Le Metamorfosi/Libro Settimo

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Libro Settimo

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Publio Ovidio Nasone - Le Metamorfosi (2 a.C. - 8 d.C.)
Traduzione dal latino di Giovanni Andrea dell'Anguillara (1561)
Libro Settimo
Libro Sesto Libro Ottavo

 
Già per lo novo mar la nova nave
Havea la vela, il vento, e ’l mare inteso,
E con soffio hor tropp’aspro, hor più soave
Sopra la Tracia havea quel regno preso,
Nel qual Fineo senz’occhi, e d’anni grave
Era da l’empie Arpie continuo offeso.
E già con ricchi doni, e lieto volto
V’era stato Giason visto, e raccolto.

Dove i figli di Borea alati, e snelli
Per satisfare à tanto obligo in parte,
Scacciati haveano i rei virginei augelli,
Co’ quai venner ne l’aria al fiero Marte.
E i venti havendo havuti hor buoni, hor felli,
E posto in opra hor l’anchore, hor le sarte,
Eran ne l’Asia scesi in quel lido,
Ch’era al bel vello albergo antico, e fido.

Hor mentre allegri al Re de’ Colchi vanno,
E che Giasone il suo pensier palesa,
E tutti intorno al Re con preghi stanno,
Che lor conceda il vello, e la contesa,
E ch’ei rimembra le fatiche, e ’l danno,
Che lor succeder può da questa impresa,
Medea figlia del Re, che vede, e intende
L’ardito cavalier, di lui s’accende.

Mentre ella tiene in lui ferma la luce,
E sente quel, ch’il padre gli rammenta,
Ch’à manifesta morte si conduce,
Se di quel vello d’or l’impresa tenta;
Pensa di farsi à lui soccorso, e duce,
Perche tanta beltà non resti spenta,
Et aiutar quel cavaliero esterno
Contra il nemico à lui pensier paterno.

Poi c’hebbe con gran gloria, honore, e canto
Frisso sacrato à Giove il ricco vello,
Dove si fece il sacrificio santo,
Apparse un’ arbor d’or pregiato, e bello:
Subito appese il pretioso manto
Frisso à l’apparso d’oro albor novello,
Alzando à Giove poi le luci, e ’l zelo
Mandò con questa voce i preghi al cielo.

Tu sai, quanta avaritia alberghi, e regni
Fra noi mortali ò Re del sommo choro,
E quanti rei pensier, quant’atti indegni
Faccia l’huom tutto ’l dì sol per quest’oro.
Perche mortale alcun mai non disegni
D’involar questo tuo nobil thesoro,
E perche in honor tuo qui sempre penda,
Manda qualchun, che ’l guardi, e che ’l difenda.

Non fu già il suo pregar d’effetto vano,
Ch’à pena il suono estremo al prego diede,
Ch’ivi apparver due tori, à cui Vulcano
Havea fatto di ferro il corno, e ’l piede.
Ben’ opra esser parea de la sua mano,
Che ’l foro, onde lo spirto essala, e riede,
D’inestinguibil foco ogni hora ardea,
Simile à quel de la montagna Etnea.

D’eterno foco un drago anchora apparse,
Di veneno, e di sguardo oscuro, e fosco.
È ver, ch’alcun mai non uccise, od arse,
E non curò d’oprar fiamma, ne tosco,
Se non s’alcuno in van volle provarse
D’ involar l’aureo pregio à l’aureo bosco.
E per far Giove il loco più sicuro,
Tutto cinse il giardin d’un fatal muro.

Le chiavi ad Eta Re de Colchi porse,
Che fu padre à Medea, con questa legge,
Che s’à quei mostri alcun chiedea d’opporse,
Per torre il don, che ’l ricco albergo regge,
Per porlo più del raro acquisto in forse,
Giurasse sopra il libro, che si legge
Sopra il divino altar, di far la prova,
Che Cadmo fe ne la sua patria nova.

Quando al fonte il dragon spense di Marte
Quel, c’hor l’herboso suol serpendo preme,
Palla, e ’l fratello la metà in disparte
Poser de denti insidiosi insieme,
E dopo il Re de la beata parte
Ad Eta diede il periglioso seme
Per sicurtà del bel giardin, ch’asconde
Il pretioso vello, e l’aurea fronde.

Et havea ben qualche rimordimento
Che si nobil guerrier restasse morto,
Ma troppo egli facea contra il suo intento,
Se privo di quel don gli rendea l’horto.
Però pria che gli desse il giuramento,
Del seme, e del periglio il fece accorto,
Ma scortol poi d’ogni timore ignudo,
Con occhio il fe giurar nemico, e crudo.

Ma se suarda Giason con crude ciglia
Il Re d’ ira infiammato, e di dispetto;
Lo guarda, e l’ode l’infiammata figlia
Con occhio dolce, e con pietoso affetto.
Brama ei veder di lui l’herba vermiglia,
Ella il brama goder consorte in letto.
Egli il vorria veder restar senz’alma,
Ella di quell’ impresa haver la palma.

Mentre con sommo suo diletto il vede,
Passa per gli occhi al cor l’imagin bella,
Là dove giunta imperiosa siede,
E scaccia l’alma fuor de la donzella,
La qual nel viso pallido fa fede,
Com’ella dal suo cor fatt’ è rubella;
E mostrar cerca al bello amato volto,
Come l’imagin sua l’have il cor tolto.

E par, che voglia dir, s’ ho dal cor bando,
Per dar luogo à l’imago, ov’ il lum’ergo,
Novo ricorso, e patria ti dimando
In quella luce, ov’io mi specchio, e tergo.
Perch’io non vada eternamente errando,
Donami entro al tuo seno un novo albergo.
Se in bando io son per te, giusto è il mio grido,
Se chieggo in ricompensa un novo nido.

Oime, ch’ in tutto io son fuor del mio core,
E pur penso, discorro, et argomento,
E bramo à l’amor mio gratia, e favore,
Perche del suo desio resti contento.
Questi son de’ miracoli d’Amore.
Ch’io son priva de l’alma, e veggio, e sento.
Queste son cose pur troppo alte, e nove,
Ch’io vivo fuor del core, e non sò dove.

Hor come la fanciulla accesa scorge,
Con che guardo nemico il padre crudo
Su’l libro il giuramento al Greco porge,
Perche resti il suo cor de l’alma ignudo;
Maggior l’amor, maggior la pietà sorge,
E pensa farsi à lui riparo, e scudo.
Per salvar quelle membra alme, e leggiadre,
Pensa d’opporsi à quel, che debbe al padre.

Per lo giorno seguente la battaglia
Promette il Re, poich’ei n’è tanto vago,
E porlo dentro à la fatal muraglia,
Contra i tori fatali, e contra il drago.
Ben s’era accorto il guerrier di Thessaglia,
Ch’accesa era Medea de la sua imago.
E per trarne favor, gratia, e consiglio,
Mostrò sempre ver lei cortese il ciglio.

Per allhor si licentia ei da la corte,
Prima dal vecchio Re, poscia da lei.
E le dice pian pian, ben la mia sorte
Felice sopra ogn’un chiamar potrei,
S’io potessi haver voi per mia consorte,
E condurvi mia donna à regni Achei.
Però date favore al desir nostro,
Poi come piace à voi, me fate vostro.

Non può celar le piaghe alte, e profonde,
Ne l’aspra passion, che la tormenta
Medea; ma senza favellar risponde
Co i modi, e co i sospir, ch’ella è contenta.
Partiti l’un da l’altro, ella s’asconde
Ne la camera sua, ch’altri non senta,
E datasi à l’amore in preda in tutto,
Cosi dà varco à le parole, e al lutto.

Misera, qual fu mai si gran cordoglio,
Che possa al dolor mio far paragone?
Ch’io son sforzata, e faccia quel, ch’io voglio,
D’opormi à la pietade, e à la ragione.
Ben di ragione, e di pietà mi spoglio,
Se ’l valor del magnanimo Giasone
Lascio perir, ben’ hò di tigre, e d’orso
Il cor, s’ io posso, e non gli dò soccorso.

La sua beltà, la sua fiorita etate,
La nobiltà, il valor, l’ingegno, e l’arte,
E tante altre virtù, che ’l ciel gli ha date,
Che ’l fanno à nostri tempi un novo Marte,
L’amor promesso, e le parole grate,
Ond’io di tanto ben debbo haver parte,
Ogni più crudo cor dovrian far pio,
Di drago, e d’aspe, e maggiormente il mio.

E quando ei fosse anchor mortal nemico
Di me, del padre mio, de la mia gente,
Per sangue sparso suo, per odio antico,
Per qual si voglia passion di mente;
Di tante gratie havendo il cielo amico,
Dovrebbe questo cor trovar clemente,
Che non mandasser tanto ben sotterra
I tori, e ’l drago, e i figli della terra.

Hor s’egli è ver, ch’ ei m’ami, come ha detto,
D’un’ amor si sollecito, e si forte,
Che mi giudica degna di quel letto,
C’ha destinato per la sua consorte:
Se non amo anch’io lui di pari affetto,
S’ io non l’ involo à l’evidente morte;
Non son più ingrata, perfida, e crudele,
Che mai s’udisse in tragiche querele?

Ma se da l’amor mossa, ond’ io tutta ardo,
E dal valor, ch’in lui tanto commendo,
Con pietoso occhio il mio Giason riguardo,
E la mirabil sua beltà difendo,
Ver l’affetto paterno il piè ritardo,
La paterna pietà del tutto offendo.
Ch’un, che vuol torgli, à favorire io vegno,
Il più ricco thesor, c’habbia nel regno.

Misera, à che risolvo il dubbio core?
Quanto ci penso più, più mi confondo.
Favorirò chi quel vuol torci honore,
Che celebri ne fa per tutto il mondo?
Un, che con ogni suo sforzo, e valore,
Per privar l’arbor d’or del ricco pondo,
Vien si da lungi. e s’empie il suo desio,
Perpetuo scorno fia del padre, e mio?

Che farò dunque misera? io conosco
Quanta sia la pietà, che debbo al padre.
Ma soffrirò, ch’in bocca entrino al tosco
Si delicate membra, e si leggiadre?
Soffrirò, che di ferro armate, e bosco
Le fresche de la terra uscite squadre
Voltin l’arme in suo danno ? ò ’l fatal toro
L’alzi su’l corno al ciel per salvar l’oro?

Non è, misera me, saggio consiglio
D’una figlia d’un Re, d’una donzella,
S’io vengo à favorir d’Esone il figlio,
E toglio al padre mio gioia si bella.
Perche terrò cur’ io del suo periglio,
S’egli ha ver noi la mente empia, e rubella?
Misera, il mio dover conosco, e veggio,
Pur approvo il migliore, e seguo il peggio.

Seguane quel, che vuol, vò dargli aita
Contra il mio honor, contr’ Eta, e contra il regno,
E non voglio veder toglier la vita
À si lodato giovane, e si degno.
E poi vò seco, ove il suo amor m’invita,
Gir per l’ignoto mar su’l novo legno;
E per eterna mia gioia, e riposo
Vò far Grecia mia patria, e lui mio sposo.

Ma come ardirò mai solcar quel mare,
Ú son le navi misere condotte?
Ú si sogliono i monti insieme urtare?
Dove da venti son gittate, e rotte?
Dove si sente Scilla ogn’hor latrare?
Ú l’avara Cariddi i legni inghiotte?
Perderò l’honor mio con questo inganno,
Per gire al certo mio periglio, e danno?

À che tanto timor, tanto cordoglio
Potrà morso si fral tenermi in freno?
Se tener de l’honor conto io non voglio,
Debbo io stimar la vita, che val meno?
Non ho da temer mar, vento, ne scoglio,
Pur ch’io mi trovi al mio Giasone in seno.
E se pur debbo al timor dar ricetto,
Debbo temer di lui , ch’egli è ’l mio obbietto.

Dunque per un non giusto, e van desio
Debbo fare al mio sangue il cor rubello ?
Abbandonare il mio genitor pio?
La mia germana? e ’l mio caro fratello?
Lasciar l’antico, e regio albergo mio?
Et un regno si fertile, e si bello?
Per gir fra genti strane in un paese,
Dove le note mie non sieno intese?

Anzi son questi miei paesi ignudi
Di quei beni, onde ricca è l’altra parte.
Costumi regnan qui barbari, e crudi,
Quivi ogni fatto illustre, ogni degna arte,
Quivi son le cittadi, e i dotti studi,
Ch’empion le nostre anchor barbare carte.
E se le cose grandi insieme adeguo,
Le grandi non lascio io, le grandi seguo.

Che fai, cieca? che fai? vuoi tu dar fede
Ad un, cui mai non hai parlato, ò visto?
Ad un, che forse il tuo connubio chiede,
Perche gl’insegni à far del vello acquisto?
Pensa (e non lasciar pria la patria sede)
Quanto sarà il tuo stato acerbo, e tristo,
S’egli nel regno patrio ti raccoglie
Da fanciulla impudica, e non da moglie.

Ma non promette un tanto ignobil’ atto
La sua virtute, e ’l suo nobil sembiante.
Gli farò replicar più volte il patto,
E vorrò haverne il giuramento avante.
Chiamerò testimonij à mio contratto
L’alme de le contrade eterne, e sante:
E temer non dovranno i voti miei,
Ch’ ei manchi à se medesmo, e à sommi Dei.

Mentre risolve à questo il dubbio petto,
Se l’ appresenta il debito, e l’honore,
La paterna pietate, e ’l patrio affetto,
E dan vittoria al suo pensier migliore.
Le ricordan (se viene questo effetto)
Quel, che diran di lei le regie nuore.
Sarà (se per tal via si fa consorte)
La favola del volgo, e d’ogni corte.

Havea l’amor già ributtato, e vinto,
E già fermato havea nel suo pensiero,
Se ben dovea Giason restarne estinto,
Di darsi in tutto à la ragione, e al vero.
E havendo al casto fin l’animo accinto,
Fuor del palazzo havea preso il sentiero,
Per visitare à piedi il tempio santo
D’Hecate, ond’hebbe già l’arte, e l’incanto.

Non have ne gli incanti in tutto ’l mondo,
Maggiore alcun mortal dottrina, e fede
Di lei, c’hor face il suo terrestre pondo
Verso il tempio portar dal proprio piede.
Intanto, più che mai bello, e giocondo
Giason, che vien dal tempio, incontra, e vede.
Humile ei la saluta; e fa, ch’anch’ella
Gli rende l’accoglienza, e la favella.

Qual, se l’ingegno human gran foco ammorza,
S’avien, che un sol carbon viva, e si copra,
Poi gli apra il vento la cinerea scorza,
Tanto che in fiamma il suo splendor si scopra,
Racquista il vivo ardor, l’antica forza,
E come pria divora i legni, e l’opra:
Tal l’ascosa scintilla à l’alma vista
Di lei l’antico suo vigore acquista.

Come vede il suo amato, e l’aura sente
Del dolce suon de la soave voce,
S’infiamma il foco occulto, e si risente,
E come già facea, la strugge, e coce.
Tal, ch’ella al casto fin più non consente,
Ma si dà in preda à quel, che più le noce,
E tanto più, che quel, ch’à ciò la chiama,
Tutto giura osservar quel, ch’ella brama.

Gli porge accortamente un vel da parte,
Dove eran chiuse alcune herbe incantate,
E poi gl’insegna le parole, e l’arte,
E ’n qual maniera denno esser usate.
Sparir l’altro mattin Saturno, e Marte
Havean del biondo Dio le chiome ornate,
Quando Giason di quella guerra vago
Comparse contra i tori, e contra il drago.

Convengon tutti i popoli d’intorno
À rimirar l’insolito periglio,
Stà in mezzo il Re di scettro, e d’ostro adorno
Con empio core, e disdegnato ciglio.
Compar di ferro intanto il piede, e ’l corno
Contra d’Esone il coraggioso figlio.
La fiamma de’ due tori empia, e superba
Abbrucia l’aria, e strugge i fiori, e l’herba.

Come risuona, e freme una fornace,
Mentre maggiore in lei l’ardor risplende,
Come freme la calce, che si sface
Mentre che l’acqua in lei l’ardore accende;
Cosi mentre la fiamma empia, e vorace
De’ tori il campo, e d’ogn’intorno offende
Nel petto, ond’ ha il principio, e ’l proprio nido,
Con perpetuo esshalar rinforza il grido.

Zappan co’l piede il polveroso sito,
E fan correr per l’ossa à Greci il gielo,
E ’l ciel di lungo empiendo alto muggito,
Fanno arricciare à gli Argonauti il pelo.
Poi corron contra il giovinetto ardito,
Per torlo sù le corna, e darlo al cielo.
Gli attende il Greco, e dice i versi intanto,
E getta contra lor l’herba, e l’incanto.

Verso il forte Giason veloci vanno,
E danno ogni hor per via più forza al corso,
Ma giunti appresso à lui fermi si stanno,
Che ’l canto di Medea lor pone il morso
Vist’ ei, che non gli posson più far danno,
Lor palpa dolce la giogaia, e ’l dorso,
E tanto ardito hor gli combatte, hor prega,
Ch’à l’odioso giogo al fin gli lega.

Con lo stimolo i tori instiga, e preme,
E co’l vomero acuto apre la terra,
E l’uno, e l’altro bue ne mugghia, e geme:
Ma il crudo giogo à lor l’orgoglio atterra.
Giason vi sparge il venenoso seme,
E poi con novo solco il pon sotterra.
S’ingravida il terren, ne molto bada,
Che manda fuor la mostruosa biada.

Ornati di metallo il capo, e ’l fianco,
Molti uscir de la terra huomini armati,
D’aspetto ogn’un si fier, di cor si franco,
Che di Bellona, e Marte parean nati.
À Greci fer venir pallido, e bianco
Il volto, poi ch’i ferri hebber chinati,
Tutti ristretti in ordine, e in battaglia
Contra il guerriero invitto di Thessaglia.

Ma à più d’ogni altro fè pallido il viso
À la figlia del Re, se ben sapea,
Che non potea da loro essere ucciso,
Se de l’incanto suo memoria havea.
Si stà Giason raccolto in sù l’aviso,
E poi secondo gl’insegnò Medea,
Un sasso in mezzo à l’ inimico stuolo
Aventa, e rompe tutti un colpo solo.

Come in mezzo del campo il sasso scende,
E ’l verso ei dice magico opportuno,
L’un fratel contra l’altro in modo accende,
Che fan di lor due campi, dov’era uno.
L’infiammata Medea, che non intende,
Che debbia il vecchio Eson vestir di bruno,
Più d’un verso adiutor dice con fede,
Secondo l’arte sua comanda, e chiede.

L’incanto, che il lor primo intento guasta,
Infiamma al fiero Marte ambe le schiere,
Tal, che l’un contra l’altro il ferro, e l’hasta
Con gridi, e con minaccie abbassa, e fere;
E con tal’ odio, e rabbia si contrasta,
Che fan vermiglie l’herbe, e le riviere:
E i miseri fratei di varia sorte
Per le mutue percosse hanno la morte.

Un percosso di stral sù l’herba verde
Cade, quei di spunton, questi di spada,
Tanto, che tutta al fin la vita perde
La già superba, et animata biada.
L’animoso Giason, che vuole haver de
L’impresa il sommo honor, prende la strada
Verso il troncon, che di doppio oro è grave,
Contra il crudo dragon, ch’ in guardia l’have.

Il venenoso drago alza la testa
Quando vede venir l’ardito Greco,
Co’l ferro ignudo in pugno, e che s’appresta
Per lo vello de l’oro à pugnar seco;
Gli và superbo incontra, et ei l’arresta,
E con l’herbe, e co i versi il rende cieco.
Gl’incanti, e le parole tanto ponno,
Che danno il miser drago in preda al sonno.

S’allegran gli Argonauti, e fanno honore
Al lor Signor vittorioso, e degno,
E mostra aperto ogn’un nel volto il core,
Ogn’uno il valor suo loda, e l’ ingegno.
Corre secondo il patto il vincitore,
E toglie il ricco pregio à l’aureo legno:
No’l soffre volentier quel, ch’ ivi regge,
Ma non vuol contraporsi à la sua legge.

La barbara fanciulla anch’ella brama
D’honorare, e abbracciar l’amato Duce,
Ma l’honestà da questo la richiama,
Ne vuol, che l’amor suo scopra à la luce.
Poco dopò con quel, ch’ella tant’ama,
Su’l legno ascosamente si conduce:
Spiega Giasone al vento il lino attorto,
E prende tutto lieto il patrio porto.

Come la nave vincitrice torna
Con lo vello de l’or per tanto mare,
Di Thessaglia ogni madre il crine adorna,
E porta incenso, e mirra al sacro altare.
Indorano à le vittime le corna
I vecchi padri, e fan l’altar fumare,
E al ciel dan gratie, che da tai perigli
Habbia salvati i coraggiosi figli.

Ogni ordine, ogni etate al tempio venne
À venerare il santo sacrificio,
Eccetto il vecchio Eson, che gli convenne
Mancar per li troppi anni à tanto officio.
La decrepita età per forza il tenne
Rinchiuso ne l’antico alto edificio.
E fu cagion, che ’l suo pietoso figlio
Prendesse à tanto mal questo consiglio.

Rivolto à la dolcissima consorte,
Scoperse il suo pensier con questo suono.
Del vecchio padre mio già saggio, e forte
Ne l’arme, e ne’ consigli esperto, e buono,
Per esser troppo prossimo à la morte
Le forze antiche, e le sententie sono
Perdute, e fuor del senno; et io vorrei
Dare una parte à lui de gli anni miei.

Se bene i merti tuoi son tanti, e tanti,
Che debitor perpetuo mi ti chiamo,
Se posson tanto i tuoi stupendi incanti
(Ma che non ponno?) un’altra gratia io bramo.
Vorrei de gli anni miei donare alquanti
À quel, cui debbo tanto, e cui tant’amo:
Si che levato à lui lo schivo aspetto
Di vigore abondasse, e d’intelletto.

Non potè udir la moglie senza sdegno,
Ne senza lagrimar gli accenti sui.
Passa la tua pietà poi disse il segno,
Se ben giusto è ’l desio d’aiutar lui;
Non stimo al mondo alcun di te più degno,
Ne gli anni à te vò tor per dargli altrui.
À l’arte maga, ad Hecate non piaccia,
Ch’à gli anni illustri tuoi tal torto io faccia.

Ma farò ben non men gradite prove,
Per adempir pensier si giusto, e pio,
Poi ch’à maggior pietate Eson mi move,
Che non fè mai l’amor del padre mio.
Se la triforme Dea quella in me piove
Gratia, ch’è proprio aiuto al tuo desio;
Io porrò lui fra quei, che ponno, e sanno,
Senza ch’à gli anni tuoi faccia alcun danno.

Tre volte il biondo Dio, che ’l mondo aggiorna,
Havea nascosto il luminoso raggio;
Tre volte havea la Dea di stelle adorna,
Fatto sopra i mortali il suo viaggio;
E già congiunte havea Cinthia le corna,
E dava del suo lume il maggior saggio;
Quando Medea lasciò l’amate piume
Et al propitio uscì notturno lume.

Discinta, e scalza, e con le chiome sparte
Sopra gli homeri inconti ella uscì sola
Ne l’hora, ch’è ne la più alta parte
Del ciel la notte, e in ver l’Hesperia vola,
Quando più grato il suo favor comparte
Il sonno, e ch’ à mortai la mente invola,
Quando per nostro commodo, e quiete
Ne sparge i sensi del liquor di Lete.

Ne l’huom, ne altro animale il piè non porta,
Muto, et attorto stà l’aureo serpente;
Humido tace l’aere, e l’aura è morta,
Ne una fronde pur mover si sente;
Soli ardon gli astri, à cui la maga accorta
Tre volte alzò le man, gli occhi, e la mente;
E tre co’l fiume viro il crin cosperse,
E tre senza parlar le labbra aperse.

Con le ginocchia al fin la terra preme,
E di novo alza à la parte alta, e bella
La mente, e gli occhi, e le man giunte insieme,
E con sommesso suon cosi favella.
Porgete aiuto à l’arte, ond’hoggi ho speme
Di rendere ad Eson l’età novella,
Tu fida notte, e voi propinqui Numi
Di monti, e boschi, e d’onde salse, e fiumi.

E voi tre volti, ch’un sol corpo havete
Ne la triforme Dea, non meno invoco.
E voi, che con la Luna aurea splendete
Lumi del ciel dopo il diurno foco,
À l’humil prego mio favor porgete,
Che cercar possa ogni opportuno loco,
Si ch’ io ritrovi ogni radice, et herba,
Che può rendere à l’huom l’etade acerba.

Porgi à noi santa Dea propitio il braccio
Tu, ch’à noi maghi e l’herbe, e l’arte insegni,
Si che per l’alta impresa, c’hora abbraccio,
Possa cercare i necessarij regni.
Io pur co’l tuo favor le nubi scaccio
Dal cielo, e scopro i suoi siderei segni.
Co’l tuo favor (quando il contrario adopro)
Tutti i lumi del ciel co i nembi copro.

Nel mar (s’io voglio) hor placo, hor rompo l’onde,
Fò la terra mugghiar, tremare i monti,
E facendo stupir le stesse sponde,
Tornar fo i fiumi in sù ne’ proprij fonti.
S’io chiamo Borea in aria, ei mi risponde,
E gli Austri, e gli Euri al mio voler son pronti:
E quando l’arte mia loro è contraria,
Dal ciel gli scaccia, e fa tranquilla l’aria.

L’ombra fo da sepolcri uscir sotterra:
E tal l’incanto mio forz’ hà, che puote
Luna tirar te co’l tuo carro in terra,
Se ben del rame il suon l’aria percote.
Onde mi cercan gli huomini far guerra,
Per impedir le mie possenti note,
Le note, onde pur dianzi tanto fei,
Ch’ottenni tutti in Colco i voti miei.

Co i versi, e co’l favor, che mi porgeste,
Fei, ch’à Giason non nocque il foco, e’l toro,
E quelle, che di terra armate teste
Usciro, uccider fei tutte fra loro.
Fei, che ’l sonno abbassò l’altere creste
Al drago, e diedi al Greco il vello, e l’oro,
Et hor co i versi, e co’l favor, ch’io chiamo,
Spero venire à fin di quel, ch’io bramo.

E tosto io l’otterrò, che chiaro veggio
Propitio al desir mio l’ardor soprano,
E che l’etheree stelle à quel, ch’io chieggio,
Non han mostrato il lor splendore in vano,
Poi che scorgo dal ciel venir quel seggio,
Che puote il corpo mio condur lontano.
Un carro nel formar di questi accenti
Tirato in giù venia da due serpenti.

Con larghe rote in terra il carro scende
Dal mondo glorioso de le stelle.
Medea di novo al ciel gratie ne rende,
Alzando gli occhi à l’alme elette, e belle.
E poi lieta, e sicura il carro ascende,
Allenta il fren, percote l’aurea pelle
Con la sferza opportuna, ch’ivi trova,
E fa de l’ali lor la nota prova.

Al notturno maggior di Delia lume
Per la Thessaglia fertile, e gioconda
Fa battere al dragon l’aurate piume,
E tutta la trascorre, e la circonda.
Et hor prende dal monte, et hor dal fiume
L’herba, che brama, e in quelle parti abonda,
De le quai con la barba altra n’elice,
Altra ne taglia, e vuol senza radice.

E ’n Tempe, e ’n Pindo, e ’n Ossa il carro feo
Scender, dove de l’herbe in copia colse,
E dopo verso Anfriso, et Enipeo,
E verso gli altri fiumi il carro volse.
Non lasciò immune Sperchio, ne Peneo,
E tante herbe trovò, quante ne volse:
E poi lasciando adietro il fiume, e ’l monte,
Ver l’albergo d’Eson drizzò la fronte.

Quando l’herbe opportune ella hebbe colte,
Secondo l’arte sua comanda, e vuole,
E che l’hebbe su’l carro in un raccolte
Con le propitie, e debite parole,
L’ombre del basso mondo oscure, e folte
L’havean nove fiate ascoso il Sole,
E l’herbe, e i fiori, ond’era il carro adorno,
Fer questa maraviglia il nono giorno.

Il grato odor de l’incantate foglie,
Che continuo sentir gli aurati augelli,
Fecer, che quei gittar l’antiche spoglie,
E diventar più giovani, e più belli.
À l’albergo la donna il fren raccoglie
Di quello da cui vuol dar gli anni novelli:
Non entra per allhor dentro al coperto,
Ma vuol, che sia il suo tetto il cielo aperto.

Fugge il marito, e ’l coniugal diletto,
E di due belli altari orna la corte,
De quali il destro ad Ecate fu eretto,
L’altro à l’età più giovane, e più forte.
E poi ch’à quelli ornò di sopra il letto
D’herbe, e di fior d’ogni propitia sorte,
Scelse fra molti arieti uno il più bello,
C’havea dal capo al piè d’inchiostro il vello.

Co i crini sparsi come una baccante
Prima, che co’l coltel l’ariete uccida,
Gli afferra un corno, e con parole sante
Tre volte intorno à i sacri altari il guida,
Innanzi à l’are poi ferma le piante,
Fra l’una, e l’altra Dea propitia, e fida,
E fa del sangue suo tepida, e rossa
La fatta à questo fin magica fossa.

Sopra gli altari poi fe, che ’l foco arse,
Indi di latte una gran tazza prese,
Una di mele, e su’l monton le sparse
Pria che ’l ponesse in sù le fiamme accese.
E dopo fe, che ’l vecchio Eson comparse,
E sopra l’herbe magiche il distese
Co’ versi havendo pria, che cio far ponno,
Date l’antiche membra in grembo al sonno.

Tutti i servi, e Giason fa star lontani,
Per l’innanzi d’altrui non cerca officio,
Non vuol, ch’à veder stian gli occhi profani
I misterij secreti, e ’l sacrificio.
China il ginocchio pio, giunge le mani,
E gli occhi intende à l’infernal giudicio,
E mentre arde il monton sù l’altar santo,
Placa gli Stigij Dei con questo canto.

Le Stigie forze tue Plutone amiche
Rendi à la mia rinovatrice palma,
E non voler, ch’indarno io m’affatiche
Per far nova ad Eson la carnal salma,
Non voler defraudar le membra antiche
De la vecchia insensata, e miser’alma,
E se ben toglio il sangue, à le sue vene,
Non dar lo spirto anchora à le tue pene.

Mandati questi preghi alzossi, e tolse
Fatte per questo fin faci diverse,
E dove il sangue del monton raccolse,
Tutte con muto orar le tinse, e asperse.
Et accese, e locate, il canto sciolse,
Et à Pluton di novo si converse,
Tre volte humile à lui piegò il ginocchio,
E tre volte drizzogli il prego, e l’occhio.

Fatto ogni gesto pio, detto ogni carme,
Che placato rendea l’inferno, e Pluto,
À la Dea maga, et à le magich’arme
Paga con altri preghi altro tributo.
Poi prega l’altra Dea, che per lei s’arme,
E non le manchi del suo fido aiuto.
Tre volte il vecchio poi purga co’l lume
Acceso, e tre co’l zolfo, e tre co’l fiume.

Nel cavo rame intanto alto, e capace
L’acque, i fior, le radici, e l’herbe, e ’l seme,
Per lo calor, che rende la fornace,
Tutte le lor virtù meschiano insieme.
E mentre il foco, e ’l fonte il tutto sface,
S’alza la spuma, e l’acqua ondeggia, e freme,
E l’onde andando, e l’herbe hor sopra, hor sotto,
Fanno un roco romor perpetuo, e rotto.

De sassi, c’ha de l’ultimo Oriente,
E quelle arene anchor con l’herbe mesce,
Che lava l’Oceano in Occidente,
Mentre due volte il giorno hor cala, hor cresce:
E del Chelidro Libico serpente,
E del notturno humor, che stilla, et esce
Da l’alma Luna, aggiunge al cavo rame,
Con l’ala Strigia tenebrosa, e infame.

Del lupo ambiguo poi, che si trasforma
Fra l’herbe rare pon, che ’l bagno fanno,
Di quel, c’hor hà di lupo, hor d’huom la forma,
La qual suol prender varia ogni non’anno.
Fra tanta strana, e innumerabil torma
Di cose, ch’entro al rame si disfanno,
D’una cornice il capo al fin vi trita,
C’hà visto nove secoli di vita.

La saggia, e dotta incantatrice come
Tutte quelle sostanze hà in un ridotte,
Con cose altre infinite senza nome,
Che seco dal suo regno havea condotte,
Pria, che toglia ad Eson l’annose some,
Vuol far l’esperientia se son cotte,
D’olivo un secco ramo, e senza fronde
V’immerge, e l’herbe volge, alza, e confonde.

Ecco che ’l ramo seco il secco perde,
Tosto che ’l bagnan l’onde uniche, e dive.
Ella il trahe fuor del bagno, e ’l trova verde,
E dopò il vede ornar di fronde vive:
Ma ben la speme in lei maggior rinverde
Quando il vede fiorir d’acerbe olive,
E mentre ella vi guarda, e se n’allegra,
D’olio ogni oliva vien gravida, e negra.

L’humor, che nel bollir s’inalza, e cade,
E passa sopra l’orlo, et esce fuori,
E per la corte fà diverse strade,
Tutte le fà vestir d’herbe, e di fiori.
Fan la stagion fiorir de l’aurea etade
Il minio, il croco, e mille altri colori.
Per tutto, ov’ella sparge il succo, e ’l prova,
Nasce la primavera, e l’herba nova.

Medea, che vede maturar l’oliva,
E d’herbe, e varij fior la corte piena,
Stringe il coltello, e fere il vecchio, e priva
Del poco humor la stupefatta vena:
Poi nel grato liquor, che ’l morto aviva,
Il vecchio in tutto essangue infonde à pena,
Che ’l sacro humor, che bee la carnal salma,
In un punto il vigor gli rende, e l’alma.

Com’entra per la bocca il grato fonte,
E per dove il coltel percosso l’have,
La crespa, macilente, e debil fronte
Perde il pallore, e vien severa, e grave.
Par ch’ogni hor più le forze in lui sian pronte,
E che la troppa età manco l’aggrave.
Egli il centesimo anno havea già pieno,
E più di trenta già ne mostra meno.

Il volto de le crespe ogni hor più manca,
S’empie di succo, e acquista il primo honore.
Già tanto la canicie non l’ imbianca,
Anzi più vivo ogni hor prende il colore.
La barba è mezza nera, e mezza bianca,
Già la bianchezza in lei del tutto more;
È ver, che qualche pel bianco anchor resta
Fra i novi crin de la cagnata testa.

Com’esser giunto ad otto lustri il vede,
À gli anni, c’ han più nervo, e più coraggio,
La dotta Maga il fà saltare in piede
Per non lo far più giovane, e men saggio.
L’ama di quarant’anni, perche crede,
Che quel tempo ne l’huomo habbia vantaggio,
Perche l’età viril, dov’ella il serba,
È più forte, più saggia, e più superba.

Vide Lieo da l’alto eterno chiostro,
Gli occhi abbassando in ver l’Emonia corte,
Questa alta maraviglia, e questo mostro,
Che fè Medea nel padre del consorte.
Scende tosto dal cielo al mondo nostro,
Dove ottien da Medea l’istessa sorte,
E dà gli anni più belli, e più felici
À l’invecchiate Ninfe sue nutrici.

Questa maga dottrina, e questi incanti
Non opran sempre il ben, ne rendon gli anni.
E veggasi à gli poi commessi tanti
Da la cruda Medea mortali inganni.
Dati havea di Giason pochi anni avanti
Due figli à sopportar gli humani affanni
Quando volse Medea l’arte, e l’ingegno
À racquistare à lor l’oppresso regno.

Quando per la soverchia età s’accorse
Eson, ch’era mal’ atto à governare,
E che Giason troppo fanciullo scorse,
Non volle quel maneggio al figlio dare,
Anzi lo scettro del suo regno porse,
Perche ’l potesse reggere, e guardare,
A Pelia suo fratel per tanto tempo,
Che ’l tenero Giason fosse di tempo.

E ’l zio poi ver Giason empio, e rubello
L’oracol, che gli diè sospitione,
Ch’uccidere il dovea più d’un coltello
Per opra d’un, ch’esser credea Giasone,
Però prima il mandò per l’aureo vello,
Per darlo in Colco al regno di Plutone,
E poi, ch’ei diede à quella impresa effetto,
Hebbe del suo valor maggior sospetto.

Mentre con modo, e con parlare honesto,
Col rispetto, c’haver si debbe al zio,
Giason chiedendo il suo, gli fù molesto,
Ei cibò ogni hor di speme il suo desio.
Dicendo, s’io no’l rendo cosi presto,
Move giusta cagion l’animo mio.
Giason di creder finge, come accorto,
Poi che gli è forza à sopportar quel torto.

Che Pelia in mano havea tutto ’l thesoro,
Ogni cittade, ogni castel più forte,
Al nipote assegnato havea tant’oro,
Quanto potea bastar per la sua corte.
Quando andò contra il drago, e contra il toro,
Perche in preda pensò darlo à la morte,
Per infiammarlo meglio à quella impresa,
Non gli mancò d’ogni honorata spesa.

S’accomodò Giason come prudente,
À l’animo del zio con finto core,
E à varij modi havea volta la mente,
Che ’l poteano ripor nel regio honore.
E con la moglie ragionò sovente
Di far morir l’ingiusto Imperadore.
La donna diede al fin contra il tiranno
Effetto al lor pensier con questo inganno.

Ne và con finte lagrime al castello
Del zio, verso il suo sposo avaro, e infido,
Dove stracciando il crin sottile, e bello,
Scopre il finto dolor con questo strido,
Oime, ch’io feci acquistar l’aureo vello
À questo ingrato, e gli diei nome, e grido,
E rea contra il fratello, e ’l padre fui,
Per haver poi tal guiderdon da lui.

Comanda il Re, ch’ innanzi non gli vegna
La moglie del nipote, che si duole,
Che sà, ch’ella è qualche querela indegna,
Che fra marito, e moglie avenir suole.
Ma mentre che la lor discordia regna,
Che debbiano, comanda à le figliuole,
In qualche appartamento à lor vicino
La consorte raccor del lor cugino.

Le figlie desiose di sapere
Da Medea la cagion del suo lamento,
Ricevon lei con le sue cameriere
In uno adorno, e ricco appartamento.
Contando ella il suo duol mostra d’havere
Del ben fatto à Giason rimordimento,
E che l’ha colto in frode, e l’haria morta,
S’ella non si fuggia fuor della porta.

E riprendendo l’adulterio, e ’l vitio,
Ch’al nodo coniugal non si richiede,
Dicea mille parole in pregiuditio
De la sua lealtà, de la sua fede;
E rimembrava ogni suo benefitio,
Ogni aiuto, e consiglio, che gli diede,
E ch’à tradir colei tropp’era ingiusto,
Ch’al padre havea ringiovenito il busto.

E che tal torto far non le dovea,
Renduto havendo à Eson robusto l’anno.
E di quest’opra sua spesso dicea,
Perch’era il fondamento de l’inganno.
Tanto, che l’odio finto di Medea
Chieder fè à le fanciulle il proprio danno,
Ch’al troppo vecchio padre, e senza forza
Volesse rinovar l’antica scorza.

La paterna pietà, la ferma spene
Di migliorar l’imperio, e la lor sorte,
Se l’età più robusta il padre ottiene,
Se s’allontana alquanto da la morte;
Il non veder, che ’l modo, ch’ella tiene,
È per ripor nel regno il suo consorte,
Fè la mente d’ogn’una incauta, e vaga
D’ottener questa gratia da la maga.

E con preghi giovevoli, e con quanto
Sapere è in lor, pregan la donna accorta.
Non rispond’ella, e stà sospesa alquanto,
E mostra in mente haver cosa, ch’ importa.
Noi non dobbiamo usar l’arte, e l’incanto,
Se non habbiamo il ciel per nostra scorta,
(Disse poco dopò) ma, s’io ben noto,
Tosto propitio fia de cieli il moto.

Quella pietà paterna, che vi move,
À me talmente ha intenerito il petto,
Che Pelia io vò vestir di membra nove,
Ringiovenirgli l’animo, e l’aspetto.
Ma vò, ch’in un monton prima si prove,
Se può l’ incanto mio far questo effetto.
Pria, che ’l sangue di Pelia sparso sia,
Vi voglio assicurar de l’arte mia.

Secondo che comanda ella, s’elegge
Dove stava l’ovil fuor del castello,
Il più vecchio monton, che sia nel gregge,
Per rinovargli la persona, e ’l vello.
Intanto su’l suo dorso il forno regge
Il rame, che vuol far l’ariete agnello.
Medea fà, che di sotto il foco abonda,
E fa consumar l’herba, e fremer l’onda.

Ella di quel liquore havea portato,
Che gia fè rinverdir la secca oliva,
E n’havea tanto in quel vaso gittato,
Che dar potea al monton l’età più viva.
Poi per le corna havendolo afferrato
Del poco sangue, c’ha, le vene priva,
E come il pon nel bagno essangue, e morto,
S’aviva, e l’onda mangia il corno attorto.

Le corna attorcigliate, e gli anni strugge,
E già il monton l’etate ha più superba.
La vena il novo sangue acquista, e sugge,
Tanto, ch’in tutto ottien l’età più acerba.
Come ella il pon di fuor, lascivo fugge,
E chiede il latte, e non conosce l’herba;
Et hor si ferma, hor bela, hor corre, hor gira
Secondo il desir novo il move, e tira.

Allegrezza, e stupor subito prende,
Come vede l’agnel la regia prole.
Sparsa ella del liquor la terra rende,
E germogliar fa i gigli, e le viole.
Tal, che ’l miracol doppio ogn’una accende
À crescer le promesse, e le parole.
Dic’ella non poter condur l’altr’opra,
Fin, che la terza notte il Sol non copra.

Già il corpo oscuro, e denso de la terra
Tre volte à gli occhi loro havea fatt’ombra,
Quando volendo fare andar sotterra
Medea di Pelia ingiusto il corpo, e l’ombra,
D’ogni virtù contraria à la sua guerra
Fatta havea la caldaia ignuda, e sgombra,
E tutta piena havea la ramea scorza
D’un puro fonte, e d’herbe senza forza.

L’incanto, e ’l sonno havea co’l Re legata
La corte sua ne l’otioso letto,
E Medea con le vergini era entrata
Dove dovean dar luogo al crudo effetto.
La spada ignuda ogn’una havea portata,
Con cui passar voleano al padre il petto,
Medea mostrando il Re dal sonno oppresso,
Cosi le spinse al parricida eccesso.

Eccovi il vostro padre in preda al sonno,
E i vostri pugni quei tengon coltelli,
Ch’à lui votar l’antiche vene ponno,
S’aman, che ’l sangue suo si rinovelli.
Se de la vita ei fia più tempo donno,
S’anni robusti ei fà de gli anni imbelli,
Mirate, quanto migliorar potete
Ne gli sposi propinqui, ch’attendete.

Del padre infermo la vita, e l’etade
Alberga ne la vostra armata palma,
Hor se in voi regna punto di pietade,
S’amor punto per lui vi punge l’alma,
Pietose verso lui le vostre spade
Privin del sangue rio l’antica salma.
La prima à quei conforti il colpo invia,
Et empia vien per voler esser pia.

È ver, che volge in altra parte gli occhi
Ne vuol veder ferir l’audace mano.
L’altre con questo essempio alzan gli stocchi
Togliendo gli occhi al colpo empio, e profano.
Come fan sangue i parricidi, e sciocchi
Ferri, resta l’incanto, e ’l sonno vano;
Si sveglia il padre, e vede i colpi crudi,
E le figlie d’intorno, e i ferri ignudi.

D’alzar la carnal sua ferita spoglia
Cerca per sua difesa, e dice, ò figlie
Qual nova crudeltà v’arma la voglia
À far del sangue mio l’arme vermiglie?
Tosto, ch’egli dà fuor l’ira, e la doglia,
E per difesa cerca, ove s’appiglie,
Vien fredda ogni fanciulla come un ghiaccio,
E trema à tutte il ferro, il core, e ’l braccio.

Medea, che quelle vede afflitte, e smorte,
Che far vacar doveano la corona,
D’età, di membra, e d’animo più forte,
Mentre bravando il Re non s’abbandona,
Gli fora il collo, e datogli la morte,
Ardita il prende sù la sua persona,
Et à le meste figlie dà coraggio
E dice, che ’l farà robusto, e saggio.

L’anchor credule vergini per quello,
Che vider del decrepito montone,
Ch’essendo morto uscì del rame agnello,
E per lo rinovato in prima Esone,
Credendo, che rifar giovane, e bello,
Debbia il lor Re la moglie di Giasone,
L’aiutano à portar con questa speme,
Dove nel cavo rame il fonte freme.

La Maga, che quel Re ne l’onde vede,
Ch’occupava al suo sposo il regio manto,
Per non dar tempo à la vendetta chiede
Il veloce dragon con novo incanto.
Pon sopra il carro il fugitivo piede,
E lascia le nemiche in preda al pianto,
Che i ferri havean, che fur nel padre rei,
Presi per vendicarsi sopra lei.

Non porge orecchie à l’alte strida, e à l’onte
Medea, che le fanciulle à l’aria danno,
Ma drizza il volto ad Otri à l’alto monte,
Che dal diluvio già non hebbe danno.
Dove Cerambo andò con altra fronte,
Quando il vestir le penne, e non il panno,
Dargli à le Ninfe allhora i vanni piacque,
Che potesse fuggir l’ ira de l’acque.

Vede l’Eolia Pitane in disparte,
Là dove fè il dragon di marmo il dorso,
E vaga di veder quindi si parte,
E ver la selva d’Ida affretta il corso.
Dove fè Thioneo con subit’arte
D’un toro un cervo, e al figlio diè soccorso,
E per torlo à la morte, e à l’altrui forza
Ascose il furto suo sott’altra scorza.

In quella arena poi le luci intese,
Che diè sepolcro al padre di Corito,
E dove sbigottì (quando s’intese)
Di Mera il latrar novo il monte, e ’l lito.
Corse da poi dove le corna prese
Ogni donna, e fè udir l’alto muggito
D’Euripilo nel vago, e fertil campo,
Allhor, ch’indi partissi Hercole, e ’l campo.

Passò dove gli horribili Telchini
Hebber si fiero l’occhio, empio l’aspetto,
Ch’in Rodi, ov’eran magici indovini,
Tutto quel, che vedean, rendeano infetto.
Cangiavan gli animali, i faggi, e i pini,
E ciò, ch’ à gli occhi lor si facea obbietto.
Giove al fin gli hebbe in odio, e gli disperse,
E nell’ onde fraterne gli sommerse.

Sopra Cea passò dopo, e le sovenne
D’Alcidimante la felice morte,
Che quando la figliuola hebbe le penne,
Al vital corso havea chiuse le porte.
E se di donna una colomba venne,
Non lagrimò la sua cangiata sorte.
Ver quella Tempe poi passar le piacque,
C’ hebbe nome dal Cigno, che vi nacque.

Appresso à Tempe, ov’hoggi è l’Hirio lago,
Arde Fillio d’amor de l’Hiria prole,
D’un garzon di si bella, e rara imago,
Che dispone il suo amante à quel, che vole.
Se vede d’uno augello il suo amor vago,
Fillio và con tant’arte à l’ombra, e al Sole,
Che lieto al fine il trova, il segue, e ’l prende,
Et al dolce amor suo domato il rende.

Per servare al suo imperio honore, e fede,
Orsi, tori, leoni abbatte, e lega.
Vede un tratto il fanciullo un toro, e ’l chiede,
Sdegnato finalmente Fillio il nega.
Ver la cima d’un monte affretta il piede
L’irata prole d’Hiria, e più no’l prega,
E dice à Fillio, anchor darmi vorrai
Quel, che t’hò dimandato, e non potrai.

Si getta, come è in cima, giù del monte,
Per veder de’ suoi dì gli estremi affanni.
Si credea ogn’un, che la virginea fronte
Cader dovesse in terra, e finir gli anni;
Ma le penne à venir fur troppo pronte,
Che ’l fero un Cigno, e diero à l’aria i vanni.
Pianse la madre, e si stracciò le chiome,
E fe piangendo il lago, e diegli il nome.

Verso il Pleuro poi prese la strada,
Dove Combea, la qual nacque d’Ofia,
De’ figli hebbe à temer l’ ira, e la spada,
Ma si fece un’ augello, e fuggì via.
Scoprì dapoi la Calaurea contrada,
Sacra à la Dea, che parturiti havia
À la notte, et al giorno il maggior lume,
Dove la moglie, e ’l Re vestir le piume.

Si volge poi dove i Cillenij stanno,
E dove un cieco amor si accese il petto
À Menefron, che, come i bruti fanno,
Con la madre volea commune il letto.
Vide Cefiso poi, che piangea il danno
Del nipote, c’havea cangiato aspetto,
Ch’un dì fe, che tant’ ira Apollo assalse,
Che ’l fe una Foca, e diello à l’onde salse.

Lascia adietro Cefiso, e ’l camin piglia
Ver l’albergo d’Eumelio, e vede dove
Egli ne l’aria già pianse la figlia;
Poi ver Corinto i draghi instiga, e move.
Quivi à quel luogo ella chinò le ciglia,
Che la Grecia arricchì di genti nove.
La pioggia empì di funghi il monte, e ’l piano,
Poi si fece ogni fungo un corpo humano.

Al regio albergo poi volge la fronte,
Dove l’ingrato suo consorte vede
La figliuola sposar del Re Creonte,
E à lei mancar de la promessa fede.
Le voglie à la vendetta accese, e pronte
Rende l’ira, che l’ange, e la possiede,
E fà portar da figli al regio nido
À la sposa novella un dono infido.

La Maga i figli suoi chiama in disparte,
E d’oro una bella arca in man lor pone,
E insegna loro il modo à parte à parte
Di presentarla in nome di Giasone.
Quivi era dentro fabricato ad arte
(Che smorzato parea) più d’un carbone,
Che come vedea l’aria, s’accendea,
E pietre, e muro, e sino à l’acqua ardea.

Com’han dato i figliastri à la matrigna
L’arca, dove il presente era riposto,
Ritornano à la madre empia, e maligna
Correndo, come à lor da lei fu imposto.
Apre la sposa l’arca, e ’l foco alligna
Co’l velen, che nel dono era nascosto,
Ch’arde il palazzo, e lei con mille, e mille,
E manda al ciel le fiamme, e le faville.

Mentre danna Giason la fiamma ultrice,
E duolsi, e ripararvi si procaccia,
Da lunge appar Medea, ch’onta gli dice,
E di maggior vendetta anchor minaccia,
E l’uno, e l’altro suo figlio infelice
Con la nefanda man gli uccide in faccia.
Corre egli à sfogar l’ira, che lo strugge,
Dice ella i versi, e ’l carro ascende, e fugge.

Verso Athene fa gir l’aeree rote
La maga, dove poco prima avenne,
Che Perifa, e Fineo con la nipote
Vestir di Polipemone le penne.
Medea con grati modi, e dolci note
Da Egeo, ch’ ivi reggea, l’albergo ottenne.
Il qual veduto il suo leggiadro aspetto,
Sposolla, e fe comune il regno, e ’l letto.

Già questo Re fuor de la sua contrada
Etra sposò, che nacque di Pitteo,
E ingravidolla, e le lasciò una spada
Per lo figliuol, che poi nominar Teseo.
Nove volte nel ciel l’usata strada
Fornita la nipote havea di Ceo,
Quand’ella aperse il ventre, e si fe madre
Di Teseo, c’hebbe adulto il don del padre.

Venne poi Teseo un cavalier si forte,
Che ne sonava il nome in ogni parte,
E per ogni città, per ogni corte
Da tutt’ era stimato un novo Marte.
Tentato c’hebbe un tempo la sua sorte,
Per conoscere il padre, al fin si parte,
E havendo per camin pugnato, e vinto,
Da ladri assicurò l’Ismo, e Corinto.

Non come figlio al padre s’appresenta,
Che vuol veder, s’ei l’ ha in memoria prima.
Tosto, che ’l nome suo fa, che ’l Re senta,
Ch’à lui viene un guerrier di tanta stima,
D’ogni accoglienza, e honor regio il contenta,
E ’l pon de la sua corte in sù la cima,
E quei promette à lui pregi, et honori,
Che può nel regno suo donar maggiori.

Non sà però il Re, che ’l guerrier, c’have
Ne la sua corte si famoso, e degno,
Sia quella prole, ond’Etra lasciò grave,
À cui la spada sua diede per segno:
Pur vedendolo affabile, e soave,
Ricco di forza, d’animo, e d’ingegno,
Ogni favor gli fa con lieto ciglio,
Ne più faria sapendo essere il figlio.

Vide Medea co’l suo non falso incanto,
Che ’l cavalier, ch’al Re tanto piacea,
Dovea portar d’Athene il regio manto,
Tosto che ’l vecchio Egeo gli occhi chiudea.
La qual cosa à Medea dispiacque tanto,
Che già del Re d’Athene un figlio havea,
Che per salvare al figlio il regio pondo,
Pensò questo guerrier levar del mondo.

E disse verso il Re per arte ho visto
Quel, che del cavalier chiede la sorte,
E del bel regno tuo far deve acquisto,
Come ti toglie il Sol l’avara morte:
E rende il core al Re turbato, e tristo,
Che ben vedea, ch’un cavalier si forte
Se de’ gradi il rendea promessi adorno,
Potea torgli à sua voglia il regno, e ’l giorno.

E se ben non vedea nel bello aspetto
Alcuno inditio, alcun segno d’ inganno,
Pur come vecchio accorto, e circospetto,
Si volle assicurar da tanto danno.
Mentre per dare à questa impresa effetto
Molti discorsi il Re pensoso fanno,
Medea, che pria v’havea l’animo inteso,
Tutto sopra di se tolse quel peso.

Quando venne di Scithia al lito Argivo
Medea per migliorar fortuna, e terra,
Havea portato un tosco il più nocivo,
Che nascesse giamai sopra la terra.
Nel regno d’ogni bene ignudo, e privo
Prima questo venen vivea sotterra,
E poi per nostro mal, come al ciel piacque,
Nel miglior mondo in questa forma nacque.

Quand’ Hercole passar volle à l’inferno
Per torre à Pluto l’anima d’Alceste,
Dapoi c’hebbe varcato il lago Averno
Per gire ù piangon l’anime funeste,
Perc’hebbe il suo valor Cerbero à scherno,
Quel mostro, ch’ ivi abbaia con tre teste,
Per forza incatenollo Hercole, e prese,
E strascinollo al nostro almo paese.

Mentre quel mostro egli strascina, e tira
Per lo mondo à cui splende il maggior lampo,
E ’l can vuol pur resistere, e s’adira,
E per tre gole abbaia, e cerca scampo,
La bava, che gli fa lo sdegno, e l’ ira,
Del suo crudo veneno empie ogni campo.
Di quella spuma poi l’herba empia, e fella
Nacque, c’hoggi Aconito il mondo appella.

Mesce questo venen, c’havea nascosto
Con un liquor di Bacco almo, e divino,
E ad un ministro il suo volere imposto
Mostra la morte al Re del peregrino.
Poi che fu Egeo con gli altri à mensa posto,
E c’hebbe in man Teseo la coppa, e ’l vino,
Gli occhi à lo stocco il Re di Teseo porge,
E ’l conosce per suo come lo scorge.

Subito il Re dal cavaliero impetra,
Che non accosti al vino anchor le labbia,
E gli dimanda, s’ei mai conobbe Etra,
E come quella spada acquistat’ habbia.
Il cavalier dal labro il vino arretra,
E si palesa al Re, che d’ ira arrabbia:
Contra la moglie corre, e sfodra l’arme,
Et ella verso il ciel s’alza co’l carme.

Di novo al Re s’ inchina ei come figlio,
Stupido del volar de la matrigna.
L’abbraccia il padre con pietoso ciglio,
E dice, ben ne fu Palla benigna,
Da poi che te salvò dal rio consiglio
De la noverca tua cruda, e maligna,
Che per veder regnar la prole sua,
Ascose entro à quel vin la morte tua.

Quanto ella dotta sia ne l’arte maga,
Il vol, che prese al ciel, te ne fa segno,
E de la morte tua soverchio vaga,
Per far del mio reame il figlio degno,
Mi disse, che per arte era presaga,
Ch’eri venuto à tormi il giorno, e ’l regno,
E ch’à schivar questa maligna sorte,
Non v’haveva altra via, che la tua morte.

Ma l’alma Attica Dea m’aperse gli occhi,
E scoprir femmi il suo crudele inganno,
Mostrando à gli occhi miei l’aurati stocchi,
Che te dal rio venen salvato m’ hanno.
Hor poi che ’l cielo anchor non vuol, che scocchi
Contra alcun di noi due l’ultimo danno,
Vò, che con più d’un dono, e sacrificio
Riconosciamo un tanto beneficio.

Finito c’han di dar quel cibo al seno,
Ch’à le vene supplir può per quel giorno,
Gli mostro il Re d’Athene il sito ameno,
E tutta la città dentro, e d’ intorno.
Dove l’ ingegno Greco alto, e sereno
Hà d’ogni alta scientia il mondo adorno,
Con questo, e ogni altro segno il padre brama,
Ch’ ei vegga quanto il pregia, e quanto l’ama.

Come la nova Aurora à predir venne,
C’havea sul carro il Sol già posto il piede.
Il sacrificio preparato ottenne
Dal Re, e da gli altri la promessa fede.
Scanna il coltel l’ariete, e la bipenne
Fra l’uno, e l’altro corno il toro fiede:
E rendon gratie al ciel con questa offerta
Che lor la maga fraude habbia scoperta.

Siede al convito poi co’l figlio Egeo,
Con gli huomini più illustri, e più discreti.
Hor come il soavissimo Lieo
Fatti hà gli spirti lor più vivi, e lieti
Da pareggiare il Re di Thebe, et Orfeo
Comparsero i dottissimi poeti,
E al suono un de la lira, un de la cetra
L’alte lodi cantò del figlio d’ Etra.

Tu desti al sacrificio, invitto, e degno
Teseo quel toro, il cui furore, e scorno
Prima il Cretense, e poi il Palladio regno
Distrutto havea co’l periglioso corno.
Salvasti Cremion da un’ altro sdegno
À quella belva ria togliendo il giorno,
Ch’al cinghial Calidonio, e d’ Erimanto
Vestì già nel suo grembo il carnal manto.

Liberasti Epidauro dal sospetto
Di Perifeta figlio di Vulcano.
Tu passasti à Procuste il crudo petto,
Che contra il seme human fu si inhumano:
Che s’un’ huom troppo corto havea nel letto
Via più lungo il rendea con l’empia mano;
E s’ havea troppo smisurato il busto
La sega per lo letto il facea giusto.

La destra tua in Eleusi il sangue agghiaccia
Di Cercion co’l suo honorato telo.
Fa, che quel Sini anchor sepolto ghiaccia,
Che soleva à due pin piegar lo stelo,
E legate c’havea d’un’ huom le braccia
À le due cime ir le lasciava al cielo;
E godea di veder con questo aviso
Sù due pini in due parti un’ huom diviso.

Tu per gire ad Alcatoe, al Lelegeo
Muro, hai fatto ad ogn’un libero il passo,
Quel ladro ucciso havendo iniquo, e reo,
Che poi nel mar fu trasformato in sasso.
Sciron fra il nostro, e ’l lito Megareo
Fea de l’alma, e de beni ignudo, e casso
L’incauto, et innocente peregrino,
Dandol co’l piè dal monte al Re marino.

Ma tu v’andasti, e da l’istesso monte
Desti co’l piede à lui l’ istessa fossa,
Di cui sbattute fur dal salso fonte
Più giorni in qua, e in là l’ horribili ossa.
Alfin con l’ossa sue prese altra fronte
Nel mar stesso, ov’hebbe la percossa,
E anchor più d’un superbo, et aspro scoglio
Fà fede del suo nome, e del suo orgoglio.

E s’ io vorrò contare à parte à parte
Tutto il ben, che m’apporta il tuo valore,
Non potrò mai con ogni sforzo, et arte
Supplire al tuo da me debito honore.
La spada usasti tu per me di Marte,
Io la cetra d’Apollo in tuo favore,
Ma l’arme del tuo Marte oprato ha tanto,
Che aggiunger non vi può d’Apollo il canto.

Mentre hai tanti per me colpi sofferti,
Fù lo scudo di Marte il tuo riparo,
Mentre, ch’ io canto, e celebro i tuoi merti,
Con lo scudo di Bacco io mi riparo.
Hor se i disagi tuoi fur varij, e certi,
E ’l mio d’hoggi conforto, e vario, e chiaro,
Veggio , se ben son d’appagarti vago,
Che più ti debbo quanto più t’appago.

Mentre il divin Poeta, e ’l carme, e ’l legno
Dà maggior lume à gesti di Teseo,
E commenda l’ardir, l’arte, e l’ ingegno,
Onde tante alte imprese al mondo feo,
Et ogni fatto suo celebre, e degno
Fà pianger di dolcezza il vecchio Egeo,
E la città Palladia in ogni loco,
È tutta suono, e canto, e festa, e gioco.

Un vecchio secretario del consiglio
S’appresenta, ove il Re con Teseo siede,
E fatto riverentia al padre, e al figlio,
Solo udienza al Re secreta chiede,
E fa talmente à lui pensoso il ciglio,
Ch’ogn’un, che guarda, manifesto vede
Mentr’ei si turba alquanto, e ascolta, e tace,
Ch’ei dice cosa al Re, che non gli piace.

Pur la gioia, che puote al volto impetra,
E finge come pria la mente lieta,
E comanda à la lira, et à la cetra,
Coe per festa d’ogn’un non stia più cheta:
Poi prende per la mano il figlio d’Etra,
E ’l mena nella stanza più secreta,
Dove discorron quell’aviso insieme,
Che diede il secretario, e ch’al Re preme.

Ah quanto scarsi, e brevi ha i suoi contenti
Quella felicità, che ’l mondo apporta.
Come son pronti i miseri accidenti
À perturbarla, e farla in tutto morta.
Quel, che credea con tanti ben presenti
Chiusa ad ogni infortunio haver la porta,
Ha nova, che ’l Cretense Imperatore
Il regno gli vuol tor, l’alma, e l’honore.

Minosso il Re de la Saturnia terra
Hebbe un figliuolo Androgeo al mondo raro,
Famoso ne la lotta, e ne la guerra
Per l’atletica impresa illustre, e chiaro.
Dove il Palladio muro Athene serra,
Del suo valor non volle essere avaro,
Anzi con tanto honor la lotta vinse,
Che vi fu per invidia chi l’estinse.

Il Re d’Athene provido, et accorto
Mandò queste parole al padre irato,
Se nel mio regno Androgeo è stato morto,
Tosto, che quel, ch’errò sarà trovato,
Farò condurlo al tuo Cretense porto,
Che dal tuo tribunal sia castigato,
Ne mancherò d’ogni opportuno officio,
Che si ritrovi, e mandi al tuo giudicio.

Se bene à questa scusa ei par, che stesse,
Mandò secretamente alcuni sui,
Ch’ investigasser ben, chi tolto havesse
Un figlio cosi raro al mondo, e à lui.
E dopo qualche dì par, ch’ intendesse,
Che ben ch’ Egeo desse la colpa altrui,
Havea lo stesso Re modo tenuto,
Che fosse Androgeo suo donato à Pluto.

E dato havendo à questo inditio fede,
E volto à la vendetta il giusto sdegno,
L’ambasciator de la Palladia sede
Fece licentiar del Ditteo regno,
E senza dargli termine, e gli diede
Da passare in Athene un picciol legno,
E con quel tristo aviso era in quel punto
Lo scacciato lor nuntio al porto giunto.

Chiedendo udienza per l’ambasciatore
Fè il secretario il Re pensoso, e mesto,
Dicendo, che per quel, ch’apparea fuore,
Era per riferir peggio di questo.
Intanto l’oltraggiato Imperatore
Fà con ogni suo sforzo d’esser presto,
E sapendo il poter del suo nemico
Cerca ogni Re vicin tirarsi amico.

E se ben di pedoni, e cavalieri,
E di triremi, e navi era si forte,
Che potea far senz’huomini stranieri
Terrore, e danno à le Cecropie porte:
Pur come fanno i providi guerrieri
Mandò persone nobili, et accorte,
Per collegar quei regni in quella guerra,
Che ’l potean far più forte in mare, e ’n terra.

Fra gli altri elesse un saggio cavaliero,
Ch’andasse à collegar le forze d’Arne.
Un pezzo stette in dubbio ei nel pensiero,
Come difficultà mostrasse farne:
E poi rispose un servo fido, e vero,
(Se ben deve obedir) quando tornarne
Può danno al suo Signor troppo evidente,
Non dee mancar di dir quel, ch’ei ne sente,

Non fu mai nation più avara, e infida,
Ne si può trar da loro altro, che danno,
Non sol micidial, ma parricida,
Ma, che contra se stessa usa l’ inganno.
Se ’l soldo tuo la lor militia affida,
E quei tanto prudenti Attici il sanno,
E fanno à lor veder de l’oro il lampo,
Ecco in un dì te morto, e rotto il campo.

Siton fu già Signor di quella parte,
Che vuoi, ch’ io cerchi collegarti amica,
E sostenendo un periglioso Marte
Da molta gente barbara nemica,
Mentre le forze patrie egli comparte,
E assicurar lo Stato s’affatica,
Il luogo più importante si consiglia
Fidare ad Arne, à la sua propria figlia.

Ma i Barbari sapendo quanto importe
L’argento, e l’or con gli aversarij loro,
Quel luogo hebber da lei sicuro, e forte
Per forza di promesse, e di thesoro.
Cosi aprì lor la vergine le porte
Via più, che de l’honor, vaga de l’oro.
E fu cagion, che ’l padre disperato
Perdè poco dapoi l’alma, e lo stato.

È ver, che pria, che ’l Re perdesse il lume,
Qualche pena cader ne vide in lei,
Che fu dal capo à i piè con nere piume
Vestita dal giudicio de gli Dei.
Ma non perdè l’antico suo costume
Ne i vitij de la patria avari, e rei.
Ch’ anch’ hoggi invola in questa forma nova
Medaglie, anella, e tutto l’or, che trova.

Chi Putta, e chi Monedula l’appella,
Et è alquanto minor de la Cornacchia;
E l’humana imitar cerca favella,
E rispondendo altrui cinguetta, e gracchia.
Et ogni cosa d’or lucida, e bella
Prende nel becco, e poi vola, e s’immacchia.
Si che non chieder gente in tuo favore,
Ch’è più vaga de l’or, che de l’honore.

Con la favella il Re saggio, e co’l ciglio
Approvò ciò, che ’l cavalier gli disse,
E dando affetto al suo fedel consiglio,
Volle, ch’altrove à questo officio gisse.
Ne volle il campo suo porre in periglio,
Ch’ infido, e avaro barbaro il tradisse.
Ben che fu tanto il popol, che s’offerse,
Che quasi la sua armata il mar coperse.

E Cinno, e Sciro, e l’ isola Anafea
Si collega con Creta, e in Creta sorge;
E con Micon, Cimolo, e Astipalea
Paro, che ’l più bel marmo al mondo porge.
La nave, il galeone, e la galea
Solcar per tutto il mar Greco si scorge.
E tutto il mondo si collega, e viene,
Altri in favor di Creta, altri d’Athene.

Che Didima, et Oliaro, et Andro, e Tino
Non vollero con Creta collegarsi,
Anzi in favor de l’Attico domino
Per honesta cagion vollero armarsi.
Ma quel, che regge il popol formicino,
Quasi la guerra addosso hebbe à tirarsi,
Per la risposta, e per la poca pieta,
C’hebbe al morto figliuol del Re di Creta.

Non sol non vò contra il mio patrio regno
(Disse) porger favore al Re Ditteo,
Ma voglio haver capital’ odio, e sdegno
Contra ciascun, c’havrà nemico Egeo:
E se per questo mar vorrà il suo legno
Passar come nemico al lito Acheo,
Con quanto i legni miei nel mar potranno,
Farò à l’armata sua vergogna, e danno.

Chi havrà rispetto à l’amicitia, e al sangue,
Non troverà questa risposta strana;
Ma quel, che per Androgeo irato langue,
La trovò molto barbara, e villana:
Pur vuol pria vendicar la prole essangue,
E poi gir contra l’ isola inhumana,
Che la pietà del suo figliuol lo sforza
À provar prima altrove la sua forza.

À pena havea l’ambasciatore Egina
Lasciato, e volta al suo Signor la vela,
Ch’una Galea la cognita marina
Solcando vien con la gonfiata tela,
E quanto più si mostra, e s’avicina,
Tanto più l’altra s’allontana, e cela.
Quest’era Attica vela, e anch’ella il corso
V’havea rivolto à dimandar soccorso.

Cefalo figlio d’ Eolo era venuto
D’Athene al Re d’Egina à questo effetto;
E se bene homai vecchio era, e canuto
Havea anchor bello il già si bello aspetto.
Ei da’ figli del Re fu conosciuto,
Et abbracciato con amico affetto,
Et fattogli ogni festa, ogni accoglienza
L’appresentaro à la real presenza.

In mezzo và, come Signor sovrano,
Di Clito, e Buti figli di Pallante,
E d’oliva un bel ramo havendo in mano
Tosto, ch’egli si vede al Re davante,
China il ginocchio, e ’l ciglio tutto humano,
E d’amore, e pietà sparso il sembiante,
Con un parlar humil, facondo, e grato
Scopre il desio de l’Attico Senato.

Se per le tue maravigliose prove
Si gloria il Re del ciel d’esser tuo padre:
Non men di quel, che se n’allegra Giove,
S’allegra, e gloria Achea d’esser tua madre.
Hor se l’amor di lei punto ti move,
Ti fà saper, che le Cretensi squadre
Han collegata già la terra tutta,
Perche la patria tua resti distrutta.

Hor, perche spera, che sarai quel figlio,
Ch’esser si dè ver la sua madre pio,
À te mi manda l’Attico consiglio,
Per che tu sappi il Cretico desio.
E ti prega, che mandi il tuo naviglio
Armato in compagnia del legno mio,
E salvar cerchi la materna terra
Da l’odiosa, e minacciata guerra.

Volea con dir più lungo, e più facondo
Cefalo porgli in gratia il patrio loco,
Ma il Re, che di natura era iracondo,
Che fu concetto di fiamma, e di foco,
Vò (disse) contra Creta, e tutto il mondo
Dar le mie genti al bellicoso gioco,
E contra ogn’un, che s’appresenta, e viene
Per fare oltraggio à la mia patria Athene.

Voi non havete aiuto à dimandarme,
Ma à prender ben da voi quel, che vi pare,
Legni, munitioni, huomini, et arme,
E tutto quel, che ’l mio regno può dare.
Ne potevate in tempo alcun trovarme,
Che meglio vi potessi accomodare.
Che come piacque à la celeste corte,
Non hebbi mai più gente, ne si forte.

L’ambasciador de la Palladia parte
Renduto c’hebbe gratie al Re cortese,
Cosi augumenti il ciel sempre il tuo Marte,
(Disse) e porga ogni aiuto à le tue imprese,
Come poi, che lasciai l’onde, e le sarte,
Tutto quel, che dett’ hai, vidi palese.
Ch’una tal gioventù mi venne incontro,
Ch’ io non vidi giamai più bello scontro.

È ver, ch’un’altra volta, ch’ io vi venni,
Da molti fui ben visto, e ben raccolto,
Et in memoria poi sempre gli tenni,
E v’ho scolpita anchor l’effigie, e ’l volto.
Hor quando il lito tuo bramato ottenni,
Hor à questo, hor à quello il lume ho volto,
E n’ ho guardati mille ad uno ad uno,
Ne’ de gli amici miei ritrovo alcuno.

Il Re, c’havea ben’ in memoria gli anni,
Ne’ quai vi venne Cefalo, e partisse,
Si ricordò de suoi mortali affanni,
E diede à l’aere un gran sospiro, e disse.
Vò rimembrare i miei passati danni,
Perche possi saper quel, ch’avenisse
Di quegli amici, ond’ hai cercato tanto,
Non senza d’ambedue dolore, e pianto.

Ma se sarà il principio amaro, e tristo,
Sarà tanto più il fin lieto, e giocondo,
Che talmente dal ciel fu al mal provisto,
Ch’accrebbe al mio baston l’honore, e’l pondo.
Tosto, che ’l Re del ciel fè di me acquisto,
E che la madre mia mi diede al mondo,
Fù sempre la gelosa mia matrigna
Ver la mia madre Egina empia, e maligna.

E, perch’à starsi in quest’isola venne,
Che d’Enopia da lei fu detta Egina,
L’odio, che Giuno ogn’ hor ver lei ritenne,
Sfogò sopra quest’ isola meschina.
Dove il tuo amico, come à gli altri avenne,
Fù condannato à l’ultima ruina
Da un’atra peste si maligna, e cruda,
Ch’ogni anima restò del corpo ignuda.

Passato l’Equinottio dopo il verno,
Tutto ingombrar gli Austri infelici il cielo,
E fer la terra un tenebroso inferno,
E posero à le stelle, e al Sole il velo.
Quell’humido, c’havean le nubi interno,
Risolver non potea lo Dio di Delo,
Tal, che ’l misero mondo stava sotto
Un’ aere oscuro, fetido, e corrotto.

Quattro volte havea Delia il suo viaggio
Finito contra il ciel per l’orme antiche,
E gli Austri ascoso havean l’Aprile, e ’l Maggio,
E fatte in tutto inutili le spiche.
E s’ascondeano, e se scopriano il raggio
Del Sol l’ombre à la terra poco amiche,
Sempre à l’aer facean maggior la guerra,
E contra il desiderio de la terra.

Se chiedono i mortai l’Aquilo, e ’l Sole,
Rinforza l’Austro, il nuvolo, e la pioggia:
Se ’l Sole appar men caldo, che non suole,
Per nostro maggior mal si mostra, e poggia.
E faccia pur il tempo quel, che vuole,
Sempre in danno del mondo ei cangia foggia;
E fa il vapor nel ciel si vario, e misto,
Che l’aere è ogn’hor più putrido, e più tristo.

Poi che con soffio ardente humido, e poco
Il suo putrido fiato Austro hebbe tratto,
E per l’humidità, che vinse il foco,
Restò del tutto l’aere putrefatto;
Quel fetor, che vi crebbe à poco à poco,
Mostrò la forza sua tutta in un tratto.
E ’l videro i mortali afflitti, e imbelli
À la strage de cani, e de gli augelli.

Cade la lana al misero montone,
Senza che ’l rovo gliele ’nvoli, ò porti,
E bela, e duolsi, e ’l capo in terra pone,
Ve ’l pongon gli animai di lui più forti.
Per ogni via le fiere, e le persone
Si veggono languir, poi caggion morti.
Ara il bifolco, e innanzi à gli occhi suoi
Vede cader l’un dopo l’altro i buoi.

Il feroce corsier non rigne, e freme,
Gli è mancato il vigor, non ha più core;
Nel presepio si stà languido, e geme
La morte, che venir dee fra poch’hore.
Non s’adira il cinghial, quand’altri il preme,
Ne mostra con le zanne il suo furore;
Ma con suono egro alquanto alza le strida,
E lascia, che ’l percota, e che l’uccida.

Il già placato, e miserabil’ angue
Vien da maggior venen battuto, e vinto;
L’aura, ch’infetta il corpo interno, e ’l sangue,
Ne lo stupor tiengli ogni senso avinto.
Ogni huomo, ogni animal s’ infetta, e langue,
E giace infermo, e resta in breve estinto.
E tanto è l’animal, che morto cade,
Ch’ i campi di defunti empie, e le strade.

Giaccion per ogni suol (chi fia, che ’l creda?)
Ne il can n’osa mangiar, ne il lupo ingordo.
E par, ch’al lezzo ogn’un conosca, e veda,
Ch’ogni corpo è di peste infetto, e lordo.
Gli augei rapaci, et usi à simil preda
Dal naso han tutti il medesmo ricordo.
L’astore, e ’l nibbio, e lo sparviere, e ’l corbo
Sente, e fugge il fetor, che rende il morbo.

Distesi per li campi i corpi stanno,
E corrotti dal tempo, che gli strugge,
Un fetor si malvagio à l’aere danno,
Che ’l cerca ogn’un fuggir, ne alcuno il fugge
Pero, ch’ in ogni parte ove si vanno,
D’ infiniti il fetore il ciel si sugge.
Tal, che l’aere per tutto è ogn’ hor men puro,
E più contagioso, e men sicuro.

Ma se per le campagne, e per le ville
Giaccion sparsi i bifolci, e gli animali,
Ne le città più grandi à mille à mille,
Vanno al sepolcro i miseri mortali.
Di mille roghi al ciel van le faville,
I quai bastano à pena à principali.
E quei che restan vivi in varij lochi
Pugnan per li sepolcri, e per li fochi.

Soverchio ardore intorno al cor raccolto
Arde, e combatte il corpo interno, e ’l core,
E ne dà inditio manifesto il volto,
E l’acceso color, ch’appar di fuore.
La lingua è grossa, et aspra, e ’l dir non sciolto,
E ’l foco sempre in lui si fà maggiore,
Che l’aura australe, e ria, ch’in favor prende,
Non gli dà refrigerio, ma l’accende.

Tanto l’ardore al fin rinforza, e cresce,
Che getta il panno, e ’l lin, che ’l tien coperto,
Poi l’annoian le piume, e del letto esce,
E giace sù la terra al cielo aperto,
Ne molto in terra stà, che gli rincresce
E vuol gire à trovar fresco più certo,
Che ’l terreo humor non fe il suo caldo meno,
Ma ben scaldò co’l foco egli il terreno.

Un cerca il fonte, un’ altro cerca il fiume,
Per rimedio del caldo, e de la sete;
Ma perde alcun pria, che vi giunga il lume,
E dà le membra à l’ultima quiete.
Altri vi giunge, e mentre ber presume
La sua salute, bee l’onda di Lethe:
Che ’l troppo freddo, e non propitio rio
Sparge nel suo pensier l’eterno oblio.

Spinto nel fiume ignudo aItri si getta,
Da l’ardor, da la sete, e da la rabbia,
Dove si muore, e l’onde agli altri infetta,
E toglie l’acque infami à l’altrui labbia.
Tal che non resta di sospetto netta
Ne la casa, ne l’acqua, ne la sabbia:
E sono in tante parti i morti sparsi,
Che non v’è luogo mondo ove ritrarsi.

Se l’amicitia, ò ’l sangue, ò l’or richiede
Qualchun, che d’Esculapio imita l’arte,
Et ei parla à l’infermo, e ’l tocca, e ’l vede,
Col medesimo mal da lui si parte.
E quanto serve alcun con maggior fede,
Tanto più tosto vien del morbo in parte.
Onde fugge ciascun star loro appresso,
E cerca più, che può, salvar se stesso.

Ciascuno al proprio ben cerca consiglio:
Sangue, amicitia, ò imperio alcun non stringe.
Il certo, e inevitabile periglio
Fà conoscer quel, ch’ama, e quel, che finge.
Lascia il servo, il padrone, il padre il figlio,
Tal che molti il disagio al fin ne spinge.
Prova ognun varij antidoti, e d’usare
Cibi acri, odori esperti, et herbe amare.

Non han più tanto à cor gl’ ingordi avari
L’utile, e cercan sol fuggir quel danno:
Non han pegni si nobili, e si cari,
Che no’l disprezzin, se sospetto n’ hanno.
S’ un morto hà in dito pretiosi, e rari
Gemmati anelli, e poi gli heredi il sanno,
Lascian, ch’altri gli toglia, e n’habbia cura,
Se tanto folle è alcun, che s’assicura.

Entra per ogni casa il morbo, e strugge
Di gente moltitudine infinita,
Che l’aura, che per forza il petto sugge,
Gli attosca, e chiama à l’ultima partita.
Tal ch’ogn’un’ odia il proprio albergo, e ’l fugge,
Per più d’un huom, che vi lasciò la vita.
E, perche la cagion non sanno, ogn’uno
Dà la colpa à l’albergo , e non à Giuno.

Danno à l’animo tristo ogni contento,
Ogni piacer, che san trovar più grato,
E, per far gratia al cor di meglior vento,
Ne vanno al monte, à l’aere più purgato:
Ma ne trovan per tutto e cento, e cento
Morti nel pian, nel monte, e in ogni lato.
Per tutto Atropo à l’huom tronca lo stame,
Ne luogo san trovar, se non infame.

Abbandonato il divin culto, e ’l tempio
Resta, e sol l’ hà in custodia Apollo, e Giove,
Benche diventa pio tal’hor qualch’empio,
E corre à Dio per far l’ultime prove,
E mentre cerca di salvar lo scempio
Del figlio il padre, e le sue preci move,
Nel mezzo del pregar diventa muto,
E dà innanzi à l’altar lo spirto à Pluto.

Ó quanti dal principio al santo choro
Corser d’accordo al pio culto divino,
E mentre il braccio alzava il vaso, e l’oro,
Per gittar sù le corna al toro il vino,
Nel più bel del mirar molti di loro
Fur trasportati à l’ultimo destino,
E prima, che sentisse il bue la scure,
Mandar l’alme à le parti inferne, e scure.

Pagando anch’ io per la mia patria il voto,
Per tre teneri figli, e per me stesso,
Prima, che ’l Sacerdote almo, e devoto
Ferisse il capo al bue, che m’era appresso,
Il toro, che del mal non era voto,
Cadde innanzi à l’altar dal morbo oppresso,
E fuggir fe i ministri, e gli altri tutti,
Ch’al tempio il sacrificio havea condutti.

Qual fosse allhor, ò quale esser dovea,
Ben puoi da te pensar l’animo mio.
Ovunque gli occhi afflitti io rivolgea,
Nel gire, e nel tornar dal loco pio,
Giacer per tutto il popolo scorgea,
Al qual m’elesse Re l’eterno Dio:
E quanto più mi rivolgea d’ intorno,
Tanto più in odio havea la luce, e ’l giorno.

Come cade la ghianda ben matura
In copia tal da l’arbor, che la forma,
Che chi vi và per quanto il bosco dura,
È sforzato à posar su’l frutto l’orma:
Cosi i figli animati di Natura
Caggion senza la parte, onde han la forma,
In copia tal, che l’huom, che vavvi, e riede,
È sforzato à posar sopr’essi il piede.

Molti prigioni fur da me salvati,
Che dovean per giustizia haver la morte,
E fur dal mio consiglio condannati
À dover sepelir le genti morte.
Da quei sù varij carri eran portati
Gl’ infelici mortai fuor de le porte,
Senza altra pompa, ò funerale ammanto,
Senza altra compagnia, senz’altro pianto.

De’ quali altri restavan non sepolti,
Altri sù varij roghi havean ricetto,
Pugnando i pochi vivi per li molti
Morti, c’havean portati à questo effetto.
E tanti corpi haveano ivi raccolti
Per dargli al foco, e al sempiterno letto,
Ch’era à tanti sepolcri il mondo poco,
E l’arbore era scarso à tanto foco.

Sì che se gli occhi tuoi veder non ponno
Gli amici, che v’havesti già più d’uno,
Vien, che fur dati al sempiterno sonno
Da lo sdegno implacabile di Giuno.
Hor se tu vuoi saper com’ io son donno
Del popol, che vist’ hai tant’opportuno
Per dar soccorso à l’Attiche contese,
Con brevi note io te’l farò palese.

Vinto io da si nefando, e strano mostro,
Privo di speme, e carco di spavento
Alzo Ie luci al glorioso chiostro,
E mando al ciel questo pietoso accento.
Padre del ciel se mai nel mondo nostro
Degnasti darti al nuttial contento,
S’è ver, che de la tua stirpe divina
Mi desti al mondo, et à la madre Egina;

Ó rendimi quell’alme, onde m’hai privo,
Ó me insieme con lor dona à la tomba.
Parlando à pena à questo punto arrivo,
Che con un chiaro lampo il ciel rimbomba,
E dove io son fra mille morti vivo,
Un folgor vien da la paterna fromba,
E par, che dica il tuono alto, e veloce,
Il cielo ha dato applauso à la tua voce.

Allegro alquanto il buono augurio io prendo,
Che dal ciel manda il Re de gli alti Dei,
E mentre novi preghi al cielo io rendo,
Che rispondan gli augurij à voti miei,
In una antica quercia i lumi intendo,
Ch’ ivi piantar de boschi Dodonei.
E quello, ch’ io vi scorsi, e che v’ottenni,
Fù cagion, che felice in tutto io venni.

Scorsi un campo infinito di formiche
Portar per una via molt’aspra, e stretta
Co’l picciol corpo i frutti de le spiche
À la città, ch’occulta haveano eletta;
E con eguali, et utili fatiche
Havendo al ben comun la mente eretta,
Secondo la lor legge, e ’l lor governo,
Si provedean per la stagion del verno.

Deh dammi, io dissi allhor, sommo Monarca,
Di gente una republica si grande,
E cosi industriosa, e cosi parca,
Come questa de l’arbor de le ghiande,
Come questa del grano avara, e carca,
Ch’appresta per lo verno le vivande.
Et ecco senza vento alcun si vede
Tremar quell’arbor da la cima al piede.

Come il tronco tremar sento, e la fronde,
Mi s’arriccia ogni pelo, e tremo anch’ io,
E dopo nasce, io non saprei dir donde,
Non sò, che di speranza al mio desio.
Bacio la terra, e ’l tronco intanto asconde
Il Sol la luce à l’hemisperio mio,
E ristorato il corpo, e spento il lume,
Mi dò in custodia al sonno, et à le piume.

Tosto, che ’l sonno ha tolto à la natura
Co i sensi il lume interior, ch’ intende,
Con quella speme, ch’à le vacue mura
Novi abitanti d’hora in hora attende,
Vien ne la fantasia confusa, e scura
Quel tronco, ù la formica hor sale, hor scende,
E gli stessi animai, c’huomini agogno,
Mi mostra sù lo stesso arbore il sogno.

Veggio tremar dapoi l arbor robusto
Senza che forza altrui gli faccia guerra,
E fa tanto crollare i rami, e ’l fusto,
Che fa cadere ogni formica in terra,
Et ecco ogni animale un’ altro busto,
Un’ altro volto, un’altra forza afferra,
Si fa maggiore, e perde il nero velo,
Et alza il novo tronco, e gli occhi al cielo.

Di più alti pensier l’alma si veste,
E d’aspetto più nobile, e più vago,
Fin tanto, che la sua terrena veste
Prende de sommi Dei la vera imago.
E quante son le trasformate teste,
Tante han di servir me l’animo vago.
Mi chiaman Re, mi fan l’honor, che ponno,
Tal che per l’allegrezza io scaccio il sonno.

Mentre mi vesto, e de gli Dei mi doglio,
Che mostrano al fantastico pensiero,
Quando non vegghio, tutto quel, ch’io voglio,
Ma non al lume vigilante, e vero;
Sento maggior, che mai l’humano orgoglio,
Ch’ ingombra il regio albergo, e ogni sentiero,
Tal, ch’io temo sognarmi, e non mi fido
Di me, tanto alza l’huom per tutto il grido.

Mentre io comando (e anchor mi maraviglio)
Che s’apran per veder fenestre, e porte,
Foco, se n’entra solo, il terzo figlio,
Là, dove io mi vestia con poca corte;
E con allegro, e stupefatto ciglio,
Padre esci ne la sala, e ne la corte,
(Mi dice) ch’un miracolo vedrai
Maggior, che fosse al mondo udito mai.

Io gli dò fede, e lascio, che mi guidi,
Senza ch’altro da lui di questo ascolti.
E veggio i sogni esser leali, e fidi
À gli huomini infiniti ivi raccolti.
E come prima nel sognar gli vidi,
Gli habiti raffiguro, e anchora i volti.
Hor tosto, ch’io mi mostro, e ogn’un mi vede,
Fà ver me riverente il ciglio, e ’l piede.

Quei, ch’erano più degni, e meglio ornati
Di presenza, e di modi più prestanti,
Innanzi al mio cospetto appresentati,
Parlar per tutti gli altri circonstanti,
E co i modi più gravi, e più honorati,
Giurando con le man sù i libri santi,
Mi chiamar Re con ogni riverenza,
E promiser per tutti ubidienza.

Mentre per gire al tempio i passi io movo,
Per ringratiar la corte alma, e divina,
Veggo piena ogni via del popol novo,
Che ’l novo Re saluta, e gli s’ inchina.
À pena dove porre il piede io trovo,
Tanto è ’l popol, che guarda, e che camina,
E si grida, e fa festa, e tutto quello,
Ch’un popol fa, ch’elegge un Re novello.

Dato l’honore al santo sacrificio,
Per compartir le facultà del regno
Distribuisco ogni grado, ogni officio,
E ’l più nobile honor dono al più degno:
Poi dividendo il campo, e l’edificio,
Frà confino, e confin fò porre il segno,
E fo, ch’ogn’un del mio compartimento
Secondo il grado suo resta contento.

Considerando poi chi furo, e come
Hebber dal prego mio gli humani accenti,
Per dimostrar l’origine co’l nome,
Gli chiamai Mirmidon da lor parenti.
Et à queili di pria travagli, e some
Hanno applicate anchor l’avare menti:
Son parchi, e cauti, e dati à le fatiche,
E cupidi de frutti de le spiche.

E secondo eran providi, et accorti
Nella buona stagion per tutto l’anno,
Cosi sono hoggi industriosi, e forti,
Et acquistare, e custodir ben sanno.
D’anni eguali, e di cor ne’ vostri porti
In soccorso d’Egeo teco verranno,
I quai ne l’arme han tanto ordine, et arte,
Ch’oserian contra il campo andar di Marte.

Con queste, et altre cose il Re cortese
Con Cefalo passar cercava il giorno,
Finch’à la mensa splendida si prese
Tutto quel, che può dar la copia, e ’l corno.
Quindi poi che Lieo lieto ogn’un rese,
Donar le membra al morbido soggiorno,
E le fidaro à l’otiose piume,
Fin ch’ à splender nel ciel venne un sol lume.

Ma poi che la fanciulla di Titone
Venne à dar bando à l’ombre oscure, e felle,
E fece, che fuggiro il paragone
Del maggior foco tutte l’altre stelle;
Saltaro prima in piè Buti, e Clitone,
E s’ornar de le vesti altere, e belle,
E giro à trovar Cefalo, ch’ intanto
Il corpo adorno fea del ricco manto.

Da questi, e da molti altri accompagnato
Al regio albergo il nuntio si trasporta,
Ma essendo anchor dal sonno il Re gravato,
À tutti si tenea chiusa la porta.
Hor mentre attende, ch’ Eaco sia levato,
E per la sala regia si diporta,
Ecco entra in sala Foco il terzo figlio
Del Re, per gire à lui, com’ apra il ciglio.

Peleo con Telamone erano intenti,
Gli altri figli del Re d’età maggiori,
À proveder quell’armi, e quelle genti,
Le quai per questo affar credean migliori,
Perche potesser gir co i primi venti
In favor de gli Achivi ambasciatori.
Hor, come Foco appar, si vede avante
Con Cefalo i due figli di Pallante.

Poi che ’l grato saluto, e l’accoglienza
Fè quinci, e quindi il debito opportuno,
E Foco udì, ch’à la real presenza
Non ammetteva il sonno anchora alcuno,
Si posero à seder, non però senza
Servare il grado, e l’ordine d’ogn’uno.
E stando à ragionar, fermò lo sguardo
Foco, ove in man teneva un paggio un dardo.

E, perche il giudicò superbo, e bello,
E non conobbe l’albero, e ’l colore,
Chiamò quel paggio, e volle in mano havello,
E riguardar da presso il suo splendore;
E forte il ritrovò lucido, e snello.
Poi volse il guardo à l’Attico Signore,
E non sapendo l’arme esser fatale,
Lodò con questo suon l’ ignoto strale.

D’ogni arme atta à la caccia io mi diletto,
E che più noce à l’animal selvaggio,
E di diverse forme io sò l’effetto,
E qual conviensi al corno, al cerro, e al faggio:
Hor mentre à gli occhi miei dò per obbietto
Quel dardo, che vi serba il vostro paggio,
Trovo, ch’al ferro, à la figura, e al legno
No’l potrebbe Diana haver più degno.

Il ferro è di si raro, e bel lavoro,
Et ha per quel, ch’appar, tempra si dura:
Tal mostra leggiadria l’intaglio, e l’oro,
Che farebbe à Vulcan scorno, e paura.
Non può l’amante del primiero alloro,
Che scopre tutto il ben de la natura,
Legno veder di più vaghezza adorno
In quante selve godon del suo giorno.

Questo avanza il corgnal, l’olivo, e ’l bosso,
Ne solo ammorza il bel d’ogni altra trave,
Ma può star di durezza à par de l’osso,
Et à par de le perle il lume c’have:
In quanto al peso, ch’ io giudicar posso,
Non è troppo leggier, ne troppo grave.
In somma questo dardo have ogni parte,
Che s’appartiene à la natura, e à l’arte.

Quel, che ’l fece venir d’arbore strale,
Ha molto ben la forza, e ’l legno inteso;
Perche nel ver la sua grossezza è tale,
Che corrisponde à la lunghezza, e al peso:
E appunto in quella parte ha posto l’ale,
Che ’l tengon nel volar meglio sospeso.
E per quel, che ’l giudicio mio ne vede,
Tutto è proportion dal capo al piede.

Rispose Buti allhor, questo suo dardo
Tutte le lodi tue vince d’assai,
Ch’oltre à quel, che la man conosce, e ’l guardo,
Un’altra have virtù, che tu non sai:
È men sicuro il folgore, e più tardo
Di lui, che non s’aventa indarno mai;
E quale il fato sia, ch’al dardo arrida,
Non si suol mai tirar, che non uccida.

Allhor più caldo di saper desio
Accese à Foco il giovenil pensiero,
Chi l’autor fosse, od huom mortale, ò Dio
Che ’l fece andar di quell’arbore altero.
Tu vuoi, ch’ io rinovelli il pianto mio,
Disse non senza pianto il cavaliero,
E piacesse à gli Dei, che privo sempre
Stato foss’ io da le sue dure tempre.

Et anchor, che Ia vista di quell’arme
Del mio passato ben mi renda accorto,
E del danno, ch’io n’hò, faccia attristarme,
Per tutto ovunque vò, sempre la parto.
Però, che la virtù del fatal carme,
Che fe, ch’à quel, che trahe, non fa mai torto,
Mi persuade à trarla in ogni impresa
Meco per altrui danno, e mia difesa.

E se ben nel contar chi fosse il Nume,
Che ’l legno mi donò, c’ha si bel manto,
Sarò sforzato à far d’ogni occhio un fiume,
E non potrò contarlo senza pianto;
Vò compiacerti, et ancho aprirti il lume
À la forza del fato, e de l’ incanto,
Ond’hebbe il dardo quel valore interno,
Che fu cagion del mio dolore eterno.

Non sò, se mai l’orecchie ti percosse
Di Procri il nome figlia d’Eritteo,
Sorella di colei, che Borea mosse
À rapirla pel forza al lito Acheo.
Costei, qual la cagion di ciò si fosse,
Amore, e ’l padre suo mia moglie feo.
E in vero, à par de la bella Orithia,
Più degna esser rapita era la mia.

Per la rara beltà, che seco nacque,
Ch’ogni dìcon l’età più crebbe in lei,
Fui chiamato felice poi, che piacque
Al ciel di darla à desiderij miei.
E in vero era felice: ma dispiacque
Fortuna si propitia à sommi Dei.
Ne voglion, ch’un nel basso mondo nato
Possa al paraggio lor dirsi beato.

Dal giorno de le nozze il Re di Delo
Trenta volte dal Gange uscì sotterra,
Et altrettante à la sua luce il velo
Co’l corpo oscuro suo pose la terra,
Quando donando il primo albore al cielo
L’Aurora diè principio à la mia guerra,
Che vide à caso me ne’ colli Himeti
À diversi animai tender le reti.

Come nel volto mio le luci intende
Colei, ch’alluma l’aere oscuro, e cieco,
D’amoroso desio di me s’accende,
E mi rapisce à forza, e mena seco.
Indi à l’albergo suo mesto mi rende,
E vuol de l’amor mio godersi meco,
Et io (se lece in questo à dire il vero)
Mi mostro acerbo al suo dolce pensiero.

Con pace de la Dea bella sia detto,
Se ben di gigli, e rose ha il volto adorno,
Se ben quel lume ha il suo divino aspetto,
Ch’in ciel si mostra à l’apparir del giorno,
Contrasto à l’amoroso suo diletto,
E fuggo il suo dolcissimo soggiorno:
Che volto solo à Procri era il mio amore,
E Procri in bocca havea, Procri nel core.

Mentre con le più candide parole,
E co’l più dolce affettuoso modo
Me nominando il suo bene, e ’l suo Sole
Mi vuol legar co’l più soave nodo:
Rispondo, che ’l mio debito non vuole,
Ch’al coniugal’ amor, ch’ in terra godo,
Che d’un più forte laccio il cor m’ha attorto,
Per compiacere à lei faccia quel torto.

Poi che la Dea tentò più giorni in vano
Per varie vie d’ indurmi à le sue voglie,
Et io non volli mai rendermi humano,
Per non far torto à la mia casta moglie:
Distese con furor l’irata mano,
Et afferrò le mie terrene spoglie,
Et renduto, che m’hebbe al Greco lido,
Mi fe tutto attristar con questo grido.

Habbiti la tua Procri, e spregia ingrato
Chi t’ama, e torna à tuoi propinqui guai,
Che, se non mente al mio giudicio il fato,
Non la vorresti haver veduta mai.
Poi che m’hebbe la Dea cosi parlato,
Invisibil seguimmi ovunque andai,
E solo allhor visibil mi si rese,
Che ’l mio geloso cor le fei palese.

La Dea, ch’è prima à illuminare il cielo,
E che senza partir da me disparse,
Co’l suo verso fatal di tanto gielo
L’ infiammato mio core offese, e sparse,
Che per timor del cor l’ardente zelo
Si strinse, e chiuse, e più mi nocque, e m’arse
Tanto, che ’l foco, e ’l giel fe dubbia l’alma,
Chi havesse di lor due nel cor la palma.

Quella stessa beltà, che ’l cor m’accende,
Di gelata paura anchor l’agghiaccia,
E fa temer, che ’l bel, ch’in lei risplende,
Anche altrui, come à me, diletti, e piaccia:
E di maggior timor costretto il rende
Il parlar de la Dea, che l’ombre scaccia,
Che dice, c’havrò l’alma amara, e trista
Per haver la mia Procri amata, e vista.

Pur se mi dava il suo splender sospetto,
Che non prendesse il cor di mille amanti,
E che non desse à l’adulterio effetto,
Trovando al gusto suo qualchun fra tanti;
Per lei faceano fede al dubbio petto
I bei costumi suoi pudichi, e santi.
Ne volean, che facesse il suo cor saggio
Al suo sposo, al suo honor si infame oltraggio.

Pur quello essere stato in Oriente
Rapito da chi ’l mondo imperla, e dora,
Innanzi agli occhi mi ponea sovente
Il minacciato danno da l’Aurora.
Tanto, che dal timor vinta la mente
In tutto uscì de l’ intelletto fuora,
E venir femmi à le dannose prove,
Che fan, che l’occhio mio perpetuo piove.

Ne la mente più sana un desir folle
Mi cade di di tentar la mia consorte,
S’ella à preghi d’altrui si rende molle
Con ricchissimi doni d’ogni sorte.
Hor mentre al modo io penso, al vel si tolle
L’Aurora, et al mio lume apre le porte,
E discoperto à me di novo il volto,
Con questo suon fà il mio pensier più stolto.

Se ben de l’amor tuo crudel non godo,
E sei ver me tropp’aspro, e troppo altero,
Non però vò mancar di darti il modo,
Che dar può effetto al tuo novo pensiero:
Perche provi, se Procri osserva il nodo
D’Himeneo, vò cangiarti il volto vero.
Et ecco il viso, l’habito, e ’l costume
Mi cangia, e pon lo specchio innanzi al lume.

Trovo cangiato il volto, ma non l’anno,
Vago d’un bel color vermiglio, e bianco.
Ella si veste l’ invisibil panno,
Ma non resta però d’essermi al fianco.
Mentre io mi guardo, e penso al novo inganno,
Veggio sotto il mantel dal lato manco
Pendermi un picciol zaino: io gli apro il seno,
E di scatole, e gioie il trovo pieno.

Sicuro di non esser conosciuto
À l’Attica città drizzò le piante,
E fo dar fuore il nome, ch’è venuto
Un, c’ ha portate gioie di Levante.
Come al palazzo regio fu saputo,
Fui fatto à la Reina andare avante.
Bench’à lei, à le figlie, e à le donzelle
Non fei mostra però de le più belle.

Da la corte paterna io trovo lunge
La moglie mia, che si lamenta, e piange
Nel mio vedovo albergo, e ’l cor le pugne
Gelosia de la Dea, che l’ombre frange.
E come un peregrino al porto giunge,
Che sappia de le parti esser del Gange,
L’accoglie con cortese, e honesto invito,
E nova chiede à lui del suo marito.

Hor come sà, ch’ un gioiellier novello
È giunto d’Oriente à liti Achei,
Mi fa chiamare entro al mio proprio hostello
Con casta cortesia da servi miei.
E con un volto addolorato, e bello
Mentre vede i bei sassi Nabatei
Con un’ accorto aviso modo trova,
Che diede à me di me medesmo nova.

Il dolce sguardo, il modo, e la parola,
Era tutto prudentia, e castitate.
Ne creder, che fidar volesse sola
À l’età mia la sua più bella etate;
Seco havea quivi una superba schola
Di serve d’una nobil qualitate.
Hor rispondendo à quel, ch’ella mi chiede,
Cosi fo di me stesso io stesso fede.

Quel gentil cavalier, di cui dimande,
Se mi rimembra, ben giamai non vidi:
Questo è ben ver, che ne le nostre bande
S’odon del caso suo famosi gridi.
La Dea, che ’l primo albor nel mondo spande,
Ragionan, che ’l rapì ne’ vostri lidi.
E par, che di beltà ciascuno il lode,
E che piace à l’Aurora, e che se ’l gode.

Se ben lo stesso havea sentito altronde,
Che ’l mondo quei, che ’l vider, n’havean pieno,
Come ode, che ’l mio dire al ver risponde,
Tutto irriga di pianto il volto, e ’l seno.
Come io veggio in tal copia abondar l’onde;
Posso à pena tenere il pianto in freno,
Tal io conobbi in lei ver me l’affetto,
Tanta per lei pietà mi prese il petto.

Ben che la luce lagrimosa, e trista
Mostrasse il volto afflitto, e sconsolato,
Non havea il mondo più gioconda vista
Del suo pietoso viso addolorato.
L’amorosa pietà co’l dolor mista
Rendean l’aspetto suo si vago, e grato,
Che mentre fortunata hebbe la stella,
Non sò, s’io la vedessi mai si bella.

La donna, più che puote, asconde il pianto;
L’affreno io, più che posso, che non piova.
Mira ella, e pregia le mie gemme intanto,
Et io faccio abondar la merce nova.
Poi dico, fa scostar Madama alquanto
La compagnia, che qui teco si trova,
Però, che merce tal qui dentro annido,
Ch’ ad ogni man non la concedo, e fido.

Ogni più favorito occhio, e più degno,
Ch’à veder s’era fatto innanzi un poco,
Al primo, che li diè la donna segno
Si ritirò da parte, e cangiò loco.
Io scopro immantinente un’ altro legno,
E splender fo di varie gemme un foco,
C’havrebbon fatta divenire humana
À bei preghi d’Amor Palla, e Diana.

Ella le mira, e poi del pregio chiede,
Secondo hor questa, hor quella in man le viene.
E dice, mentre le vagheggia, e vede,
Che saria troppo spesa al Re d’Athene.
Un mio caldo sospir l’aria allhor fiede,
E dico, ch’una donna il mio cor tiene,
Che s’ella amasse me, com’io l’adoro,
Le potrebbe comprar tutte senz’oro.

Vergognosa ella abbassa il viso, e ’l ciglio,
Com’ io do fuor gli ultimi accenti miei,
E ’l suo misto color divien vermiglio.
Pur non credendo ch’ io dicessi à lei,
M’aveggio, che fra se prende consiglio,
Come possa saper, chi sia costei,
Apre le labbra, e dimandarne agogna:
Pur la ritiene il fren de la vergogna.

La donna curiosa di natura
Di sapere i pensier d’ogni altra donna,
Vorrebbe dimandar, ne s’assicura
Chi sia costei, che del mio core è donna.
Io per farla più vaga di tal cura,
À più superbe gioie apro la gonna,
Con dir se si mostrasse al mio cor grata,
Vorrei ch’andasse anchor di queste ornata.

Poi le soggiungo, voi la conoscete,
Come à voi propria le portate affetto:
È ver, ch’io vò tener le labbra chete,
Per più d’un ragionevol mio rispetto.
E le fo sempre più crescer la sete
Di trarmi il nome incognito del petto.
Tanto, che al fin mi prega, et usa ogni opra,
Che ’l nome de la donna io le discopra.

Rispondo al fine, è forza, ch’io m’arrenda,
E ch’io scopra l’ardor, che mi consume,
Ma, perche maraviglia non vi prenda,
C’habbia à tropp’alto obbietto alzato il lume,
Vò, che sappiate in parte, ond’ io discenda,
Senza scoprirvi il mio paterno Nume.
Diè quest’alma à soffrir la state e’l verno
Un Re, che non v’è ignoto, e vive eterno.

E ben al gran valor veder si puote
Di gemme, e gioie, ch’io mi porto à canto,
E forse anchora à gli atti, et à le note,
Com’ io non son quell’huom, che mostra il manto.
Ma il grand’amor, che m’ange, e mi percote,
Fà, che sotto quest’habito m’ammanto,
E celo sconosciuto la mia doglia,
Per palesarmi à lei, quando il ciel voglia.

La vidi à questo dir cangiarsi un poco,
E conobbi, c’havea qualche timore,
Che quel, che discoprir le volea, foco,
Non osasse tentar lei del suo honore.
Ma essendo dubbia al mio parlar diè loco,
Per conoscer l’obbietto del mio amore,
Fin, che le feci udir, che dal suo sguardo
Scoccato havea al mio cor Cupido il dardo.

Ben le veggio turbar co’l cor l’aspetto,
Come il mio dire à questo punto arriva:
E se non, ch’io l’havea pur dianzi detto,
Ch’era la stirpe mia reale, e diva,
Credo, c’havrebbe senza altro rispetto
La luce mia de la sua vista priva.
Pure havendo riguardo al mio lignaggio,
Cercò con questo dir farmi più saggio.

Ignoto cavalier, che ’l sangue mio
Cerchi macchiar co’l dono, e con l’inganno:
E per dar luogo al tuo folle desio
Hai mentito fin hor la stirpe, e ’l panno;
Tornati pur al tuo regno natio,
Dove à l’honore altrui potrai far danno:
Pero che sei (se credi) in tutto cieco
Dar questa maechia al sangue regio Greco.

Perche la stirpe mia pudica, e monda
D’ogni macchia, che seco infamia apporte,
Non vuol, ch’ad altro amore il mio risponda,
Ch’à quel del mio dolcissimo consorte.
E ben ch’altri hor se ’l goda, e me ’l nasconda,
E forse al suo desio chiugga le porte,
Vo però casta à lui servarmi, e quale
Conviensi à la mia stirpe alma, e reale.

Prendi pur quelle gioie, e quelle serba
Ad altra, che dia luogo al tuo appetito.
La regia stirpe tua diva, e superba
Altra disponga al tuo lascivo invito:
Ch’io sarò sempre ad ogni voglia acerba
Da quella in fuor del mio dolce marito.
À lui voglio servar, pudica, e fida
Quanta gioia d’amor meco s’annida.

Ó pensier curioso, ò mente insana,
Perche de la sua fè non ti contenti?
Havria potuto Pallade, e Diana
Risponder più pudichi, e grati accenti?
Perche l’inganno tuo non s’allontana?
Perche di novo la combatti, e tenti?
Che non ti parti? e con la vera gonna
Non torni à goder poi si rara donna?

Mentre i diamanti, i rubini, e i camei
Rinchiudo entro al lor nido, anchor rispondo,
Che s’ella compiacesse à desir miei,
Più ricca donna non havrebbe il mondo.
E se ben figlia ella è del Re d’Achei,
Io di tant’oro, e tante gioie abondo,
Che de le cose più rare, e più belle
Avanzeria la madre, e le sorelle.

E che per starsi splendida in Athene
Havria sempre da me de l’oro in copia,
E che potrebbe haver sicura spene,
Che non glie ne farei patire inopia.
Ma che del suo contento, e del suo bene
Non ne potea voler più, ch’essa propia.
E con queste parole, et altre assai
Io mi procaccio, misero, i miei guai.

Ogn’ hor più il mio parlar libero, e sciolto
L’orecchie, e ’l core à la mia donna fiede,
Tanto, ch’ella le luci alza al mio volto,
E mi contempla ben dal capo al piede.
Poi riguardando al zaino, ove raccolto
È ’l mio ricco thesor, che più non vede,
Getta un sospiro, e di parlar pur tenta,
Comincia à dir, poi tace, e si spaventa.

Mentre corrotto il suo santo costume
Veggio, e ’l pensier già si pudico, e saggio,
Incontrando con lei lume con lume,
Scorgo, che ’l suo lampeggia, come un raggio.
In quel, ch’ io stò per far d’ogni occhio un fiume,
Dar cerca ella al suo dir forza, e coraggio,
E dice al fin con un dir rotto, e cheto,
Che d’esser giuri à lei fido, e secreto.

Come ho scoperto, quanto agevolmente
Può cangiar donna casta il san pensiero,
L’invisibil mia Dea, ch’era presente,
Mi trasformò nel mio volto primiero.
Tal, ch’ ella à pena aprì la ’nfame mente,
Ch’ io le comparsi il suo marito vero.
Chinò ciascun di noi le ciglia basse,
Ne sò chi più di noi si vergognasse.

La vergogna, e lo sdegno ambi i cuor prende:
Ma fatto del mio cor signor lo sdegno,
AIza l’irata voce, e la riprende.
Dunque verresti donna à l’atto indegno,
À l’atto, che la donna infame rende,
Per premio anchor, che n’acquistassi un regno?
Allenta ella al mio dir al pianto il freno,
E di lagrime sparge il volto, e ’l seno.

L’insidioso poi sposo, et albergo,
Vinta da la vergogna, hà in odio, e lassa,
E havendo à noia ogni huom, lor volge il tergo,
Et à servir la Dea triforme passa.
Com’io son senza lei, di pianto aspergo
L’afflitta luce addolorata, e bassa.
E quanto più di me fugge ella il guardo,
Tanto io di lei più m’ innamoro, et ardo.

La trovo al fin ne’ boschi, ove Diana
Corre dietro alla belva empia, e veloce.
Tosto, ch’ella mi vede, e s’allontana,
La seguo ovunque và con questa voce.
Renditi donna homai benigna, e humana
Al foco, che m’infiamma, e che mi coce,
Fù il mio l’errore; e cosi affermo, e sento,
E ti chiedo perdono, e me ne pento.

Tutto l’error commesso è stato il mio,
E ’l conosco, e ’l confesso, e ’l sento, e ’l ploro;
Ne sò trovar pensier si santo, e pio,
Che resistesse à si nobil thesoro:
E ’n questo error sarei caduto anch’io
Per men copia di gemme, e per manc’oro.
Si che non mi fuggir, ma meco godi
I dolci d’Himeneo connubij, e nodi.

Il confessato errore, il prego, e’l pianto
Co’l mezzo de le Ninfe, e de gli amici
Con l’indurata mia moglie fer tanto,
Che scacciò dal suo cor le voglie ultrici.
E tornata al connubio amato, e santo,
Menammo i nostri dì lieti, e felici:
Ma non sofferse il mio maligno fato,
Ch’io stessi molto in si felice stato.

Mentre restar fè la mia luce priva
Del suo divin splendor la mia consorte,
Ottenne un don da la sua santa Diva,
Forse il più singular de la sua corte,
D’una natura un can si fiera, e viva,
Ch’in caccia à ogni animal dava la morte.
Era d’ogni animale empio, et acerbo
Più forte, più veloce, e più superbo.

Le donò anchor co’l can feroce, e snello
Quel dardo altier, che tien quel paggio in mano,
Ch’avanza al volo ogni veloce augello,
E per mio mal mai non si lancia in vano.
Ma poi, che l’amor mio leggiadro, e bello
Gratia mi fe del bel sembiante humano,
Volendo del suo amor segno mostrarme,
Mi fe don di quel veltro, e di quell’arme.

Ó nova maraviglia, e non più intesa,
Che dal don de la Dea Silvana nacque.
Troppa audacia in Beotia s’havean presa
Nel voler profetar le Dee de l’acque.
S’un volea il fin saper d’alcuna impresa
L’oracol de le Naiade no’l tacque,
Tanto, ch’ogn’un v’havea più fede, e speme,
Che ne’ risponsi pij de l’alma Theme.

La Dea, che vede abbandonato il tempio
In tutto dal Senato, e da la plebe,
Per donare à futuri huomini essempio
Nel fertil pian de la non fida Thebe
Scender fà un mostro, ch’ importuno, et empio
Tutte del sangue human sparge le glebe.
Gli huomini, e gli animai divora, e strugge,
Ne alcun l’osa ferir, ma ogn’uno il fugge.

Era una Volpe oltre ogni creder fella,
Di lupo il dente havea, cerviero il guardo,
E in esser fiera, cruda, agile, e snella,
Avanzava il leon, la tigre, e ’l pardo.
Scorrea Beotia, e ’n questa parte, e in quella
Si presta, ch’era il folgore più tardo.
Struggea di fuor le gregge, e i fieri armenti,
E dentro à le città l’humane genti.

L’oppresse allhor città prendon consiglio
D’unire, e reti, e cacciatori, e cani,
E liberar dal mostruoso artiglio
Le mandre fuor, dentro i collegij humani.
Anch’io chiamato al pubblico periglio,
De la lassa, e del dardo armo le mani.
E m’appresento al general concorso
Co’l fatal can, che vince ogni altro al corso.

Tendiam le reti, e compartiam le lasse,
D’occupar passi ogn’un si studia, e sforza,
Perche del mostro altier priva si lasse
De l’alma ria la mostruosa scorza.
In tanto i bracchi con le teste basse
Cercan del fiuto lor mostrar la forza,
Già scoperta è la fera, e si risente,
E contra i cani ingordi adopra il dente.

Come il fero animal mostra la fronte,
E questo, e quel mastino affronta, e fiede,
Chi corre per lo pian, chi scende il monte,
Altri à cavallo, altri co’l proprio piede.
E và per vendicar gli oltraggi, e l’onte
Contra l’auttor de le dannose prede.
Altri gli lascia il veltro, altri l’assale
Ó co’l dardo, ò con l’ hasta, ò con lo strale.

Stà il mostro altier talmente in su l’aviso,
Et è si presto, si veloce, e snello,
Che non si lascia mai corre improviso,
Ma s’aventa, e ferisce hor questo, hor quello.
Rende à questo, e quell’huom sanguigno il viso,
Rende à questo, e quel can sanguigno il vello.
E cosi bene assalta, e si difende,
Ch’egli percote ogn’un, ne alcun l’offende.

Quando tanto abondar vede la folta,
E d’esser d’ogni aiuto ignuda, e sola,
La fatal volpe in fuga il piede volta,
E ’n pochi salti à tutti i can s’invola.
Il cane, e l’huom si drizza à la sua volta,
E chi fa udire il suon, chi la parola.
E à quei, ch’i passi guardan d’ogni intorno,
Dan segno altri co’l grido, altri co’l corno.

Dopo molto fuggir, l’iniqua, e fella
Belva verso quel luogo affretta il passo,
Dove co’l can, che Lelapo s’appella,
E co’l dardo fatale io guardo il passo.
Il can con flebil suon s’ange, e flagella,
E si prova, e si duol ch’andar no’l lasso.
Io stò à mirar la fuga, e ’l mostro intento,
E come veggio il tempo, il cane allento.

Hor qual sarà de due più presto, e forte?
Qual de due l’impresa havrà la palma?
L’uno, e l’altro dal fato havea la sorte,
L’uno, e l’altro ha fatal la spoglia, e l’alma.
Questo per dar, quel per fuggir la morte
Affretta più, che può, la carnal salma.
E saltan con fatal prestezza, e possa
Ogni rete, ogni macchia, et ogni fossa.

In mezzo al campo un picciol colle siede
D’arbori, e d’ogni impaccio ignudo, e netto,
Io pongo in fretta in su la cima il piede,
E del corso de due prendo diletto.
La belva hor gira, hor s’allontana, hor riede,
Perche il cane à trascorrer sia costretto:
E spesso, in quel, che’l mostro il camin varia,
Prenderlo il can se ’l crede, e morde l’aria.

Ecco, che già da presso io gli riguardo,
Dopo più d’una corsa, e più d’un giro,
Io tosto al laccio accomodo del dardo
La mano, e prendo ogni vantaggio, e tiro.
Hor mentre và lo stral presto, e gagliardo,
Farsi la volpe, e ’l can di marmo miro.
Par, che ’l can segua, e d’abboccar si strugga,
E ch’ella à più poter si stenda, e fugga.

Era fatal il mostro, e ’l veltro, ch’ io
Lasciai, la sua virtù dal fato tolse,
E, perche anchor fatal fù il dardo mio,
Far vincitore il fato alcun non volse,
Ma ’l cane, e ’l mostro periglioso, e rio
In mezzo al corso in duri sassi volse:
E sol salvò dal rio marmoreo sdegno
Con la stessa virtù l’acciaio, e ’l legno.

Se bene il rimirar mi spiacque assai
Si nobil cane un sasso alpestre, e duro,
Sentij sommo piacer, quando trovai
Esser dal marmo il mio dardo sicuro.
Misero me, di quello io m’allegrai,
Che il mio bel tempo fece ombroso, e scuro.
Ó me beato, se rendean que’ marmi
Co’l mio misero can pietra quell’armi.

Più felice huom non havea allhora il mondo,
Ch’oltre, ch’io del bel dardo andava altero,
Godea quel viso angelico, e giocondo,
Ch’era de gli occhi miei l’obbietto vero.
Era l’amor reciproco, e secondo
Al giusto d’ambedue fido pensiero.
Felice andava ognun de la sua sorte,
Io de la moglie, et ella del consorte.

Io de le belle Dee di Cipro, e Delo,
Havrei spregiato il coniugal diletto;
Non havrebbe ella per lo Re del cielo,
Ne per lo biondo Dio cangiato il letto.
Cosi tutto quel ben, che porge il zelo
D’amor, godea ciascun con pari affetto.
Ne so, se ’l ciel, che ’l nostro ben comparte,
Possa di maggior bene altrui far parte.

Spesso nel bosco à caccia andar solea
Ne l’apparir del mattutino raggio.
Ne de miei servi alcun meco voleva,
Ne di cani, ò di reti alcun vantaggio.
Mi facea il dardo sol, che meco havea,
Sicuro andar da qual si voglia oltraggio.
Ne mi togliea dal boscareccio assalto,
Se non dapoi, che ’l Sol vedea tropp’alto.

Ne l’hora, che più caldo il Sol percote,
E che quasi i suoi raggi à piombo atterra,
E fa l’ombre drizzar verso Boote,
E del più grande incendio arde la terra,
Io mi ritiro in parte, ove non puote
Ferirmi per la selva, che mi serra;
E l’Aura, onde lo spirto, e ’l fresco prendo,
Spesso con questo suon chiamo, et attendo.

Mentre il più caldo giorno il mondo ingombra,
E l’aere, e ’l bosco non si move, e tace,
Et io son corso à riposarmi à l’ombra,
Per fuggir da l’ardor, che mi disface,
Aura ogni noia dal mio petto sgombra
Tu, che sei il mio riposo, e la mia pace,
Venga il conforto mio, venga quell’Aura,
Che d’ogni noia il mio petto ristaura.

Tu il mio contento sei, tu la mia speme,
Aura la vita mia da te dipende.
Quell’alma, che mi regge, e mi mantiene,
Da te lo spirto, e ’l refrigerio prende.
Però contenta il mio cor di quel bene,
Che per l’ardor, c’hora il consuma, attende.
Vienne Aura, al mio desir propitia, et alma,
E fa del tuo favor lieta quest’alma.

Mentre con dolce, e affettuoso accento,
Chiamo l’Aura propitia al mio soggiorno,
Perche co’l fresco suo placido vento
Scacci l’ardor da me del mezzo giorno:
Si stà un pastore ad ascoltarmi intento
Da le macchie nascosto, c’hò d’intorno,
E sente chiamar l’Aura, e in pensier cade,
Ch’ella sia qualche Ninfa, che m’aggrade.

Quanto l’Aura chiamar più spesso m’ode
Con lusingha si dolce, e si soave,
E darle tanto honore, e tanta lode,
Più crede à quel pensier, che preso l’have.
E com’huom pien d’invidia, e pien di frode,
Per farmi d’ogni affanno infermo, e grave,
À la città dal bosco si trasporta,
E à la mia donna il falso amor rapporta.

Cosa credula è Amore, ella se’l crede;
E come seppi poi, dal dolor vinta,
E da la gelosia de la mia fede,
S’atterra tramortita, e quasi estinta.
E tosto, che ’l vigor primo le riede,
Chiama la fede mia bugiarda, e finta.
Straccia per gelosia le bionde chiome
D’un vano in tutto, e senza membra nome.

È ver, che talhor dubita, e si porge
Da se medesma alquanto di conforto,
Ne vuol (se l’occhio proprio non lo scorge)
Creder, ch’io l’habbia mai fatto quel torto.
E però ascosamente, come sorge
L’Aurora, e ch’io mi torno al mio diporto,
Mi vuol seguire, e starsi ascosa in loco,
Che ’l vero habbia à scoprir di questo foco.

L’Aurora rapportato al mondo havea,
Che già gli augei del Sol battean le piume,
E sol nel ciel Lucifero splendea,
E stava per coprire anch’egli il lume:
Quand’ io con l’arma à me fedele, e rea;
Che fu fatata dal triforme Nume,
Ne vò à trovar le solitarie selve,
Per dar la morte à l’infelici belve.

Come la preda al mio desir risponde,
E dal più alto punto il Sol mi vede,
Io fo, che rombra al suo splendor m’asconde,
E che la lingua la dolce Aura chiede:
Et ecco un mormorar di frasche, e fronde
Le lasse orecchie mi risveglia, e fiede.
Alzo la testa affaticata, e stanca,
E sento, che ’l romor punto non manca.

Credo io, misero me, che il romor nasca,
Poi che nel ciel non soffia aura, ne vento,
Da selvaggio animal, ch’ivi si pasca.
E, perche verso me calare il sento,
Là, dove mormorar odo la frasca,
Subito il dardo di Diana avento.
Et ecco à le mie orecchie si trasporta
L’amata voce, e dice, Oime son morta.

Come odo di colei la voce, ond’ardo,
Corro come insensato incontro al grido,
E trovo, che ’l mio crudo, e ingiusto dardo
Passato à Procri ha il petto amato, e fido.
Et abbassando al lume offeso il guardo
Alzo piangendo un doloroso strido.
Qual fato soavissima consorte
M’ha tratto à darti co’l tuo don la morte.

Io toglio à la ferita il crudo telo,
E straccio in fretta la sanguigna vesta,
E avolgo intorno à la percossa il velo,
Perche non esca il sangue, che le resta.
Poi co’l più caldo, e affettuoso zelo
La supplico con voce amara, e mesta,
Che lasciar non mi voglia, e viva, e m’ame,
Se ben sono homicida ingiusto, e infame.

Ella del sangue priva, e de la forza
Alza ver me l’indebilita luce,
E di parlarmi s’affatica, e sforza,
E cosi il suo timor dona à la luce.
Poi che lasciar vuol la terrena scorza
Quell’alma, che ne gli occhi anchor mi luce,
Come passata à l’altra vita io sono,
Contenta l’ombra mia di questo dono.

Se ’l dolce più d’ogni altro almo, e beato,
Che ’l soave Himeneo si porta seco,
Al desir tuo fu mai giocondo, e grato,
Mentre il nodo d’amor t’avinse meco;
S’altro mai fei, ch’al tuo felice stato
Gioia aggiungesse, mentre io vissi teco;
Non soffrir, che già mai nel nostro letto
L’Aura s’unisca al tuo carnal diletto.

L’ultime note sue m’aprir la mente,
Che de l’amor de l’Aura hebbe timore,
E che pensò, chiamandola io sovente,
Che m’infiammasse il cor novello amore,
E quivi era venuta ascosamente,
Che con l’Aura volea cormi in errore.
Bench’ io talmente al ver la lingua sciolsi,
Che ’l non vero sospetto al suo cor tolsi.

Ma, che frutto traggo io da le mie note,
Se ben l’ hanno il timor del petto tolto?
Ella sempre più manca, e più che puote,
Tiene il languido lume à me rivolto.
Intanto con maniere alme, e devote
Spira l’alma infelice nel mio volto.
E ’l corpo già si bello, e si giocondo
Resta ne le mie braccia immobil pondo.

Mentre stillar fa in lagrime ogni lume
Con questo dir l’ambasciator d’Athene,
Il Re, che già lasciate havea le piume,
Con maestà fuor del suo albergo viene,
Per gire al tempio à venerare il Nume,
Come à lo splendor regio si conviene.
Vanno i Re saggi ogni mattina al tempio,
Per farsi altrui di ben’ oprare essempio,

L’accompagnò l’ambasciatore Acheo
Co i cavalier de l’isola più degni.
Ma come Telamone, e ’l buon Peleo
L’arme, e i soldati han posto in punto, e i legni,
Pensa tornarsi al suo Signore Egeo.
Come il primo Austro in aere alberghi, e regni
E fà imbarcar l’ industriose genti
Per tornare al suo Re co’ primi venti.