Le piacevoli notti/Notte XI/Favola V

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Favola V

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Notte XI - Favola IV Notte XII
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FAVOLA V.


Frate Bigoccio s’innamora di Gliceria, e vestito da laico fraudolentemente la prende per moglie; e ingravidata, l’abbandona, e ritorna al monasterio. Il che presentito dal guardiano, la marita.


Ho più volte udito dire, donne mie care, che la virtù perisce per la fraude; e questo avenne ad un religioso tenuto uomo divoto, il quale, acceso dell’amor d’una giovanetta, quella per moglie prese, e scoperto, fece l’amara penitenza, e la giovane fu onorevolmente maritata, sì come nel discorso del parlar mio intenderete.

In Roma trovavasi un frate Bigoccio, nato di nobile e generosa famiglia, giovane assai e dotato de’ beni del corpo e di fortuna. Il miserello era talmente acceso dell’amore d’una bellissima giovanetta, che poco vi mancava, che giunto non fusse al fine della sua vita. Egli non aveva riposo mai nè giorno nè notte; era tutto attenuato, squallido e macilente; non gli valevano medici, non medicine, non rimedii d’alcuna cosa, nè giovavali la speranza nella copia delle paterne ricchezze. Per il che stando egli di continovo in questi pensieri, e or uno or un altro rimedio fantasticando, divenne a questo consiglio di fingere alcune littere false indrizzate al suo superiore per aver licenzia di partirsi. E compose certe lettere fitticie e simulate, infingendo che ’l padre suo infermo quelle scrivesse al suo guardiano, in questa forma: Reverendo padre, poichè piace al sommo e onnipotente Iddio di terminare la mia vita, nè può molto tardar la morte, che oramai è poco lontana, ho deliberato, anzi che io mi parta da [p. 221 modifica]questa, far il mio ultimo testamento, ed instituire erede il figliuol mio, che appo vostra reverenza è professo. E perchè a me non è rimaso altro figliuolo in questa mia vecchiezza, se non questo solo, qual desidero grandemente vedere, abbracciare, basciare e benedirlo, quella priego le piaccia mandarlomi con ogni celerità; altrimenti sappia vostra riverenzia che morendo di disperazione me n’andrò ai regni tartarei. Qual lettere presentate al guardiano del monasterio, ed ottenuta la licenza, il detto bigoncio n’andò a Firenze dove era il paterno domicilio: e prese molte gioie e danari dal padre, comperò preziose vesti, cavalli e masserizie e andò a Napoli; dove tolta a pigione una casa presso la sua innamorata, cambiavasi ogni giorno di vesti di seta mutatorie di diverse sorti. E fatta bellamente amicizia col padre dell’amata donna, invitavalo spesse volte a desinare e a cena con esso lui, e presentavalo, dandogli or una or un’altra cosa. Poi che molti giorni furono scorsi in questo modo, trovato il tempo congruo ed opportuno, un giorno dopo desinare cominciarono a ragionare di diverse cose e particolari suoi negozii, si come è costume de’ convivanti e tra l’altre cose disse lo innamorato giovane di voler tuor moglie. E perchè aveva inteso che egli aveva una figliuola molto gentile e bella, e dotata di ogni virtù, arrebbe piacere ch’ei gli la desse per moglie, acciò che legati fussero con duo legami, affermando a questa solamente avere inclinazione per le ottime sue condizioni a lui riferite. Il padre della giovane, che era di bassa condizione, gli rispondeva, la figliuola sua non esser di pari e ugual condizione a lui, che se abbino a celebrare tai sponsalizii; perciò ella era povera, ed egli ricco: ella ignobile, ed egli nobile; ma quando gli piaceva, ch’ei pur glie la darebbe non tanto per moglie, ma più tosto [p. 222 modifica]per serva. Disse il giovane: Non sarebbe conveniente che sì fatta giovane mi fusse data per serva; ma per le condizioni sue meriterebbe uomo di maggior legnaggio di quello che sono io. Pur si vi è in piacimento di darmela, non per ancilla, ma per diletta moglie, l’accetterò volentieri, e farolle quella real compagnia, che ad una vera matrona si conviene. Furone finalmente di commune consentimento concluse le nozze, e tolse fra Bigoccio la vergine pulcella per moglie. Venuta la sera, il marito e la moglie andorono a letto; e toccandosi l’uno con l’altro, fra Bigoccio s’avide che Gliceria sua moglie aveva i guanti in mano; e dissele: Gliceria, cavati e guanti, e mettili giù; perciò che non sta bene che quando noi siamo in letto, tu abbi i guanti in mano. Rispose Gliceria: Signor mio, io non toccherei mai così fatte cose con le mani nude. Il che intendendo, fra Bigoccio non disse altro, ma attese a darsi piacere con lei. Venuta la sera seguente e l’ora di andar a riposare, fra Bigoccio nascosamente prese i getti da spariviere circondati di molti sonagli, e legògli al membro virile; e senza ch’ella se n’avedesse, andò a letto, e cominciò accarecciarla, toccarla e basciarla. Gliceria, ch’aveva i guanti in mano, e per l’addietro gustato il mattarello, pose la mano al membro di suo marito, e trovò i getti; e disse: Marito mio, che cosa è questa ch’io tocco? Ier notte non l’avevate. Rispose fra Bigoccio: I’ sono i getti d’andar a spariviere; — e montato sopra l’arbore, voleva mettere il piviolo nella val pelosa, e perchè i getti impedivano il piviolo entrare, disse Gliceria; Io non voglio i getti. — Se tu non vuoi i getti, rispose il marito, nè io voglio i guanti. Onde di commune consentimento, gettarono via i guanti ed i getti. Dandosi adunque piacere notte e giorno, la donna s’ingravidò; [p. 223 modifica]e come marito e moglie abitorono insieme un anno. Poi appropinquandosi il tempo del partorire, il frate, tolto occultamente il buono e il migliore, di casa fuggì, lasciando la donna gravida, come è sopradetto; e vestitosi del suo primo abito, ritornò nel monasterio. La donna partoritte un figliuolo, ed aspettò lungamente il suo marito. Soleva questa donna alle volte andar al detto monasterio per udir messa. Avenne un giorno per aventura, anzi per volontà del sommo Iddio, che la trovè il frate suo marito che diceva messa; e conobbelo. Onde quanto più presto a lei fu possibile, andò a trovare il guardiano di esso monasterio, e narrògli diligentissimamente il caso, come è disopra seguito. Il guardiano, trovata la cosa, e conosciuta la verità, formò contra di lui processo e sigillato mandollo al generale della congregazione: il quale fece prendere il frate, e dirgli una penitenzia, che si ricordò per tutto il tempo della vita sua: indi con e denari del monasterio occultamente maritò la donna, dandola ad un’altro in matrimonio: e tolto il bambino fecelo notrire.

Qui pose fine la graziosa Vicenza alla sua favola, la quale tutti generalmente lodorono, e ne presero piacere, quando la donna con i guanti in mano trovò i getti, ai quali erano attaccati gli sonagli. E perchè l’ora giamai era tarda, la Signora impose a Vicenza, che ’l suo enimma dicesse; la quale, non aspettando altro comandamento, così disse:

D’ogniun prendo se non la forma mia;
     Guardate ben qual è lo stato mio.
Se mi si fa dinanzi alcun che stia
     Lieto o doglioso, io sto com’ha il disio.

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E perchè mostro il ver da la bugia,
     Molti mi chiaman frodolente e rio.
Questo par impossibil, gli è pur vero,
     Ch’io non so dimostrar bianco per nero.

Che cosa volesse dinotare l’enimma da Vicenza raccontato, niuno seppe dire, perciò che sotto la corteccia era il vero senso nascosto. Ma la prudente Vicenza, per non lasciarlo insolubile, in tal guisa l’espose: Il mio enimma altro non dimostra se non il specchio, in cui si guardano gli uomini parimenti e le donne. Il quale apprende la forma di ciascuno che ’l mira, ma non la sua. Egli non vi dimostra una cosa per l’altra, ma tal qual voi siete. Ingenioso fu l’enimma, ed ingeniosa l’interpretazione. Ma perchè ormai incominciava apparir l’alba, la Signora diede licenza a tutti che s’andassero a riposare, con condizione però che tutti nella seguente sera ben armati venissero, ch’ella voleva ch’ognuno dicesse una breve favola accompagnata con un bell’enimma. E così tutti promisero di fare.


Il fine dell’undecima notte