à l’arsa fronte; e mentre
Vuol dir, trema, e si move; e gir si lassa
Più, che star non solea, terrena, e bassa.

Poi disse con parlar tremante, e fioco,
Ó gran Dio de gli Dei, che pensi farmi;
Se ti par, che perir merti di foco,
Fà, che dal foco tuo senta bruciarmi;
Aventa il folgor tuo, che ’l duol non poco,
Se tu l’auttor sarai, vedrò mancarmi.
Che ’l mal non mi parrà, che sì m’annoi,
Se questo tu farai, che ’l tutto puoi.

Perche sì crudo, et empio hoggi il Sol viene,
Che meco i dolci figli arde, e consuma?
Perche non fa quel, ch’ à lui si conviene,
Ne il mondo come pria scalda, et alluma?
Perche fa quel, ch’à te sol s’appartiene?
Com’esser può, che tanto ei si presuma?
Che faccia à tutto ’l mondo sì gran torti,
E tu presente il vegga, e te’l comporti.

Oime, che à pena la mia debil voce
Nel mio flebil parlar risolver posso,
Impedita dal foco, che mi coce
Il mio già lieto volto, e tutto ’l dosso;
Il qual non solo in quel, ch’appar, mi noce,
Ma strugge dentro la medolla, e l’osso.
Guarda gli arsi capei, l’arsiccia pelle
De le già membra mie sì vaghe, e belle.

È questo il guiderdone, è questo il frutto?
Dunque i miei premij, i miei merti son tali?
De la fertilità, ch’ io fo per tutto
Di fior, d’herbe, di frutti, e d’animali,
Ch’ogni anno hò il corpo lacero, e distrutto
Dal crudo aratro, e da gli empi mortali.
Nutrisco piante, augei, montoni, e buoi,
E fò le biade à l’huom, l’ incensi à voi.

È dunque ben, che per premio, e per merto
Di convertirmi in cener ne consegua?
Or sù poniam per qualche mio demerto,
Che ’l crudel foco m’arda, e mi persegua,
C’ha fatto il tuo fratel, che sta coperto
In mezzo à l’Oceano, e si dilegua ?
Che ’l batte il Sol sì pertinace, e duro,
Ch’ in mezzo à l’onde sue non è sicuro.

Perche gli manca il mar? perche discresce
Quel gran regno, ch’ à lui toccò per sorte?
Perche gli uccide il suo gregge, il suo pesce
Il più superbo Dio de la tua corte?
Hor se di me, ne di lui non t’ incresce,
E giudichi ambedue degni di morte,
Deh movati il tuo ciel, deh guarda intorno
Come l’ infoca il portator del giorno.

Deh gran rettor del ciel provedi innante,
Che ’l tuo ciel cada, à quelle fiamme sparte,
Ch’à te brucian le stelle, à me le piante,
E fan già rosso il cielo in ogni parte,
E cuocon sì le spalle al vecchio Atlante,
Che lascierà cader Mercurio, e Marte,
E te, se i poli il foco arde, e consuma;
E vedi ben, che l’uno, e l’altro fuma.

Perche non pera il ciel, la terra, e ’l mare,
Ne torniam, come pria, tutti in confuso,
Salva dal foco quel, che puoi salvare,
E riserva le cose à miglior’ uso.
Il vapor non potè più sopportare
La terra, e ’l volto in se medesma chiuso
Si ristrinse nel suo luogo più interno,
Presso al già buio, hor luminoso inferno.

Mosso dal giusto priego il Re celeste
Tutto chiamò per testimonio il cielo,
E quel, che diede il carro, e quella veste,
Che sforza l’auree stelle à porsi il velo,
E mostrando le fiamme ingorde, e preste,
Che fa nel mondo il distruttor del gielo,
Disse: arderà, se da noi gli è permesso,
La Terra, il Cielo, il Mar, l’Aria, e se stesso.

Tosto à l’altezza malagevol poggia,
Onde di nubi, e nebbie il mondo ingombra,
E di neve, e di grandine, e di pioggia,
Di tutto quel, ch’al Sol soglion far’ ombra;
Ma la trovò con nova, e strana foggia
Tutta dal foco esser bruciata, e sgombra,
E ’l luogo, onde credea spegner Vulcano,
Ritrovò tutto dileguato, e vano.

À la maggior’ altezza irato ascende,
Onde trà le saette, accende i lampi;
Un mortifero folgore in man prende,
Poi fa, che ’l cielo in quella parte avampi,
Lancia, e tornando impetuoso scende
L’ardente stral, che giunge vampi à vampi.
Quel tolse al miser l’alma, e ’l corpo accense,
Onde foco per foco allhor si spense.

Dal foco, dal gran colpo, e dal romore
Sbigottiti i cavalli un salto fanno
Contrario l’uno à l’altro, e ’l collo fuore
Tolgon dal giogo, e vagabondi vanno.
Spargonsi i raggi, e quel chiaro splendore,
Le rotte rote in quella parte stanno,
Qui l’asse, ivi il timon, la ’l seggio cade,
Per gli arsi campi, e ’ncenerite strade.

Si volge in precipitio il corpo estinto,
Ardendo l’aureo crin doppia facella,
E per l’aria à l’ ingiù gran tratto spinto,
Sembra quando dal ciel cade una stella,
E se non cade, e quel cadere è finto,
Pur par, che cada, e che dal ciel si svella.
Lontan da la sua patria il Pò l’accoglie,
E lava lui con l’infiammate spoglie.

Le ninfe de l’Italia, il foco spento,
(Che’l corpo anchora ardea) nel maggior fiume
Gli dier sepolcro; e fer su’l monimento
Così notar da le fabrili piume;
Fetonte giace quì, c’hebbe ardimento
Del carro esser rettor del maggior lume,
E se reggere al fin ben no’l poteo,
Pur osando alte imprese arse, e cadeo.

Il mesto volto il suo padre infelice
Al mondo ascose, e tutto sol si dolse,
E se creder vogliam quel, che si dice,
Un dì passò, ch’egli girar non volse.
L’incendio, ch’ogni piano, ogni pendice
Ardeva, al mondo il suo splendor non tolse:
Tutto ’l mondo allumò l’incendio, e ’l foco,
Tanto, che pur giovò quel danno un poco.

Poi, che la madre Climene hebbe detto
Quel, ch’in tanto infortunio era da dire,
Stracciando i crini e percotendo il petto
Fè noto à tutto ’l mondo il suo martire.
Come insensata uscì del patrio tetto
Spargendo amare lagrime per gire
Per tutto ’l mondo tapinando tanto,
Che potesse al figliuol morire à canto.

Ó Dio, che disse, e fe, quando fu giunta
A la terra lontana, e peregrina,
Dove il Pò fende in due parti la punta,
E ne và per due strade à la marina.
Da soverchio dolor trafitta, e punta
Sopra il novo sepolcro il volto china;
Legge, e sparge di pianto il dolce nome,
Stracciando le canute inculte chiome.

Alzando al cielo poi gli humidi rai
Disse dal dolor cieca, e da lo sdegno,
Deh perche Giove un figlio tolto m’hai
Degno de la tua corte, e del tuo regno?
Qual’ huom, qual Dio fra voi si trovò mai,
Che s’alzasse con l’animo à quel segno?
Dunque un cor sì magnanimo, e sì forte,
Dovea per premio haver da voi la morte?

Non hebbe intention d’ardere il mondo
Quando s’accinse à sì magnanim’opra;
Non ornò di quei raggi il suo crin biondo
Per far’ oltraggio à voi, che state sopra.
Per saper quel viaggio obliquo, e tondo,
Che fa, che vario il giorno à noi si scopra
V’andò, perche sapendol far’ egli anco:
Potea giovar talhora al padre stanco.

Deh non potevi senza fulminarlo
Rapirlo dal bel carro, ove sedea?
E tal nel tuo superbo imperio farlo,
Qual meritava l’animo, c’havea?
Molto maggior’ honor t’era essaltarlo,
Per lo spirto divin, che in lui splendea.
Ben potevi schivar quel gran periglio,
E non mi tor sì generoso figlio.

Questa nobile idea sublime, e degna,
A cui, figliuol, tutto ’l mondo era poco,
Può star, ch’un picciol sasso hor chiuda, e tegna?
E caper possa in così stretto loco?
Ahi saetta mortifera, et indegna,
Ahi crudo ingrato, e sconoscente foco,
Ch’osasti à sì bell’alma arder la scorza,
Che nota fe la tua possanza, e forza.

Le sue dolenti affettuose note
Con mesti, e gratiosi atti accompagna.
Si straccia i crini, e si graffia le gote,
E con tal maestà si dole, e lagna,
Che movere à pietà d’intorno puote
Le rive, i monti, i boschi, e la campagna.
E tanto il Pò ne pianse, e se ne dolse,
Che l’acqua racquistò, che ’l Sol gli tolse.

Ogni sorella di Fetonte, e figlia
Del Sol, non men di Climene si dole.
Si graffia, si percote, e si scapiglia,
Et empie il ciel di pianto, e di parole.
Questa alza al ciel le ruggiadose ciglia,
E quando incolpa Giove, e quando il Sole:
Quella sopra il sepolcro si distende,
E chiama il frate in van, che non l’intende.

La terza stanca al fin s’asside in terra,
Le man commette, e ’n seno asconde il viso,
E fra le braccia il muto capo serra
Col pensiero al fratello intento, e fiso.
Stavvi un gran pezzo, e poi le man disserra,
E rompe quel silentio à l’ improviso;
Si graffia, e straccia, e le man batte, e stride,
Fin che di novo si stanca, e s’asside.

Passando van d’un in un’ altro gesto,
D’un in un’ altro gemito, e lamento,
Et ad ogni atto gratioso, e mesto
Danno un soave, e doloroso accento.
Passan di novo poi di quello in questo,
Dove le move, e sprona il lor tormento,
E tutti indicio manifesto fanno
Del crudel caso, e del dolor, che n’ hanno.

Quattro volte scoperte, e quattro ascose
La Luna havea le luminose corna;
Da quattro segni havea di gigli, e rose
L’Aurora innanzi al Sol la terra adorna;
Cento, e più volte havea tutte le cose
Scoperto il biondo Dio, che ’l mondo aggiorna;
E quelle per lungo habito, e costume
Anchor piangeano il mal rettor del lume.

Stanca Fetusa, la maggior sirocchia
Pensa sedersi, e trova l’ infelice
Le giunture indurate, e le ginocchia,
Ne come prima più seder le lice.
Lampetie andar vi vuol, che questo adocchia,
Ma la ritiene insolita radice.
Crede l’altra stracciar le chiome bionde,
E si trova le man piene di fronde.

Chi si duol, che non può con ogni forza
Piegar le gambe, over girar la faccia:
Chi che virtute insolita già sforza
Farsi due lunghi rami ambe le braccia.
Veggono intanto una più dura scorza,
Che ’l corpo loro à poco à poco abbraccia.
Sol restava la voce, e ’l mesto viso,
Con cui ne diero à la lor madre aviso.

Hor che può far la sconsolata, e mesta
Che sì strano spettacolo rimira?
Et à le figlie vede un’altra vesta,
Se non andar dove il furor la tira?
Corre, e soccorrer vuole hor quella, hor questa,
Vuol far, ne sa, che farsi, e pur s’aggira;
Guarda, e non vede cosa in quel contorno
Da torle quel novello arbor d’intorno.

À i piu teneri rami al fin s’appiglia,
E d’ ira accesa à piu poter gli schianta,
Per liberar l’ incarcerata figlia
Da l’ indiscreto legno, che l’ammanta.
Fa del suo sangue la terra vermiglia
Ogni ferita, e lacerata pianta.
E dice, non troncar madre, se m’ami.
Che laceri il mio corpo in questi rami.

La scorza in tanto tutte le circonda,
E toglie à loro il volto, e le parole;
Il pianto nò, che più che mai n’abonda
L’arbor, c’hor sol col lagrimar si dole,
Ben ch’al fin perdon la forma de l’onda
Le lagrime indurate à più d’un Sole.
Esse hor son pioppi, ambre i disfatti lumi,
Queste adornan le donne, e quelli fiumi.

A questo novo, e mostruoso fatto
Il Re de la Liguria fu presente,
Dal grande amore à quel sepolcro tratto,
Che porta al folgorato suo parente.
Ma l’havea più, che per lo sangue fatto,
Che gli era giunto d’animo, e di mente,
E lo stimò sì generoso, e degno,
Ch’abbandonò per lagrimarlo il regno.

Più folti i boschi per li novi rami
De le meste sorelle di Fetonte,
Ripieni havea di dolorosi, e grami
Pianti, e lamenti, e ’l fiume, e ’l piano, e ’l monte:
E vedendo gl’ insoliti legami,
Che coprian lor la dolorosa fronte,
Credo, ch’invidia gli toccasse il core,
Che fosser fuor del solito dolore.

Tosto altro suon la mesta voce rende,
Di bianche piume poi coprir si vede,
Il collo se gli allunga, e si distende,
Lega rossa giuntura i diti, e’l piede.
La bocca un rostro non agguzza prende,
L’ala asconde la mano, e non si vede.
Cigno havea nome il Re Ligure, e quello
Nome ritenne essendo fatto augello.

In mente anchor quanto già nocque, serra
À Fetonte à spiegar troppo alto l’ale,
Però non molto alzarsi osa da terra,
Che teme Giove, e ’l suo fulmineo strale.
Sol fra paludi egli s’aggira, et erra,
E per non cader giù, poco alto sale.
Habita fiumi, e laghi, et ogni loco,
Che pare à lui, che sia contrario al foco.

Squalido il padre di Fetonte intanto,
Come morto cader del carro il mira,
Odia il giorno, e se stesso, e ’l regio ammanto,
E senza il suo splendor piange, e sospira:
Ne basta, che si doni in preda al pianto,
Che dal pianto si dona in preda à l’ ira,
E nega in volto irato, e furibondo
D’esser più scorta de la luce al mondo.

Troppo è stato inquieto il viver mio
Dal secolo primier, ch’ incominciai,
C’havendo al mondo di giovar desio,
Vagato son senza posarmi mai,
Poi, ch’altro honor di ciò trar non poss’io,
Me ne starò ne’ miei tormenti, e guai.
Trovisi un’ altro duca, un’altra scorta,
Che guidi il carro, che la luce porta.

S’alcun non v’è sì coraggioso, e forte,
Guidilo il Re de’ folgori, e de’ lampi,
Ch’allhor saprà quel, che ’l mio carro importe,
S’avien quel, ch’io non credo, che ne scampi.
Allhor saprà, che non merta la morte
Chi guida i miei cavalli, anchor ch’ inciampi,
À cagion, che talhor lanciar s’arresti
Lo stral, che rende i padri orbati, e mesti.

Mentre che ’l Sol così s’affligge, e dole,
Tutti i celesti Dei gli stanno intorno;
E pregan lui con supplici parole,
Che renda il mondo del suo lume adorno:
Che vede ben, che l’universa mole
Fia tenebrosa, se le toglie il giorno.
Giove si scusa, e prega, indi minaccia,
Non però sì, che più sdegnato il faccia.

Gli sparti raggi per gli arsi sentieri
Febo ritrova, e l’infiammate spoglie;
Gli anchor smarriti, e stupidi destrieri
Sotto il suo duro fren di novo accoglie;
E incolpa lor, che sì vani, e leggieri
Mal secondar l’altrui giovenil voglie.
E come sian cagion del suo martoro,
Gli batte, e sferza, e incrudelisce in loro.

Poi che l’alto motor le luci sparte
Vide raccor dal suo rettor primiero,
Volle veder, se ’l foco in qualche parte
Nociuto havesse al suo superbo impero,
Dove Vener trovò Saturno, e Marte
Tutti il lor cerchio haver saldo, et intero:
Onde volse à la terra il suo coraggio,
Per ristorarle il ricevuto oltraggio.

Discende in terra, e la sua maggior cura
È di rifarle in tutto il torto, e ’l danno;
E trova i fiumi anchor pien di paura,
Che nel materno ventre ascosi stanno,
E d’uscir fuora alcun non assicura
Il timor, c’han del foco havuto, et hanno.
Egli li fece uscir, ben che sospetti
À dar da bere à i lor bruciati letti.

Gli arbori arsicci, e senza il primo ornato,
Senza fior, senza frutti, e senza frondi,
Tutti fa ritornar nel primo stato
Di tutti i pregi lor lieti, e fecondi.
Fà, che ’l distrutto, e polveroso prato
D’herbe, e di fior, più che mai lieto abondi,
E fiumi, e piante, e prati, et herbe, e fiori,
Racquistar tutti i lor perduti honori.

Andando Giove in questa parte, e in quella
Per veder s’altro il mondo havea di guasto,
Trova in Arcadia una vergine bella,
C’ ha il sembiante lascivo, e ’l petto casto.
Serve Diana, e Calisto s’appella
Figlia à colui, che lupo era rimasto,
Quando per far le temerarie prove,
Fè quel convito sì nefando à Giove.

Sopra tre lustri havea girato il Sole
Una volta il suo cerchio intorno intorno
Dal dì, ch’ in terra uscì sì degna prole,
Che fe di sì bel dono il mondo adorno.
Ben mostran le bellezze uniche, e sole,
Che non ha più, ne manco tempo un giorno:
Che ’l ben disposto corpo, e la beltade
Ben corrisponde à la sua verde etade.

Non vuol, ne men l’accade per ornarsi,
Che capei biondi si proccaci, ò finga,
Ch’assai l’è, perche i suoi non cadan sparsi,
Ch’un sottil nastro li circondi, e stringa.
À i vestimenti suoi succinti, e scarsi
Basta tanta cintura, che li cinga;
E sta sì ben disposta ogni sua parte,
Che rassembra un dispregio fatto ad arte.

Sola, e sicura la vergine bella
Figlia del Re d’Arcadia se ne gia,
Vestita à guisa d’una pastorella,
Come à la legge sua si convenia;
Perche costume fu d’ogni donzella,
Che di Diana la norma seguia,
Fuggir le pompe, e vestir puro, e schietto
Per dimostrar la purità del petto.

L’angelico suo viso, il bel sembiante,
Il vago de’ begli occhi, e lo splendore,
E le maniere gratiose, e sante,
Che mostran la bellezza interiore,
E l’altre cose belle, che son tante,
Quante n’ ha fatte di sua mano Amore,
Con dolce vago fan, ch’ insieme accolto
Fà Venere albergar nel suo bel volto.

Giove come farà, ch’ incontra, e guarda
Un sì leggiardo, e sì divino aspetto,
Che novo amor per lei nol prenda, et arda,
Che non cerchi gustar novo diletto?
Per lo piacer, ch’egli ha, pur si ritarda
Del suo libero andar senza sospetto.
Quel bello andar dal suo desio l’arretra,
Che fa superbo l’arco, e la faretra,

Dal più supremo ciel Febo havea visto
Tutti il caldo fuggir del mezzo giorno;
Volta era al cerchio l’ombra di Calisto,
Ch’ella fe poi di si bel nome adorno;
Col metro la cicala infame, e tristo,
Rendea noioso il mondo d’ogni intorno;
Quand’ ella per fuggir quel caldo raggio
Volle por meta alquanto al suo viaggio.

Dal Sole in una selva si nasconde
Di grossi faggi, e d’elevati cerri,
Che cento volte havea cangiate fronde,
Ne mai sentiti gl’ inimici ferri.
Si ferma ad un ruscel di limpide onde
Ma l’arco allenta prima, che s’atterri.
L’arco s’allunga, e ’l nervo corto torna,
E tocca un sol de le distese corna.

Indi si china à la gelata fonte,
E spesso l’acqua in su con la man balza.
Le sitibonde fauci aperte, e pronte
Quella parte n’ inghiotton, che più s’alza.
Beve, e poi lava la sudata fronte,
Indi s’asside in terra, e si discalza;
Lava poi (che veduta esser non crede)
Fin’ al ginocchio il suo candido piede.

Vestito c’hebbe il piè fatto più bianco,
E ben tre volte trattasi la sete,
E la faretra toltasi dal fianco,
Pensa prendere alquanto di quiete:
Distende il corpo travagliato, e stanco
Per darsi per un pezzo in preda à Lete.
La faretra le serve in quel, che pote,
E fa guanciale à le vermiglie gote.

Giove, che sempre n’ ha seguita l’orma
Con l’animo, e con gli occhi ascosamente,
Et à la vaga sua maniera, e forma,
Di sì belle attioni ha posto mente,
Non si cura aspettar, ch’ella s’addorma,
Ma si muta di volto immantinente,
Da lei la riverita forma piglia
De la triforme sua pudica figlia.

Già non saprà questo mio furto, e frodo,
Disse, la dispettosa mia consorte;
E se ’l sa ben, debbo io stimarlo in modo,
Che disprezzi un piacer di questa sorte?
Quando m’abbatterò, s’hor non la godo,
In così rara aventurosa sorte?
E giunto à lei con la mentita faccia
Le domandò dov’era stata à caccia.

Tosto si leva la Vergine bella,
E riverente à la sua Dea s’inchina;
E dice con la sua dolce favella;
Ó vera de le Vergini Regina
Sappi, ch’ io preferisco la tua stella
À tutta quanta la corte divina,
Et anchor, ch’ egli m’oda, dire ardisco,
Ch’à Giove padre tuo ti preferisco.

Tu sei di castitate un vero essempio
À le dilette tue pudiche ancelle,
Egli si fa talhor rapace, et empio
Ver le donne, ch’à lui paion più belle;
Trasforma il volto, e con lor grave scempio
Suole ingannar le semplici donzelle.
Ride ei, che preferir s’ode à se stesso,
Et accusar del suo propinquo eccesso.

Allegro Giove intanto al bacio viene,
Bacio, che poco à donna casta lice,
E non, che ad una vergine stia bene,
Ma sarià troppo ad una meretrice.
Ella per far quel, ch’à lei si conviene,
De la sua caccia le ragiona, e dice;
Ma trattosi egli le mentite spoglie
Dir non la lascia, e l’honor suo le toglie.

La misera donzella per salvarsi
Con parole e con fatti si difende.
Ma come puote una fanciulla aitarsi
Contra chi tutto move, e tutto intende?
Pur l’ infelice fa quel, che può farsi.
Guarda, guarda, Giunon, s’ella contende,
Che non saran sì crudi i pensier tuoi,
Ne il mal farai, che le facesti poi.

Giove nel ciel vittorioso riede,
E lascia quella, sconsolata, e mesta,
C’ ha quella selva in odio; e ciò, che vede,
C’ ha veduto il suo caso, la molesta.
Dal consapevol loco à torre il piede
Si move sì sollicita e sì presta,
Et ha tanta la fretta d’andar via,
Che quasi l’arco, e la faretra oblia.

Mentre fra se la sua fortuna piagne,
E quasi ad ogni suo passo sospira,
Diana scevra da le sue compagne
Venirle incontro à l’ improviso mira.
La Dea fa cenno à lei, che s’accompagne,
Ma quella al primo fugge, e si ritira;
Che teme anchor, che Giove insidioso
Non si dimori in quella forma ascoso.

Ma come poi s’accorge, che le vanno
Non lungi l’altre sue caste sorelle,
E che conosce esser lontan l’ inganno,
S’accosta, e cresce il numero di quelle.
Ahi come asconde mal seta, ne panno
Quel vitio, che fa donne le donzelle;
Come ne danno indubitato aviso
Le maniere, e l’andar, la lingua, e ’l viso.

Più non si vede andar lieta, e superba
Innanzi à l’altre, come far solea,
Ma gli occhi non ardisce alzar da l’herba,
Ne ’l volto à l’alma, e riverita Dea,
Pur cerca asconder la sua doglia acerba,
Per non far noto il caso, ond’ella è rea;
Ma di poterla ben celar l’è tolto
Dal raddoppiato suo rossor del volto.

Le vergini hanno il cor pudico, e netto,
Ne san per segni accorgersi del vero:
Onde tutte ne van senza sospetto,
Pensando, che le prema altro pensiero.
Ma ben saprete onde viene il difetto
Prima, che passi il nono mese intero.
Vivete pure, e conversate insieme,
Che saprete il dolor, c’hoggi la preme.

Dal dì, ch’ in forma de la figlia Giove
Sfogò l’immoderato suo desio,
Nove volte mostrò le corna nove
La Luna, et altrettante il tondo empio
Pria, che Diana un dì giungesse dove
Le parve di fermarsi appresso un rio,
In una selva di quercie, e di faggi,
Per fuggire i fraterni estivi raggi.

Lodato c’hebbe l’ombra, il bosco, e ’l sito,
Le parve fare il saggio anchor de l’acque,
E dentro il piede postovi, e sentito
Il suo temperamento, assai le piacque;
E fatto à tutte un generale invito
Di doversi bagnar, lor non dispiacque,
C’hanno il loco opportuno, e ben disposto,
Et ogni occhio, et ogni arbitro discosto.

Hor che farà Calisto? se si spoglia,
Forz’è, che l’error suo si manifeste.
S’indugia, e mostra ben, che non n’ha voglia.
Ma l’altre à forza le traggon la veste,
E scopron la cagion de la sua doglia,
E ’l bel ricetto del seme celeste.
Ella non può con man celar sì ’l seno,
Che l’error non palesi il ventre pieno.

Fuggi putta sfacciata, e come hai fronte
Star con noi senza il tuo virginal fiore?
Non profanar questo sacrato fonte,
Non macchiar questo limpido liquore.
Deh non Diana, non le dir tant’onte,
Che s’ ha corrotto il corpo, hà casto il core;
Hà sano il suo di dentro, ma la scorza
Non, che ’l tuo genitor l’hà fatto forza.

La casta compagnia sdegnata diede
À la compagna rea perpetuo essiglio.
L’infelice Calisto, che si vede
Esser’ in odio al virginal conciglio,
Scontenta, e trista al patrio albergo riede,
Dove poco dapoi diè fuora un figlio,
Che riuscì da seme sì perfetto
Nobil di sangue, d’animo, e d’aspetto.

Giunon lo stupro havea già presentito,
Che fatto havea l’adultero consorte,
Et haveva in buon tempo stabilito
Di castigar colei di mala sorte;
Ma come hà poi notitia, ch’al marito
Hà fatto un figlio, s’altera sì forte,
Che più la pena à lei tardar non vole,
Per l’ ira, c’ ha de l’odiosa prole.

Questo mancava un testimonio certo
De l’altrui fallo, e de l’ingiuria mia,
Disse, ma tosto n’haverai quel merto,
Ch’à la tua colpa convenevol fia.
Hor’ hor’ voglio, che toglia il tuo demerto
À te la forma, à me la gelosia.
Non havrai più quel sì lodato volto
Col quale il senno al mio marito hai tolto.

La prende con gran rabbia ne’ capelli,
E la declina à terra, e tira, e straccia.
Quell’alza gli occhi lagrimosi, e belli,
E supplice ver lei stende le braccia.
Già coprono le braccia horridi velli,
E ver la bocca s’aguzza la faccia,
Si veste à poco à poco tutto il dosso
D’un ruginoso pel fra ’l nero, e ’l rosso.

Poi le toglie il parlar grato, e giocondo
Perche non possa altrui mover col dire,
Un minaccevol suono, et iracondo
Dal roco gozzo suo si sente uscire.
L’unghia s’aguzza à la forma del tondo,
E si rende atta à graffiare, e ferire,
Curvar prima la mano, e poi si vede
L’ufficio far del faticoso piede.

Quel sì leggiadro, e gratioso aspetto,
Che piacque tanto al gran rettor del cielo,
Divenne un fero, e spaventoso obietto
À gli occhi altrui sotto odioso velo.
L’humana mente solo, e ’l intelletto
Servò sotto l’ hirsuto, e rozzo pelo.
Questa, ch’in ogni parte Orsa divenne,
L’antica mente sua sola ritenne,

Se Giove ingrato ben chiamar non puote
Ingrato dentro à l’animo il comprende.
E se non può con le dolenti note,
Quelle mani, che puote, al ciel distende.
E ’n tutti gli atti suoi par, che dinote,
Che tutto il mal, ch’ella hà, da lui dipende.
C’ha per lui il volto, e l’honor suo perduto,
E che appartenga à lui di darle aiuto.

Ó quante volte sola dubitando
Gir per le selve come l’altre fere,
Sen giva intorno à le sue case errando,
Over per mezzo à qualche suo podere
De i propri, e noti suoi frutti mangiando
Pruni, mele, castagne, noci, e pere.
Ch’anchor conosce, che fa mal colui,
Che del suo puote, e vuol mangiar l’altrui.

Ó quante, e quante volte l’infelice
Scordatasi, c’havea cangiata faccia,
Fuggì tai fiere, ch’à gli orsi disdice,
Se non cercan di lor seguir la traccia.
Quante volte l’afflitta cacciatrice
Da cani, e cacciatori hebbe la caccia.
Se vide i lupi, hebbe paura d’essi
Anchor che ’l padre in loro ascoso stessi.

Fugge gli Orsi essendo Orsa, e amor la sforza
Fuggirsi al proprio albergo, ò lì vicino.
Misera dove vai? ragione, e forza
Ti toglie il tuo per l’empio tuo destino.
Non può la mente tua sotto tal scorza
Tenerne più possesso, ne domino:
Che la legge del mondo no’l comporta
Che sei fatta una fera, e t’hà per morta.

Quanto infelice sei, se ben ci pensi,
Tu vergine, e compagna di Diana
Sei per sfogar gli altrui sfrenati sensi,
Dal suo tempio fatt’essule, e profana.
Quanti huomini hai col tuo bel viso accensi,
Et hor non hai pur la sembianza humana.
Tu vedi il tuo bel regno, e ’l tuo potere,
Ne ’l puoi più dominar, ne possedere.

Giovane, e nobil ne le caccie altera
Ferir’ osasti ogni animal feroce,
Et hor, che sei sì valorosa fera
Ogni vil’ animal ti caccia, e noce.
Deh mostra lor la faccia horrenda, e fera,
Fa loro udir la tua tremenda voce.
Le forze, il morso, e l’unghie tue son tali,
Che non hai da temer gli altri animali.

Ó sfortunata, abbandonata, e priva
D’ogni commercio, perche fuggi gli Orsi ?
De la lor specie sei, lor non sei schiva,
Non dei temere i lor graffi, i lor morsi.
Quanto meglio saria non esser viva,
Ch’ad animal sì brutto sottoporsi.
Pur per men mal, d’andar con loro eleggi,
E i lor costumi impara, e le lor leggi.

Figlia del Re d’Arcadia, che potevi
Fra tanti Regi eleggerti un consorte,
Ahi quanto, quanto credo, che t’aggrevi
Sopporti à un’ animal di sì vil sorte.
Fallo scontenta, fa, che farlo devi,
Mentre non ha di te pietà la morte.
Per l’huom deforme sei, stuprata, e fella,
Ma gli Orsi almen t’havran per buona, e bella.

Io veggo, io veggo ben, come tu piagni
Levata in piè, stendendo al ciel le braccia.
Col batter zampa à zampa ancho accompagni
Il suon, che ’l gozzo rauco fuor discaccia.
Oime non ti graffiar, vedi che bagni
Del sangue tuo la tua ferina faccia,
Che l’unghia è troppo aguzza, e fora, e fende,
Quella solo usar dei, s’altri t’offende.

Arcade, il figlio, che già fe Calisto,
(Così havea nome) del Rettor superno
Fra le stagion de l’anno havea già visto
Quindici volte esser signore il verno;
E l’Orsa in quello stato infame, e tristo
Havea vagato il bel regno paterno,
Insidiata, e piena d’ogni male
Senza tor compagnia d’altro animale.

Cacciando per le selve d’Erimanto
Arcade, e ricercando ogni pendice,
Con cani, e reti, e con cento altri à canto,
S’incontrò ne l’ignota genitrice.
Come ei la vede, si ritira alquanto,
Ma non si ritirò quella infelice,
Ma come ben riconoscesse il figlio,
Tenne in lui fermo il trasformato ciglio.

Ei, che s’accorge, ch’à lui sol pon mente,
Teme di qualche mal, se non s’aita;
Lo strale, e l’arco incontra immantinente.
E pensa darle una mortal ferita.
Che farai scelerato, e sconoscente
Darai la morte à chi ti diè la vita?
Provedi al paricidio ò sommo padre,
Se non tuo figlio ucciderà sua madre.

Per vetar Giove, ch’Arcade non faccia
Quel maleficio, al quale il vede intento,
Gli cangia in un momento e sesso, e faccia,
Fallo un’altra Orsa, e fa levare un vento,
Ch’ambe le leva in aria, e via le caccia
Verso Boote assiderato, e lento,
E tanto le portò per l’aria à volo,
Ch’ in ciel le collocò vicine al polo.

Là dove poi la lor rugosa pelle
Si fece un manto chiaro, e trasparente,
E si fer tutte le lor membra stelle.
Questa è men grande, e quella è più lucente,
Hor l’Orse son del ciel lucide, e belle,
Et Orse anchor son dette da la gente,
E per l’Orsa minor la madre è nota,
L’altra è maggior, che fa più larga rota.

Ahi come si gonfiò d’ira, e di sdegno
Giunon, visto colei splender nel cielo,
Et esser fatta del celeste regno
Senza l’ hirsuto, e ruginoso pelo.
Come se n’alterò, come fe segno
Del novo nato al cor timore, e gelo.
Come andò tosto à scoprir le sue voglie
Al canuto Oceano, et à la moglie.

Io sò, c’havete di saper desio
Disse, perch’io così passeggio l’onda,
Altri nel ciel possiede il loco mio,
Più grata al mio marito, e più gioconda,
E vederete ben, che non mento io,
Tosto, che ’l Sol la sua luce nasconda,
Se in ciel ver Borea drizzate lo sguardo
Nel cerchio, ch’è più picciolo, e più tardo.

Chi fia per l’avenir, che non m’offenda?
Chi, che mi tema più per quel, ch’io vedo?
Come nel mondo il mio poter s’intenda,
Ch’allhora io giovo, che d’offender credo,
Da me tal pena ogni nocente attenda,
Questa è la gran possanza, ch’ io possiedo,
Per nocer toglio altrui l’humana veste,
E giovo, e folla divenir celeste.

Perche non rende à lei l’antica faccia,
Come à la figlia d’ Inaco fe Giove?
Perche dal letto mio me non discaccia?
Non fa divortio, e non mi manda altrove?
Perche nel letto mio poi non abbraccia
Le bellezze per lui sì rare, e nove?
Che non la sposa oltre il commesso strupo,
E per socero suo non sceglie un lupo?

Hor voi, se l’honor mio punto vi preme,
Voi mia nutrice, e tutti i Dei del mare,
Le sette stelle, che vedrete insieme
Fra ’l polo, e ’l circulo artico girare,
Che fan quell’Orsa, che nacque del seme
D’un lupo, non lasciate in mar tuffare,
Ch’ al vostro puro mar lavar non lice
Una stuprata, et una meretrice.

Gli amici Dei del mar tutti fer segno
Di volerle osservar quanto chiedea,
Onde tornossi al suo celeste regno
L’anchor gelosa, e vendicata Dea
Nel carro suo tornò nobile, e degno,
Che più, che mai superbo risplendea,
Poi, che la morte d’Argo, e ’l suo gran lume
Fece sì belle al suo pavon le piume.

Con diligenza, e tacito il pavone
À servir la sua Dea contento attese.
E quando venne poi l’occasione,
Vedete il guiderdon, che glie ne rese.
Imita Henrico invitto hoggi Giunone,
Et Alessandro il mio Signor Farnese,
Che chi con lealtà ben serve loro,
N’acquista honori, e dignitadi, et oro.

Talhor del ben servir s’hebbe buon merto,
Mai se non mal del mal servir non venne.
E può di questo ogni huom rendere esperto,
Quel, ch’al pavone, et al corvo intervenne.
Corvo loquace sai, che ’l tuo demerto
Fece altramente à te cangiar le penne,
E s’ei ne fu sì nobilmente adorno,
Tu ne portasti biasmo, infamia, e scorno.

Sempre si debbe ogni cosa coprire,
Che può portare altrui noia, et affanno.
Non si vuol mai ne rapportar, ne dire
Cosa, onde nascer può scandalo, e danno.
Tu sai, che per mercè del tuo fallire,
Ti convenne vestir d’un altro panno,
E dove bianco, e grato eri, et allegro,
Sei brutto, e mesto, et odioso, e negro.

Non fu veduto mai più vago augello,
Più grato ne l’aspetto, e più benigno.
Un manto il corvo havea sì bianco, e bello,
Che non cedeva à le colombe, e al cigno,
Ma dentro il core havea crudele, e fello,
E l’animo inamabile, e maligno.
E ben il dimostrò, quando non tacque,
Cosa, onde poi tanta ruina nacque.

Tempo fu già, ch’ amava una fanciulla
Febo in Thessaglia, nata Larissea,
Che la beltà restar fatta havria nulla
Di qual si voglia in ciel superba Dea.
La vede il corvo un dì, che si trastulla
Con altro amante, e che ad Apollo è rea,
E và per accusar l’ingrata, e fella,
Che per nome Coronide s’appella.

Il corvo se ne va veloce, e presto,
Per accusar la donna, e non discorre
Se bene, ò male è per uscir di questo,
Ne in che periglio egli si vada à porre.
Di servire il padrone è bene honesto,
Ma non però dirgli ogni cosa occorre.
Hor mentre andava, il vide la cornacchia,
Che sempre volontier ragiona, e gracchia.

Ella, che ’l vede leggier come un vento
Con tanto studio il suo camin spacciare,
Subito prese indicio, et argomento,
Che qualche gran negotio andasse à fare.
È de le donne universale intento
Volere i fatti altrui sempre spiare,
Ond’ella per servare il lor costume,
Fè sì, ch’al corvo fe raccor le piume.

Dopo molto pregar trovato un faggio
Fermollo, dove il suo pensier intese.
Mal fia, disse, per te questo viaggio
Corvo, se questo error tu fai palese.
Perche ne buon non si può dir, ne saggio,
Quel, che procura scandali, e contese.
Non sò, perche dir vogli un fatto tale,
Che non ne può succeder se non male.

Per quel, che da i più savij odo, et osservo,
(Cosa prima da me mal custodita)
Se ben tu sei d’Apollo augello, e servo,
Non però dei scoprir l’altrui partita:
Tenuto sei, se qualche empio, e protervo
Gli machina nel regno, ò ne la vita;
Poche altre cose un buon servo dè dire,
E molte men se mal ne puote uscire.

Ó quanti quanti per l’ inique corti
Pensando d’acquistar benevolenza,
E per mostrar d’esser sagaci, e accorti
Parlando in danno altrui sempre in absenza,
Imparan poi quel, che il lor dir importi,
Che n’ hanno universal malevolenza,
E ne restan scherniti, e vilipesi,
E ben tu ’l proverai, se ciò palesi.

E se conoscer vuoi, che non sta bene,
E che senza alcun dubbio erra colui,
Che dice più di quel, che gli conviene,
Ricerca quel, ch’ io sono, e quel ch’ io fui;
E ’l mal intenderai, c’hor me ne viene,
Per voler troppo esser fedele altrui,
Ch’esser dovrei norma, et essempio à molti,
Sì come intenderai, se tu m’ascolti.

Quando i Giganti mosser guerra à Giove,
Giove con l’ordinarie sue saette
Parve, che ’ndarno fulminasse, dove
Fatta la scala havean, che salda stette.
Vulcano allhor certe saette nove
Formò per questo fin proprie, e perfette,
Ch’addosso à quei mandar l’alto edificio,
E diero al fallo lor degno supplicio.

Giove per premio di sì raro aiuto
Promise al Fabro dar ciò, che chiedea.
Egli, che se ben zoppo era, e canuto,
De l’amor tutto di Minerva ardea,
Gli disse, che per moglie havria voluto
La casta, e saggia, e bellicosa Dea.
Giove, che n’havea fatto giuramento
Disse, ch’ in quanto à lui n’era contento.

Vulcano allegro Pallade ritrova,
L’abbraccia, e vuol baciarla come moglie.
Ella, à cui questo par cosa assai nova,
Contrasta acerbamente à le sue voglie.
Lussurioso il vecchio usa ogni prova.
Ella lo scaccia, ei da lei non si scioglie.
Al fin con tal fervor con lei s’afferra,
Che sparge per dolcezza il seme in terra.

Pur conoscendo al fin, ch’ella nol degna
Scornato il Fabro, altrove s’ incamina;
Ma del suo seme poi la terra pregna
Parturì ’l danno mio, la mia ruina:
Fece un figliuol, c’havea nobile, e degna
La faccia, e ’l busto, infin dove confina
Col nodo de le cosce, e ’l resto tutto
Fù di serpente spaventoso, e brutto.

Pallade quel fanciullo avolse tosto
Fra tela, e panno, e in una cesta il pose,
E pensò farlo nutrir di nascosto,
Per non iscoprir mai sì brutte cose.
Diè la cesta à tre vergini in deposto,
Ma, che non la scoprisser, loro impose.
Queste donzelle, in guardia al mostro date
Del re d’Athene Cecrope eran nate.

Sopra un’olmo io mi sto fra fronda, e fronda
Guardando hor questa, hor quell’altra fanciulla.
Ne la prima non fa, ne la seconda
La legge di Minerva irrita, e nulla.
La terza una, e due volte, e tre circonda
La mal fidata, e mostruosa culla.
Chiama al fin l’altre, e scopre, e mostra, e vede
Il volto humano, e ’l serpentino piede.

À Pallade io riporto tutto ’l fatto,
Sperando al ben servir condegno merto,
Come servar Pandroso, et Herse il patto,
C’havean lasciato il parto star coperto,
Ma ben, ch’Aglauro havea rotto il contratto,
Ne sol per se quel cesto havea scoperto,
Ma c’haveva à quell’altre anchor mostrato
Quel mostro, ch’ Eritthonio era nomato.

Dir non mi curo, come s’allevasse
Quel figlio, e come poi fu sì prudente,
Che ’l primo fu, che ’l carro immaginasse,
Cosa di tanto commodo à la gente;
Ne come sempre poi su’l carro andasse
Per nascondere i piedi del serpente,
Che ’l finse far per pompa, e per grandezza,
E ’l facea per coprir la sua bruttezza.

Ne men dirò, come Giove allettato
Dal suo sottile, et elevato ingegno,
C’havesse il Sol sì ben solo imitato,
Nel ciel d’un novo lume il fece degno;
Ne come tutto in stelle trasformato
Si fe l’Auriga del celeste regno,
Che ’l fan tredici stelle, e intorno à loro
Con Perseo han per confin Gemini, e ’l Toro.

Ma ben dirò, che per la lingua mia,
Per accusar chi mal la legge osserva;
Io ne fui detta novelliera, e spia,
E tolta da la guardia di Minerva.
E dove io l’era serva, e compagnia,
Tolse in mio luogo altra compagna, e serva.
E questo m’è piu stimolo, e flagello,
Ch’io son posposta ad un notturno augello.

Dovrebbe far la mia disgratia accorto
Ogni altro augel di quanto noce il dire,
E quanto merta biasmo, e quanto ha torto
Quel, che i delitti altrui cerca scoprire.
Tu vedi ben la pena, ch’ io ne porto,
Priva del grado mio, del mio servire,
Che già m’hebbe sì grata, e mi diè nome
Di sua compagna, e vò narrarti come.

Di Coroneo di Focide fui figlia,
Oime, ch’io rinovello il mio dolore,
Vergine, regia, e bella à maraviglia,
E già fei molti Re servi d’Amore.
Mio nome al nome di colei simiglia,
Che cerchi d’accusare al tuo signore.
Gia de la mia beltà molti Re presi
Per moglie mi bramar, ma non v’attesi.

Perche le voglie mie pudiche, e monde
Fean resistenza, come à l’acque un scoglio.
Andando un dì per l’arenose sponde
Del mar con lenti passi, come io soglio,
Arder feci Nettuno in mezzo à l’onde,
Si come lampad’arde in mezzo à l’oglio;
Ne il mar suo tutto potè spegner dramma,
De l’accesa da me nel suo cor fiamma.

D’amor costretto al fin del mare uscito,
Ó Dio, che lusinghevoli parole
Mi disse. O donna, c’hoggi il cor ferito
M’hai con le tue bellezze al mondo sole,
Donna, che col tuo sguardo almo, e gradito
Pareggi, e passi il lampeggiar del Sole,
Non fuggir, ma quel Dio gradir ti piaccia,
Il cui gran regno tutto ’l mondo abbraccia.

Quel Dio Signor di quel degno elemento
À; cui ciascun de gli elementi cede,
Se la terra io sommergo à mio talento,
Pirra, e Deucalion ne faran fede,
Temendo non restare in foco spento,
Fuggito è ne la più suprema sede,
Da l’aer puoi veder s’ io son temuto,
Ch’ogni giorno ho da lui censo, e tributo.

Perche ne le caverne de la terra,
Ne le spelonche, c’ ha questo, e quel monte,
L’aer, che dentro si rinchiude, e serra,
Si gela, e sface, e forma il fiume, e ’l fonte,
Per li porosi lochi entra sotterra
Novo aer’ à perder la primiera fronte,
Dove vien se medesimo à trasformare,
Per dar tributo al mio superbo mare.

Io di ricchezze tanto, e tanto abondo
D’argento, e d’oro, e pietre pretiose,
Che quante ne fur mai per tutto ’l mondo
Si trovan tutte nel mio regno ascose,
Nel mar stà il mio palazzo più profondo,
Dove si veggon le più rare cose,
Rubini, oro, e diamanti già sommersi
Di Latini, di Greci, Arabi, e Persi.

Signor son de’ coralli, e de le perle,
Et acquisto ogni dì ricchezze nove,
E se ti piace venir’ à vederle,
Cose vedrai, che non hai viste altrove.
Per tutto aprir ti farò l’acque per le
Strade del mar, fin che tu giunga dove,
Sta ’l mio tesor, ch’è tutto a’ piacer tuoi
Per te, per li parenti, e per chi vuoi.

Ei non restava di seguir dicendo,
Io fuggir con destrezza havrei voluto,
Al fin l’innamorato Dio vedendo,
Ch’era il parlar con me tempo perduto,
Si prepara à la forza, il corso io stendo,
E gli huomini, e gli Dei chiamo in aiuto,
Minerva sola al mio pregar voltosse,
E vergine per vergine si mosse.

Levar la cuffia, e i crin stracciar di testa
Volendo, empio le man di nera penna,
La cuffia già s’impiuma, e già s’innesta,
E fa radice ne la mia cotenna.
Io cerco alleggerirmi de la vesta,
Ma quella anchora in me s’ incarna, e impenna,
Graffiar volsi le parti ignude, e belle,
Ma ne man non trovai, ne nuda pelle.

Correva à più poter per liberarmi,
Ne ’l piè posava in terra come prima,
Ma in aria dal desio sentia levarmi,
Ne de lo Dio del mar facea più stima,
Più non temea, che potesse arrivarmi,
Ne guadagnar di me la spoglia opima,
Poi, perche à l’honestà fui sempre serva.
Io fui fatta compagna di Minerva.

Ó sfortunata, e che mi giova hor questo?
Poi ch’ ogni mio favor restato è vano ?
Che dal dì, che l’error fei manifesto
Di chi scoperse il Dragon di Vulcano,
Nettimene, c’ havea commesso incesto,
E fatto un novo augel notturno, e strano,
Ch’ in Lesbo nacque già del Re Nitteo
Pallade in loco mio sua serva feo.

Ó Dio, che veggo? e chi m’è preferita?
Una, che de l’amor del padre accesa,
Fù tanto scelerata, e tanto ardita,
Et hebbe tanto à ciò la voglia intesa,
Ch’ à lato al padre à mezza notte gita,
Dal padre suo fù per la moglie presa:
Ma scopertosi il fallo, acceso il lume,
Fuggir volendo si vestì di piume.

Un manto di Civetta la coperse,
Ch’inditio hor fa di suo peccato, e scorno,
La luce ha in odio, perche la scoperse,
E non ardisce comparir di giorno,
Di giorno non bisogna, che converse,
Che tutti gli altri augei le vanno intorno,
E perche sanno il suo peccato atroce,
Ogni augel, più che può, l’offende, e noce.

Hor la Civetta, perche serve, e tace,
Pose nel loco mio, me scacciò via,
Dicendo, ch’era garrula, e loquace
Et oltr’à ciò rapportatrice, e spia.
Si che corvo non esser pertinace,
Non sprezzar l’arte, e la dottrina mia,
Non accusar colei, ch’io ti predico,
Che te n’ averrà peggio, ch’io non dico.

Sorride il corvo udendo la cornacchia,
Che fa profession d’indovinare,
E dice, à posta tua cicala, e gracchia,
Ch’io non stimo il tuo augurio, e ’l tuo gracchiare.
Da l’arbor, dove sta, tosto si smacchia,
S’affretta, e giunge al fin del suo volare:
Trova il padrone, e gli racconta, e dice
Quel, che gli havea vetato la Cornice.

Ahi come à l’ intelletto il lume ammorza
La gelosia, e l’huom fa cieco, e stolto.
Già Febo offesa ha l’anima, e la scorza;
Gli trema il cor, gl’impallidisce il volto.
Lascia il plettro cader, perde la forza.
Gli cade il lauro intorno al capo involto.
Con l’arme usate, ove il furore il guida,
Corre, e ritrova al fin l’amica infida.

L’arco nel pugno suo sinistro prende,
Con la destra lo stral nel nervo incocca,
Poi la saetta, l’arco, e l’occhio tende,
Tanto, che la sinistra il ferro tocca,
Apre la destra, e ’l nervo si distende,
L’arco si fa men curvo, e ’l dardo scocca,
Ch’à ferir dritto sibilando aspira
Là, dove l’occhio havea presa la mira.

La misera fanciulla, che si vede
Ferir dal primo amante, stride, e langue;
Si trahe dal petto il ferro, che la fiede,
E tinge il bianco corpo del suo sangue:
Poi disse, il corpo mio senza mercede
Febo potevi far restare essangue,
Ma pria lasciarmi parturir, perc’hora
Uccidi meco un tuo figliuolo anchora.

Quei fere, e quella con l’audace palma
Si toglie l’empie freccie da la vita.
Al fin si scioglie da quel nodo l’alma,
A cui sì breve tempo è stata unita.
De la già bianca, et hor purpurea salma
Tinta da più d’una mortal ferita
Si scarca l’alma, e’l corpo un freddo opprime,
Che ne la faccia sua la morte imprime.

S’accorge tardi del suo crudo eccesso
Il rigoroso arcier quando non giova:
E che tanto s’irasse, odia se stesso,
Odia l’augel, che gli portò la nova,
Odia l’arco, lo stral, la mano, e spesso
La tocca, e pur di rivocar fa prova
Lo spirto, che dimora in altra parte,
Oprando in van la medicina, e l’arte.

Ma poi, ch’apparecchiar vede la pira
Per arder il bel corpo di colei,
Ch’egli uccisa s’havea, geme, e sospira,
Più di quel, che conviensi à i sommi Dei.
Come giuvenca, che ’l vitello mira,
Ch’anchora il latte suol poppar da lei,
In terra andar da l’empia mazza morto,
Mugge, e si duol del figlio ucciso à torto.

Le diede Apollo al fin gl’ingrati odori,
E poi, che in braccio più volte l’accolse,
E fe l’ingiuste essequie à i morti amori,
Ch’ardesse il seme suo, patir non volse,
Trasse del corpo dell’estinta fuori
L’anchor vivo fanciullo, e in braccio il tolse,
E quindi il trasportò poi, che partissi,
À te saggio Chiron, perche ’l nutrissi.

Sperava il corvo guiderdone, e merto
Del vero suo, ma scandoloso aviso,
Ma d’un nero mantel ne fu coperto,
Per satisfare in parte al corpo ucciso.
Maledico, loquace, fatti esperto,
Se in mal non vuoi cangiar mantello, e viso:
S’in giudicio non sei per forza astretto,
Non iscoprir già mai l’altrui difetto.

Chiron, che del figliuol preso havea cura,
Ch’uscì fuor vivo d’un corpo funesto,
Fù sol virile insino à la cintura,
Tutto era forma di cavallo il resto.
Fù figliuol di Saturno, e la natura
Fe, ch’ei nascesse gemino per questo.
Saturno amò già Filira, che nacque
De l’Oceano, al fin con lei si giacque.

Un dì perche la sua moglie, e sorella,
Che ve’l trovò, non comprendesse il fallo,
Prese à bel studio una forma novella,
E si fece di subito un cavallo.
Gravida lasciò poi la Ninfa bella,
Onde nacque Chiron semicavallo,
Che l’ignobil sua parte inferiore
Trasse dal trasformato genitore.

Questi con studio di nutrir godea
Sì degna prole fra la sua famiglia,
E de l’honor, che giunto al peso havea
Vivea contento, e lieto à maraviglia.
Più cura una donzella ne tenea,
Ch’era indovina, e del Centauro figlia,
Che sapea, che quel parto almo, e giocondo
Salute esser dovea di tutto il mondo.

In Frigia già ne l’honorate sponde
Del furioso, e rapido Caico
D’una Naiade nacque di quell’onde
Questa indovina Vergine, ch’io dico.
Chiamossi Ocira, et hebbe sì seconde
Le stelle al suo natale, e ’l ciel sì amico,
Che profetò gli altissimi decreti,
Che in mente de gli Dei stavan secreti.

Tutta infiammare un dì la fata Ocira
Si sente da lo Dio, c’ha chiuso in petto,
Rivolge gli occhi al dolce infante, e ’l mira
Scapigliata, et horribil ne l’aspetto,
Indi secondo il suo furor l’inspira,
Scioglie la lingua à quel, che le vien detto,
Cresci fanciul, la cui somma virtute
Di te gloria sarà, d’altrui salute.

Alma gentil, più che mai fosse in terra
Accetta, salutifera, e gradita,
Tu l’alma (se dal corpo si disserra)
Tornar por tra i di novo al corpo unita,
Tu sol saprai trar l’anima sotterra,
Donando al corpo sì stupenda aita,
Ma ti torrà da sì mirande prove
Lo stral de l’avo tuo paterno Giove.

E d’immortal diventerai mortale,
Di mortal morto, e poi di morto Dio,
Onde più volte il tuo destin fatale,
Così rinoverai, com’hor dico io.
Così dicea la donna spiritale
Al picciolo fanciul, ne qui finio,
Ma rivolse il profetico furore
Al biforme, et attento genitore.

E tu, nato immortal padre, che gli anni
Pensi, che non ti debbian mancar mai,
Voglio, che da me sappi, che t’inganni,
E vo dirti una cosa, che non sai,
In questa grotta, in questi stessi scanni
Un tuo nipote un dì seder vedrai
Figlio d’un tuo fratel, c’havendo un mostro
Ucciso, albergherai nel tetto nostro.

Le venenose sue freccie mirando,
Che del valor di lui ti faran fede,
E le qualità sue considerando,
Caderanne una, e feriratti un piede:
E nove giorni un gran dolor provando,
Non cesserai di dimandar mercede,
E pregherai, che d’ immortal gli Dei
Ti facciano mortal, dove hor non sei.

Onde mossi à pietade essi vorranno,
Che tronchino il tuo fil le tre sorelle.
De i fatti Ocira, che sol gli Dei sanno,
Havea da dir mill’altre cose belle,
E forse, che gli Dei trasformeranno
Le sue membra biforme in tante stelle,
Che somigliando il già terrestre velo,
Faran, che splenderà Centauro in cielo.

Ma tosto lasciò star l’infante, e lui,
Da maggior cura la Vergine oppressa,
E non curando ragionar d’altrui,
Volse il suo profetar tutto à se stessa,
Ahi lassa Ocira, et indovina fui,
Ma veggo ben, che non sarò più dessa,
Soggiunge poi mirando il padre fiso
Spargendo amare lagrime dal viso.

Dolce genitor mio ferma le ciglia
Ben fise in me, se mai cara m’havesti,
Godi con gli occhi la tua mesta figlia,
Pria che perda la forma, che le desti,
Frati, e sorelle, e mia dolce famiglia,
Dolce antro, dolci foschi, e dolci vesti,
Godetevi quel poco, che si puote
L’humana forma mia, l’humane note.

Felice me, troppo felice, s’io
Non havessi saputi i gran secreti,
De l’alta mente de l’eterno Dio,
Ne men scoperti i suoi santi decreti,
Non perderei l’humano aspetto mio,
E vedrei tutti voi contenti, e lieti,
C’hor con faccia vedrò turbata, e mesta,
Mentre pascendo andrò per la foresta.

Già s’incomincia la mia sorte acerba,
Già perdo il mio bel volto, à voi sì grato,
Già più m’aggrada, e m’appetisce l’herba,
Che qual si voglia cibo più pregiato,
Già capricciosa, indomita, e superba,
Scorrer vorrei per ampio, e verde prato,
Già prendo (e servo sol l’humana mente)
La cavallina forma mia parente.

Servassi almen l’huomo al cavallo unito,
Già mio padre ha viril l’aspetto, e ’l dire.
Quest’ultimo parlar mal fu sentito,
Che no’l pote distinto proferire,
Dapoi non fu ne parlar, ne nitrito,
Ma parve un, che fingesse di nitrire,
Di novo si provò, ne passo guari,
Che hinniti mandò fuor, spediti, e chiari.

Star si sforza in due piedi, et usa ogn’arte,
Per voler esser donna, e non le giova,
Ma trasformar si sente à parte, à parte,
Già l’una, e l’altra man la terra trova,
Si congiungon le dita, e non si parte
Più l’un da l’altro, ch’un’altra unghia nova
La lega, unisce, e cerchia intorno intorno,
Ch’è nera, e soda, e quasi à par d’un corno.

S’allarga il capo verso la cervice.
Si stringe ove si prende il cibo, e ’l fiato,
Per lo giogo del collo fan radice
Gli sparsi crini, e van dal destro lato.
Non men la veste misera, e infelice
Cangiò contra sua voglia il primo stato.
Sì fe cuoio col pelo, indi incarnossi,
Ben ch’ una parte in coda trasformossi.

Il misero Chiron piangendo forte,
C’haver la figlia si vedea smarrita,
Del suo destin doleasi, e de la sorte,
Che tanto tempo il sostenesse in vita.
Chiamava tutta la celeste corte,
Ma più, ch’ad altri, dimandava aita
À Febo, onde attendea fidel consiglio,
Per haver dato al mal cagione il figlio.

Meraviglia non è, se non soccorre,
Apollo il suo Chirone, e non si move,
Ch’oltre, che contrastar non può, ne porre
Le man dove sententia il sommo Giove,
Non può manco pregar Giove, che torre
Voglia le membra à lei ferine, e nove,
Che ’l suo crudele, e temerario telo
L’ha posto hoggi in disgratia à tutto il cielo.

Chiron non aspettar da Febo aiuto,
Che privo è del primier divin honore,
E gliè caso sì misero accaduto,
Per stimar poco il suo padre, e signore,
Col folgor Giove havea morto abbatuto
Un, che d’Apollo fu l’anima, e ’l core,
Un, che Febo amò già più che se stesso,
Ma non è tempo à dir chi fosse adesso.

D’ira troppo profana Apollo acceso,
Che non può contra Giove vendicarsi,
Da i Ciclopi, che fer quel dardo, offeso
Si tiene, e contra lor pensa sfogarsi.
Gli strali immantinente, e l’arco preso,
Trova i Ciclopi affumicati, et arsi;
Nel primo che trovò, la mira prese,
E la saetta, l’occhio, e l’arco tese.

Una man preme l’arco à più potere,
E l’altra tira il nervo, e non s’accorda,
Anzi par, che ambe diano in un parere
Di romper l’arco, ò scavezzar la corda;
Scocca l’arco, ei sta fermo per vedere
Volar la freccia di ferire ingorda,
E la vista da lei mai non disgiunge,
Che vuol veder come obedisce, e punge.

Veduto il primo strale obediente,
Ch’al primo, che trovò, passò la fronte,
Ne scocca un’ altro, e manda similmente
Un’ altro à la barchetta di Caronte;
Et odia sì quell’affumata gente,
Che non vi lascia Sterope, ne Bronte,
Sdegnato Giove, e tutto il suo consiglio,
Per un tempo gli dier dal cielo essiglio.

Sì che Chiron tu preghi senza frutto,
Ch’altrove egli ha il pensier selvaggio intento.
Sbandito egli dal ciel s’era ridutto
Pastor d’Ameto à guardia del suo armento,
Dove deposta ogn’altra cura in tutto,
Menava i giorni suoi lieto, e contento,
E fu sì saggio, temperato, e forte,
Che visse lieto in così bassa sorte.

Con una pelle da pastore intorno,
Con un grosso baston d’olivo in mano,
Se’n va lungo l’Anfriso, ò in quel contorno,
E quando pasce il monte, e quando il piano.
Passa talhor con la sampogna il giorno,
come conviensi al suo stato silvano;
Dando spirto hor à questi, hor à quei fori
Canta i novelli suoi più rozzi amori.

Felici quei, che son così prudenti,
Che san col tempo accommodar la vita.
Hor mentre Febo i suoi soavi accenti
Gusta, e ’l suo dolce suon l’alletta, e invita,
Ha sì gli spirti al suo cantare intenti,
Che gli è la guardia sua di mente uscita,
Tanto, che i buoi da lui fuggiti, e sparsi
Stavan senza custodia à pascolarsi.

L’acorto Dio de’ furti à caso scorge,
Ch’Apollo è intento à disnodar le crome,
E perche ’l ciel l’ha in odio, al furto porge
La man per gravar lui di doppie some,
I buoi gl’invola, e sol di ciò s’accorge
Un canuto pastor, che Batto ha nome.
Questi pascea fra Pilo, e ’l lito Alfeo
L’armento martial del Re Neleo.

I buoi Mercurio imbosca, indi si parte,
Et al bosco, et à i buoi volta le spalle;
Ritrova Batto, e tiratol da parte
(Disse) qual tu ti sia, che in questa valle
Guardi una razza per l’uso di Marte
Di sì superbe, e nobili cavalle,
S’habbi ogn’honor dal ciel, quel, c’hai veduto,
Serba dentro al tuo cor nascosto e muto.

E per farti conoscer, ch’io compasso,
E ch’io misuro ben l’altrui mercede,
Questa giuvenca candida ti lasso,
In premio, e guiderdon de la tua fede.
Rispose Batto, e dimostrando un sasso
Prima dirà le tue bovine prede
Quell’atra selce, inanimata, e dura,
Che quel pastor, c’hor ti promette, e giura.

Il messaggier di Giove per far prova
S’egli è per osservare il giuramento,
Si parte, e si trasforma, e torna, e trova,
Quel, che del don bovin lasciò contento,
E con grand’arte gli dimanda nova
Del pur dianzi da lui rubato armento,
Se tu mi fai pastor del furto certo,
Un toro, et una vacca havrai per merto.

Il buon pastor, che raddoppiarsi udio
Il premio di colui, che il furto scopre,
(Disse) in quei monti più silvosi, ch’io
T’addito, il gregge tuo s’asconde, e cuopre,
Quivi starà, fin che ’l notturno oblio
Ne’ fantastichi sogni il senso adopre,
Ma come al sonno ogn’un la notte chiame,
Darà la preda al suo paese infame.

Rise Mercurio, e disse, ahi mancatore
Di fe, questo è ’l silentio, c’ hai promesso,
Che non credendo me l’ involatore,
Hai me medesmo accusato à me stesso.
E tratto il primo suo sembiante fuore,
Disse; Guarda, e conosci, s’ io son desso,
Dicesti, che ’l direbbe un sasso pria,
Ma non vo, c’habbi detta la bugia.

Nero il fa divenir, qual è un carbone,
E sì l’ indura poi, ch’un sasso fallo.
Quel sasso il fa, che chiamiam paragone,
Che vero saggio dà d’ogni metallo.
Là dove poi mutò conditione,
Nessun poi tradì più, non fe più fallo,
Disse poi sempre il ver, per quel ch’io veggio,
Per non si trasformar di male in peggio.

Lasciato Apollo il suono, l’occhio porge
Dove il gregge pascea, ne vede i buoi,
Dal luogo, ove sedea, subito sorge,
E cerca prima tutti i paschi suoi,
Cerca poscia gli strani, e nulla scorge,
Ben che il tutto trovò poco dapoi.
Seppe il ladro chi fosse, e dove stesse,
Ma non so ritrovar chi gliel dicesse.

Il corvo non fu già, c’havea giurato
Nova non dar mai più buona, ne rea,
Poi che ’l bianco mantel gli fu cangiato,
Per quella donna, ch’accusata havea,
Et oltre à questo, Appollo havea lasciato,
Perche sbandito, e misero il vedea.
Che ogni vil servo, perche non n’acquista,
Lascia il padron ne la fortuna trista.

Se ben Febo di Dio fatto è pastore,
Non però s’è scordato il trar de l’arco,
Anchor ch’un cappio del nervo habbia fuore
De la sua cocca, e stia disteso, e scarco,
Ma già l’ incurva con rabbia, e furore
E tira il nervo in sù, fin che l’ ha carco:
Trova Mercurio, e in lui drizza lo sguardo,
E tende l’occhio, la balestra, e ’l dardo.

Sì cruda voglia di ferir l’assale,
Che gli fa nel tirar perder la mira,
E manda alquanto à man destra lo strale,
Ond’egli da man manca si ritira,
E par, che dica al dardo, che fa male,
Se non si drizza ov’egli accenna, e mira.
Ma dove ei si drizzò, d’andar non resta,
Per cenni de la mano, ò de la testa.

Veduto il primo colpo senza effetto,
À l’arcier novo dardo inviar parve.
Ma Mercurio cangiò subito aspetto,
E si fece invisibile, e disparve.
Come un’ aer si fe purgato, e netto,
E di lui più nulla sembianza apparve.
Io non saprei ben dir, che forma havesse,
Che non soffrì, ch’allhora altri il vedesse.

Apollo si raggira, e più non vede
L’auttor de l’altrui danno, e del suo scorno,
E gira, e move indarno l’occhio, e ’l piede,
E cerca con gran studio quel contorno,
Ben che Mercurio al fin visibil riede,
E prega, e stagli con tai mezzi intorno,
Che fan la pace, e rende il tolto armento,
E fallo d’un bel don di lui contento.

Hebbe Mercurio un perspicace ingegno,
E poco prima ritrovato havea
Un’ istrumento più dolce, e più degno
Di quel, che Apollo allhora usar solea.
Questo era un cavo, e ben disposto legno,
Che con nervi ineguali il suon rendea,
Dando un l’accento acuto, un’ altro il grave,
Faceano un suono amabile, e soave.

Per dimostrar Mercurio in qualche parte
L’animo verso Apollo amico e buono,
Gli diè questo istrumento, e insieme l’arte
Gl’insegnò, che suol far sì dolce il suono.
Questa è la cetra, ch’ à l’antiche carte
Die sì sonoro, e dilettevol tuono.
Rendè con questa Apollo esperte, et use
(Onde sì dolce poi cantar) le Muse.

Deh suona Apollo la tua cetra, suona
Mentre la Musa mia di te favella,
Dia gratia à quel, ch’ella di te ragiona,
La tua dolce armonia sonora, e bella,
Sì ch’un fiume novello d’Elicona
Tragga la nostra anchor nova favella.
Deh rendi à noi sì le tue corde amiche
Che possiamo imitar le carte antiche.

Febo un bastone havea di sua man fatto,
Dov’eran due serpenti incatenati
Con quattro, ò cinque groppi in un bell’atto
Intorno à quel bastone aviticchiati.
Ambi un cerchio facean, ma non à fatto
Verso la testa ov’erano incurvati.
E le teste guardavano à quel punto,
Ch’un semicerchio, e l’altro havrebbe giunto.

Donollo à chi già Batto fe di pietra
Lo sbandito dal Ciel novo pastore
Non più per ricompensa de la cetra,
Che, per mostrar l’ interno del suo core.
Cosi poi che perdon ciascuno impetra,
E fede acquista al rinovato amore,
Restando ogn’un del suo desio contento,
Questi al ciel si tornò, quelli à l’armento.

Mentre il messo di Giove al cielo aspira
Con l’ali, che i piè gli ornano, e le chiome,
La prudente città passando mira,
À cui Minerva diè l’oliva e ’l nome.
Porge gli occhi per tutto, e vaga, e gira,
E di tornare al ciel si scorda, come
Vede l’alme contrade ornate, e belle
Di mille vaghe, e nobili donzelle.

Era un festivo, et honorato giorno
Consacrato à Minerva, e si facea
Nel tempio suo più de l’usato adorno
Un sacrificio à la pudica Dea.
V’era concorsa ogni Vergine intorno,
E di fiori, e di frutti ogniuna havea
Un bel canestro in capo, per donare
Quel con gran pompa al suo divino altare.

Nel ritornar, che fanno honeste, e altere,
Felice è quel, che più bel luogo acquista.
Già fan gli huomini à i lati due spalliere,
Et esse in mezzo una superba lista.
Un s’alza, e l’altro spinge à più potere,
Che non vuol perder sì leggiadra vista.
Quel, c’ha già l’amor suo visto, si parte,
E corre per vederlo in altra parte.

Sì come splende sopra ogni altra stella
Quella, ch’ innanzi al giorno apparir suole,
Come la Luna appar di lei più bella,
E come d’ambe è più lucente il Sole;
Così splendeva sopra ogni donzella,
Fra tanta Virginal concorsa prole,
Herse, la figlia Regia, il cui bel volto
Ha già dal suo camin Mercurio tolto.

Lo Dio stupisce di sì bella, e vaga
Donna, ch’in mezzo à tante altre risplende,
E del bel viso suo tanto s’appaga,
Che quel piacer, che può, con gli occhi prende;
Pensa rapirla, e si raggira, e vaga,
Ma il popol, che l’è intorno, gliel contende.
Pensa di torla, e non s’arrischia, e teme,
Stà in dubbio, e ruota, e l’ intertien la speme.

Sì come quando in un’ altar foresto
Fan sacrificio i sacerdoti à Giove,
Se il Nibio vede à l’hostia il core, e ’l resto,
Onde solea spirar, ch’ anchor si move,
Più volte ruota intorno al cor funesto,
E la speranza gir nol lascia altrove,
Pur teme, onde nol prende, e via nol porta,
Quei sacerdoti, che gli fan la scorta.

Poi che nel proprio albergo si coperse
Ciascuna de le Vergini, e spariro,
E Mercurio perdè la vista d’Herse,
Ardente, più che mai crebbe il disiro,
Tosto à la terra l’animo converse,
E non si curò più d’andare in giro,
Ma per fil dritto à terra se ne venne
Battendo à più poter l’aurate penne.

Con quel furor, che caccia un raggio ardente
Il fuoco, che l’ infiamma, e ’l fa feroce,
Che venga tratto da torre eminente,
Che sibila, e vien giù ratto, e veloce:
Tal Mercurio à l’ ingiù cacciar si sente
Da quello ardor, che sì l’accende, e coce.
Giunto per comparir non si trasforma,
Tal’ è la fede, c’ ha ne la sua forma.

Se bene il suo divin sembiante è tale,
Che mirabile appar parte per parte,
Pur rassetta il cappel, rassetta l’ale,
E cerca d’aiutarsi anchor con l’arte,
Aggiusta i serpi, e fa pendere eguale
La veste; e con tal studio la comparte,
Che mostra tutto il bel del suo lavoro,
E tutto l’ornamento, e tutto l’oro.

Accommodato il suo celeste ammanto,
Al palazzo regal ratto s’invia,
Affretta il passo assai, non però tanto,
Ch’à la sua dignità biasmevol sia
Stanno in tre stanze, l’una à l’altra à canto
Le tre sorelle come in compagnia,
Con ornamento assai superbo, e quale
È condecente al lor stato regale.

Con degno, e pretioso adornamento
Pandroso ha il destro, Aglauro ha il manco lato,
L’altra più bella ha quello appartamento,
Ch’ in mezzo à l’uno, e l’altro è collocato.
Visto Mercurio Aglauro, hebbe ardimento
Di dir, che l’ informasse del suo stato,
Chi fosse, e dove andasse, e d’altre cose.
À cui l’accorto Dio così rispose.

Quel, che volando l’ imbasciate porto,
Son del gran padre mio mio padre è Giove.
L’almo viso leggiardo, c’hoggi ho scorto
Ne la sorella tua, ver lei mi move.
Qui dentro Herse mi chiama, e ti conforto,
Ch’à pormi in gratia à lei, t’adopri, e prove.
Che vedi, se ciò fai, parente, e zia
De la prole sarai celeste mia.

I cupidi occhi, onde prima scoprio
Quel, ch’ in custodia à lei Minerva diede,
Ferma nel bello innamorato Dio
Aglauro, e ben tutto il contempla, e vede,
Poi dando speme al suo caldo desio,
Tutto quel disse far, ch’ei brama, e chiede,
E dimandato un gran tesor, gli disse,
Ch’allhor le desse luogo, e si partisse.

Guardò con torto, e con crudele aspetto
Aglauro allhor la bellicosa Dea,
E tal sospir diè fuor, che tremò il petto,
E lo scudo, ch’à lui giunto tenea,
Vede, ch’oltra à l’ ingiuria, oltre al dispetto,
Ch’à scoprir quel dragon fatto l’havea,
Per prezzo scelerata, avara, e fella
Cerca vender l’honor de la sorella.

Più la sdegnata Dea non può soffrire
Costei, che sì malefica comprende,
Ne men del suo licentioso ardire,
Biasma quest’altro error, che far intende.
Per l’uno, e l’altro suo fallo punire
Verso l’afflitta Invidia il camin prende,
Che vuol che da l’ Invidia sia punita
Aglauro, troppo avara, e troppo ardita.

Una stretta, selvaggia, e scura valle
Ne la gelata Scithia si nasconde,
Fra monti, che tant’alte hanno le spalle,
Che ’l ciel la pioggia sua mai non v’infonde:
Dov’ è tanto intricato, e folto il calle
Al Sol, da spessi rami, arbori, e fronde,
Che non sol Febo mai non vi penetra,
Ma à mezzo giorno è spaventosa, e tetra.

In questa valle, nel più folto bosco
Sta cavata un grotta, assai più scura,
Che sempre ha il ciel caliginoso, e fosco,
Che tutte ha muffe le mal poste mura.
In questo infame albergo, e pien di tosco
La magra Invidia si ripara, e tura.
Quei, che son sempre seco in casa, e fuore,
Son la miseria, il dispregio, e ’l dolore.

Quivi drizzò la Dea prudente, e casta
Il suo santo vestigio, e ’l santo piede.
Giunta percote la porta con l’hasta,
E quella al primo picchio s’apre, e cede;
E, che vipera, et aspido, e cerasta
Magna l’ Invidia à la sua mensa, vede;
E, che la pascon carni di serpenti,
De’ brutti vitij suoi degni alimenti.

Non si degna la Dea dentro à la porta
Porre il suo altero, e venerabil passo,
Anzi tal vista, e l’odio, che le porta,
Le fa l’occhio tener curvato, e basso.
L’ Invidia, che la Dea de l’arme ha scorta,
Mormora, e move il piede afflitto, e lasso:
Lascia mezzo mangiate hidre, e lacerti,
E va con passi inutili, et inerti.

Come meglio la Dea superba mira
D’armi, e di ricche vesti adorna, e bella,
Dal profondo del cor geme, e sospira
Vedendo à se sì povera gonnella.
Le ciglia hirsute, mai dritte non gira,
Se guarda in questa parte, ha mira in quella,
Pallido il volto, il corpo ha macilente,
E mal disposto, e rugginoso il dente.

È tutto fele amaro il core, e ’l petto,
La lingua è infusa d’un venen, ch’ uccide.
Ciò, che l’esce di bocca, è tutto infetto:
Avelena col fiato, e mai non ride,
Se non talhor, che prende in gran diletto,
S’un per troppo dolor languisce, e stride.
L’occhio non dorme mai, ma sempre geme,
Tanto il gioir altrui l’affligge, e preme.

Allhor si strugge, si consuma, e pena,
Che felice qualchun viver comprende.
E questo è il suo supplicio, e la sua pena,
Che se non noce à lui, se stessa offende.
Sempre cerca por mal, sempre avelena
Qualche emol suo, fin che infelice il rende.
Tien per non la veder la fronte bassa
Minerva, e tosto la risolve, e lassa.

La temeraria figlia Aglauro detta
Del Re d’Athene à ritrovar n’andrai,
E l’alma sua de la tua peste infetta,
Nel modo più pestifero, che sai.
Percote l’hasta in terra, e parte in fretta,
E lascia lei ne i suoi continui guai,
Che mormora, s’affligge, e si tormenta
D’haver à far la Dea di ciò contenta.

Prende una verga in man di spini avolta,
E vola al danno altrui pronta, e veloce.
La circonda una nebbia oscura, e folta,
Che fiori, et herbe, e piante abbrucia, e coce.
Ovunque il viso suo noioso volta,
Avelena, fa nausa, infetta, e noce.
Corrompe le città, gli huomini attosca,
E fa, ch’un se medesmo non conosca.

Struggendosi l’ Invidia affretta il piede,
Giunge ad Athene, e sta mirando alquanto
Quel popol, che in ricchezza ogni altro eccede
E tutto il trova in gioco, in festa, e in canto.
Tiene à pena le lagrime, che vede,
Che cosa ivi non è degna di pianto.
Ver la casa del Re la strada piglia,
Per farlo poco lieto de la figlia.

Con le man rugginose, più, che puote,
Batte per far venir pallide, e smorte
D’Aglauro le vermiglie, e bianche gote,
Che cosi belle, e così grate ha scorte.
Con la spinosa poi verga percote
Quattro, e sei volte lei, più che può forte.
E tal virtute han la sua verga, e palma,
Che non nocendo al corpo affliggon l’alma.

Mentre l’afflitta Invidia, e dispietata
À più poter la misera fagella,
Fa, che nel suo pensier contempla, e guata
L’imagin di quel Dio leggiarda, e bella;
Le pone innanzi à gli occhi fortunata
Sopra d’ogni altra donna la sorella,
Che sfogherà l’amoroso desio
Con così vago, e così bello Dio.

Poi che di fiato putrido, e veneno
Ha l’infelice Aglauro infetta, e guasta
L’ Invidia, e vede aver servito à pieno
La bellicosa Dea, prudente e casta,
Ritorna à l’antro suo di serpi pieno,
À pascer nova vipera, e cerasta,
E lascia Aglauro à tutto invidiosa,
Ch’ Herse à sì bello Dio si faccia sposa.

Giorno e notte s’affligge, e si tormenta,
E c’habbia tanto ben, le scoppia il core,
Ma dice pian perch’altri non la senta,
E sfoga sotto voce il suo dolore.
Come una pira, che non sia ben spenta,
Ch’arde di dentro, e non appar di fuore,
Essala, e sfoga in qualche parte, e fuma,
E dentro à poco à poco si consuma.

Ó quante volte invidiosa, e trista
Pensò di propria man darsi la morte,
Più tosto che patir, che la sua vista
Vedesse la sorella in sì gran sorte.
S’affligge, si rammarica, e s’attrista,
Che vede ch’ella è più stimata in corte.
Si duol, c’habbia tal gratia, habbia tal faccia,
Ch’à tutti più di lei sia grata, e piaccia.

E quanto più ci pensa, più s’accora,
Che membra habbia à goder tanto leggiadre.
E non men l’avelena, e l’addolora,
Che di figli d’un Dio debbia esser madre,
E vuol più tosto procacciar che mora,
E dire il tutto al lor rigido padre.
Sù l’uscio al fin di lei trista soggiorna,
Per discacciar Mercurio, se ritorna.

Mercurio, come saggio il tempo apposta,
Che sola Herse si stia ne la sua stanza,
E vien con gran tesor per la risposta,
Pien di felicità, pien di speranza.
Aglauro come vede, ch’ei s’accosta,
Con villana, e non solita creanza
Lo scaccia, e mostra farne poca stima,
E più non l’accarezza come prima.

Allhora il cauto Dio pien di malitia
Scopre il tesor, ch’ ella gli chiese, e ’l mostra;
Come ella il vede, aggiunge al cor tristitia,
Che in lei l’Invidia, e l’Avaritia giostra.
Al fin forza è, che perda l’Avaritia,
E l’ Invidia habbia il premio de la giostra.
Non può patir l’invidiosa, e fella,
Ch’ei goda di quel ben, ne la sorella.

Tutta la sua facondia, et eloquenza
Con grande affetto usa il figliuol di Giove,
Ma quella à più poter fa risistenza,
Ne s’addolcisce punto, ne si move.
Non farò, dice à lui, di qui partenza,
Se prima te non scaccio, e mando altrove.
Hor sù, disse ei, mi piace, vo’ che ’l facci,
Che tu stia sempre qui, se non mi scacci.

Tocca col suo baston la chiusa porta,
E quella al primo tratto s’apre, e cede,
Riman l’afflitta Aglauro mezza morta,
Ch’aprir la porta, e dopo entrare il vede,
Sapendo quanto à lei tal fatto importa,
Si move per levarsi donde siede,
Ma i piè, se ben le braccia sforza, e scuote,
Per troppo gravità mover non puote.

Ella d’alzarsi pur prova, e contende,
E ponvi ogni suo sforzo, ogni sua cura.
Non si piega il ginocchio, e non s’arrende,
Che già indurato ha il nervo, e la giuntura.
Quel mortal freddo à poco à poco prende
Quel corpo, e già s’accosta à la cintura,
Già ne la parte fredda, e senza lena
La carne hanno un color, l’unghia, e la vena.

Sì come l’ incurabil cancro ingordo
Serpendo rode un corpo, e sempre acquista,
E ’l dente suo pernicioso, e sordo,
Rende sempre maggior la parte trista,
Tanto, che tutto il face infetto, e lordo,
Così quel male il ben propinquo attrista,
E l’ insensibil parte và crescendo,
Del vivo più vicin sasso facendo.

Già duro ha il petto, e ’l rispirar vitale
Le toglie il troppo in su’ cresciuto sasso,
Non provò di parlar, ne fece male,
Però, che chiuso havria trovato il passo.
La pietra tanto in su crescendo sale,
Che fa ne l’alto quel che fe nel basso.
La nera mente sua nera anchor fece
La nova statua, come inchiostro, ò pece.

Quell’atto, quel dolore, e quello affanno,
C’hebbe volendo alzarsi, in lei sì vede,
E pontando le man sopra il suo scanno,
Mostra un gran sforzo per levarsi in piede,
Ma come havesse ivi inchiodato il panno,
Par, che non possa alzarsi da la sede,
E sì ben quella statua il tutto esprime,
Che non vi ponno aggiunger le mie rime.

Il celeste corrier si torna dove
Con desiderio, et ansia l’attendea
Il superno Rettor, suo padre Giove,
Che gran bisogno del suo aiuto havea.
Come io ti voglio in ciel, tu fuggi altrove,
Giove, à cui novo amor l’anima ardea,
Disse; Deh non haver te tanto à core,
Che ’l tuo ponghi in oblio padre, e signore.

Mercurio allhor per iscusarsi in parte.
E, perche Giove ha gran piacer d’udire,
Quando tal volta egli dal ciel si parte,
L’essito, e la cagion del suo partire,
Volea tutto narrar parte per parte,
Ma Giove, c’havea voglia d’esseguire
Un novo amor, non volle, ch’ei seguisse,
Ma, fattolo tacer, così gli disse.

Non è tempo di dir messo mio fido
I bei diporti tuoi di questi giorni,
Che per un novo amor, ch’ in me fa nido,
È forza, che di novo in terra torni:
Vanne in Fenicia, e fa scender su ’l lido
L’armento regio, e fa, ch’ ivi soggiorni,
Fa, che sì presso al mar dal monte scenda,
Che’l mormorar, che fa Anfitrite, intenda.

Il nipote d’Atlante obedì tosto.
E l’armento regal mandò su ’l lito.
Questo, non molto à la città discosto,
Era uno ameno, e dilettevol sito.
Concorse à questo loco, à Cipro opposto.
Molte eran figlie allhora atte al marito
Con la figlia del Re, la cui beltade
Non hebbe pari al mondo in quella etade.

Di questa il padre Agenore fu detto.
E di Tiro, e Sidonia fu Signore.
La figlia Europa hebbe sì grato aspetto,
Ch’accese del suo amor l’alto motore.
Ahi come stanno male in un soggietto,
Con grave maestà, lascivo amore.
Come opran, ch’altri fa (sì mal si regge,)
Cose fuor di misura, e fuor di legge.

Quel, che dà legge à gli alti Dei del cielo,
Quel, ch’ad un cenno il mondo fa tremare
Chi con sua pioggia, e con suo ardente telo.
Può sommerger la terra, ardere il mare,
Vestì mentito, e vergognoso pelo,
Per lascivo pensier, per troppo amare,
Fuor d’ogni degnità, d’ogni decoro
Prese per troppo amor forma d’un Toro.

E misto fra ’l real bovino armento,
D’intorno à lei vagar diletto prende.
La giogaia, che pende sotto al mento,
Infino à le ginocchia si distende.
Ne l’humil fronte sua quello spavento,
Che suol ne’ tori star, non si comprende,
Il manto suo di neve esser si vede,
Che non ha guasta Sol, vento, ne piede.

Come una gemma il chiaro, e picciol corno
Sì bel risplende, che par fatto à mano:
Move con dignità l’occhio d’intorno,
E mostra un volto amabile, et humano.
Dolce rimira quel bel viso adorno,
Poi si move ver lei quieto, e piano.
Paurosa ella l’aspetta un poco, e fugge,
E ’l toro per dolor sospira, e mugge.

Ella del suo muggir si maraviglia,
Che vede, che si dole, e che la guarda,
E che tien ferme in lei l’ ignote ciglia,
E che per non noiarla il piè ritarda;
Dal prato per provar de l’herba piglia,
E verso lui và paurosa, e tarda;
Cresce col destro piè, stende la mano,
E poi sì ferma alquanto à lui lontano.

Il collo, il capo, e ’l muso ei stende à posta,
E mostra di quell’herba haver gran voglia,
Pian pian poi con bel modo à lei s’accosta,
Perche non tema la mentita spoglia.
Ella stende la mano, e ’l piè discosta,
E come ei stà per abboccar la foglia,
Cader la lascia, e fugge, e si ritira,
E ’l miser toro anchor mugghia, e sospira.

Il toro per mostrar ch’accetto, e grato
Gli fù quel don de l’herba, ch’ella offerse,
Senza punto toccar l’herba del prato,
Quella mangiò, ch’ella lasciò caderse.
Vedendolo ella così ben creato,
À lui con esca, nova si converse,
E senza haverne più tanta paura,
L’aspettò più costante, e più sicura.

Il toro abbocca l’herba con destrezza,
Poi le lecca la man tutto modesto,
E tanto il move quell’ alma bellezza,
Ch’à pena può più differire il resto.
Ella fa d’una cinta una cavezza,
Che vuol veder se l’obedisce in questa:
Legare il toro allegro il corno lassa,
E poi la segue come un cane à lassa.

Ella senza timor, senza sospetto,
Per tutto il vuol menar, per tutto il tocca:
Gli palpa leggiermente il collo, e ’l petto,
E sicura la man gli mette in bocca.
L’amante con piacer, con gran diletto
Segue la donna baldanzosa, e sciocca,
Laqual più volte le mentite corna
Di vaghi fiori, e di ghirlande adorna.

Sù l’herba al fin l’astuto bue si getta,
E col bugiardo sen la terra cova.
Allhor l’ardita, e vaga giovinetta
Di veder sempre qualche cosa nova,
Sù ’l fraudolente suo dorso s’assetta,
Che vuol far del giuvenco un’altra prova,
Prova vuol far la semplicetta, e stolta,
Se vuol come un destrier portarla in volta.

Pian piano il bue si leva, e si diporta,
E move da principio il passo à pena,
E la donzella in su le spalle porta,
Poi drizza il falso piè verso l’arena.
La semplice fanciulla, e male accorta
Non credendo ad un Dio premer la schena,
Lieta lasciò portarsi ove à lui piacque,
Et egli à poco à poco entrò ne l’acque.

L’ardita damigella non si crede,
Che ’l toro troppo innanzi entri ne l’onda,
Ma come il lito poi scostarsi vede,
E trarsi in dietro l’arenosa sponda,
Non potendo à l’asciutto porre il piede,
Perche il mar non l’ inghiotta, e non l’asconda,
Sù ’l dorso una man tien, con l’altra afferra
Un corno, e l’occhio tien volto à la terra.

Bagna di pianto la donzella il volto,
Che la terra ogn’ hor più s’asconde, e abbassa.
Dritto à Favonio il toro il nuoto volto,
Cipro, e Rodi à man destra vede, e passa.
Veder dal lato manco à l’occhio è tolto
Le gran bocche del Nil, ch’ à dietro lassa.
Ella non crede più poter campare,
Ch’altro veder non può, che cielo, e mare.

Le bionde chiome, il vestimento, e ’l velo
Movea dolce aura, e ’l mar si stava in calma,
Scacciate havean le nubi, il Sole, e ’l cielo,
Per mirar la bellezza unica, et alma.
Giove sotto il buggiardo, e novo pelo,
Con sì soave, e pretiosa salma,
Per l’onda se nandò tranquilla, e cheta,
Tanto, che giunse à l’ isola di Creta.